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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di SETTEMBRE 2012

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aggiornamento al 24.09.2012

aggiornamento al 17.09.2012

aggiornamento al 10.09.2012

aggiornamento al 03.09.2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 24.09.2012

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INCARICHI PROGETTUALI: Disciplinari–tipo e mansionari per le prestazioni professionali dell’Ingegnere (committenti pubblici e privati). On-line tutte le schede singole (in formato Word) per il proprio utilizzo (link a www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATARiqualificazione energetica e detrazione fiscale del 55%: arriva la nuova guida aggiornata dell’Agenzia delle Entrate.
L’agevolazione fiscale per la riqualificazione energetica consiste nel riconoscimento di detrazioni d’imposta pari al 55% delle spese sostenute per gli interventi che aumentano il livello di efficienza energetica degli edifici esistenti.
Chi può fruire di queste detrazioni? A quali tipologie di lavori spettano queste agevolazioni? Cosa fare per ottenerle?
A queste domande risponde l’Agenzia delle Entrate con la nuova versione, aggiornata ad agosto 2012, della guida “Ristrutturazioni Edilizie: le agevolazioni fiscali, in cui sono descritte le tipologie di intervento che usufruiscono della detrazione e gli adempimenti necessari per ottenerla.
Ricordiamo che le disposizioni che regolano la materia dei benefici fiscali per il risparmio energetico sono state più volte modificate e, di conseguenza, negli ultimi anni sono cambiate anche le procedure da seguire per poterne usufruire.
Inoltre, dal primo luglio 2013 l’agevolazione fiscale del 55% sarà sostituita con la detrazione fiscale del 36% prevista per le spese di ristrutturazioni edilizie che non avrà più scadenza.
La guida aggiornata dell’Agenzia delle Entrate è così strutturata:
● L’agevolazione per la riqualificazione energetica
● Gli interventi interessati all’agevolazione
● Tipologia di spesa e relativa detrazione
● Adempimenti necessari per ottenere la detrazione (20.09.2012 - link a www.acca.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G. Bertagna, LE BUSTE PAGA E LA CONVENZIONE CON IL MEF (tratto dalla newsletter di www.publika.it n. 50 - settembre 2012).

EDILIZIA PRIVATA: M. Acquasaliente, Note sulla decadenza del permesso di costruire (link a www.venetoius.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: A. Muratori, VIA e AIA: affinità e differenze di finalità e contenuti tra giurisprudenza e norme «espresse» (link a www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Non ultimare le opere edili nei termini prescritti da leggi, regolamenti e/o permesso di costruire è reato? (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, Bonifica di siti contaminati e sanzioni penali (link a www.industrieambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. De Falco, Nozione di rifiuto e di sottoprodotto, classificazione dei rifiuti, particolari tipologie di materiali ed ambito di applicazione della normativa (tratto da e link a www.industrieambiente.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 21.09.2012 n. 221 "Regolamento recante la disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 10.08.2012 n. 161).
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Semplificazioni al via in cantiere. Il materiale da scavo non va smaltito ma può essere riusato. In Gazzetta Ufficiale il regolamento che attua il Cresci Italia. E punta sui piani di utilizzo.
Materiali da scavo non più considerati come rifiuti, ma come sottoprodotti. Gestiti attraverso piani di utilizzo che le imprese dovranno predisporre e proporre alle amministrazioni che autorizzano la realizzazione dell'opera.
Con il decreto 161 del 2012, pubblicato sulla G.U. n. 221 di ieri, “Regolamento recante la disciplina dell'utilizzazione delle terre e rocce da scavo”, in vigore dal 6 ottobre prossimo, il ministero dell'ambiente dà attuazione all'articolo 49 del decreto-legge 24.01.2012, n. 1 (Cresci Italia). “Al fine di migliorare l'uso delle risorse naturali e prevenire (_) la produzione di rifiuti”, si legge nel provvedimento, “il presente Regolamento stabilisce (_) i criteri qualitativi da soddisfare affinché i materiali di scavo (_) siano considerati sottoprodotti e non rifiuti” nonché “le procedure e le modalità affinché la gestione e l'utilizzo dei materiali da scavo avvenga senza pericolo per la salute dell'uomo e senza recare pregiudizio all'ambiente”.
Un disciplina dal cui ambito di applicazione sono comunque esclusi i rifiuti provenienti direttamente dall'esecuzione di interventi di demolizione di edifici o altri manufatti preesistenti, onde evitare che materiali pericolosi non vengano smaltiti secondo le più restrittive norme di legge. In conformità ai piani di utilizzo, il materiale da scavo potrà essere riutilizzato nel corso dell'esecuzione della stessa opera, nel quale è stato generato, o di un'opera diversa, per la realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati, ripascimenti, interventi a mare, miglioramenti fondiari o viari oppure altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali. Ma anche in processi produttivi, in sostituzione di materiali di cava.
Da sottolineare che il nuovo modello imperniato sui pianti di utilizzo non sarà a costo zero per le imprese. L'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), infatti, entro tre mesi predisporrà un tariffario nazionale da applicare per la copertura dei costi sopportati dall'Agenzia regionale di protezione ambientale (Arpa) o dall'Agenzia provinciale di protezione ambientale (Appa) territorialmente competente per l'organizzazione e lo svolgimento delle attività legate appunto ai piani di utilizzo, individuando il costo minimo e un costo proporzionale ai volumi di materiale da scavo. In attesa, i costi sono definiti dai tariffari delle Arpa o Appa territorialmente competenti.
Tornando al piano di utilizzo, esso è presentato dall'impresa almeno novanta giorni prima dell'inizio dei lavori per la realizzazione dell'opera. La trasmissione (il modello è allegato al dm) può avvenire, a scelta del proponente, anche solo per via telematica. La procedura è abbastanza complessa e lunga e soprattutto prevede regole ad hoc per i casi, ad esempio, di siti in cui, per fenomeni naturali, nel materiale da scavo vi siano particolari concentrazioni di elementi che superino le concentrazioni soglia di contaminazione. O per il caso di siti oggetto di interventi di bonifica o di ripristino ambientale. Il piano ha una durata limitata. Una volta scaduto viene meno la qualifica di sottoprodotto del materiale da scavo con conseguente obbligo di gestire il materiale come rifiuto e quindi di smaltirlo. Tale effetto si produce anche nel caso di violazione degli obblighi assunti dall'impresa nel piano.
Va comunque detto che in situazioni di emergenza dovute a causa di forza maggiore, la sussistenza dei requisiti può essere attestata mediante una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà. L'avvenuto utilizzo del materiale in conformità al piano di utilizzo è attestato dall'esecutore mediante una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà. A livello di disposizioni transitorie, il decreto prevede che entro i centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del regolamento, i progetti per i quali e' in corso una valutazione di impatto ambientale relativa all'utilizzabilità del materiale da scavo, possono essere assoggettati alla disciplina del piano di utilizzo
(articolo ItaliaOggi del 22.09.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 18.09.2012 n. 218 "Ulteriori disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 02.07.2010, n. 104, recante codice del processo amministrativo, a norma dell’articolo 44, comma 4, della legge 18.06.2009, n. 69" (D.Lgs. 14.09.2012 n. 160).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO: Il debito derivante da lodo arbitrale rituale in materia di lavori pubblici è riconoscibile quale debito fuori bilancio attesa l’equiparabilità, quanto all’efficacia, alla sentenza.
Per la copertura dello stesso è possibile applicare dell’avanzo di amministrazione disponibile, ovviamente nel pieno rispetto dei presupposti di legge (cfr. art. 187 TUEL) e tenendo in considerazione l’obbligo giuridico del Comune di rispettare gli obblighi derivanti dal patto di stabilità interno.
Nella delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio occorre individuare il soggetto responsabile della formazione della fattispecie debitoria in questione.
A tale individuazione deve fare seguito l’adozione delle necessarie misure a tutela del patrimonio dell’ente (ed, in particolare, la messa in mora del debitore), provvedendo a trasmettere alla Procura regionale della Corte dei Conti competente per territorio la delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio in ossequio ai vigenti obblighi di legge.
Il Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco (BG) ha posto alla Sezione una richiesta di parere avente ad oggetto le modalità e gli effetti del riconoscimento quale debito fuori bilancio dell’obbligazione in capo all’ente di pagare una somma di denaro a seguito di condanna contenuta in un lodo arbitrale.
Più nel dettaglio, l’organo rappresentativo dell’ente precisa quanto segue.
E’ pervenuto al Comune da parte del Collegio arbitrale un lodo relativo a maggiori somme dovute per la costruzione di una scuola materna.
Dall’esame del lodo si evince che l’Amministrazione Comunale deve corrispondere all’impresa aggiudicataria dei lavori la somma di euro 411.978,17 oltre ad euro 76.000 circa per compensi al Collegio arbitrale, CTU, spese per marche da bollo, trasferte, etc.. per un totale complessivo di euro 487.978,17.
Il Sindaco precisa che, a tre mesi dalla nomina, deve fronteggiare una situazione che porterà al sicuro sforamento del patto di stabilità con gravi conseguenze sia a livello di erogazione di servizi alla cittadinanza, sia a livello di futura gestione amministrativa che subirà sanzioni pesanti quali la decurtazione del Fondo di riequilibrio, la mancata assunzione di personale, l’impossibilità di contrarre mutui, la decurtazione delle indennità, etc..
Tutto ciò premesso, al fine di avere un quadro preciso su quale comportamento attuare al fine di non incorrere in responsabilità contabili, tenuto conto che l’Amministrazione intende ricorrere in appello per nullità del lodo, chiedendo la sospensiva dello stesso, il Sindaco pone alla Sezione i seguenti quattro quesiti.
1) Indipendentemente dal ricorso in appello, il Consiglio Comunale deve riconoscere subito il debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194 TUEL?
2) Per la copertura finanziaria dello stesso è possibile ricorrere all’avanzo di amministrazione, provvedendo al pagamento mediante un piano di rateizzazione della durata di tre anni finanziari da convenire con la controparte?
3) Tenuto conto che l’impiego dell’avanzo di amministrazione porterebbe al sicuro sforamento del patto di stabilità, è forse più utile provvedere ad aumentare le imposte e le tasse o prevedere un aumento di entrate relative ad eventuali alienazioni di immobili, tenuto conto che la riduzione della spesa fissa è praticamente impossibile?
4) L’azione di responsabilità nei confronti di chi ha provocato tale debito è da intraprendere nella stessa delibera di riconoscimento del debito?

Per quanto concerne il primo quesito, il Sindaco chiede se il Consiglio Comunale debba riconoscere subito il debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194 TUEL.
Orbene, la Sezione osserva che nel caso di debiti derivanti da sentenza esecutiva il significato del provvedimento del Consiglio Comunale non è quello di riconoscere una legittimità del debito che già esiste, ma di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso.
In altri termini, la valenza della delibera consiliare ex art. 194, comma 1, lett. a), T.U.E.L. non è quella di riconoscere la legittimità di una obbligazione, la cui validità è stata oggetto di delibazione in sede giudiziaria, quanto una funzione giuscontabilistica individuabile nella salvaguardia degli equilibri di bilancio (mediante l’individuazione delle risorse necessarie a finanziare il debito), ed anche garantista consistente nell’accertamento di chi sia responsabile della formazione della fattispecie debitoria che si è formata al di fuori della ordinaria contabilità dell’ente (cfr. la delibera della Sezione n. 1/2007). Deve, altresì, aggiungersi che, in ogni caso, dal riconoscimento di legittimità discende l’obbligo, per l’ente pubblico, di contabilizzazione e di quantificazione finanziaria del debito riconosciuto, in virtù dei principi di universalità, veridicità ed attendibilità del bilancio.
Peraltro, il riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio derivante da sentenza esecutiva non costituisce acquiescenza alla stessa, e pertanto non esclude l’ammissibilità dell’impugnazione. Il medesimo riconoscimento deve essere accompagnato dalla riserva di ulteriori impugnazioni ove possibili e opportune.
Ne deriva che nel caso di sentenza esecutiva, al fine di evitare il verificarsi di conseguenze dannose per l’ente per il mancato pagamento nei termini previsti, la convocazione del Consiglio Comunale per l’adozione delle misure di riequilibrio deve essere disposta immediatamente e in ogni caso in tempo utile per effettuare il pagamento nei termini di legge ed evitare la maturazione di oneri ulteriori a carico del bilancio dell’ente.
Tali principi possono essere estesi alla riconoscibilità quale debito fuori bilancio di un debito derivante da lodo arbitrale rituale in materia di lavori pubblici, attesa l’equiparabilità, quanto all’efficacia, alla sentenza (Corte Conti, Sez. Lombardia, delib. n. 910/2009).
In relazione al secondo quesito, il Sindaco si interroga se per la copertura finanziaria del debito fuori bilancio in esame sia possibile ricorrere all’avanzo di amministrazione, provvedendo al pagamento mediante un piano di rateizzazione della durata di tre anni finanziari da convenire con la controparte.
Ai sensi dell’art. 194, comma 2, TUEL per il pagamento del debito fuori bilancio l’ente può provvedere anche mediante un piano di rateizzazione, della durata di tre anni finanziari, compreso quello in corso, convenuto con i creditori. Per il finanziamento delle spese suddette, in ossequio all’art. 193, comma 3, TUEL, possono essere utilizzate per l’anno in corso e per i due successivi tutte le entrate e le disponibilità, ad eccezione di quelle provenienti dall’assunzione di prestiti e di quelle aventi specifica destinazione per legge, nonché i proventi derivanti dall’alienazione di beni patrimoniali disponibili. E’ possibile provvedere alla copertura della spesa in argomento mediante l’applicazione dell’avanzo di amministrazione disponibile, ovviamente nel pieno rispetto dei presupposti di legge (cfr. art. 187 TUEL).
Passando al terzo quesito, il Sindaco -tenuto conto che l’impiego dell’avanzo di amministrazione porterebbe al sicuro sforamento del patto di stabilità– chiede se sia più utile provvedere ad aumentare le imposte e le tasse o prevedere un aumento di entrate relative ad eventuali alienazioni di immobili, tenuto conto che la riduzione della spesa fissa è praticamente impossibile.
Ribadita la declaratoria di inammissibilità di siffatto quesito nella parte in cui involge profili di discrezionalità politica rientranti nell’esclusiva sfera dell’ente, il Collegio rammenta il cogente obbligo giuridico in capo alla Civica Amministrazione –anche in sede di reperimento delle risorse a copertura del debito in esame- di rispettare il patto di stabilità interno sin dalla predisposizione del bilancio di previsione (oltre che, ovviamente, all’esito della gestione), adottando gli opportuni provvedimenti.
Infine, con il quarto quesito l’organo rappresentativo dell’ente chiede se l’azione di responsabilità nei confronti di chi ha provocato tale debito debba essere intrapresa nella stessa delibera di riconoscimento del debito.
A questo proposito, il Collegio ribadisce innanzitutto quanto già segnalato sub quesito n. 1, in merito alla necessità di individuare, all’interno della delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio, il soggetto responsabile della formazione della suddetta fattispecie debitoria che si è formata al di fuori della ordinaria contabilità dell’ente. A tale individuazione deve fare seguito l’adozione delle necessarie misure a tutela del patrimonio dell’ente (ed, in particolare, la messa in mora del debitore), provvedendo a trasmettere alla Procura regionale della Corte dei Conti della Lombardia la delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio in ossequio ai vigenti obblighi di legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 18.09.2012 n. 401).

CONSIGLIERI COMUNALI: Rimborso spese viaggio Amministratori.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia -interpellata dal Comune di Alserio sulla interpretazione dell'art. 84, comma 3, del TUEL- con il parere 20.08.2012 n. 377, afferma quanto segue:
"Il testo letterale dell'art. 84, comma 3, del D.Lgs. 18/08/2000 n. 267, anche dopo la novella del 2010 (art. 5, comma 9, del D.L. 78/2010), pare essere molto chiaro: 'Agli amministratori che risiedono fuori del capoluogo del comune ove ha sede il rispettivo ente spetta il rimborso per le sole spese di viaggio effettivamente sostenute per la partecipazione ad ognuna delle sedute dei rispettivi organi assembleari ed esecutivi, nonché per la presenza necessaria presso la sede degli uffici per lo svolgimento delle funzioni proprie o delegate'.
Anche l'ultima parte di tale testo appare chiara, nel senso che la spesa di viaggio deve essere stata causata dal diritto-dovere di svolgere imprescindibilmente 'funzioni proprie' (ad esempio quelle del Sindaco) o 'delegate' (con riferimento, evidentemente, agli Assessori). Il rimborso è dovuto per le 'sole spese di viaggio': questa espressione è stata indirettamente rafforzata dalla successiva legislazione, che ha voluto regolare in modo diverso le spese di missione e la forfetizzazione delle spese. Sono rimborsabili solo le spese effettive e non anche quelle determinate in modo forfettario. E' rimasto, dunque, il rimborso delle spese di viaggio per 'gli amministratori che risiedono fuori del capoluogo del comune ove ha sede il rispettivo ente'.
Questo indirizzo interpretativo è stato confermato e ampiamente motivato con la deliberazione n. 10/2011 della Sezione Regionale di Controllo per la Liguria, la quale ha anche affermato il principio secondo il quale la ratio sottesa agli interventi di razionalizzazione della spesa realizzati dal legislatore con le novelle prima del 2007 e poi del 2010, è quella di ancorare i rimborsi ad elementi effettivi della spesa anziché a valori predeterminati, in quanto, si ripete, il legislatore ha voluto eliminare ogni forma di forfetizzazione. Il rimborso è, dunque, ammesso alle condizioni previste dalla norma in esame, anche se deve essere sottoposto al severo vaglio dell'Amministrazione, secondo il criterio appena citato.
Vi è da chiarire che il rimborso è previsto dall'art. 84, comma 3, solo per gli 'amministratori' e non anche per i responsabili burocratici: è da ritenere, quindi, che quando l'assessore abbia una duplice funzione egli debba essere rimborsato solo per la spesa di viaggio che abbia effettuato per la sua qualità di assessore e non anche per la sua qualità di responsabile del settore tecnico. La lettura della legge pare in proposito molto chiara
" (tratto da www.publika.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATACome deve svolgersi il trasporto dei materiali derivanti dai crolli del sisma in Emilia? (14.09.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATACome deve svolgersi la raccolta dei materiali derivanti dai crolli del sisma in Emilia? (14.09.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATASecondo quali direttive deve svolgersi la gestione dei rifiuti e delle macerie derivanti dal sisma in Emilia? (14.09.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATACome devono essere gestiti i rifiuti contenenti amianto derivanti dai crolli degli edifici in Emilia? (14.09.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATACome vengono classificati i rifiuti derivanti dai crolli degli edifici in Emilia ai sensi della legge n. 122/2012? (14.09.2012 - link a www.ambientelegale.it).

APPALTI: Valutazioni della commissione giudicatrice; sono sindacabili dal giudice?
Domanda
Le valutazioni effettuate da una Commissione giudicatrice in una gara d'appalto sono sindacabili da parte dell'organo giudiziario?
Risposta
Le valutazioni della Commissione giudicatrice nell'ambito di una procedura concorsuale per l'affidamento di un appalto costituiscono espressione dell'esercizio della c.d. discrezionalità tecnica, o meglio costituiscono -volendo utilizzare altra terminologia- valutazioni tecniche; tuttavia, a prescindere dalla terminologia prescelta, è oggi pacifico che si tratta di valutazioni pienamente sindacabili dal Giudice Amministrativo, sia sotto il profilo della ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità che sotto l'aspetto più strettamente tecnico.
Infatti, tramontata l'equazione discrezionalità tecnica-merito insindacabile a partire dalla sentenza Cons. Stato Sez. IV, 09.04.1999, n. 601, il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici della P.A. può oggi svolgersi in base non al mero controllo formale ed estrinseco dell'iter logico seguito dall'Autorità Amministrativa, bensì alla verifica diretta dell'attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo (14.09.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un amministratore locale che riveste la carica di Presidente di una associazione sovvenzionata dal Comune.
Per un amministratore locale che riveste, altresì, la carica di Presidente di una associazione sportiva nei cui confronti l'Amministrazione eroga annualmente dei contributi potrebbe sussistere la causa di incompatibilità prevista dall'art. 63, c. 1, n. 1) del D.Lgs. 267/2000, nella parte in cui dispone che non può ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
A tal fine, devono ricorrere i tre requisiti previsti dalla norma e cioè che la sovvenzione erogata dal Comune abbia i caratteri della continuità, della facoltatività e della notevole consistenza.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla sussistenza di una causa di incompatibilità per un amministratore locale che riveste, altresì, la carica di Presidente di una associazione sportiva nei cui confronti l'Amministrazione eroga annualmente dei contributi. Specifica, altresì, l'Ente che detti contributi sono erogati a detta associazione analogamente a quanto avviene nei confronti delle altre associazioni presenti sul proprio territorio.
Preliminarmente, si rileva che la valutazione della sussistenza delle cause di ineleggibilità o di incompatibilità dei componenti di un organo elettivo amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo. È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Così come, in sede di esame delle condizioni degli eletti (art. 41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni ostative all'esercizio delle funzioni, allo stesso modo, qualora venga successivamente attivato il procedimento di contestazione di una causa di incompatibilità, a norma dell'art. 69 del D.Lgs. 267/2000, spetta al consiglio medesimo, al fine di valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le osservazioni difensive formulate dall'amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti ritenuti necessari.
Ciò premesso, ai sensi dell'articolo 63, comma 1, numero 1), seconda parte, del D.Lgs 267/2000, non può ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole dottrina[1], il termine 'ente' deve essere inteso in senso lato e, pertanto, vi rientrano anche gli organismi privi di personalità giuridica. In questo senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione, con la sentenza 22.06.1972, n. 2068, che ha inteso comprendere nella nozione di ente sovvenzionato le persone giuridiche pubbliche, private e le associazioni non riconosciute che, pur non dotate di personalità giuridica, abbiano autonomia amministrativa e patrimoniale.
Per quanto riguarda la specificazione del concetto di sovvenzione, secondo la dottrina e la giurisprudenza,[2] essa deve consistere in un'erogazione continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all'ente sovvenzionato di raggiungere, con l'integrazione del proprio bilancio, le finalità in vista delle quali è stato costituito.
In definitiva, affinché si verifichi la situazione di incompatibilità in questione, la succitata norma prescrive che tale sovvenzione debba possedere tre caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve essere saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l'intervento finanziario dell'ente non deve cioè derivare da un obbligo, ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte facoltativo, tenuto conto di quanto precisato;
- notevole consistenza: l'apporto della sovvenzione deve essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per cento del totale delle entrate annuali dell'ente sovvenzionato.
Con riferimento alla fattispecie in esame l'Ente dovrà valutare se il 'contributo' dallo stesso concesso all'associazione abbia i requisiti per essere qualificato, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, quale sovvenzione idonea a fare insorgere la causa di incompatibilità in oggetto. Dovrà, altresì, valutare se sussistano i tre requisiti sopra indicati.
In particolare, quanto a quello della continuità, non sorgono dubbi circa la sua sussistenza stante la cadenza annuale della elargizione in riferimento.
Circa il requisito della facoltatività si tratta di valutare se il contributo erogato all'associazione in riferimento presenti o meno tale carattere.
Si premette che sull'argomento non è dato riscontrare la presenza di un orientamento unanimemente condiviso.
Benché in passato lo scrivente Ufficio abbia aderito alla tesi dottrinaria prevalente, la quale afferma che per determinare l'incompatibilità la sovvenzione non deve avere il carattere dell'obbligatorietà, nel senso che 'non deve essere conseguenza di una legge, o di un regolamento o di un contratto bilaterale, ma deve rientrare nella discrezionalità, cioè deve essere concessa a titolo gratuito o ciò che è lo stesso deve rientrare nella libera determinazione dell'Ente che la accorda',[3] tuttavia, non può sottacersi come, più di recente, abbia ottenuto l'avallo del Ministero dell'Interno la tesi secondo la quale la sovvenzione è facoltativa 'nel senso e nei limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge'.[4] Trattasi di impostazione più rigorosa che circoscrive il concetto dell'obbligatorietà a quelle sole elargizioni per le quali manchi qualsiasi facoltà discrezionale dell'Ente locale nel concederle.
Da ultimo, l'Ente dovrà valutare se ricorra anche il carattere della notevole consistenza, cioè se l'apporto della sovvenzione, per la parte facoltativa, superi, nell'anno, il 10 per cento del totale delle entrate dell'associazione.
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[1] Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo, Amministrazione locale, 3, ed. Giuffré, II ed. 1994, pag. 78 e segg.; R.O. Di Stilo - E. Maggiora, Ineleggibilità e incompatibilità alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985, pag. 73; E. Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[2] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.05.1972, n. 1479.
[3] Rocco Orlando di Stilo, 'Gli organi regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali', Maggioli editore, 1982, pag. 140. Nello stesso senso, Enrico Maggiora, 'Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale', Giuffrè editore, 2000, pag. 142; AA.VV., 'L'ordinamento comunale', Giuffrè editore, 2005, pag. 138.
[4] Ministero dell'Interno, parere del 30.12.2010 (prot. n. 15900/TU/63). In dottrina, si veda, F. Pinto e S. D'Alfonso, 'Incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità e status degli amministratori locali', Maggioli editore, 2003, pag. 196 e parere della Regione Val d'Aosta dell'08.03.2002, il quale afferma che: 'La sovvenzione si intende facoltativa nel senso e nei limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge. Non si sottrae dal concetto di sovvenzione facoltativa un contributo dovuto sulla base di un regolamento comunale, laddove la determinazione del regolamento sia riconducibile ad una scelta discrezionale dell'ente'
(24.08.2012 - link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Seduta del consiglio comunale. Richiesta di accesso alla documentazione messa a disposizione dei consiglieri, relativa agli argomenti iscritti all'ordine del giorno.
Si ritiene che la richiesta di un cittadino di accedere alla documentazione relativa all'ordine del giorno della seduta del consiglio comunale, motivata dalla necessità di documentarsi adeguatamente al fine di poter intervenire in modo qualificato alla seduta del consiglio aperta anche alla cittadinanza, sia priva di elementi idonei a consentire l'individuazione della situazione giuridicamente rilevante che possa legittimarne l'accoglimento, rientrando la fattispecie nella generale disciplina sul diritto di accesso di cui alla L. 241/1990.
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Il Comune ha chiesto un parere in merito alla richiesta informale da parte di un cittadino avere visione e di ottenere copia della documentazione, relativa all'ordine del giorno della seduta del consiglio comunale, contenuta nelle cartelle a disposizione dei consiglieri. La richiesta è motivata dalla necessità da parte dell'interessato di documentarsi adeguatamente al fine di poter intervenire in modo qualificato alla seduta del consiglio aperta anche alla cittadinanza.
Si fa preliminarmente presente che ciascun consigliere comunale, in quanto membro del consiglio e rappresentante eletto direttamente dalla comunità locale, è individualmente investito di un munus che comprende una serie di garanzie e prerogative, tra le quali l'acquisizione di informazioni e documenti, atte a consentire allo stesso di esprimere un voto consapevole sugli affari di competenza del consiglio, nonché di compiere una valutazione della correttezza e dell'efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale ed eventualmente promuovere, nell'ambito del consiglio stesso, le varie iniziative consentite dall'ordinamento.
In tale ambito è riconducibile l'esigenza che tutti i consiglieri dispongano preventivamente non solo dell'ordine del giorno degli argomenti da trattare in ciascuna adunanza del consiglio, ma anche della relativa documentazione istruttoria, al fine di consentire agli stessi, in quanto componenti dell'organo, di prepararsi adeguatamente a partecipare attivamente e consapevolmente alla discussione.
Conseguentemente, sotto il profilo considerato, si ritiene non sussista alcun obbligo in capo all'Amministrazione di ottemperare alla richiesta di accedere ai fascicoli messi a disposizione dei consiglieri, neanche nel caso in cui la popolazione sia invitata a partecipare alle sedute del consiglio, a intervenire nella discussione degli argomenti e ad esprimere le proprie opinioni, non essendo attribuibili ad soggetti esterni al consiglio comunale le prerogative poste dall'ordinamento, ratione officii, in capo ai componenti dell'organo medesimo.
La richiesta formulata dal cittadino rientra invece nella generale disciplina sul diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui al Capo V della legge 07.08.1990, n. 241, il cui articolo 22, comma 1, precisa, alla lettera a), che per 'diritto di accesso' si intende il «diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi» e, alla lettera b), che per 'interessati' debbano intendersi «tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso».
L'istanza, a norma dell'articolo 25, comma 2, della legge 241/1990, deve essere motivata e quindi contenere gli elementi idonei a identificare l'interesse o gli interessi che si intendono tutelare.
Al fine del riconoscimento dell'interesse giuridicamente rilevante, il soggetto deve dimostrare, all'atto della richiesta, la correlazione esistente tra la propria situazione giuridica soggettiva e l'interesse alla conoscenza del bene o della vicenda oggetto dell'atto o del documento amministrativo di cui si chiede visione o copia.[1]
Si precisa, inoltre, che la giurisprudenza, nel delineare l'interesse legittimante il diritto di accesso, ha chiarito, da un lato, che lo stesso deve essere accertato caso per caso e deve essere personale e concreto, serio, non emulativo, non riconducibile a mera curiosità[2] e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso e, dall'altro, che la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile a tale interesse.[3]
Inoltre si è affermato che la situazione giuridicamente rilevante si configura come nozione diversa e più ampia rispetto all'interesse all'impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo[4].
La legittimazione all'accesso, conseguentemente, va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica[5].
Si ritiene, pertanto, che nel caso in esame non sussistano elementi idonei a configurare un interesse giuridicamente rilevante che possa legittimare l'accesso di cui trattasi.
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[1] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 30.11.2009, n. 7486, secondo cui «l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso non solo non deve necessariamente consistere in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, dovendo solo essere giuridicamente tutelato, purché non si tratti del generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa, ma deve anche sussistere un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l'ostensione.
Questo rapporto di strumentalità va inteso in senso ampio, ossia in modo che la documentazione richiesta sia mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse. Pertanto, l'interesse all'accesso ai documenti deve essere considerato in astratto, escludendo che la legittimazione all'accesso possa essere valutata facendo riferimento alla legittimazione della pretesa sostanziale sottostante, avendo consistenza autonoma, indifferente allo scopo ultimo per cui viene esercitata».
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 12.10.2010, n. 7446.
[3] Cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II, 16.11.2005, n. 1138.
[4] Cfr. TAR Lazio, Roma, sez. Prima-ter, 27.07.2009, n. 7550.
[5] Vedi nota 2 e cfr. Consiglio di Stato, sez. VI 27.10.2006, n. 6440
(02.08.2012 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATAComune di Tuscania - Parere in merito ai titoli abilitativi necessari per la collocazione diurna di "chioschi mobili con automezzo" in area vincolata a scopo di vendita di generi alimentari (Regione Lazio, parere 04.05.2012 n. 98047 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Sanatoria di interventi edilizi-urbanistici abusivi realizzati prima dell’imposizione del vincolo paesaggistico - Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia Romagna, parere 17.04.2012 n. 95795 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Concessioni sul demanio della navigazione interna – Rilascio dell’autorizzazione paesaggistica – Richiesta di chiarimenti (Regione Emilia Romagna, parere 23.03.2012 n. 3702 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Vignanello - Parere in merito alla possibilità di effettuare una ristrutturazione con demolizione del manufatto e ricostruzione in area di sedime diversa da quella originaria (Regione Lazio, parere 19.03.2012 n. 415958 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Roccasecca - Parere in merito all'oblazione prevista dall'accertamento di conformità urbanistica disciplinato dall'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e dall'art. 22 della L.R. n. 15/2008 (Regione Lazio, parere 19.04.2012 n. 389143 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Mazzano Romano - Parere in merito alla facoltà del Comune di presentare osservazioni al preavviso di diniego ex art. 10-bis della Legge n. 241/1990 emesso dal Soprintendente ai sensi dell'art. 146, comma 8, del D.Lgs. n. 42/2004 - esclusione (Regione Lazio, parere 06.04.2012 n. 440568 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Sonnino - Parere in merito alla possibilità di attribuire ad un'area un indice di volumetria di altra area confinante avente diversa destinazione urbanistica  (Regione Lazio, parere 05.04.2012 n. 451450 di prot.).

URBANISTICA: Comune di Tarquinia - Parere in merito alle tipologie di pianificazione urbanistica attuativa in zone del territorio comunale interessate da fenomeni di edilizia abusiva (Regione Lazio, parere 02.03.2012 n. 551614 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Carbognano - Parere in merito al condono edilizio in area soggetta a vincolo paesaggistico di cui all'art. 134, comma 1, lett. c, del D.Lgs. n. 42/2004 - Legge n. 326/2003 (Regione Lazio, parere 02.03.2012 n. 152392 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Morolo - Parere in merito alla nozione di ristrutturazione urbanistica e alla differenza con la ristrutturazione edilizia (Regione Lazio, parere 09.11.2011 n. 310951 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Sperlonga - Pareri paesaggistici ex art. 32 Legge n. 47/1985 e condono edilizio ex Legge n. 326/2003 - Competenze e procedimento (Regione Lazio, parere 04.10.2011 n. 320349 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Mazzano Romano - Parere in merito alla durata del parere paesaggistico in sanatoria e all'applicazione del "danno ambientale" (Regione Lazio, parere 04.10.2011 n. 255317 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: DPR n. 139 del 2010 – Risposta a richiesta d interpretazione (Regione Emilia Romagna, parere 19.09.2011 n. 223720 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Campagnano di Roma - Parere in merito alla fase procedimentale in riferimento alla quale calcolare gli oneri concessori nel condono edilizio previsto dalla Legge n. 326/2003 (Regione Lazio, parere 03.08.2011 n. 122542 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Sant'Apollinare - Parere in merito alla possibilità di rilasciare un titolo abilitativo in sanatoria per una tettoia realizzata a copertura di un terrazzo, in mancanza di strumentazione urbanistica e in area soggetta a vincolo paesaggistico (Regione Lazio, parere 26.07.2011 n. 332318 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Mazzano Romano - Parere in merito alla possibilità di annullare il condono edilizio conseguito con false dichiarazioni (Regione Lazio, parere 26.07.2011 n. 310225 di prot.).

URBANISTICA: Quesito circa la titolarità ad esprimere il parere paesaggistico sugli strumenti urbanistici attuativi ed in sede di conferenze di servizi finalizzate alla sottoscrizione di accordi di programma, ai sensi dell'art. 16 della Legge n. 1150/1942 (Regione Lazio, parere 15.06.2011 n. 262422 di prot.).

LAVORI PUBBLICI: Comune di Arcinazzo Romano - Parere in merito alla procedura da seguire per la realizzazione di un'opera pubblica ai sensi dell'art. 19 del D.P.R. n. 327/2001 (Regione Lazio, parere 21.03.2011 n. 121088 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Comune di Fiumicino - Parere in merito alla necessità di acquisire l'autorizzazione paesaggistica per le opere di urbanizzazione prima dell'approvazione della convenzione di lottizzazione (Regione Lazio, parere 16.03.2011 n. 92842 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Risposta a quesito in merito all’accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi degli artt. 167 e 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004, Codice dei beni culturali e del paesaggio (Regione Emilia Romagna, parere 01.03.2011 n. 53566 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Anagni - Parere in merito alla possibilità di eseguire un intervento di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione dell'immobile e aumento di superfici utili (Regione Lazio, parere 14.02.2011 n. 150630 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Santopadre - Parere in merito al regime sanzionatorio da applicare in caso di installazione di impianti di telecomunicazioni e radiotelevisivi in assenza di titolo abilitativo edilizio (Regione Lazio, parere 14.02.2011 n. 149559 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Monte Compatri - Parere in merito all'applicazione dell'indennità risarcitoria "Danno ambientale" per le opere abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo (Regione Lazio, parere 08.02.2011 n. 136081 di prot.).

URBANISTICA: Parere in merito all'edificabilità dei comparti edificatori non attuati mediante piano particolareggiato di esecuzione (Regione Lazio, parere 08.02.2011 n. 87558 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Procedura autorizzazione semplificata ai sensi del DPR n. 139 del 09.07.2010 – Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia Romagna, parere 07.02.2011 n. 32862 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Veroli - Parere sull'applicabilità dell'art. 6 del D.P.R. n. 380/2001 come sostituito dalla Legge n. 73/2010 (Regione Lazio, parere 02.02.2011 n. 163245 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Bolsena - Parere in merito all'interpretazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 ed art. 23 della L.R. n. 15/2008 in tema di lottizzazione abusiva (Regione Lazio, parere 03.01.2011 n. 91138 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Capranica - Parere in merito alla competenza all'esecuzione delle ordinanze di demolizione in zona di interesse archeologico (Regione Lazio, parere 26.10.2010 n. 158560 di prot.).

URBANISTICA: Comune di Piedimonte San Germano - Parere in merito agli effetti della decadenza del vincolo preordinato all'esproprio sulle aree interessate dal mancato intervento (Regione Lazio, parere 26.10.2010 n. 116703 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Ardea - Parere in merito alla possibilità di rilasciare permesso di costruire in area di lotto intercluso con vincolo di P.R.G. decaduto (Regione Lazio, parere 26.10.2010 n. 116125 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Cantalice - Parere in merito alla prescrizione delle sanzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia (Regione Lazio, parere 19.10.2010 n. 2035 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito alla necessità del nulla osta paesaggistico per la realizzazione di piste di esbosco (Regione Lazio, parere 19.10.2010 n. 1996 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Monte Compatri - Parere in merito all'applicabilità della sanzione pecuniaria per il c.d. 'danno ambientale' alle domande di condono edilizio - art. 15 Legge n. 1497/1939 (Regione Lazio, parere 14.07.2010 n. 122212 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Rieti - Parere in merito all'applicazione delle eccezioni di cui all'art. 142, comma 2, D.Lgs. n. 42/2004 ai beni individuati ai sensi dell'art. 134, comma 1, lett. c) (Regione Lazio, parere 14.06.2010 n. 27974 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Bassano in Teverina - Parere in merito alla possibilità di realizzare una piscina in zona agricola soggetta a vincolo paesaggistico (Regione Lazio, parere 24.05.2010 n. 128441 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Nepi - Parere in merito alla natura giuridica e agli effetti dell'accertamento c.d. "straordinario" di compatibilità paesaggistica - art. 1, commi 37, 38, 39 Legge 308/2004 (Regione Lazio, parere 20.05.2010 n. 100099 di prot.).

URBANISTICA: Comune di Arce - Parere in merito alla natura del vincolo di destinazione a parcheggio pubblico; decadenza quinquennale e c.d. "zone bianche" (Regione Lazio, parere 06.04.2010 n. 168090 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Tolfa - Parere sulla possibilità di rilasciare un permesso di costruire ai sensi dell'art. 36 D.P.R. 380/2001 in area sottoposta al vincolo paesaggistico di cui all'art. 142, comma 1, lett. g) D.Lgs. 42/2004 (Regione Lazio, parere 30.03.2010 n. 18318 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Fontechiari - Parere in merito alla possibilità di rilasciare permesso di costruire in sanatoria per muro di contenimento finalizzato alla messa in sicurezza di opere abusive (Regione Lazio, parere 03.03.2010 n. 117282 di prot.).

URBANISTICA: Comune di Civitella San Paolo - Parere in merito alla decadenza dei vincoli di destinazione imposti dal P.R.G. (Regione Lazio, parere 02.02.2010 n. 234245 di prot.).

EDILIZIA PRIVATACorpo Forestale dello Stato Fiuggi - Parere in merito alla necessità del nulla osta paesaggistico per la realizzazione di una tensostruttura temporanea denominata "Palafiuggi" (Regione Lazio, parere 28.09.2009 n. 177256 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito all'applicazione della procedura della demolizione d'ufficio di cui all'art. 27, comma 2, del D.P.R. 380/2001 (Regione Lazio, parere 24.09.2009 n. 147029 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Anagni - Parere in merito all'applicabilità dell'accertamento di conformità agli interventi di demolizione e ricostruzione (art. 36 D.P.R. n. 380/2001 e art. 22 L.R. n. 15/2008) (Regione Lazio, parere 27.08.2009 n. 118162 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Tuscania - Parere in merito alla possibilità di procedere alla demolizione e ricostruzione di un fabbricato condonato avente destinazione incompatibile con il piano regolatore, differente sagoma e da collocarsi in una diversa area di sedime (Regione Lazio, parere 29.07.2009 n. 42593 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Gaeta - Parere in merito all'ipotesi di contrasto tra il regolamento comunale per la telefonia mobile ed il nulla osta paesaggistico rilasciato dalla Regione Lazio (Regione Lazio, parere 13.07.2009 n. 113301 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Santa Marinella - Parere in merito alla necessità di ottenere l'autorizzazione paesaggistica per la realizzazione di un "tappetino in asfalto" in area privata soggetta a vincolo paesaggistico (Regione Lazio, parere 12.06.2009 n. 99031 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA:  Comune di Pisoniano - Parere in merito alla possibilità di rilasciare il permesso di costruire in un lotto residuo in area urbanizzata in mancanza di piano attuativo (Regione Lazio, parere 21.05.2009 n. 81641 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Castel Gandolfo - Parere in merito alla possibilità di installare tende frangisole (Regione Lazio, parere 19.05.2009 n. 65296 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Sora - Parere inerente la fattibilità di un intervento di demolizione e ricostruzione in zona di P.R.G. destina a verde pubblico in mancanza di piano attuativo (Regione Lazio, parere 22.04.2009 n. 178866 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Tarquinia - Parere in merito alla competenza alla demolizione delle opere abusive realizzate in aree vincolate (Regione Lazio, parere 22.04.2009 n. 14828 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Lanuvio - Interpretazione ed applicazione dell'art. 32, comma 25, della legge n. 326/2003 – Condono edilizio: criteri di ammissibilità. Risposta del Ministero (Regione Lazio, parere 13.02.2009 n. 23881 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Parere in merito all'interpretazione ed applicazione dell'art. 32, comma 25, della Legge 326/2006. Condono edilizio - alternatività dei criteri (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Ufficio Legislativo, nota 10.02.2009 n. 5424 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAComune di Pontecorvo - Parere in merito ad un intervento di demolizione e ricostruzione di un fabbricato in parte diruto (Regione Lazio, parere 19.01.2009 n. 65768 di prot.).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAPronto il dm. Edifici, fine dell'energia autocertificata.
Precluso in caso di vendita al proprietario degli immobili di poter optare per un'autodichiarazione sull'appartenenza alla classe energetica più bassa, evitando così la certificazione energetica del tecnico abilitato.

Come anticipato da ItaliaOggi il 14/09/2012, sono in arrivo modifiche al dm 26/06/2009 «Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici» da parte di un provvedimento interministeriale (Mise, Trasporti e Ambiente) diffuso nei giorni scorsi e trasmesso alla Conferenza delle Regioni per l'approvazione. Si deve ricordare che la certificazione energetica è obbligatoria nel caso di richiesta di incentivi o agevolazioni pubbliche per la riqualificazione degli edifici esistenti (detrazioni del 55% e premio conto energia impianti fotovoltaici).
Il dm si è reso necessario dopo il deferimento dell'Italia alla Corte di giustizia Ue del 26.04.2012 per l'incompleto recepimento della direttiva 2002/91/Ce. La direttiva 2002/91/Ce è stata recepita nel nostro ordinamento con dlgs 19.08.2005 n. 192 (e successive modifiche). Il provvedimento, definisce chiaramente gli edifici esentati dall'obbligo di certificazione energetica, escludendo dagli stessi solo quegli edifici per cui risulta tecnicamente non possibile o non significativo procedere alla certificazione energetica.
Tra gli edifici esentati risultano: box, cantine, autorimesse, parcheggi multipiano, depositi, strutture stagionali a protezione degli impianti sportivi e altri edifici a questi equiparabili; nonché ruderi e immobili venduti nello stato di «scheletro strutturale». Inoltre vengono meglio specificati i ruoli degli enti tecnici, Cti, Enea e Cnr, per la qualificazione dei software commerciali per il calcolo della prestazione energetica nel caso si utilizzino i metodi più rigorosi o quelli semplificati.
È stata inoltre dettagliata la forma dei sistemi di calcolo di riferimento nazionale che gli enti devono rendere disponibili, tra questi raccolte di casi di studio e fogli di calcolo (articolo ItaliaOggi del 21.09.2012).

APPALTI - ENTI LOCALI: L'impatto inatteso della norma sulla trasparenza via web dei benefici concessi dalle p.a.. Trappola amministrazione aperta. Dietro l'angolo nuovi adempimenti. E spese incontrollate.
La norma sull'amministrazione «aperta» introdotta col decreto sviluppo potrebbe essere fonte di una valanga di nuovi adempimenti burocratici.
Esattamente al contrario dell'intento enunciato dal governo, semplificare e rendere più trasparente l'azione amministrativa, l'articolo 18 del dl 83/2012, convertito in legge 123/2012, si rivela una fonte di problemi e adempimenti burocratici difficili da attuare.
E una pericolosa spesa per le amministrazioni pubbliche.
Oggetto delle pubblicazioni. L'articolo 18 elenca dettagliatamente tutti gli elementi che debbono essere pubblicati sui portali delle amministrazioni, in conseguenza dell'assegnazione a persone fisiche o giuridiche di benefici economici di qualsiasi natura, dai contributi ai contratti di appalto.
Nell'elencazione, tuttavia, manca la previsione dei provvedimenti di liquidazione o pagamento delle spettanze ai terzi. Oggettivamente, essendo questi aspetti dell'esecuzione delle obbligazioni contratte, forse con le esigenze di trasparenza non avrebbero molto a che vedere.
Tuttavia i commi 1 e 6 fanno, con maggiore o minore chiarezza, riferimento proprio anche ai pagamenti. Infatti, al comma 1 si parla di pubblicizzare l'«attribuzione dei corrispettivi e dei compensi»; al comma 6 si rinvia ad un regolamento per «disciplinare le modalità di attuazione del presente articolo in relazione ai pagamenti periodici e per quelli diretti ad una pluralità di soggetti sulla base del medesimo titolo».
Nell'incertezza, allora, nonostante la voce «pagamento» non sia compresa tra quelle obbligatoriamente oggetto della pubblicazione, è bene inserirle. Questo renderebbe, però, la pubblicizzazione delle informazioni un'operazione di aggiornamento progressiva, per ovvie ragioni. Non si vede, allora, come possa operare la sanzione della responsabilità amministrativa, che ai sensi del comma 5 dell'articolo 18 deriverebbe dall'incompletezza delle informazioni, posto che esse non saranno mai del tutto complete.
Rischi di spese incontrollate. Il comma 5 stabilisce che la pubblicità delle informazioni previste dall'articolo 18 costituisce «condizione legale di efficacia del titolo legittimamente delle concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore ai mille euro». Contestualmente, si dà ai privati beneficiari la possibilità di controllare la mancata, incompleta o ritardata pubblicazione e, sulla base di ciò, di richiedere il risarcimento per il danno da ritardo che deriverebbe, evidentemente, dalla ritardata attivazione dei contratti o, è da ritenere, anche dei pagamenti.
Un adempimento meramente informativo, insomma, viene trasformato in condizione di efficacia delle erogazioni, incidendo, per altro, indirettamente sulla disciplina dell'efficacia non tanto degli atti amministrativi, ma addirittura delle negoziazioni tra privati. Infatti, il titolo legittimante per gli appalti, gli incarichi di collaborazione, ma anche le concessioni dei contributi, non sono i provvedimenti amministrativi di aggiudicazione e impegno di spesa, che hanno rilevanza, come noto, solo interna, bensì i contratti o le convenzioni che regolano, poi, i rapporti obbligatori tra le parti.
Il rischio è che per inadempimenti formali, l'intero rapporto negoziale risulti attivato illegittimamente, con spostamento degli oneri obbligatori dall'amministrazione pubblica al funzionario competente, a tutto danno della posizione del privato. Ma, ulteriore rischio, è il proliferare di vertenze per il risarcimento del danno da ritardo, col rischio dell'esplosione di nuove ed incontrollabili spese per l'amministrazione pubblica. Il tutto, lo si ribadisce, per la scelta non ben meditata di attribuire ad un adempimento formale, una pubblicazione, addirittura valore della condizione di efficacia dei contratti e persino dei pagamenti.
Per i pagamenti occorre già una trafila complicatissima, tra acquisizione del Durc e verifiche ad Equitalia, per effetto delle quali il termine dei 30 giorni previsto dalle direttive europee è una chimera. In più si aggiunge un nuovo adempimento. Senza per altro sapere cosa occorra pubblicare per il pagamento: il provvedimento di liquidazione, oppure il mandato? E senza tenere conto che, in ogni caso, il titolo per i pagamenti resta sempre e solo il contratto o la convenzione, sicché la pubblicizzazione dei provvedimenti di materiale erogazione della spesa appare un eccesso burocratico difficilmente giustificabile (articolo ItaliaOggi del 21.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Numero legale blindato. Chi manca all'appello non si calcola presente. Il caso del consigliere assente dall'aula dopo aver richiesto la verifica.
Deve essere computato tra i presenti il consigliere che, dopo aver chiesto la verifica del numero legale del consiglio comunale, si sia assentato?

Le modalità di determinazione del numero legale per la validità delle sedute sono demandate all'autonomia normativa degli enti locali. È importante, pertanto, che i medesimi si dotino di una disciplina chiara ed esaustiva in materia.
Ciò anche al fine di sottrarre l'ente a possibili contestazioni. Numerose fonti regolamentari recanti la disciplina di organi collegiali prevedono che i richiedenti la verifica del numero legale debbano essere considerati presenti (cfr art. 46, comma 6, regolamento della Camera dei deputati e art. 108 del Senato) ancorché siano assenti dall'aula al momento del conteggio.
Tuttavia, se tale criterio non è stato recepito dal regolamento del consiglio comunale ovvero nello stesso viene previsto che la verifica dei presenti sia compiuta tramite appello nominale, o apparecchiatura elettronica e che i consiglieri che si astengono dal votare sono computati nel numero dei presenti, sembrerebbe evincersi che i consiglieri assenti dall'aula al momento dell'appello non possano essere considerati presenti ai fini del numero legale della seduta (articolo ItaliaOggi del 21.09.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Giunta a ridotta composizione.
Quesito: La giunta provinciale può deliberare in una composizione ridotta, nel caso in cui sia stato revocato e non ancora sostituito uno degli assessori della sua compagine?

È necessario che la sostituzione dell'assessore revocato avvenga in tempi brevi, allo scopo di ricostituire il plenum dell'organo collegiale qualora la composizione dello stesso sia determinata in modo rigido dallo statuto dell'ente. Infatti tale fonte può individuare il numero degli assessori in modo fisso oppure, in alternativa, in modo “flessibile” entro il limite massimo consentito dalla legge statale (v. art. 47, comma 2, del Tuel n. 267/2000); nel caso sia stata prescelta dall'ente locale la prima opzione, lo stesso è vincolato all'osservanza della prescritta composizione numerica, senza margini di discrezionalità, per tale profilo, da parte del Presidente. Per quanto concerne la tempistica riguardante la sostituzione dell'assessore revocato, nulla stabilisce sul punto l'art. 46, comma 4 del Tuel.
È appena il caso di rammentare che l'istituto della revoca dell'incarico assessorile, nella previgente legislatura, prevedeva la contestualità della sostituzione; più precisamente, revoca e sostituzione dell'assessore erano configurati quali adempimenti di competenza del consiglio –adottati su proposta del sindaco ovvero del presidente della provincia– che dovevano avere luogo «nella stessa seduta». Nell'attuale sistema, conformato a tutt'altre modalità di elezione della giunta ed alla sua configurazione di organo fiduciario del sindaco ovvero del presidente della provincia, ora eletto a suffragio diretto, mancano riferimenti espressi a un termine entro il quale l'organo di vertice deve provvedere alla sostituzione dell'assessore revocato.
Ciò non impedisce che sia insita nel sistema la necessità che l'adempimento in questione debba essere effettuato tempestivamente, al fine di rendere conforme alle prescrizioni statutarie la composizione numerica della giunta. Per quanto concerne l'evenienza che l'incompleta composizione dell'organo collegiale comporti, nelle more della sostituzione, l'impossibilità di deliberare validamente, si rileva che l'indirizzo giurisprudenziale formatosi sul punto è impostato sul principio per cui la completezza dell'organo collegiale è indispensabile ai fini della sua operatività soltanto all'atto della costituzione originaria.
Pertanto, se qualcuno dei componenti viene a mancare successivamente deve ritenersi che il collegio possa continuare legittimamente a svolgere le sue funzioni, nelle more della reintegrazione del plenum, purché sia sussistente il quorum strutturale (così Cons. St., Sez. V, 08.07.1977 n. 767); la giurisprudenza in parola motiva tale soluzione con la necessità di impedire la paralisi dell'organo, privilegiando l'efficienza rispetto alla rappresentatività (articolo ItaliaOggi del 21.09.2012).

INCARICHI PROFESSIONALIDal Consiglio nazionale forense il modello di contratto dopo lo stop definitivo alle tariffe. Patti chiari tra avvocato e cliente. Per iscritto il compenso fissato a ore o per fasi di attività.
Compenso orario o compenso per fasi di attività. La struttura a due vie del compenso da pattuire nel conferimento di incarico all'avvocato è prevista dal modello di contratto, elaborato dal Consiglio nazionale forense. Il contratto tra cliente e avvocato, a seguito dell'abolizione delle tariffe, è necessario per stabilire l'onorario del professionista. Il compenso va determinato per iscritto in una apposita scrittura privata, che segue il preventivo di massima.
Tra l'altro il contratto scritto produce effetti vincolanti (nei rapporti avvocato-cliente) per la determinazione del compenso da parte del giudice (decreto ministeriale n. 140/2012), e può rappresentare un punto di riferimento per la determinazione, sempre giudiziale, delle spese di soccombenza. A quest'ultimo proposito va ricordato che non potendosi più elaborare una nota spese da produrre al giudice, è opportuno produrre copia del contratto, previa prudenziale autorizzazione del cliente. Il giudice, nella liquidazione delle spese, potrà tenere conto del livello del compenso pattuito documentato con il contratto.
Vediamo le clausole più rilevanti.
Privacy. Il contratto di incarico professionale è la sede in cui il cliente dichiara di avere ricevuto l'informativa prevista dall'articolo 13 del codice della privacy e di avere prestato il consenso di cui all'articolo 23 dello stesso codice. Peraltro va ricordato che il modello di contratto presuppone una separata informativa, che può essere consegnata su foglio a parte o inserita come allegato del contratto stesso.
Conciliazione. Nel modello di contratto si trova anche l'informativa sulla media-conciliazione, con espresso riferimento ai benefici fiscali conseguibili dal ricorso a questo sistema stragiudiziale di soluzione delle controversie. Peraltro va segnalato che l'informativa va allegata al primo atto difensivo (articolo 4 dlgs 28/2010), e questo significa che il contratto va depositato in tribunale.
Antiriciclaggio. Il modello di contratto del Cnf contiene l'informativa relativa agli obblighi di segnalazione delle operazioni sospette previsto dal decreto legislativo 56/2004.
Difficoltà dell'incarico. Una clausola specifica del contratto riguarda l'informazione da dare al cliente, anche per obblighi deontologici, sul grado di difficoltà dell'incarico. Viene stabilita la seguente scaletta: questione ordinaria; questione difficile; questione complessa.
Imprevisti. L'iter del giudizio potrebbe presentare sviluppi non prevedibili. Il modello di contratto, da un lato, obbliga l'avvocato a fare una prognosi delle attività e dei connessi costi prevedibili; dall'altro consente all'avvocato di far presente le circostanze non prevedibili al momento della stipulazione del contratto, che determinano un aumento dei costi. Si tratta di una valvola aperta alla possibile integrazione del contratto.
Importi. Il modello di contratto offre alcune strade alternative per la quantificazione del compenso.
In primo luogo si sceglie una strada simile a quella adottata dal decreto 140/2012 sulla liquidazione giudiziale dei compensi e cioè una quantificazione per fasi (mediazione, studio, cautelare, fase introduttiva, istruttoria, decisoria ed esecutiva). In alternativa si propone un modello di calcolo in base alle ore di attività. Questa modalità era riservata, dalle «vecchie» tariffe, solo all'attività stragiudiziale, ma ora può essere esteso anche all'attività giudiziale.
Spese. Le spese, secondo il modello, possono essere determinate in modo forfettario oppure in base alla documentazione che verrà prodotta successivamente: in questo caso il modello indica di inserire al momento della conclusione del contratto di conferimento di incarico professionale, un tetto massimo oppure dei riferimenti al tipo di mezzo di trasporto che sarà utilizzato (treno, aereo, autovettura), classe del treno o dell'aereo, categoria alberghiera per il pernottamento.
Transazione. Analogamente a quanto previsto dal decreto 140/2012 sulla liquidazione giudiziale, il contratto premia l'avvocato che favorisce una soluzione bonaria con un surplus di compenso. Il modello non offre una clausola tipo, invece, sul patto di quota lite (compenso legato al risultato, come quota di quanto incassato).
Acconti e saldo. Il modello di contratto contiene la specifica indicazione dei tempi di pagamento di acconti e saldo. Se il cliente non paga nei termini, il contratto viene dichiarato risolto.
Liquidazione del giudice. All'esito della causa il giudice potrà riconoscere alla parte vittoriosa il recupero delle spese legali, ma eventualmente in misura inferiore a quella pattuita dal cliente con il proprio legale. Per questi casi il contratto stabilisce la prevalenza dell'accordo rispetto alla liquidazione del giudice. La parte eccedente rimane a carico del cliente. Se il giudice riconoscesse di più, il modello di contratto riserva all'avvocato questa somma ulteriore.
Clausole vessatorie. Il modello di contratto prevede la doppia firma del cliente sulle clausole vessatorie (integrazione del contratto per cause imprevedibili, clausola risolutiva espressa in caso di mancato pagamento, riconoscimento al legale della cifra maggiore tra quella prevista dal contratto e quella liquidata dal giudice ecc.). Il modello precisa che non si è ritenuto opportuno prevedere il riferimento alla disciplina del contratto con il consumatore e, quindi, alla trattativa individuale delle clausole vessatorie: questo per evitare che la qualificazione di contratto con il consumatore sia lo strumento per l'applicazione al professionista dello «statuto» dell'imprenditore (articolo ItaliaOggi del 20.09.2012).

EDILIZIA PRIVATAPACCHETTO SEMPLIFICAZIONI/ Lo stop a costruire va dichiarato. Sugli immobili vincolati il diniego del permesso va esplicitato. Provvedimento presto al vaglio del Consiglio dei ministri.
Diniego espresso del permesso di costruire su immobili vincolati. Se il comune non adotta il provvedimento conclusivo entro il termine previsto, l'istanza non si considera automaticamente rigettata, ma l'ente locale deve comunicare in maniera esplicita la sua decisione.

È quanto prevede la bozza di decreto sulle semplificazioni, presto all'esame del Governo. Ma vediamo di illustrare tutte le novità, anche in materia di privacy.
Immobili vincolati. Il decreto chiarisce le conseguenze dell'inerzia del comune nell'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento di rilascio del permesso di costruire, in caso di esistenza di un vincolo ambientale, paesaggistico o culturale e di diniego del relativo atto ampliativo. Nella formulazione vigente è previsto il «silenzio-rifiuto»: questo significa che la risposta del comune è negativa. La novità cambia la natura del silenzio in silenzio non significativo, cioè non avente valore di provvedimento di diniego. La relazione di accompagnamento precisa che rimane ferma, anche a seguito dell'esito negativo del procedimento di rilascio del titolo abilitativo reso necessario dalla presenza di un vincolo, la necessità che il comune concluda il procedimento di rilascio del permesso di costruire con un provvedimento espresso.
Questo significa, anche, che in caso di ulteriore inerzia l'interessato potrà rivolgersi al Tar contro il silenzio dell'amministrazione.
Con un secondo intervento viene semplificata la procedura di conferenza dei servizi nel caso in cui l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto a un vincolo la cui tutela non compete, anche in via di delega, alla amministrazione comunale. Le regole attuali obbligano il comune a indire necessariamente la conferenza di servizi. Questo anche nell'ipotesi in cui sussista un solo vincolo e, quindi, la conferenza si risolva nella convocazione di un tavolo cui partecipa una sola amministrazione, oltre a quella procedente. Peraltro la relazione al decreto spiega che ciò non preclude al comune, se ne ravvisa l'opportunità (in particolare quando coesistano più vincoli sul medesimo immobile) la facoltà di convocare una conferenza di servizi.
Parere del soprintendente. Il decreto restituisce all'amministrazione competente il potere di provvedere sulla domanda di autorizzazione, prevista dall'articolo 146 del codice del paesaggio, decorsi inutilmente i termini indicati per l'espressione del parere del soprintendente. L'articolo 146, infatti, in caso di avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici alle prescrizioni dei piani paesaggistici, il parere del soprintendente assume natura obbligatoria non vincolante e si considera favorevole se non sia stato reso entro il termine di novanta giorni dalla ricezione degli atti.
Inoltre, il medesimo articolo prevede che, in caso di mancata pronuncia da parte della Soprintendenza entro il termine di 45 giorni dalla ricezione degli atti, l'amministrazione competente può indire una conferenza di servizi che si pronuncia entro 15 giorni.
Appalti. Il decreto modifica le percentuali di qualificazione denominata OG11. Per effetto delle modifiche le imprese attualmente svantaggiate possono partecipare alle gare di appalto per la loro potenzialità complessiva in OG11, oppure di partecipare alle gare di appalto indette nelle categorie specialistiche (principio di assorbenza), nei limiti delle percentuali relativamente corrispondenti.
Il decreto prevede poi la disciplina espressa del contratto di rete per favorire l'aggregazione tra imprese e la loro partecipazione alle gare di appalto. Con il contratto di rete viene instaurato un rapporto di collaborazione duraturo e continuativo, non limitato a una specifica gara, ma, al contrario, finalizzato al perseguimento di un programma di sviluppo di ampia portata. Per la partecipazione alle gare gli operatori economici devono pattiziamente regolare la partecipazione congiunta alle procedure di gara nell'oggetto del contratto di rete. Il mandato, in fase di partecipazione, potrebbe essere sostituito dall'impegno scritto al conferimento dello stesso a valle dell'aggiudicazione o avere, alternativamente, la forma della scrittura privata autenticata ovvero dell'atto sottoscritto digitalmente.
Distanze. Vengono modificate le distanze tra edifici, limitatamente ai territori interessati da eventi sismici e da calamità naturali, per gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche con sopraelevazioni e aumenti di volume. Il decreto prevede il rispetto delle distanze vigenti all'epoca della costruzione originaria, salvo deroga, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati qualora rientrino in piani di recupero e riconversione urbana.
Privacy. Il decreto estende al concetto più ampio di impresa, anche se esercitata in forma individuale (cioè da una persona fisica), l'esclusione dal campo di applicazione del Codice della privacy già prevista per il trattamento di informazioni relative alle persone giuridiche e, quindi, sostanzialmente alle società (cioè ad imprese gestite in forma societaria).
Con una eccezione: viene fatta salva la speciale disciplina nazionale Capo II, Tit. X, Codice e comunitaria (direttiva 58/2002/CE) posta a tutela degli interessi giuridici di persone giuridiche e imprese contraenti di servizi di comunicazioni elettronica (articolo ItaliaOggi del 18.09.2012).

APPALTI: La solidarietà non blocca il Durc. Sì alla regolarità in presenza di corresponsabilità nei debiti. Il quadro della disciplina vigente negli appalti privati dopo le novità del decreto semplificazioni.
La solidarietà non pregiudica il Durc (Documento unico di regolarità contributiva). La presenza di debiti contributivi scaturenti da un regime di solidarietà di un appalto, infatti, non compromette la regolarità contributiva dell'impresa ai fini del rilascio del documento unico (Durc regolare).

La precisazione è dell'Inps che, con circolare 10.08.2012 n. 106/2012, ha illustrato le novità della legge n. 44/2012 (conversione del dl n. 16/2012) in materia di responsabilità solidale che lega committenti e appaltatori negli appalti del settore privato.
La responsabilità solidale. Con questa espressione viene indicato il vincolo che lega, negli appalti, la ditta che affida un lavoro e quella che tale lavoro esegue. Un vincolo che ha efficacia relativamente ai diritti retributivi, fiscali e contributivi dei lavoratori che sono impiegati nell'esecuzione dei lavori di quell'appalto.
Ai sensi degli articoli 1292 e seguenti del codice civile, in particolare, si ha obbligazione solidale passiva quando «più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo che ciascuno può essere costretto all'adempimento per la totalità e l'adempimento da parte di uno di loro libera gli altri (_)».
Per l'Inps, dunque, la solidarietà passiva nasce per rafforzare il credito, in quanto attribuisce al creditore (proprio l'Inps nel caso di obbligazioni contributive) la facoltà di chiedere l'adempimento dell'esatta prestazione a uno qualunque dei debitori.
Le regole oggi vigenti. Le norme di riferimento in materia di responsabilità solidale per i trattamenti contributivi nel contratto di appalto privato sono state soggette, nel tempo, a diverse modifiche (si veda tabella). Dall'analisi complessiva della normativa ne deriva che:
a) il committente è chiamato a rispondere in solido con l'appaltatore, nonché con gli eventuali subappaltatori, per l'intero importo della contribuzione previdenziale nonché della retribuzione dovuta, con esclusione (dal 10.02.2012), delle sanzioni civili. Il ministero del lavoro, in merito alle somme per le quali il committente viene chiamato a rispondere in solidarietà, ha precisato che, anche a seguito della modifica legislativa intervenuta (dal 10.02.2012), il regime di solidarietà permane sulle somme dovute a titolo di interesse moratorio sui debiti previdenziali (sia contributivi e assistenziali che assicurativi), nascenti sul debito contributivo una volta raggiunta l'entità massima prevista della sanzione civile, considerata la portata generale dell'articolo 1294 del codice civile e in mancanza, sul punto, di una previsione contraria della legge.
Inoltre, ha chiarito che il dies a quo a partire dal quale il committente, ex articolo 21 del dl semplificazioni, non risponde dell'obbligo relativo alle somme aggiuntive, coincide con tutti gli obblighi contributivi la cui scadenza del versamento è successiva al 10.02.2012, data di entrata in vigore del predetto decreto. Il vincolo della solidarietà viene meno dopo due anni dalla cessazione dell'appalto (ovvero, in presenza di subappaltatori, dopo due anni dalla cessazione del subappalto).
Sono tutelati tutti i lavoratori, ovvero non solo i lavoratori subordinati ma anche quelli impiegati nell'appalto con altre tipologie contrattuali (per esempio i collaboratori a progetto), nonché quelli in nero, purché impiegati direttamente nell'opera o nel servizio oggetto dell'appalto;
b) l'appaltatore è chiamato a rispondere in solido con il subappaltatore:
     1) ex articolo 35, comma 28, (fino al 28.04.2012), oltre che senza limiti economici, anche senza termine di decadenza, con la conseguente applicazione del termine di prescrizione previsto ex lege per i contributi. Sono tutelati i lavoratori regolarmente iscritti al Lul o per i quali è stata effettuata la comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro (Unilav);
     2) ex articolo 29, comma 2, (dal 29.04.2012) in virtù di consolidata giurisprudenza che considera il contratto di subappalto null'altro che un vero e proprio appalto (che si caratterizza, rispetto al contratto-tipo, solo per essere un contratto derivato da altro contratto stipulato a monte, che ne costituisce il presupposto).
Insomma, a partire dal 29.04.2012, il regime di solidarietà complessivamente previsto per il committente obbligato in solido è da ritenersi esteso anche all'appaltatore chiamato in solidarietà (articolo ItaliaOggi Sette del 17.09.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Permessi light e sportello unico per i cantieri. Ampliato il ricorso all'autocertificazione Comuni attesi alla sfida dei tempi brevi.
Puntuale come ormai succede da un paio d'anni, con l'ultimo decreto sviluppo arriva anche un pacchetto di semplificazioni edilizie. Questa volta, però, accanto al consueto ritocco delle procedure, il Governo gioca la carta dell'attività amministrativa: lo sportello unico dell'edilizia, infatti, è destinato a diventare un front-office universale per cittadini, imprese e professionisti. Di fatto, i funzionari comunali dovranno dialogare con tutte le amministrazioni coinvolte –dalle soprintendenze al genio civile– raccogliendo gli atti e permessi necessari. E convocando, quando serve, una conferenza di servizi per accelerare la decisione.
L'attuazione
Tra le righe del Dl 83/2012 (convertito dalla legge 134) si annida una rivoluzione che potrebbe spazzare via in un solo colpo tutte le frasi come «non è di nostra competenza» e «si rivolga a un altro ufficio». Ma tutto dipenderà dall'attuazione concreta delle nuove regole, che pongono una sfida organizzativa molto impegnativa a Comuni già sotto pressione per il blocco del turn-over e il patto di stabilità.
Il rischio, quindi, è che l'accentramento delle pratiche in un unico ufficio si traduca in un allungamento dei tempi. Senza che i cittadini possano rivolgersi alle altre amministrazioni per procurarsi gli atti o accelerare l'iter. Proprio per scongiurare questi inconvenienti è stato assegnato ai Comuni un termine di sei mesi per implementare le nuove procedure, ed è stato previsto anche un meccanismo che –in caso di inerzia– consentirà ai cittadini di far intervenire un funzionario che si "sostituirà" a quello inadempiente.
Un possibile effetto a doppio taglio è contenuto anche in un'altra delle novità inserite nel decreto sviluppo, e cioè l'estensione alla Dia di tutte le autocertificazioni previste dalla Scia. Il vantaggio è evidente: il professionista certifica il possesso di tutta una serie di requisiti e non serve reperire alcuna documentazione. Ma, di contro, dove le norme sostanziali non sono chiarissime –e spesso succede– il tecnico è chiamato ad assumersi una grande responsabilità, sia nei confronti dell'amministrazione (che potrebbe bloccare i lavori anche dopo i canonici 30 giorni azionando il potere di autotutela) sia nei confronti del committente (che potrebbe chiedere il risarcimento dei danni derivanti da eventuali errori). Non è un caso, a ben vedere, che poche imprese abbiano scelto il permesso di costruire con il silenzio-assenso (introdotto un anno fa dal Dl 70/2011) preferendo invece avere un via libera esplicito ai lavori.
I vincoli
Tutta da sperimentare è anche la semplificazione nei casi di interventi in zone vincolate: finora il dialogo preventivo e informale tra professionista e tecnici della soprintendenza è servito in molti casi ad avvicinare le parti, a plasmare i progetti in modo da rendere più facile il parere favorevole dell'organo di tutela.
Cosa succederà ora che di fatto tecnici e privati saranno "scavalcati" dallo sportello? L'accentramento riuscirà a garantire la stessa flessibilità anche di fonte a soprintendenze in perenne deficit di organico?
Dubbi di non poco conto se si pensa che in alcune regioni italiane metà del territorio italiano è coperta da un vincolo, ambientale o paesaggistico. E che dunque conquistare anche attraverso il dialogo e la flessibilità il via libera degli enti incaricati della tutela è un passaggio cruciale per molti interventi edilizi. Insomma: anche per quest'ultima innovazione normativa occorre quanto meno un primo periodo di sperimentazione, e magari qualche chiarimento interpretativo, un po' come è capitato con la Scia.
Del resto sulle procedure edilizie –dopo le modifiche normative degli ultimi due anni– resta poco da semplificare: è ormai notevolmente ampliata l'area dell'edilizia libera, con il nuovo strumento della comunicazione di inizio attività che assomiglia da vicino alla Dia ma consente di iniziare subito i lavori anche per la manutenzione starordinaria (Dl 40/2011), fino all'ultima deregulation contenuta proprio nel decreto sviluppo che ha portato in edilizia libera le modifiche interne e il cambio di destinazione d'uso dei fabbricati di impresa.
Il tutto in nome di un effetto anticrisi attribuito da sempre ai lavori edili. Ma al di là delle semplificazioni di procedure e organizzative, una forte spinta adesso è attesa dai robusti incentivi fiscali, cioè da quel 50% di detrazione sulle spese di ristrutturazione fino a 96mila euro che proprio il decreto sviluppo ha portato con sé, a partire dal 26 giugno scorso e fino al 30.06.2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Il nuovo front-office accentra le pratiche di tutti gli altri enti. Lo sportello comunale «dialoga» con le amministrazioni pubbliche.
PRO E CONTRO/ I cittadini ora hanno un solo referente ma se servono i pareri di soggetti diversi i tempi si allungano.

Lo sportello unico per l'edilizia (Sue) accentra tutti i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione in merito a permessi e assensi edili, senza che sia più possibile con le modifiche introdotte dal Dl 83/2012 bypassarlo, ottenendo da altri uffici documentazione, informazioni o permessi, comunque definiti.
Con «tutti i rapporti» si intende davvero tutti, fatta l'unica eccezione di quelli di competenza di un altro sportello unico, quello delle attività produttive (Suap), che può a buon diritto entrare in gioco quando, insieme a opere edili propriamente dette, occorre ottenere assensi in merito all'apertura, alla cessazione, localizzazione, trasformazione, ristrutturazione, riconversione, ampliamento, trasferimento di un'attività produttiva o di servizi.
Gli sportelli unici –da attivare entro il 12.02.2013– posso essere aperti dai Comuni, soprattutto se di piccole dimensioni, anche in forma associata, per diminuire i costi e razionalizzare il servizio.
Le funzioni dello sportello unico, così come ridisegnato dal Dl 83 sono le seguenti:
- ricevere tutte le comunicazioni o le domande relative al l'attività edilizia (comunicazioni con o senza relazione asseverata, segnalazioni di inizio attività, denunce di inizio attività, permessi di costruire, certificati di agibilità) ivi comprese quella relative alle opere per le fonti rinnovabili di energia (fatta eccezione per l'autorizzazione unica che è curata dalla Regione o dalle province da essa delegate con procedimenti assai simili a quelli previsti per gli sportelli unici comunali);
- rilasciare tutti i permessi e gli assensi relativi;
- fornire informazioni del tutto gratuite in merito al l'iter delle pratiche, alle normative d riferimento, ai documenti e provvedimenti amministrativi;
- essere tramite obbligatorio tra il privato e tutte le amministrazioni pubbliche chiamate a pronunciarsi sull'intervento edilizio, richiedendo a tali amministrazioni gli atti di assenso, comunque denominati, necessari per realizzare le opere, direttamente (se possibile) o anche tramite le cosiddette conferenze di servizi (si veda l'articolo in pagina).
Il tipo e il numero di assensi integrativi che possono essere necessari sono riportati nella tabella pubblicata a fianco: si tratta di un elenco molto nutrito, più dettagliato di quello riportato nel Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2011), ma che non esaurisce tutte le possibilità.
In buona sostanza gli sportelli unici sono nati per offrire un solo referente al cittadino, dando un colpo di spugna alla vecchia prassi dello "scaricabarile" tra le diverse amministrazioni coinvolte in un intervento edile e fornendo tempi certi per l'esame delle pratiche. Ai sensi della legge 241/1990, anzi, il cittadino deve essere informato di chi, al l'interno del Sue, è «responsabile del procedimento», fornendo le informazioni base per potersi mettere in contatto (per esempio, telefono,indirizzo ed e-mail): quindi il rapporto non è con un'entità astratta (il Sue) ma con una persona ben definita.
Il Testo unico privilegia comunque espressamente sia l'invio delle domande da parte dei cittadini che l'acquisizione di pareri e assensi per via telematica. Qualora sia possibile, lo sportello unico raccoglie pareri, autorizzazioni o documenti direttamente dalla diversa amministrazione competente. Se non riesce a riceverli entro 30 giorni, oppure entro lo stesso termine una della amministrazioni esprime il suo dissenso, o il tipo di opere lo prevede comunque (interventi di particolare complessità, opere pubbliche, necessità della valutazione di impatto ambientale), lo sportello convoca la conferenza di servizi. Anch'essa può svolgersi per via telematica, ma, ovviamente, l'iter della pratica finirà per prolungarsi.
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IN PRATICA
Il divieto di chiedere atti già in possesso della Pa
In base all'articolo 9-bis del Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001), introdotto dalla legge di conversione del Dl 83/2012, ai fini della presentazione, rilascio o formazione dei titoli abilitativi previsti dal Testo unico, la pubblica amministrazione è tenuta «ad acquisire d'ufficio i documenti, le informazioni e i dati, compresi quelli catastali, che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni», senza possibilità di «richiedere attestazioni, comunque denominate, o perizie sulla veridicità e sull'autenticità di tali documenti, informazioni e dati».
L'acquisizione del nulla-osta paesaggistico
I compiti di acquisizione indicati in precedenza sono riferibili allo sportello unico per l'edilizia (Sue), al quale
l'attuale formulazione dell'articolo 5 del Testo unico assegna anche il compito di acquisire –direttamente o tramite conferenza di servizi– tutti gli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento, tra cui quelli per eseguire interventi edilizi su immobili assoggettati a vincolo storico-artistico o paesaggistico ai sensi del Dlgs 42/2004, «fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice».
Il rinvio, quindi, è all'articolo 25 del codice del 2004 –che a sua volta richiama l'istituto della conferenza di servizi– e riguarda unicamente quelli assoggettati a vincolo storico-artistico, poiché la norma utilizza il termine «beni culturali» e non «patrimonio culturale», così escludendo i «beni paesaggistici», che ne sono una delle due distinte componenti, ai sensi dell'articolo 2 del medesimo codice. La sostanza, tuttavia, non cambia, poiché anche nel caso del nulla-osta paesaggistico, se non direttamente acquisito dal Sue, dovrà farsi ricorso alla conferenza di servizi, che questo ufficio, come in passato, è tenuto ad indire.
L'orientamento del Consiglio di Stato
Sul punto va peraltro segnalata la recente sentenza del Consiglio di Stato 4312/2012, contenente specifici rilievi sui poteri del Sue. La pronuncia richiama innanzitutto il consolidato indirizzo giurisprudenziale (tra le tante, Consiglio di Stato, 6878/2011) secondo cui il procedimento per il rilascio del permesso di costruire e quello per il nulla-osta di compatibilità paesaggistica dell'intervento, ancorché connessi, sono due procedimenti distinti, avendo a oggetto la tutela di beni diversi ed essendo articolati sulla base di competenze diverse.
Se ne fa conseguire che l'articolo 5 del Dpr 380/2001, nell'assegnare al Sue l'acquisizione di tutti gli «atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio», si riferisce ai soli pareri e nulla-osta endoprocedimentali volti al rilascio del permesso di costruire, ma non può estendersi anche a un'autorizzazione diversa ed esterna rispetto a tale procedimento, quale è l'autorizzazione paesaggistica eventualmente richiesta per l'esecuzione dell'intervento.
Tale orientamento, espresso dai giudici di Palazzo Spada pochi giorni prima della pubblicazione della legge 134/2012, andrà oggi rimeditato, alla luce della esclusività delle funzioni assegnate al Sue  (articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Il catalogo degli interventi/ L'edilizia libera guadagna spazio. Senza titoli abilitativi anche i lavori interni e i cambi d'uso sui capannoni.
TEMPI RAPIDI/ In tutti i casi diversi da permesso di costruire e denuncia d'inizio attività il proprietario può avviare subito il cantiere.

All'insegna della semplificazione, la disciplina dei titoli edilizi cambia ancora nello sforzo di agevolare la ripresa economica. In sede di conversione del decreto legge 83/2012 (da parte della legge 134) sono stati ulteriormente modificati l'iter per il rilascio del permesso di costruire e il novero degli interventi realizzabili con comunicazione di inizio attività (Cia), ai sensi dell'articolo 6 del Testo unico in materia edilizia, Dpr 380/2001.
Per quanto attiene al permesso di costruire, è ora previsto che se entro 60 giorni dalla presentazione della domanda non siano intervenuti gli assensi eventualmente necessari da parte delle altre amministrazioni (o se sia intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni), il responsabile dello sportello unico indica una conferenza di servizi.
In tema di Cia, sono invece state assoggettate a comunicazione anche le «modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, ovvero le modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa».
Anche per queste opere, così come per gli interventi di manutenzione straordinaria, l'interessato, insieme alla comunicazione, dovrà però trasmettere i dati dell'impresa e una relazione tecnica che attesti la conformità agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, oltre a una dichiarazione riguardo alla non necessità di titolo abilitativo.
La riforma si pone del solco delle precedenti che hanno complessivamente delineato cinque distinti modelli abilitativi, ciascuno corrispondente a determinate categorie di interventi edilizi:
- l'attività edilizia libera, attuabile senza alcuna formalità;
- l'attività soggetta a Cia (asseverata in caso di manutenzione straordinaria e modifiche interne o funzionali a fabbricati d'impresa), realizzabile previa comunicazione;
- l'attività soggetta a segnalazione certificata di inizio attività (Scia), anch'essa eseguibile contestualmente alla presentazione della prevista documentazione e soggetta ad eventuale inibitoria comunale entro 30 giorni;
- l'attività soggetta a denuncia di inizio attività (Dia), realizzabile decorsi 30 giorni dalla presentazione del relativo modello;
- le opere subordinate a rilascio di permesso di costruire, espresso o ottenuto mediante silenzio-assenso.
Nel novero dell'attività edilizia libera ricadono la manutenzione ordinaria, gli interventi per l'eliminazione di barriere architettoniche che non alterino la sagoma dell'edificio, le opere temporanee per ricerca nel sottosuolo, i movimenti di terra pertinenti all'attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali ed, infine, le serre mobili stagionali, non in muratura.
Sono, invece, soggetti a Cia gli interventi di manutenzione straordinaria (sempre che non riguardino parti strutturali, non comportino aumento delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici); le opere per esigenze contingenti (destinate ad esser rimosse comunque entro novanta giorni); le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni; l'installazione di pannelli solari, fotovoltaici, al di fuori delle zona omogenee A); le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali ed infine, come visto, le modifiche edilizie interne e quelle funzionali dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa.
Il rilascio del permesso di costruire permane per le attività edilizie più rilevanti ed, in particolare per:
- interventi di nuova costruzione;
- interventi di ristrutturazione urbanistica;
- interventi di ristrutturazione edilizia "maggiori", cioè che portino a un organismo edilizio diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, o che –solo per gli immobili compresi nelle zone A (centri storici)– comportino cambi d'uso.
Infine, quali modelli residuali restano la Scia e la Dia. La Scia è prevista in relazione agli interventi non qualificabili né come attività edilizia libera, né come attività soggetta a permesso di costruire o a Cia (come, ad esempio, per gli interventi di restauro o di risanamento conservativo e le ristrutturazioni cosiddette "minori") e per le varianti a permessi di costruire che non incidano sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modifichino la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterino la sagoma e non violino le prescrizioni del permesso di costruire.
La Dia è ancora prevista (come chiarito all'articolo 5, comma 2, lettera c) del Dl 70/2011) nelle fattispecie in cui essa si configuri quale alternativa al permesso di costruire –la cosiddetta Super-Dia– cioè relativamente alle ristrutturazioni edilizie maggiori, agli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica disciplinati da piani attuativi con precise disposizioni plano-volumetriche e per le nuove costruzioni in esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche. Rimangono altresì soggetti a Dia, gli interventi per i quali tale strumento sia stato previsto dalle Regioni in base all'articolo 22, comma 4 del Testo unico dell'edilizia.
Un'altra novità (si veda l'articolo a fianco in basso) è l'estensione alla Dia del principio di "autocertificazione" già previsto con l'introduzione della Scia. Il Governo, in particolare, rilevando che le leggi regionali prevedono per analoghi interventi Dia o Scia in termini spesso confusi e alternativi, ha espressamente inteso rimettere ordine quantomeno procedimentale, dettando regole di semplificazione analoghe.
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LE RICADUTE
1 - REGIONI E COMUNI - La Consulta boccia le modifiche locali
Il quadro normativo statale può dirsi definito, ma quale spazio resta alle Regioni e ai Comuni per differenziare la disciplina delle costruzioni rispetto alle nuove semplificazioni? Davvero poco a detta della Corte Costituzionale che, con la decisione n. 164 dello scorso 4 luglio, ha stabilito che la Pa presta un "servizio" ai cittadini mentre evade le pratiche edilizie (attraverso l'istruttoria, il rilascio o il diniego dei titoli edificatori, l'esercizio o il mancato esercizio della potestà inibitoria rispetto alle Dia e alle Scia degli interessati).
Secondo la Corte, il legislatore statale può legittimamente ritenere opportuno che il servizio, ora di esclusiva competenza dello sportello unico sia assicurato in termini omogenei su tutto il territorio nazionale, determinando i livelli essenziali delle prestazioni in relazione ai diritti civili e sociali (articolo 117, comma 2, lettera m) della Costituzione).
Se dunque il legislatore nazionale ritiene –come ha fatto– che le nuove semplificazioni edilizie siano necessarie per assicurare a tutti il godimento di prestazioni garantite, ecco che per la Consulta la legislazione regionale non può introdurre limitazioni o condizioni che possano appesantire l'esercizio dello ius aedificandi (si vedano le sentenze 322/2009 e 282/2002). Alle Regioni non resta dunque che prendere atto delle nuove disposizioni in materia di formazione dei titoli edilizi.
Discorso solo leggermente diverso va fatto rispetto alla documentazione da allegare a Dia, Scia, comunicazioni e domande in genere. Le amministrazioni sono ora tenute ad acquisire d'ufficio i documenti, le informazioni e i dati che siano in possesso della Pa. Mentre resta fermo che le Regioni e, a maggior ragione, i Comuni non possono stabilire regole differenti rispetto alle modalità di reperimento e messa a disposizione degli allegati progettuali, i regolamenti comunali restano pienamente titolati a stabilire quali atti e rappresentazioni (tavole progettuali, tabelle quantificative, rendering architettonici, relazioni illustrative) debbano essere prodotti o acquisiti. Certo, le richieste non possono mai essere ingiustificatamente onerose o illogiche, nel qual caso l'interessato può rivolgersi al Tar per impugnare le indebite richieste, le norme regolamentari che le prevedessero e l'eventuale diniego del titolo edilizio o l'ordine di fermare i lavori.
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2 - RAPPORTI CON LA PA - Più oneri ai privati con la nuova Dia
La Dia come la Scia, almeno dal punto di vista delle autocertificazioni. Il nuovo comma 1-bis dell'articolo 23 del Testo unico prevede che –anche per la Dia– quando è prevista l'acquisizione di «atti o pareri» di organi o enti o l'esecuzione di «verifiche preventive», tali atti, pareri e verifiche siano sostituiti da autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di tecnici abilitati. Resta fermo il potere della Pa di verificare la correttezza delle valutazioni dei tecnici. La misura –che non si applica a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e agli atti delle amministrazioni preposte alla tutela di altri interessi preminenti– se rafforza la posizione del privato nella dialettica con la Pa in qualche misura ne appesantisce la posizione, in quanto l'interessato deve ora farsi carico dell'assunzione di ulteriori responsabilità e spese tecnico-professionali.
Per contro, la nuova funzione di controllo rispetto alle attestazioni del privato può essere più rischiosa per la Pa in termini di danni da risarcire qualora, nonostante le attestazioni di conformità predisposte dal privato, sia disposto un ordine di non eseguire i lavori, poi ritenuto illegittimo dal Tar.
La giustizia amministrativa ha già evidenziato che, a seguito dell'annullamento di un provvedimento inibitorio, la Pa ha il potere di verificare di nuovo la sussistenza dei requisiti per l'esercizio dell'attività costruttiva, ma è responsabile dei danni causati dalla sospensione illegittima dei lavori (Tar Milano Lombardia, sez. II, 5901/2011 e 1092/2010).
Per ottenere la condanna della Pa, il danneggiato può limitarsi a invocare l'illegittimità dell'atto quale indice presuntivo di colpa. Spetterà, per contro, alla Pa dimostrare che si è trattato di un «errore scusabile» o che comunque non fosse esigibile una alternativa condotta lecita (Consiglio di Stato, sez. IV, 483/2012). A fronte di un provvedimento inibitorio illegittimo, mediante il quale siano state confutate considerazioni tecniche, poi giudicate corrette e conformi alla legge, il Comune difficilmente potrà sostenere di essere ricaduto in un errore scusabile e che una diversa valutazione non fosse possibile (articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2012).

EDILIZIA PRIVATA: La vigilanza/ Al Comune 30 giorni per bloccare i lavori. Ma lo stop è sempre possibile per gravi motivi.
L'AUTOTUTELA/ Scaduto il termine per le verifiche l'ente può intervenire per garantire il bene primario della tutela del territorio.

Anche di fronte a interventi realizzati in edilizia libera o con una semplice comunicazione o segnalazione di inizio attività, senza quindi un esplicito controllo e assenso del Comune, all'ente locale restano dei poteri di intervento di fronte a opere illegittime. Ma come può il Comune intervenire quando l'intervento edilizio è già partito?
Una risposta si può certamente ricavare dalla sentenza 188/2012, con cui la Corte costituzionale, dando una interpretazione autentica del l'articolo 19 della legge 241/1990, ha definito l'ambito dei poteri di intervento delle amministrazioni.
La Regione Emilia Romagna aveva paventato l'illegittimità costituzionale della norma se interpretata nel senso che, decorso il termine di 30 giorni concesso dal comma 3 per inibire la prosecuzione dell'attività e non ricorrendo nessuna delle ipotesi tassative indicate dal comma 4, all'amministrazione fosse preclusa la repressione di abusi edilizi esercitando il potere di autotutela.
Secondo la Consulta, l'articolo 19 può e deve essere letto nel senso che il decorso del termine di legge non esclude affatto il ricorso all'autotutela previsto dal comma 3, il quale si aggiunge alla ulteriore potestà di intervento configurata dal comma 4, esercitabile «in caso di pericolo di danno per gli interessi ivi indicati».
L'esame della disposizione, infatti, deve essere effettuato inserendola «nel più ampio contesto costituito dalla configurazione normativa dei poteri amministrativi di repressione dell'abuso edilizio con cui il legislatore ha inteso accompagnare e completare la riforma dei titoli abilitativi all'edificazione, culminata con l'introduzione della segnalazione certificata di inizio attività».
La sentenza evidenzia come proprio il rilevante interesse costituzionale di garantire un armonico sviluppo del territorio e preservarne l'integrità, abbia indotto il legislatore ad introdurre «un rimedio che, per i casi di più grave sacrificio del bene pubblico, possa consentire di superare l'affidamento ingenerato dalla Scia».
Negli stessi termini si è espressa di recente anche la giurisprudenza di merito. Il Tar Emilia Romagna (sezione di Bologna sentenza 272/2912), ha evidenziato come indipendentemente dalla natura giuridica della Dia (o della Scia), il mancato rispetto del termine di legge di 30 giorni «comporta la definitiva preclusione dell'esercizio del potere vincolato di controllo inibitorio potendo venire in rilievo soltanto il discrezionale potere di autotutela».
Questo sarebbe «l'unico concreto vantaggio per il privato, in termini di tempestività del l'azione amministrativa e conseguentemente di certezza e di affidamento, che ha indotto il legislatore a sottoporre alcuni interventi edilizi alla più snella disciplina della Dia in luogo del procedimento necessario, per altri interventi edilizi più rilevanti, di un titolo abilitativo espresso».
Alla luce di tali pronunce è quindi possibile individuare distinte possibilità di intervento per la Dia e per la Scia in materia edilizia:
- il potere inibitorio di carattere generale, esercitabile nel termine di 30 giorni (articolo 19, commi 3 e 6-bis, legge 241/1990, e articolo 23, comma 6, del Testo unico), in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti per l'avvio dell'attività, salva la possibilità per il privato di conformarsi alle previsioni di legge;
- la specifica potestà di intervento contemplata dall'articolo 19, comma 4, esercitabile anche dopo il decorso del termine di 30 giorni, ma unicamente nel caso di pericolo di danno per:
- il patrimonio artistico e culturale;
- l'ambiente;
- la salute ;
- la sicurezza pubblica;
- la difesa nazionale;
sempre con possibilità di conformazione dell'attività dei privati alla normativa vigente;
- il generale potere di autotutela, anche questo esercitabile dopo lo scadere dei 30 giorni e nel rispetto dei presupposti indicati agli articoli 21-quinquies e 21-nonies della legge 241/1990, quindi, nel caso di annullamento di ufficio, comunque entro un termine ragionevole.
A tali poteri, inoltre, andrebbero aggiunte le possibilità di intervento previste dall'articolo 27 del Testo unico, visto l'esplicito richiamo dell'articolo 19, comma 6-bis alle disposizioni relative alla vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni di cui al Dpr 380/2001 e alle leggi regionali in materia.
La vigilanza e il potere di autotutela sono senz'altro esercitabili anche nelle ipotesi di attività di edilizia libera, laddove questa non risulti rispettosa dei parametri indicati dall'articolo 6 del Testo unico.
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LE SANZIONI
1 - I TERZI - Il vicino può chiedere alla Pa di fermare la Scia o la Dia
Contro la presentazione di una Dia o una Scia, ritenute dal terzo contrarie alla legge, il regime della tutela giurisdizionale è oggi contenuto nell'articolo 19, legge 241/1990. La norma, al comma 6-ter, esclude innanzitutto che la Dia e la Scia siano provvedimenti amministrativi taciti direttamente impugnabili, aderendo in tal modo alle conclusioni cui era giunta l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 15/2011, salvo poi discostarsene per ciò che attiene alle forme di tutela giurisdizionale.
Il secondo periodo dello stesso comma stabilisce infatti che i terzi possano solo sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, sia loro consentita «esclusivamente», la proposizione dell'azione prevista dall'articolo 31 del Dlgs 104/2010, cioè l'azione contro il silenzio della Pa.
Secondo la giurisprudenza (da ultimo Tar Lombardia-Milano 1075/2012), la "sollecitazione" dei poteri di verifica della Pa da parte del terzo non può essere una generica denuncia di eventuali abusi edilizi e, anche se non necessita di formule specifiche, deve comunque possedere alcuni requisiti minimi, atti a garantire la serietà dell'istanza e a delineare un obbligo di provvedere. Tra questi la forma scritta, l'indicazione, almeno sommaria, della lamentata illegittimità delle opere edilizie e la richiesta di esercizio del potere/dovere di verifica e di eventuale repressione dell'abuso. Se questo tipo di istanza rimane inascoltata potrà configurarsi il silenzio-inadempimento impugnabile.
A fronte della più restrittiva ipotesi normativa, il Consiglio di Stato (Sez. IV, 4255/2012 e 6614/2011) ammette più ampie forme di tutela del terzo, sempre traendo spunto dalla pronuncia 15/2011, secondo cui Scia e Dia sono dichiarazioni imputabili a manifestazione di volontà privata dalla quale scaturisce un procedimento doveroso di verifica che, in assenza di requisiti per l'avvio o la continuazione dell'attività, si conclude con un diniego espresso o tacito di adozione del provvedimento inibitorio.
Il terzo, a tutela del proprio interesse pretensivo al corretto esercizio della potestà di verifica e controllo, potrà proporre l'azione di annullamento dell'atto (espresso o tacito) di diniego di adozione del provvedimento inibitorio, entro l'usuale termine di impugnazione, decorrente dalla piena conoscenza dell'atto lesivo (cioè la percezione dell'esistenza di un provvedimento e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire). Inoltre, congiuntamente o separatamente, potrà proporre l'azione di adempimento dell'obbligo dell'amministrazione di adottare i provvedimenti interdittivi o restrittivi, da esercitare comunque nel termine di un anno previsto dall'articolo 31, comma 3, Dlgs 104/2010, per l'azione avverso il silenzio.
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2 - I PROFESSIONISTI  - Per i tecnici aumentano responsabilità e sanzioni
Procedure snelle aggravano la responsabilità dei professionisti. Con lo sportello unico dell'edilizia ai tecnici è chiesta una collaborazione di tipo sostitutivo nei confronti della Pa, ma è una collaborazione rischiosa. In materia edilizia, chi costruisce deve asseverare (cioè dichiarare, assumendosene la responsabilità) che le opere da realizzare siano conformi agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi e alle leggi.
In caso di errore, il professionista risponde al committente (se emergono danni o ritardi), verso l'amministrazione (per i reati di falso, in base agli articoli 359 e 481 del Codice penale), nonché verso l'ordine professionale (per le sanzioni disciplinari).
Tutto ciò secondo un principio di gradualità che oscilla dalla colpa lieve a quella grave, secondo una scansione che valuta le difficoltà di accesso e comprensione dei dati (norme di piano, circolari, prassi), la prestazione richiesta (di routine oppure originale), i tempi e modi di esecuzione dell'incarico. I casi più gravi sono quelli in cui il tecnico espone una dolosa rappresentazione della realtà (ad esempio, non rappresenta una distanza che andava rispettata). È invece esclusa la responsabilità del professionista che, non avendo una conoscenza diretta, è indotto in errore dal comportamento del privato (ad esempio, circa l'epoca di costruzione di un manufatto): in tal caso è il privato a rispondere della stessa pena cui andrebbe incontro il professionista nell'attività di attestazione. L'errore professionale (commesso cioè senza dolo) genera responsabilità se non è scusabile: il tecnico risponde, come tutti i professionisti, anche per colpa lieve cioè per errori dovuti a leggerezza o generica trascuratezza. Solo nel caso in cui emergano particolari difficoltà nell'espletamento dell'incarico, il professionista vede alleviata la propria responsabilità, rispondendo solo per colpa grave, cioè per grave ed inescusabile violazione di principi o prassi consolidate.
È in ogni caso dovere del professionista rivolgersi a uno specialista se emergono speciali difficoltà. Se il professionista di media capacità non lo fa, risponde per colpa lieve anche se la prestazione da lui svolta è di particolare difficoltà.
La lettura dei piani urbanistici non è ritenuta di elevata difficoltà e nei casi dubbi il tecnico potrà allegare all'asseverazione un foglio illustrativo che chiarisca il ragionamento adottato.
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3 - IMPIEGATI PUBBLICI - I funzionari in ritardo rischiano di pagare i danni
Se lo sportello unico non ritiene che le dichiarazioni indirizzategli siano utili o sufficientemente chiare, può chiedere integrazioni, e nei casi più rilevanti inviare una comunicazione di preavviso di archiviazione della pratica: questo è previsto dall'articolo 10-bis della legge 241/1990, affinché il privato interessato possa effettuare rettifica o cercare di convincere della validità della propria dichiarazione.
Se lo sportello dubita del contenuto della dichiarazione non può chiedere ulteriori attestazioni o perizie (articolo 9-bis, Dpr 380/2001) ma se ritiene che la dichiarazione non sia corrispondente al vero, può segnalare la circostanza all'autorità giudiziaria (articolo 19, comma 6, legge 241/1990, articoli 359 e 481 del Codice penale).
Se il funzionario incaricato della pratica presso lo sportello ritarda indebitamente la procedura, vi sono rischi di risarcimento danni e conseguenze di carriera a carico del funzionario stesso.
Ma perché il privato ottenga il risarcimento danni occorre dimostrare che il ritardo ha frenato un procedimento che sicuramente sarebbe giunto a risultati favorevoli. Se, al contrario, una procedura tempestiva sarebbe stata inutile perché non avrebbe comunque condotto ad un provvedimento favorevole per il privato, non è possibile chiedere il risarcimento per i danni causati dal mero ritardo (Consiglio di Stato sentenza 2535/2012). Se il ritardo non è giustificato, si possono chiedere i danni sia commerciali (il ritardo nella vendita di un bene, la perdita di occasioni) sia i danni biologici (affanni, ansia, depressione, problemi neurologici): ad esempio, il Consiglio di Stato (sentenza 1271/2011) ha riconosciuto un indennizzo di 11mila euro per danni biologici e 44mila per danni economici conseguenti ad un ritardo di due anni nel rilascio di un permesso di costruire.
In proprio, il pubblico dipendente che omette o ritarda atti rischia danni alla carriera (articolo 2, comma 9, della legge 241/1990, articolo 72, comma 3, Dpr 445/2000) cioè valutazioni negative di performance, oltre a responsabilità disciplinari e amministrativo contabili.
In particolare il decreto sviluppo (Dl 83/2012) impone al Comune, in caso di inerzia del responsabile del procedimento di individuare (e pubblicare sul sito) il soggetto a cui attribuire poteri sostitutivi che dovrà sbloccare la pratica nella metà del tempo originariamente previsto e segnalare il dipendente inadempiente all'ufficio per i provvedimenti disciplinari.
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DOMANDE E RISPOSTE
1 - Documenti dal privato
Il professionista può raccogliere i pareri di varie amministrazioni prima di rivolgersi allo sportello unico comunale, oppure deve attender che la raccolta dei vari pareri avvenga attraverso il Comune?
Se il privato ha interesse ad ottenere una Dia invece di una Scia, o un permesso di costruire invece di una Dia, può scegliere la strada più articolata (ad esempio, per meglio presentarsi a terzi acquirenti o a banche finanziatrici). Chiedendo una Dia, si rinuncia ai vantaggi di rapidità della Scia ma si riesce ad evitare l'obbligo di utilizzare lo sportello unico comunale e quindi si possono raccogliere dalla Soprintendenza o dalla Regione i pareri ambientali o, ad esempio, sulla normativa antisismica (articolo 23, comma 4, Dpr 380/2001).
2 - Il «no» come ultima ratio
Lo sportello unico del Comune può rifiutare alcuni documenti forniti dal cittadino o dal professionista?
Un rifiuto immotivato, un respingimento dell'utente per incompletezza della domanda, non è previsto, né, tutto sommato, necessario. Domande incomplete o incomprensibili possono essere archiviate dopo aver informato l'utente con un motivato preavviso di archiviazione a norma dell'articolo 10-bis della legge 241/1990, dando cioè un termine per regolarizzare.
L'accentramento di varie attività nello sportello unico consentirà ai professionisti di seguire la pratica all'interno dell'ufficio con maggiore facilità. Anzi è auspicabile che lo sportello adotti protocolli di buona prassi, unificando la trattazione di domande analoghe
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: E' dubbia la legittimità, nell’ambito dello schema procedimentale di cui all’art. 159 del d.lgs. n. 42 del 2004, dell’esercizio del potere di annullamento ministeriale anche oltre lo spirare del prescritto termine di 60 giorni entro cui la Soprintendenza può annullare l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla regione o dall’ente locale delegato.
Il riconoscimento di siffatto potere contrasta in effetti con la natura pacificamente perentoria di quel termine e con gli effetti decadenziali che per giurisprudenza costante si riconnettono al suo inutile decorso.
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Dispone l'art. 21-nonies della l. 241/1990 che il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Nel caso in esame è completamente mancata da parte dell’autorità procedente ogni valutazione al riguardo, il che è particolarmente grave se si tiene conto che l’atto di annullamento è intervenuto a distanza di molti mesi dalle originarie autorizzazioni e che si era dunque formato un legittimo affidamento, in capo alla odierna società appellata, alla finalizzazione dell’intervento, peraltro implicante non marginali impegni finanziari anche soltanto per la elaborazione del progetto e della documentazione strumentale al procedimento autorizzatorio.

Vanno anzitutto condivise le considerazioni svolte dai primi giudici in ordine alla dubbia legittimità, nell’ambito dello schema procedimentale di cui all’art. 159 del d.lgs. n. 42 del 2004, dell’esercizio del potere di annullamento ministeriale anche oltre lo spirare del prescritto termine di sessanta giorni entro cui la Soprintendenza può annullare l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla regione o dall’ente locale delegato.
Il riconoscimento di siffatto potere contrasta in effetti con la natura pacificamente perentoria di quel termine e con gli effetti decadenziali che per giurisprudenza costante si riconnettono al suo inutile decorso.
Nel caso di specie è pacifico che l’atto di annullamento in autotutela, recante la data del 12.02.2010, sia intervenuto tardivamente sia con riguardo all’autorizzazione paesaggistica n. 42 del 30.06.2009 rilasciata dal Comune di Stroncone sul progetto in variante sia, a fortiori, in relazione all’originaria autorizzazione comunale n. 6 del 12.04.2008 (ed ai pareri positivi espressi dalla Soprintendenza con le note n. 9621 del 17.06.2008 e n. 15390 del 21.08.2008).
Ove poi si volesse sostenere che nel caso in esame l’Amministrazione abbia attinto (non già ai poteri speciali di controllo di cui al regime transitorio recato dall’art. 159 del Codice dei beni culturali e del paesaggio) bensì al generale potere di riesame, consustanziale all’attività provvedimentale amministrativa ed di per sé inestinguibile, e che pertanto non venga in gioco in questa sede il potere di annullamento di cui alla citata disposizione transitoria del Codice del paesaggio (e le specifiche regole, anche procedimentali, che lo riguardano), appaiono in ogni caso dirimenti le considerazioni svolte dai giudici di primo grado a proposito della conclamata violazione delle regole procedimentali di cui la legge impone l’osservanza in materia di autotutela decisoria.
Ed invero, stante la pacifica natura discrezionale dell’atto di annullamento d’ufficio in primo grado impugnato (intervenuto a distanza di notevole lasso temporale dal formarsi dei provvedimenti abilitativi nell’ambito del procedimento di autorizzazione unica all’impianto eolico rilasciato dal sindaco di Stroncone il 23.01.2009, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003), risultava in ogni caso necessario dar corso –ciò che è stato illegittimamente omesso– alla comunicazione d’avvio del procedimento di ritiro, ai sensi dell’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241.
Non par dubbio, infatti, che la società appellata avrebbe potuto offrire in sede procedimentale ogni utile apporto collaborativo al fine di superare le sopravvenute ragioni ostative individuate dalla Autorità soprintendentizia, tanto più che la stessa aveva accuratamente predisposto ogni atto istruttorio in funzione dell’ottenimento delle autorizzazioni necessarie alla realizzazione dell’intervento.
In ogni caso, ulteriore censura dirimente –che resiste alle censure d’appello– posta a fondamento del ricorso di primo grado e favorevolmente apprezzata dai giudici di primo grado risiede nella omessa valutazione comparativa degli interessi contrapposti che, nei procedimenti di secondo grado (art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241), non tollera eccezioni di sorta, per quanto rilevante possa essere l’interesse pubblico a salvaguardia del quale l’autotutela viene in concreto esercitata.
Dispone infatti il citato art. 21-nonies della legge sul procedimento che il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Nel caso in esame è completamente mancata da parte dell’autorità procedente ogni valutazione al riguardo, il che è particolarmente grave se si tiene conto che l’atto di annullamento è intervenuto a distanza di molti mesi dalle originarie autorizzazioni (in realtà, l’autorizzazione paesaggistica del 30.06.2009 sul progetto di variante ha lasciato impregiudicate le pregresse valutazioni del giugno e dell’agosto del 2008 riguardo alla compatibilità paesaggistica dell’intervento secondo l’originario progetto, stante la esiguità delle modifiche proposte in variante, incidenti soltanto sul tracciato delle opere accessorie) e che si era dunque formato un legittimo affidamento, in capo alla odierna società appellata, alla finalizzazione dell’intervento, peraltro implicante non marginali impegni finanziari anche soltanto per la elaborazione del progetto e della documentazione strumentale al procedimento autorizzatorio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.09.2012 n. 4997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa sottoscrizione di un documento è lo strumento mediante il quale l’autore fa propria la dichiarazione contenuta nello stesso, consentendo così non solo di risalire alla paternità dell’atto, ma anche di rendere l’atto vincolante verso i terzi destinatari dell’espressione di volontà: da qui la necessità dell’apposizione della firma in calce, ovvero a chiusura del documento, a significazione della volontà di condividere pienamente le asserzioni che precedono la sottoscrizione.
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Nelle procedure concorsuali, «l’offerta si configura come dichiarazione di volontà del privato preordinata alla costituzione di un rapporto giuridico e, dunque, se da una parte la sua sottoscrizione assolve alla funzione di assicurarne la provenienza, la serietà, l’affidabilità e l’insostituibilità, dall’altra assume il connotato di condizione essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sostanziale», sicché la sua mancanza inficia la validità e la ricevibilità della manifestazione di volontà contenuta nell’offerta.
La mancata sottoscrizione dell’offerta, quale atto integrante la domanda di partecipazione alla gara, non può, pertanto, essere considerata alla stregua di una mera irregolarità formale sanabile nel corso del procedimento, perché fa venire meno la certezza della provenienza e della piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo complesso.
L’offerta presentata dal concorrente in una gara pubblica riveste, infatti, natura di proposta contrattuale, ovvero di impegno negoziale alla stipula del contratto in caso di aggiudicazione: e proprio in quanto la sottoscrizione esprime la volontà di assumere tale impegno, la sua mancanza è causa di inesistenza della proposta negoziale.
L’essenzialità della sottoscrizione, oltre che nei principi generali appena esposti, trova del resto conforto nel dettato dell’art. 74, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, che testualmente prescrive che «le offerte hanno forma di documento cartaceo o elettronico e sono sottoscritte con forma manuale o digitale, secondo le norme di cui all’art. 77». Conseguentemente la disposta esclusione deve ritenersi conforme al dettato dell’art. 46, comma 1-bis, dello stesso d.lgs, il quale stabilisce che «la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice».

Il Collegio osserva che la sottoscrizione di un documento è lo strumento mediante il quale l’autore fa propria la dichiarazione contenuta nello stesso, consentendo così non solo di risalire alla paternità dell’atto, ma anche di rendere l’atto vincolante verso i terzi destinatari dell’espressione di volontà (CdS, V, 25.01.2011 n. 528): da qui la necessità dell’apposizione della firma in calce, ovvero a chiusura del documento, a significazione della volontà di condividere pienamente le asserzioni che precedono la sottoscrizione.
Come già affermato da questa Sezione con la sentenza n. 226 del 2012, nelle procedure concorsuali, «l’offerta si configura come dichiarazione di volontà del privato preordinata alla costituzione di un rapporto giuridico e, dunque, se da una parte la sua sottoscrizione assolve alla funzione di assicurarne la provenienza, la serietà, l’affidabilità e l’insostituibilità, dall’altra assume il connotato di condizione essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sostanziale», sicché la sua mancanza inficia la validità e la ricevibilità della manifestazione di volontà contenuta nell’offerta (CdS, V, 07.11.2008 n. 5547).
La mancata sottoscrizione dell’offerta, quale atto integrante la domanda di partecipazione alla gara, non può, pertanto, essere considerata alla stregua di una mera irregolarità formale sanabile nel corso del procedimento, perché fa venire meno la certezza della provenienza e della piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo complesso (CdS, IV, 31.03.2010, n. 1832).
L’offerta presentata dal concorrente in una gara pubblica riveste, infatti, natura di proposta contrattuale, ovvero di impegno negoziale alla stipula del contratto in caso di aggiudicazione: e proprio in quanto la sottoscrizione esprime la volontà di assumere tale impegno, la sua mancanza è causa di inesistenza della proposta negoziale.
L’essenzialità della sottoscrizione, oltre che nei principi generali appena esposti, trova del resto conforto nel dettato dell’art. 74, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, che testualmente prescrive che «le offerte hanno forma di documento cartaceo o elettronico e sono sottoscritte con forma manuale o digitale, secondo le norme di cui all’art. 77». Conseguentemente la disposta esclusione deve ritenersi conforme al dettato dell’art. 46, comma 1-bis, dello stesso d.lgs, il quale stabilisce che «la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice» (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 19.09.2012 n. 1206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINei contratti d’appalto l’Amministrazione aggiudicatrice non è obbligata a stipulare il contratto con il soggetto aggiudicatario ed essa ben può rimuovere gli effetti dell’atto di aggiudicazione provvisoria e finanche di quello di aggiudicazione definitiva, purché la conseguente azione amministrativa sia condotta coi necessari crismi della legittimità.
Secondo un principio pacificamente affermato in giurisprudenza e condiviso dal Collegio, infatti, «nei contratti d’appalto l’Amministrazione aggiudicatrice non è obbligata a stipulare il contratto con il soggetto aggiudicatario ed essa ben può rimuovere gli effetti dell’atto di aggiudicazione provvisoria e finanche di quello di aggiudicazione definitiva, purché la conseguente azione amministrativa sia condotta coi necessari crismi della legittimità» (TAR Torino Piemonte, II, 03.04.2012, n. 385; TAR Toscana, II, 01.09.2011, n. 1372; conforme TAR Sicilia, Catania, I, 25.02.2011, n. 463) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 19.09.2012 n. 1202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'esatta qualificazione di un provvedimento va effettuata tenendo conto del suo effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'amministrazione.
L'apparenza derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto stesso non è vincolante, né può prevalere sulla sostanza e neppure determina di per sé un vizio di legittimità dell'atto, purché ovviamente sussistano i presupposti formali e sostanziali corrispondenti al potere effettivamente esercitato.

Costituisce peraltro approdo consolidato della giurisprudenza quello per cui “l'esatta qualificazione di un provvedimento va effettuata tenendo conto del suo effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'amministrazione.
L'apparenza derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto stesso non è vincolante, né può prevalere sulla sostanza e neppure determina di per sé un vizio di legittimità dell'atto, purché ovviamente sussistano i presupposti formali e sostanziali corrispondenti al potere effettivamente esercitato.
” (TAR Campania Napoli, sez. I, 06.02.2006, n. 1623) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.09.2012 n. 4942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIParte della giurisprudenza ha affermato la sussistenza dell'obbligo di avviso dell'avvio del procedimento anche nella ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l'accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa. Secondo tale tesi, invero, non sarebbe rinvenibile alcun principio di ordine logico o giuridico che possa impedire al privato, destinatario di un atto vincolato, di rappresentare all'amministrazione l'inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma, esercitando preventivamente sul piano amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede giudiziaria.
In definitiva, quello che rileva è la complessità dell’accertamento da effettuare.
Secondo altra prospettazione, invece, “le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la comunicazione è superflua -con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell'azione amministrativa- quando l'interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono comunque all'apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti.
In materia di comunicazione di avvio prevalgono, quindi, canoni interpretativi di tipo sostanzialistico e teleologico, non formalistico. Poiché l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7 l. 07.08.1990 n. 241 è strumentale ad esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere -in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento- l'omissione di tale formalità non vizia il procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione.
Alla luce di questa linea interpretativa si può affermare che la comunicazione di avvio del procedimento dovrebbe diventare superflua quando: l'adozione del provvedimento finale è doverosa (oltre che vincolata) per l'amministrazione; i presupposti fattuali dell'atto risultano assolutamente incontestati dalle parti; il quadro normativo di riferimento non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili; l'eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo formale di comunicazione, non priverebbe l'amministrazione del potere (o addirittura del dovere) di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto (anche in relazione alla decorrenza dei suoi effetti giuridici)”.
Tale orientamento da ultimo esposto appare al Collegio condivisibile, in quanto rispettoso delle garanzie procedimentali avulse da meccanicistiche applicazioni a natura essenzialmente formalistica.

Si osserva al riguardo che la necessità della comunicazione dell’avvio del procedimento ai destinatari dell’atto finale è stata prevista in generale dal menzionato art. 7 L. 241/1990 non soltanto per i procedimenti complessi che si articolano in più fasi (preparatoria, costitutiva ed integrativa dell’efficacia), ma anche per i procedimenti semplici che si esauriscono direttamente con l’adozione dell’atto finale, i quali comunque comportano una fase istruttoria da parte della stessa autorità emanante.
La portata generale del principio è confermata dal fatto che il legislatore stesso (art. 7, 1° comma, ed art. 13 L. 241/1990) si è premurato di apportare delle specifiche deroghe (speciali esigenze di celerità, atti normativi, atti generali, atti di pianificazione e di programmazione, procedimenti tributari) all’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento, con la conseguenza che negli altri casi deve in linea di massima garantirsi tale comunicazione, salvo che non venga accertata in giudizio la sua superfluità in quanto il provvedimento adottato non avrebbe potuto essere diverso anche se fosse stata osservata la relativa formalità (cfr. CdS, sez. V n.2823 del 22.05.2001 e n. 516 del 04.02.2003; sez. VI n. 686 del 07.02.2002).
Ha dato luogo a contrasti, in dottrina ed in giurisprudenza, la risposta al quesito relativo alla possibilità che la fase procedimentale indicata possa essere omessa o compressa per il fatto che si sia in presenza di provvedimento a contenuto vincolato.
Deve rilevarsi in proposito che parte della giurisprudenza ha affermato la sussistenza dell'obbligo di avviso dell'avvio del procedimento anche nella ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l'accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa (cfr. CdS sez. VI 20.04.2000 n. 2443; CdS 2953/2004; 2307/2004 e 396/2004). Secondo tale tesi, invero, non sarebbe rinvenibile alcun principio di ordine logico o giuridico che possa impedire al privato, destinatario di un atto vincolato, di rappresentare all'amministrazione l'inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma, esercitando preventivamente sul piano amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede giudiziaria.
In definitiva, quello che rileva è la complessità dell’accertamento da effettuare (V. CdS, sez. VI n. 686 del 07.02.2002).
Secondo altra prospettazione, invece, “le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la comunicazione è superflua -con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell'azione amministrativa- quando l'interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono comunque all'apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti.
In materia di comunicazione di avvio prevalgono, quindi, canoni interpretativi di tipo sostanzialistico e teleologico, non formalistico. Poiché l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7 l. 07.08.1990 n. 241 è strumentale ad esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere -in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento- l'omissione di tale formalità non vizia il procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione.
Alla luce di questa linea interpretativa si può affermare che la comunicazione di avvio del procedimento dovrebbe diventare superflua quando: l'adozione del provvedimento finale è doverosa (oltre che vincolata) per l'amministrazione; i presupposti fattuali dell'atto risultano assolutamente incontestati dalle parti; il quadro normativo di riferimento non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili; l'eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo formale di comunicazione, non priverebbe l'amministrazione del potere (o addirittura del dovere) di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto (anche in relazione alla decorrenza dei suoi effetti giuridici)
.” (Consiglio Stato, sez. IV, 30.09.2002, n. 5003)
Tale orientamento da ultimo esposto appare al Collegio condivisibile, in quanto rispettoso delle garanzie procedimentali avulse da meccanicistiche applicazioni a natura essenzialmente formalistica.
Sotto altro profilo, conforto a tale interpretazione si rinviene in relazione al sopravvenuto disposto del comma 2 dell’art. 21-octies legge 15/2005, specificamente riferita alla violazione procedimentale dell’articolo 7, ed applicabile tanto alla ipotesi di atto vincolato che a quella di atto discrezionale: la novella legislativa ha previsto che l’amministrazione può dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato , così superando la censura di carattere formale (per una recente ricostruzione del sistema alla luce della “novella”, si veda Consiglio Stato, sez. VI, 07.01.2008, n. 19).
Essa è applicabile in astratto ratione temporis anche alle controversie pendenti stante la natura processuale della norma.
L'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, il quale stabilisce che il provvedimento amministrativo non è annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'Amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, costituisce disposizione di carattere processuale, applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della l. n. 15 del 2005.
L'orientamento in questione poggia sistematicamente sull'evidente ratio della disposizione da ultimo richiamata, volta a far prevalere gli aspetti sostanziali su quelli formali nelle ipotesi in cui le garanzie procedimentali non produrrebbero comunque alcun vantaggio a causa della mancanza di un potere concreto di scelta da parte dell'Amministrazione (Consiglio Stato, sez. VI, 18.02.2011, n. 1040) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.09.2012 n. 4925 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl requisito dell’esperienza nello specifico settore oggetto dell’appalto, ex art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006, deve essere inteso in maniera coerente con la diversità delle competenze richieste in relazione al complesso della prestazione prevista, senza necessità che la specifica competenza dei componenti della commissione di gara debba coprire ogni aspetto della procedura (trattandosi di figure idonee a garantire la competenza giuridico-amministrativa sempre necessaria nello svolgimento di procedimenti di evidenza pubblica).
Non è necessario, pertanto, che l'esperienza professionale di ciascun componente della Commissione copra tutti i possibili ambiti oggetto di gara, in quanto è la Commissione, unitariamente considerata, che deve garantire quel grado di conoscenze tecniche richiesto nella specifica fattispecie, in ossequio al principio di buon andamento della P.A..

Ciò in primo luogo perché il requisito dell’esperienza nello specifico settore oggetto dell’appalto, ex art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006, deve essere inteso in maniera coerente con la diversità delle competenze richieste in relazione al complesso della prestazione prevista, senza necessità che la specifica competenza dei componenti della commissione di gara debba coprire ogni aspetto della procedura (trattandosi di figure idonee a garantire la competenza giuridico-amministrativa sempre necessaria nello svolgimento di procedimenti di evidenza pubblica.); non è necessario, pertanto, che l'esperienza professionale di ciascun componente della Commissione copra tutti i possibili ambiti oggetto di gara, in quanto è la Commissione, unitariamente considerata, che deve garantire quel grado di conoscenze tecniche richiesto nella specifica fattispecie, in ossequio al principio di buon andamento della P.A. (Consiglio di Stato, sez. V, 10.08.2011, n. 4756).
In secondo luogo perché non è stato adeguatamente dimostrato che la diversa composizione della commissione avrebbe determinato un diverso esito della gara (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.09.2012 n. 4916 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl proprietario deve ritenersi passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell'abuso. Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua assoluta estraneità all' abuso edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato ad eseguire.
L’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene.
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L'acquisizione gratuita dell'area non è una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito, in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali.
Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
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Al fine di configurare la responsabilità del proprietario di un'area per la realizzazione di una costruzione abusiva è necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o affinità tra responsabile e proprietario, della sua eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa.

L'art. 31, commi 2 e 3 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che "il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3. Se il responsabile dell' abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune".
Dall'esame della disposizione richiamata emerge che il proprietario deve ritenersi passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell'abuso. Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua assoluta estraneità all' abuso edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato ad eseguire (cfr. tra le tante Consiglio di Stato, IV, 03.05.2011, n. 2639; TAR Lazio, Roma, II, 14.02.2011, n. 1395; TAR Umbria, 25.11.2008, n. 787).
Secondo la consolidata giurisprudenza condivisa dal Collegio, l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene (cfr. in termini Tar Lazio, Latina, 01.09.2008, n. 1026; Tar Campania, Napoli, II, 19.10.2006, n. 8673).
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Sul punto, la Corte Costituzionale (cfr. sentenza n. 345 del 15.07.1991) ha precisato che l'acquisizione gratuita dell'area non è una misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito, in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali. Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
La Cassazione ha, inoltre, affermato che al fine di configurare la responsabilità del proprietario di un'area per la realizzazione di una costruzione abusiva è necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o affinità tra responsabile e proprietario, della sua eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa (cfr. Cassazione penale, sez. III, 12.04.2005, n. 26121)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 17.09.2012 n. 3879 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’art. 48 del codice dei contratti pubblici (D.lgs. n. 163/2006) richiede che le imprese sorteggiate (e, in diverso momento, l’aggiudicatario e il concorrente secondo classificato) "comprovino" entro dieci giorni dalla data della richiesta -termine che è da ritenere perentorio, salvo il caso di oggettivo impedimento alla produzione della documentazione non in disponibilità- il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito.
Poiché la legge stabilisce espressamente che l’esclusione dell’impresa dalla gara è disposta “quando tale prova non sia fornita” si deve ritenere che tale prova possa essere fornita nei termini qualora inviata entro i dieci giorni previsti dalla legge, anche se pervenuta il giorno successivo alla scadenza del medesimo.
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Le cause di esclusione dalle gare sono, invero, tipiche e tassative in considerazione del fatto che possono comprimere posizioni di diritto soggettivo garantite dal diritto comunitario e dalla Costituzione, quali la libertà di concorrenza e la capacità negoziale.
Dal principio di tassatività discende l’impossibilità per la stazione appaltante di prevedere requisiti soggettivi di partecipazione ulteriori e diversi e più restrittivi di quelli indicati dalla legge. Ne consegue che, in presenza di un’equivoca formulazione del bando o del disciplinare di gara, recante i requisiti di partecipazione, è corretto l’operato della stazione appaltante che abbia interpretato la disposizione nel senso di richiedere esclusivamente i requisiti soggettivi previsti dalla legge e non quelli non rientranti nella discrezionale potestà della stazione appaltante.
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La dichiarazione relativa agli amministratori cessati può essere resa dall’amministratore in carica.
L’art. 38 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce, infatti, che l’attestazione del possesso dei requisiti può essere effettuata mediante dichiarazione sostitutiva in conformità alle previsioni del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al d.P.R. 28.12.2000, n. 445, il quale prevede che tali dichiarazioni possano riguardare anche terze persone.

In merito al primo motivo occorre rilevare che l’art. 48 del codice dei contratti pubblici (D.lgs. n. 163/2006) richiede che le imprese sorteggiate (e, in diverso momento, l’aggiudicatario e il concorrente secondo classificato) "comprovino" entro dieci giorni dalla data della richiesta -termine che è da ritenere perentorio, salvo il caso di oggettivo impedimento alla produzione della documentazione non in disponibilità- il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito (da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV, 16.02.2012, n. 810).
Poiché la legge stabilisce espressamente che l’esclusione dell’impresa dalla gara è disposta “quando tale prova non sia fornita” si deve ritenere, in conformità a quanto previsto nel caso specifico dal bando di gara, che tale prova sia stata fornita nei termini in quanto inviata entro i dieci giorni previsti dalla legge, anche se pervenuta il giorno successivo alla scadenza del medesimo.
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Il terzo motivo va respinto, essendo stato fondato su una lettura del disciplinare di gara volto ad estendere le dichiarazioni a soggetti diversi da quelli previsti dalla legge, prevedendo addirittura l’esclusione dell’impresa che non vi ottemperi: le cause di esclusione dalle gare sono, invero, tipiche e tassative in considerazione del fatto che possono comprimere posizioni di diritto soggettivo garantite dal diritto comunitario e dalla Costituzione, quali la libertà di concorrenza e la capacità negoziale.
Dal principio di tassatività discende l’impossibilità per la stazione appaltante di prevedere requisiti soggettivi di partecipazione ulteriori e diversi e più restrittivi di quelli indicati dalla legge. Ne consegue che, in presenza di un’equivoca formulazione del bando o del disciplinare di gara, recante i requisiti di partecipazione, è corretto l’operato della stazione appaltante che abbia interpretato la disposizione nel senso di richiedere esclusivamente i requisiti soggettivi previsti dalla legge e non quelli non rientranti nella discrezionale potestà della stazione appaltante (in questo senso Cons. Stato sez. V, sentenza n. 3213 del 21.05.2010; TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 17.01.2012, n. 130).
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Il quinto motivo è deve essere respinto, posto che la dichiarazione relativa agli amministratori cessati può essere resa dall’amministratore in carica (Cons. Stato, IV, 27.06.2011, n. 3862). L’art. 38 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce, infatti, che l’attestazione del possesso dei requisiti può essere effettuata mediante dichiarazione sostitutiva in conformità alle previsioni del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al d.P.R. 28.12.2000, n. 445, il quale prevede che tali dichiarazioni possano riguardare anche terze persone
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.09.2012 n. 2347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIL’art. 42 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che negli appalti di servizi e forniture la dimostrazione delle capacità tecniche dei concorrenti può essere fornita in uno o più dei seguenti modi, a seconda della natura, della quantità o dell'importanza e dell'uso delle forniture o dei servizi: a) presentazione dell'elenco dei principali servizi o delle principali forniture prestati negli ultimi tre anni con l'indicazione degli importi, delle date e dei destinatari, pubblici o privati, dei servizi o forniture stessi; in caso di servizi e forniture prestati a favore di amministrazioni o enti pubblici, essi sono provati da certificati rilasciati e vistati dalle amministrazioni o dagli enti medesimi; per i servizi e forniture prestati a privati, l'effettuazione effettiva della prestazione è dichiarata da questi o, in mancanza, dallo stesso concorrente.
La norma è dunque chiara nello stabilire le particolari modalità con cui la prova della capacità tecnica può essere data: ne consegue che la presentazione delle fatture relative al servizio non è elemento sufficiente a superare la presunzione legale del contenuto e dei caratteri della prestazione desumibile dal corrispondente certificato, né il fatto che non esista un modello legale per la certificazione dei servizi può far ritenere che le espressioni utilizzate nei certificati presentati trovino giustificazione esclusivamente nel modello utilizzato.

In merito occorre rilevare che l’art. 42 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che negli appalti di servizi e forniture la dimostrazione delle capacità tecniche dei concorrenti può essere fornita in uno o più dei seguenti modi, a seconda della natura, della quantità o dell'importanza e dell'uso delle forniture o dei servizi: a) presentazione dell'elenco dei principali servizi o delle principali forniture prestati negli ultimi tre anni con l'indicazione degli importi, delle date e dei destinatari, pubblici o privati, dei servizi o forniture stessi; in caso di servizi e forniture prestati a favore di amministrazioni o enti pubblici, essi sono provati da certificati rilasciati e vistati dalle amministrazioni o dagli enti medesimi; per i servizi e forniture prestati a privati, l'effettuazione effettiva della prestazione è dichiarata da questi o, in mancanza, dallo stesso concorrente.
La norma è dunque chiara nello stabilire le particolari modalità con cui la prova della capacità tecnica può essere data: ne consegue che la presentazione delle fatture relative al servizio non è elemento sufficiente a superare la presunzione legale del contenuto e dei caratteri della prestazione desumibile dal corrispondente certificato, né il fatto che non esista un modello legale per la certificazione dei servizi può far ritenere che le espressioni utilizzate nei certificati presentati trovino giustificazione esclusivamente nel modello utilizzato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.09.2012 n. 2347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le modifiche apportate all'art. 38 del D. Lgs. n. 163 del 2006 per effetto dell'art. 4, c. 2, del D.L. n. 470 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 106 del 2011, non riguardano soltanto gli appalti dei lavori pubblici.
Le imprese partecipanti alle gare d'appalto in forma associata hanno l'obbligo di indicare già nell'offerta le quote di partecipazione non soltanto al raggruppamento, costituendo o costituito, ma anche dei lavori.

Le modifiche apportate all'art. 38 del D. Lgs. n. 163 del 2006 per effetto dell'art. 4, c. 2, del D.L. n. 470 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 106 del 2011, non riguardano soltanto gli appalti dei lavori pubblici. Sebbene possano suscitare dubbi e perplessità alcune espressioni letterali utilizzate, tuttavia le modifiche in questione, concernendo i requisiti generali per la partecipazione alle gare di appalto di cui all'art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 ("Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE"), si applicano a tutti gli appalti ivi disciplinati (lavori, servizi e forniture).
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Secondo un prevalente indirizzo giurisprudenziale, ai sensi dell'art. 37, c. 13, del D.Lgs. n. 163 del 2006, le imprese partecipanti alle gare d'appalto in forma associata hanno l'obbligo di indicare già nell'offerta le quote di partecipazione non soltanto al raggruppamento, costituendo o costituito, ma anche dei lavori, atteso che una dichiarazione "ex post" in sede di esecuzione non potrebbe assolvere allo stesso modo alle esigenze di trasparenza ed affidabilità che caratterizzano la gara, e deve sussistere anche una perfetta corrispondenza tra quota di lavori e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento e l'una e l'altra devono essere stabilite e manifestate dai componenti del raggruppamento all'atto della partecipazione alla gara, costituendo ambedue le dichiarazioni requisiti di ammissione alla gara, e non contenuto di obbligazione da far valere in sede di esecuzione del contratto, quand'anche non esplicitato dalla lex specialis.
E' stata conseguentemente ritenuta illegittima l'ammissione alla gara per l'appalto pubblico di servizi, qualora l'offerta proveniente da un'associazione temporanea di imprese non specifichi le parti del servizio che saranno eseguite dalle singole imprese e le quote di partecipazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.09.2012 n. 4895 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: Nessun addebito può muoversi all'operato della p.a per aver revocato la gara di appalto per la gestione del servizio calore degli immobili comunali e per averlo successivamente affidato direttamente ad una propria società controllata.
La giurisprudenza ha escluso ai fini dell'ammissibilità della domanda di risarcimento del danno la sufficienza del solo annullamento del provvedimento lesivo, ritenendo necessaria anche la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa.
Tuttavia, nel caso di specie, pur sussistendo ai fini dell'ammissibilità della domanda di risarcimento l'elemento oggetto della fattispecie risarcitoria (acclarata illegittimità dell'atto amministrativo, astrattamente foriero di danno), non si rinviene invece l'elemento soggettivo della colpa.
Infatti, nessun addebito può muoversi all'operato dell'amministrazione sotto il profilo della negligenza, dell'imperizia o dell'imprudenza per aver revocato (con la delibera ritenuta illegittima) la gara di appalto per la gestione del servizio calore degli immobili comunali e per averlo successivamente affidato, con separata deliberazione, direttamente ad una propria società controllata: tale scelta, infatti, tutt'altro che improvvisa, estemporanea ed ingiustificata (ancorché ritenuta illegittima), è stata determinata dalla convinzione della ricorrenza, nel caso di specie, delle condizioni per poter procedere all'affidamento diretto del servizio, condizioni consistenti nell'effettivo esercizio da parte dell'ente locale di un controllo sull'affidatario analogo a quello svolto sui propri servizi e nello svolgimento da parte dell'affidatario della maggior parte della propria attività con l'ente locale controllate.
Il fatto che tali criteri, in quanto meramente formali non siano stati ritenuti di per sé sufficienti alla configurazione del "controllo analogo" (solo in presenza del quale può procedersi all'affidamento diretto di un servizio ad una propria controllata), così determinando l'illegittimità della delibera di revoca della gara, non è sufficiente a far ritenere la sussistenza della colpa, giacché all'epoca in cui l'amministrazione ha operato quella scelta non vi era sul punto un sicuro e consolidato indirizzo giurisprudenziale ed interpretativo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.09.2012 n. 4894 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl termine di prescrizione dei crediti retributivi dovuti al pubblico dipendente è quinquennale e decorre in costanza del rapporto di lavoro.
Sulla base di questo orientamento si fondano numerose pronunce del Consiglio di Stato, con le quali si è affermato che "è pacifico che il principio della non decorrenza del termine di prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto lavorativo è stato introdotto per i soli rapporti di diritto privato e limitatamente ai rapporti non soggetti alla cosiddetta “tutela forte” del lavoratore e non invece per i rapporti di pubblico impiego, caratterizzati da una adeguata protezione contro forme arbitrarie di licenziamento" (in tal senso C.di S., VI, 16.11.2000, n. 4417, e C.di S., VI, 31.07.2003 n. 6140, che riprendono C. di S., V, n. 159/1995). Infatti "il datore di lavoro pubblico, in quanto istituzionalmente vincolato alle regole sulla discrezionalità amministrativa ed ai principi costituzionali di buon andamento e imparzialità è in condizione di operare una pressione ridotta rispetto ai propri dipendenti, anche su quelli a tempo" (C. di S., VI, n. 8 del 2001).
Pertanto “il termine di prescrizione dei crediti retributivi relativi ad un rapporto di lavoro con la P.A., per tutte le pretese riconosciute ai pubblici dipendenti che hanno natura retributiva, è quinquennale e decorre in costanza del rapporto stesso sebbene questo abbia carattere provvisorio o temporaneo, in quanto non è sostenibile, per la natura del rapporto, che il dipendente pubblico possa essere esposto a possibili ritorsioni e rappresaglie quando egli tuteli in via giudiziale i propri diritti ed interessi” (C. di S., V, 17.02.2004, n. 601; C.di S., V, 10.11.1992 n. 1243; C.d.S. sez. VI, 31.07.2003 4417; C.d.S. sez. VI, 16.11.2000 n. 6140; così anche le sentenze del Consiglio di Stato, sezione V, depositate il 03.04.2007 nn. 1486, 1487, 1488, 1489, 1490, 1491, 1492, 1493, 1494, 1495, 1496, 1497, 1498, 1499, 1500, 1501, 1502, 1503, 1504).
Di fronte a questo orientamento maggioritario si colloca un altro filone interpretativo, che ha ritenuto applicabile la regola della prescrizione decennale ai crediti attinenti al rapporto di pubblico impiego che presuppongano l'accertamento della posizione giuridica dell'interessato. Quest'ultimo filone si basa su una lettura combinata delle norme di cui agli articoli 2934 e 2935 c.c. per la quale la prescrizione, e dunque l'estinzione del diritto nel termine ordinario, comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto stesso può essere fatto valere. Di conseguenza nei casi in cui si rilevi incertezza sulla sussistenza e sui caratteri di una certa posizione giuridica, la prescrizione può iniziare il suo decorso solo dal momento dell'accertamento del diritto stesso.
Al riguardo si è affermato infatti che “in materia di crediti attinenti a rapporto di pubblico impiego si applica la prescrizione decennale qualora i crediti non derivino direttamente da norme recanti la disciplina del rapporto, ma presuppongano l'accertamento della posizione giuridica dell'interessato” (C. di S., V, 21.05.2004, n. 5973, che riprende C. di S., VI, 11.12.1996, n. 1736).
Secondo la ricorrente quest’ultimo orientamento sarebbe applicabile per risolvere la vertenza in quanto il diritto da lei vantato può essere fatto valere sul presupposto dell’accertamento giudiziale della natura del rapporto per cui il termine di prescrizione non decorre fino a quando non si sia concretizzato tale presupposto.
Tale impostazione non può essere condivisa.
Deve essere ribadito il principio secondo il quale il termine di prescrizione dei crediti retributivi dovuti al pubblico dipendente è quinquennale e decorre in costanza del rapporto di lavoro.
La norma applicabile al caso in esame è infatti l'articolo 2948 n. 4) per effetto del quale si prescrivono in cinque anni gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi e non gli articoli 2934 e 2935 c.c.
Ciò vale sia per quanto attiene ai rapporti di lavoro privato che quanto attiene a quelli pubblici con la differenza che, mentre per i primi la prescrizione comincia a decorrere solo una volta concluso il rapporto, per i secondi la prescrizione può cominciare a decorrere in corso di rapporto.
Questa diversità di trattamento si giustifica col fatto che la rinnovazione dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con la pubblica amministrazione non riveste carattere di normalità e pertanto non può esserci il timore da parte del prestatore di lavoro di non vedersi rinnovato il contratto perché tale situazione si presenta perfettamente conforme al principio secondo il quale l’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione avviene tramite regolare concorso.
Il caso che ora occupa sfugge all’applicazione dei principi generali appena riassunti.
Nel caso di specie i contratti a termine stipulati sono stati utilizzati, con la volontà di entrambe le parti, per procedere all'assunzione di personale pubblico dipendente senza il rispetto del generale principio del concorso.
I contratti di cui si tratta sono stati quindi caratterizzati da palese precarietà, ed il lavoratore non può vantare, nei confronti del datore di lavoro, la cosiddetta “tutela forte” presupposto del decorso della prescrizione in costanza di rapporto. (cfr. C.S. , V, 02.08.2011, n. 4570).
Inoltre, la regolare successione nel tempo dei contratti, interrotta solo dalla definitiva conclusione del rapporto, impone di considerarli alla stregua di un rapporto unico.
In conclusione, afferma il Collegio che i diversi periodi di lavoro dell’appellante devono essere considerati unitariamente, e che la prescrizione, quinquennale ai sensi dell’articolo 2948, n. 4, del codice civile, decorre dalla definitiva conclusione del rapporto, avvenuta nel 1992, per cui l’attivazione della pretesa avvenuta, a parte eventuali atti interruttivi, nell’anno 1995 con la proposizione del ricorso di primo grado, deve essere ritenuta tempestiva
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.09.2012 n. 4890 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa ragionevolezza delle misure di limitazione della partecipazione ai pubblici appalti deve essere valutata in relazione alle concrete caratteristiche del contratto da aggiudicare, e deve rispondere ad una necessità obiettiva.
Osserva il Collegio che la ragionevolezza delle misure di limitazione della partecipazione ai pubblici appalti deve essere valutata in relazione alle concrete caratteristiche del contratto da aggiudicare, e deve rispondere ad una necessità obiettiva (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.09.2012 n. 4889 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn mancanza di una disciplina speciale posta a tutela della…..”potenziale commutabilità della sanzione demolitoria in quella pecuniaria (art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore in sede di condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, l. n. 724 del 1994….la posizione di colui che abbia realizzato l'opera edilizia sulla base di un titolo annullato non si differenzia dagli altri soggetti che hanno invece realizzato l'opera abusiva senza titolo.
Risulta pertanto legittimo il riferimento e l’applicazione dell’art. 38 sopra citato.

Le stesse considerazioni devono ritenersi applicabili anche per quanto concerne i motivi a fondamento dell’impugnativa dell’ordinanza di demolizione del 06/06/2012 n. 4 nella parte in cui si sostiene la violazione dell’art. 38 del Dpr 380/2001 in cui l’Amministrazione sarebbe incorsa nel momento in cui avrebbe applicato “automaticamente” l’ordinanza di demolizione una volta posto in essere l’annullamento in autotutela del permesso di costruire. Si è avuto modo di evidenziare sul punto come l’Amministrazione abbia effettivamente posto in essere un distinto procedimento nel corso del quale ha verificato la mancanza della contiguità dei fondi e il carattere abusivo sopra ricordato. L’Amministrazione ha inoltre constatato l’applicabilità della sanzione della riduzione in pristino e, ciò, in considerazione del breve periodo di tempo trascorso, nell’ambito del quale erano stati realizzati i soli muri perimetrali.
Sul punto va ricordato che in mancanza di una disciplina speciale (non rinvenibile nel caso di specie) posta a tutela della…..”potenziale commutabilità della sanzione demolitoria in quella pecuniaria (art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore in sede di condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, l. n. 724 del 1994….la posizione di colui che abbia realizzato l'opera edilizia sulla base di un titolo annullato non si differenzia dagli altri soggetti che hanno invece realizzato l'opera abusiva senza titolo (Cons. Stato Sez. IV, 10.08.2011, n. 4770 riforma della sentenza del Tar Toscana-Firenze, sez. III, n. 6648/2010)”. Risulta pertanto legittimo il riferimento e l’applicazione dell’art. 38 sopra citato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.09.2012 n. 1181 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI titoli abilitativi sono impugnabili dai controinteressati dal momento in cui si possa ritenere integrata la conoscenza da parte dei terzi dell'intervento programmato. In particolare, tale orientamento postula che le opere abbiano raggiunto uno stadio e una consistenza tali da renderne chiara la lesività per le posizioni soggettive del confinante.
Detto orientamento giurisprudenziale deve, tuttavia, considerarsi “recessivo” rispetto a quella Giurisprudenza del Consiglio di Stato che, sempre ai fini di individuare il termine di impugnativa, ritiene comunque indispensabile verificare, nel concreto, in quale preciso momento il ricorrente abbia acquisito l’effettiva consapevolezza della lesione eventualmente manifestatasi.
Il termine dei lavori deve allora essere considerato una “presunzione” (peraltro “relativa”) dell’avvenuta conoscibilità della lesione ed, in quanto tale, non deve essere considerato applicabile tutte le volte che venga in rilievo sulla base di ulteriori elementi.
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L’orientamento prevalente del Consiglio di Stato ritiene che la nozione di “piena conoscenza…non postula necessariamente la conoscenza di tutti gli elementi, essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quindi, l’autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo”.
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La piena conoscenza del provvedimento causativo…non può ritenersi operante oltre ogni limite temporale ed in base ad elementi puramente esteriori, formali o estemporanei, quali ad esempio, atti d’iniziativa di parte (richieste d’accesso, istanze segnalazioni, ecc) con la conseguenza inaccettabile che l’attività dell’Amministrazione e le iniziative dei contro interessati restano soggette in definitivamente o per tempi dilatati alla possibilità di impugnazione anche quando l’interessato non si renda parte diligente nel far valere la pretesa entro i limiti temporali assicuratigli dalla legge.
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Nel contenzioso in materia edilizia la vicinitas non è elemento che possa ex se radicare la legittimazione al ricorso avverso il permesso di costruire in assenza di prove in ordine ai pregiudizi derivanti dal rilascio a terzi del suddetto titolo abilitativo.

Sul punto va rilevato come non possa condividersi la ricostruzione giuridica posta in essere dalla ricorrente per quanto riguarda il rispetto dei termini previsti per l’impugnativa e di cui al connaturato disposto di cui agli artt. 29 e 41 del codice del processo.
Parte ricorrente sostiene che il decorso di detti termini sia il risultato della piena conoscenza della lesività dell’atto, lesività che sarebbe stata pienamente “percepita” solo a seguito dell’esperimento del diritto di accesso. Tesi quest’ultima sostenuta sia nel proponimento del ricorso principale sia, ancora, per quanto concerne i successivi motivi aggiunti.
A tal fine il ricorrente riporta l’orientamento giurisprudenziale in base al quale, in materia edilizia, i titoli abilitativi sono impugnabili dai controinteressati dal momento in cui si possa ritenere integrata la conoscenza da parte dei terzi dell'intervento programmato. In particolare, tale orientamento postula che le opere abbiano raggiunto uno stadio e una consistenza tali da renderne chiara la lesività per le posizioni soggettive del confinante.
Detto orientamento giurisprudenziale deve, tuttavia, considerarsi “recessivo” rispetto a quella Giurisprudenza del Consiglio di Stato che, sempre ai fini di individuare il termine di impugnativa, ritiene comunque indispensabile verificare, nel concreto, in quale preciso momento il ricorrente abbia acquisito l’effettiva consapevolezza della lesione eventualmente manifestatasi (Consiglio di Stato sez. IV, 20.07.2011, n. 4374).
Il termine dei lavori deve allora essere considerato una “presunzione” (peraltro “relativa”) dell’avvenuta conoscibilità della lesione ed, in quanto tale, non deve essere considerato applicabile tutte le volte che venga in rilievo sulla base di ulteriori elementi, ipotesi quest’ultima verificatasi nel caso di specie.
Dall’esame della documentazione dedotta in giudizio si desume come i Sig.ri Virginio e Gaspare Mazzocco avevano presentato un’istanza (inviata per conoscenza agli attuali controinteressati) e, in data 04/11/2011, diretta ad ottenere, da parte del Comune, la verifica delle distanze tra le costruzioni confinanti.
Il successivo 19.03.2012, sempre i Sig.ri Virginio e Gaspare Mazzocco, avevano provveduto ad inviare al Comune un’analoga nota con la quale avevano reiterato la richiesta di verifica di legittimità dell’atto impugnato e, ciò, in considerazione dell’assunta violazione delle norme sulle distanze tra la stalla e l’edificio (presumibilmente in costruzione) di proprietà dei controinteressati.
L’invio di dette note dimostra come la lesività dell’opera fosse, in entrambe le date sopra ricordate, già del tutto manifesta.
Sul punto va inoltre ricordato come l’orientamento prevalente del Consiglio di Stato (Sez. IV, 13.06.2011, n. 3583) ritiene che la nozione di “piena conoscenza…non postula necessariamente la conoscenza di tutti gli elementi, essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quindi, l’autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo”.
Il tenore delle note inviate dalla parte ricorrente evidenzia inoltre come detta lesività costituisse oramai un dato di fatto oggettivo, in quanto strettamente correlato ad un dato ictu oculi verificabile e, in quanto tale, riconducibile alla presunta violazione delle regole sulle distanze.
Altresì censurabile è la tesi di parte ricorrente che vorrebbe far decorrere la piena conoscenza della “lesività” o dall’ultimazione dei lavori o, ancora, dall’acquisizione della documentazione successiva alla presentazione di un istanza di accesso agli atti. Sul punto è necessario ricordare quanto affermato da un’altrettanto recente Giurisprudenza nella parte ha sancito che... ”la piena conoscenza del provvedimento causativo…non può ritenersi operante oltre ogni limite temporale ed in base ad elementi puramente esteriori, formali o estemporanei, quali ad esempio, atti d’iniziativa di parte (richieste d’accesso, istanze segnalazioni, ecc) con la conseguenza inaccettabile che l’attività dell’Amministrazione e le iniziative dei contro interessati restano soggette in definitivamente o per tempi dilatati alla possibilità di impugnazione anche quando l’interessato non si renda parte diligente nel far valere la pretesa entro i limiti temporali assicuratigli dalla legge (Consiglio di Stato 05.03.2010 n. 1298)”.
Deve pertanto concludersi nel dichiarare l’irricevibilità del ricorso per tardività della sua proposizione e ai sensi di cui all’art. 35, comma 1, lett. A) e, ciò, per quanto attiene i Sig. Virginio e Gaspare Mazzocco.
Va al contrario rilevata la mancanza di interesse a ricorrere per quanto riguarda gli altri soggetti ricorrenti, questi ultimi riferiti alle Sig. re Scalco Caterina, Rozzanigo Antonella e Mazzocco Marianna. Detti ricorrenti non hanno fornito alcun elemento a supporto atto a differenziare e qualificare il loro interesse a ricorrere.
Sul punto va ricordato come la Giurisprudenza prevalente (Cons. di Stato Sez. VI 27.01.2012 n. 420) ha affermato che “nel contenzioso in materia edilizia la vicinitas non è elemento che possa ex se radicare la legittimazione al ricorso avverso il permesso di costruire in assenza di prove in ordine ai pregiudizi derivanti dal rilascio a terzi del suddetto titolo abilitativo" (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.09.2012 n. 1179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sulle condizioni che devono sussistere per l'identificazione giuridica di un servizio pubblico.
Per identificare giuridicamente un servizio pubblico, non è indispensabile, a livello soggettivo, la natura pubblica del gestore, mentre è necessaria la vigenza di una previsione legislativa che, alternativamente, ne preveda l'istituzione e la relativa disciplina, oppure che ne rimetta l'istituzione e l'organizzazione all'Amministrazione.
Oltre alla natura pubblica delle regole che presiedono allo svolgimento delle attività di servizio pubblico e alla doverosità del loro svolgimento, è ancora necessario, nella prospettiva di un'accezione oggettiva della nozione, che tali attività presentino carattere economico e produttivo (e solo eventualmente costituiscano anche esercizio di funzioni amministrative), e che le utilità da esse derivanti siano dirette a vantaggio di una collettività, più o meno ampia, di utenti (in caso di servizi divisibili) o comunque di terzi beneficiari (in caso di servizi indivisibili) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.09.2012 n. 4870 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parafarmacie, luce (non) verde per le insegne luminose a croce.
E' illegittimo il provvedimento con il quale è stata rigettata l'istanza presentata dalla titolare di una parafarmacia, tendente a ottenere l'autorizzazione a installare, in corrispondenza del proprio esercizio, una croce bifacciale di colore blu, al centro della quale sarebbe stata inserita la scritta "parafarmacia".

La ricorrente, titolare di una parafarmacia, ha impugnato il provvedimento con cui il Comune ha negato alla medesima l’installazione di impianti pubblicitari strumentali all’attività svolta.
In particolare, ha eccepito l’illegittimità del diniego sulla scorta della violazione del D.Lgs. n. 153/2009, vigente in materia di disciplina delle farmacie; tanto, poiché la medesima, mediante la menzionata istanza, aveva chiesto l’autorizzazione a installare, al di fuori del proprio esercizio commerciale, una croce con impianto a neon di colore blu, con la scritta parafarmacia, proprio per differenziarla da quella riservata in via esclusiva ai titolari delle farmacie.
Costituitasi in giudizio, l’amministrazione ha eccepito in rito l’inammissibilità del ricorso in quanto sarebbe stato proposto avverso un atto meramente confermativo.
Il Collegio di Roma, in via preliminare, non ha condiviso l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla civica P.A..
Al riguardo ha evidenziato che l’amministrazione, con il provvedimento impugnato, aveva respinto la richiesta della ricorrente sulla considerazione per cui, analogamente a quanto espresso in merito a una precedente istanza, la competente unità organizzativa tecnica municipale aveva espresso parere contrario in ragione del contrasto con quanto previsto nella deliberazione di Giunta regionale n. 864/2006.
Sicché, ha precisato che il contestato diniego, sebbene provvisto di motivazione e statuizioni identiche a un precedente atto, era stato tuttavia adottato sulla base di una “rinnovata istruttoria”, incentrata su un nuovo parere che, seppur analogo a quello reso nella precedente istruttoria, aveva comportato una nuova valutazione dell’amministrazione comunale e, così, l'esercizio di un autonomo potere.
Per siffatte ragioni, ha ritenuto che il provvedimento impugnato non poteva essere considerato atto meramente confermativo, bensì un nuovo atto provvedimentale autonomamente impugnabile.
Con riferimento al merito della vicenda, l’adito Tribunale ha ritenuto il gravame fondato sia con riferimento alla violazione della deliberazione di Giunta regionale n. 864/2006, sia in relazione alla mancata osservanza delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 153/2009 (“Disciplina sui nuovi servizi erogati dalle farmacie nell’ambito del S.S.N.”).
E infatti, quanto alla menzionata deliberazione regionale, ha osservato che il medesimo atto, sotto la rubrica "insegna", in alcuna guisa contiene precipue indicazioni sulle denominazioni che possono essere usate per individuare gli esercizi commerciali diversi dalle farmacie che vendono medicinali.
L’atto deliberativo, non a caso, specifica unicamente che: "… in ogni caso non dovranno essere utilizzate denominazioni e simboli che possano indurre il cliente a ritenere che si tratti di una farmacia".
Di converso ha evidenziato che la deliberazione prevede espressamente l’ammissibilità dell’adozione della denominazione "parafarmacia", atteso il comune utilizzo del termine con riferimento a esercizi diversi dalle farmacie in cui si commercializzano prodotti di interesse sanitario.
Parallelamente, con riguardo alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 153/2009, il giudicante ha ricordato che l’art. 5 prevede che: "Al fine di consentire ai cittadini un'immediata identificazione delle farmacie operanti nell'ambito del Servizio sanitario nazionale, l'uso della denominazione «farmacia» e della croce di colore verde, su qualsiasi supporto cartaceo, elettronico o di altro tipo, è riservato alle farmacie aperte al pubblico e alle farmacie ospedaliere".
Considerato l’esposto dato normativo, il G.A. romano, dunque, ha sottolineato la sussistenza del solo divieto di utilizzo di denominazioni e simboli potenzialmente idonei a indurre i consumatori in errore circa la natura di farmacia dell’esercizio.
Viceversa, ha precisato che l’utilizzo della denominazione "parafarmacia" e di una croce di diverso colore, come il blu, da un lato, non è vietata dalle fonti normative, dall’altro, non appare idonea a ingenerare alcuna confusione nei consumatori ai fini dell’individuazione della esatta tipologia di servizio.
Di conseguenza, il TAR capitolino ha ritenuto che l’elemento indicativo delle sole farmacie è il simbolo "croce" di colore verde e non il simbolo "croce" di altri colori.
A fortiori nelle ipotesi, come quella in parola, in cui il menzionato simbolo di colore blu doveva essere associato alla denominazione di "parafarmacia" (tratto da www.ipsoa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 12.09.2012 n. 7697 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: E' illegittima la lettera di invito al gestore uscente del servizio a formulare offerta per l'affidamento del servizio pubblico di distribuzione gas naturale nel territorio, dopo il 29.06.2011.
Per effetto dell'entrata in vigore (il 29.06.2011) dell'art. 24 del decreto legislativo n. 93/2011, tutte le gare per l'affidamento del servizio di distribuzione del gas, ancorché bandite, che non fossero giunte prima di tale ultima data almeno allo stadio dell'invio della lettera di invito, avrebbero dovuto ritenersi definitivamente precluse (con assorbimento delle preesistenti concessioni nei nuovi ambiti territoriali minimi di cui all'art. 46-bis del d.l. n. 159 del 2007); tale meccanismo preclusivo risultava peraltro già disposto a decorrere dal 01.04.2011, dall'art. 3, c. 3, del d.m. 19.01.2011, così che il sopravvenuto decreto legislativo avrebbe costituito un rinforzo della fonte normativa ad opera del legislatore, al fine di fugare dubbi sulla possibile inidoneità della fonte regolamentare a determinare i disposti effetti transitori.
Pertanto, è illegittima, nel caso di specie, la lettera d'invito spedita dal comune dopo la scadenza del termine del 29.06.2011 al quale il suddetto art. 24, del d.lvo n. 93/2011 ha ancorato la definitiva preclusione dell'indizione e/o prosecuzione di gare extra-ambito (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 12.09.2012 n. 577 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Cassazione, no al licenziamento del sindacalista che dà dello “sbruffone” al capo.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 11.09.2012 n. 15165, ha stabilito la reintegra nel posto di lavoro di un dipendente di un’azienda, nonché delegato sindacale, che aveva dato dello “sbruffone” all’amministratore unico dell’azienda stessa rifiutando, fra l’altro, di ricevere la documentazione sulle procedure di mobilità inerenti anche la sua posizione lavorativa.
Il lavoratore era stato licenziato nel 2006 in seguito al suo rifiuto di ricevere i suddetti documenti.
Quest’atto, infatti, era stato valutato come un gesto di insubordinazione, che accompagnato all’apprezzamento poco “felice” che aveva rivolto all’amministratore unico, ne giustificava l’espulsione.
La Cassazione, tuttavia, appare di diverso avviso. Per ciò che attiene all’espressione pronunciata dal lavoratore, per quanto possa apparire censurabile dal punto di vista disciplinare, “appare inidonea a giustificare l’adozione della misura espulsiva, essendosi trattato di una semplice reazione emotiva scevra da intenti di minaccia”.
Per quanto riguarda, invece, il suo rifiuti a ricevere la documentazione di cui sopra, i giudici ritengono che il lavoratore “non aveva violato i suoi obblighi di diligenza, non potendo farsi rientrare il suo rifiuto alla ricezione dell’atto contenente la comunicazione della messa in mobilità nell’alveo delle obbligazioni nascenti dal contratto”.
Sulla base di queste motivazione, la Suprema Corte di Cassazione ritiene il licenziamento una “sanzione sproporzionata” e sancisce il riconoscimento in capo al danneggiato degli stipendi arretrati (tratto da e link a www.leggioggi.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIE' illegittimo il provvedimento sindacale di nomina del segretario comunale quale responsabile di settore laddove non è stato dato conto dell’impossibilità di procedere con le modalità alternative del Regolamento comunale degli Uffici e dei Servizi, limitandosi a richiamare il disposto del comma 4, norma la cui operatività interviene, come detto, solo in caso di impossibilità a procedere con le modalità contemplate dalla disposizione nei commi precedenti.
Invero, il regolamento comunale:
● dispone all’art. 25, che la responsabilità di un servizio, in caso di vacanza del posto o di assenza prolungata del titolare, possa essere assegnata ad interim, per un periodo di tempo determinato, ad altro funzionario di pari categoria;
● tali mansioni, prosegue il comma 2, possono anche essere transitoriamente assegnate a dipendenti di categoria immediatamente inferiore, con l’osservanza delle condizioni e modalità previste dalla normativa vigente in materia; l’assegnazione temporanea è disposta dal Sindaco;
● il successivo comma 3 stabilisce poi che possa essere prevista la nomina del responsabile del servizio, previa convenzione tra Enti;
● infine il comma 4 prevede che qualora non sia possibile procedere alla sostituzione dei Responsabili secondo le modalità previste dai precedenti commi, le funzioni siano comunque svolte dal Segretario comunale.
Il comma 4 rappresenta una norma di chiusura del sistema di sostituzione del responsabile del servizio, volta a garantire la funzionalità dell’ente, prevedendo un’ipotesi residuale di attribuzione della titolarità del servizio al segretario comunale, qualora non sia possibile assegnare in altro modo l’incarico temporaneo, secondo le modalità descritte dalla norma nei commi precedenti.
Né può ritenersi che l’art. 97, comma 4, lett. d), del D.lgs. 267/2000, laddove prevede che il Segretario comunale eserciti ogni altra funzione conferitagli dal Sindaco, possa legittimare il conferimento di qualunque tipo di incarico al Segretario comunale, dato che tale norma deve essere coniugata con le altre disposizioni legislative e regolamentari.
Anzi, a ben vedere, la previsione di cui al comma 4 dell’art. 25 del Regolamento comunale risulta essere ipotesi specifica del più generale disposto di cui all’art. 97 del D.lgs. 267/2000, ma la sua applicabilità, per effetto del chiaro dettato della norma regolamentare, è subordinato all’impossibilità di conferire incarichi secondo le modalità previste dai commi precedenti dello stesso art. 25.

Con il primo motivo di gravame i ricorrenti deducono la violazione del D.lgs. n. 267/2000 in combinato disposto con il Regolamento Comunale degli Uffici e dei Servizi, approvato con deliberazione di G.M. n. 35 del 23.03.2009. Lamentano che gli atti della procedura selettiva, a partire dal bando, approvato con determinazione n. 136 del 31/12/2012, e fino all’approvazione delle graduatorie finali, di cui alla determina n. 90 del 28.09.2011, sarebbero stati adottati da un soggetto illegittimamente nominato quale responsabile del settore Amministrativo del Comune.
Espongono infatti che il Sindaco del Comune di Grotteria, con decreto Prot. n. 7830 del 31.12.2010, revocava al dott. Vincenzo Lombardo l’attribuzione di responsabile del settore affari generali–servizio amministrativo–servizi demografici–ufficio personale, stabilendo di attribuire la responsabilità di tali settori ad altra figura giuridica presente nell’Ente. Quindi, con decreto Prot. n. 7831 del 31.12.2010, procedeva a nominare il Segretario comunale dott. Arturo Tresoldi responsabile dell’area amministrativa e dei relativi servizi, attribuendogli le relative funzioni dirigenziali.
A seguito di avvicendamento in seno all’Ufficio di Segretario comunale, il Sindaco, con decreto Prot. n. 6196 del 12.09.2011, nominava il “nuovo” Segretario comunale dott.ssa Maria Luisa Calì quale responsabile dell’area amministrativa e dei relativi servizi, attribuendole le relative funzioni dirigenziali, la quale, in tale veste, approvava le graduatorie finali della procedura selettiva (cfr. determina n. 90 del 28.09.2011). I ricorrenti espongono infine che, due mesi dopo la nomina della dott.ssa Calì a responsabile dell’area amministrativa, il Sindaco, con decreto n. 7577 del 15.11.2011, nominava il dipendente comunale di Cat. C5 sig. Giovanni Marando responsabile dell’area amministrativa e dei relativi servizi, attribuendogli le relative funzioni dirigenziali.
...
Venendo quindi all’esame della censura introdotta con il primo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 109 del D.lgs. 267/2000 gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato dal Sindaco, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della Giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto dall'articolo 169 o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro.
Il successivo comma 2 prevede che nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni dirigenziali di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione. L’art. 97, richiamato nella disposizione appena ricordata, dispone, al comma 4, lett. d), che il segretario comunale eserciti ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente della provincia.
Le norme del TU Enti locali, in relazione alle modalità di conferimento degli incarichi dirigenziali, operano un rinvio al regolamento comunale sull'ordinamento degli uffici e dei servizi.
Il Regolamento del Comune di Grotteria, depositato in giudizio, dispone all’art. 25, che la responsabilità di un servizio, in caso di vacanza del posto o di assenza prolungata del titolare, possa essere assegnata ad interim, per un periodo di tempo determinato, ad altro funzionario di pari categoria.
Tali mansioni, prosegue il comma 2, possono anche essere transitoriamente assegnate a dipendenti di categoria immediatamente inferiore, con l’osservanza delle condizioni e modalità previste dalla normativa vigente in materia; l’assegnazione temporanea è disposta dal Sindaco. Il successivo comma 3 stabilisce poi che possa essere prevista la nomina del responsabile del servizio, previa convenzione tra Enti. Infine il comma 4 prevede che qualora non sia possibile procedere alla sostituzione dei Responsabili secondo le modalità previste dai precedenti commi, le funzioni siano comunque svolte dal Segretario comunale.
Il comma 4 rappresenta una norma di chiusura del sistema di sostituzione del responsabile del servizio, volta a garantire la funzionalità dell’ente, prevedendo un’ipotesi residuale di attribuzione della titolarità del servizio al segretario comunale, qualora non sia possibile assegnare in altro modo l’incarico temporaneo, secondo le modalità descritte dalla norma nei commi precedenti.
I decreti del Sindaco prot. n. 7831 del 31/12/2011 e prot. n. 6196 del 12/09/2011, con i quali il Segretario comunale è stato nominato quale responsabile dell’Area amministrativa e dei relativi servizi, non danno conto dell’impossibilità di procedere con le modalità di cui ai commi 1-3 dell’art. 25 del Regolamento comunale degli Uffici e dei Servizi, limitandosi a richiamare il disposto del comma 4, norma la cui operatività interviene, come detto, solo in caso di impossibilità a procedere con le modalità contemplate dalla disposizione nei commi precedenti. I provvedimenti sindacali, quindi, si presentano carenti sotto il profilo motivazionale, non dando conto, anche sotto un mero profilo di fatto, dei presupposti che consentono l’applicazione della disposizione di cui all’art. 25, comma 4, del regolamento comunale.
Né può ritenersi che l’art. 97, comma 4, lett. d), del D.lgs. 267/2000, laddove prevede che il Segretario comunale eserciti ogni altra funzione conferitagli dal Sindaco, possa legittimare il conferimento di qualunque tipo di incarico al Segretario comunale, dato che tale norma deve essere coniugata con le altre disposizioni legislative e regolamentari. Anzi, a ben vedere, la previsione di cui al comma 4 dell’art. 25 del Regolamento comunale risulta essere ipotesi specifica del più generale disposto di cui all’art. 97 del D.lgs. 267/2000, ma la sua applicabilità, per effetto del chiaro dettato della norma regolamentare, è subordinato all’impossibilità di conferire incarichi secondo le modalità previste dai commi precedenti dello stesso art. 25.
Da quanto sopra esposto consegue l’illegittimità dei provvedimenti di nomina del responsabile dell’Area amministrativa, cui fa seguito l’illegittimità, in via derivata, degli atti dallo stesso compiuti in relazione alla procedura selettiva oggetto dell’odierno giudizio, atti peraltro (anche) autonomamente gravati (TAR Calabria–Reggio Calabria, sentenza 11.09.2012 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Trasformazione abusiva di una serra in tre appartamenti.
E’ legittimo il decreto dell’Amministrazione provinciale di Genova per l’annullamento d’ufficio di una concessione in sanatoria rilasciata dal Comune per la trasformazione di una serra in tre appartamenti.
La Provincia di Genova secondo quanto prevede la l.reg. n. 7 del 1987 della Liguria, può annullare d’ufficio concessioni edilizie in sanatoria rilasciate a “condono” di abusi edilizi ai sensi della legge 47/1985 (e della successiva legge 724/1994).
L’art. 6 della citata legge regionale prevede l'annullamento, ai sensi dell'articolo 27 della Legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, delle deliberazioni e dei provvedimenti comunali che assentano opere non conformi alla vigente disciplina urbanistico-edilizia, entro dieci anni dalla loro adozione, sempre che sussista un sostanziale interesse pubblico alla rimozione degli stessi (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.09.2012 n. 4771 - tratto da www.lexambiente.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, mediante un'edificazione di cui si conservi la struttura fisica, sia pure con la sovrapposizione di un insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma in quest'ultimo caso con ricostruzione se non fedele, comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
Per distinguere gli interventi di ristrutturazione da quelli di nuova costruzione questo Consiglio (v., di recente, sezione IV, sent. n. 802 del 2011) ha evidenziato che ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, mediante un'edificazione di cui si conservi la struttura fisica, sia pure con la sovrapposizione di un insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma in quest'ultimo caso con ricostruzione se non fedele, comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.09.2012 n. 4771 - tratto da e link a www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Nozione di lottizzazione.
Costituisce lottizzazione edilizia qualsiasi utilizzazione del suolo che, indipendentemente da1l’entità del frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari, preveda la realizzazione contemporanea o successiva di una pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o industriale, che postulino l'attuazione di opere di urbanizzazione primaria o secondaria occorrenti per le necessità dell’insediamento.
Il reato di lottizzazione può configurarsi : in presenza di un intervento sul territorio tale da comportare una nuova definizione dell’assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione di un piano esecutivo e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell’intervento di nuova realizzazione, ma anche allorquando detto intervento non potrebbe in nessun caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni oggettive, si pone in contrasto con previsioni di zonizzazione e/o di localizzazione dello strumento generale di panificazione che non possono essere modificate da piani urbanistici attuativi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.09.2012 n. 34251 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: Sul tratto distintivo della concessione rispetto all'appalto.
Il tratto distintivo della concessione rispetto all'appalto è rappresentato dalla modalità di remunerazione, ovvero dalla controprestazione che nella concessione dipende dai risultati della gestione del servizio. Di tal che, la remunerazione del servizio è per l'imprenditore l'elemento di valutazione della convenienza economica dell'offerta, anche in considerazione della circostanza che l'impresa aggiudicataria sopporterà il rischio economico collegato alla gestione che, nel caso di specie (affidamento posto a base della gara è la concessione nella gestione del servizio pubblico di mensa scolastica, oltre alle connesse attività amministrative, e la realizzazione del locale refettorio con servizi annessi in un plesso scolastico del comune), consiste nella possibilità che gli alunni decidano di non usufruire del servizio mensa, sulla base degli orari scolastici prescelti che non necessariamente implicano l'esigenza di consumare i pasti a scuola.
Ciò posto, è di fondamentale importanza che il piano economico finanziario sia il più dettagliato possibile nell'elencazione delle voci di costo a carico dell'impresa, in modo da supportare l'imprenditore nella valutazione della convenienza economica del servizio da erogare o del lavoro da svolgere (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 07.09.2012 n. 7630 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: E' legittima la clausola del bando che imponga, a pena di esclusione, che la busta contenente l'offerta debba essere integralmente sigillata con ceralacca e controfirmata ai lembi di chiusura ed inserita in altra busta ugualmente sigillata e controfirmata, e ciò in quanto, coerentemente con la finalità di tutelare la "par condicio" tra i concorrenti, gli adempimenti prescritti assicurano l'autenticità della chiusura originaria proveniente dal mittente e, evitando la manomissione del contenuto del plico, garantiscono la segretezza dell'offerta; con la conseguente legittimità dell’esclusione dalla gara dell'impresa che abbia omesso la sigillatura del plico contenente l'offerta.
In modo condivisibile la difesa del Comune ha posto in risalto i seguenti aspetti della vicenda sottoposta al vaglio del Collegio:
- il fatto che la prescrizione di cui all’art. 4 dell’avviso di gara prevedesse, a pena di esclusione dalla procedura, obblighi, congiunti, di sigillatura del plico con la ceralacca e di controfirma per esteso sui lembi di chiusura (“entrambe le garanzie”, osserva la difesa comunale, sono contemplate “esplicitamente e a pena di esclusione”);
- la coerenza tra gli obblighi suddetti e la perdurante valenza dei princìpi di oggettività, imparzialità e trasparenza nelle procedure di gara e di “par condicio” nei riguardi di tutti i concorrenti, in un contesto in cui la stazione appaltante è tenuta a fissare regole certe ancorate a un rigido formalismo. Detto altrimenti, e come affermato in più occasioni dalla sezione, il che esonera questo collegio dal fare citazioni particolari, il formalismo che caratterizza le procedure di gara risponde a ineludibili esigenze di “par condicio”;
- il fatto che gli adempimenti prescritti garantissero, nell’insieme, l’identità e la immodificabilità della documentazione, e la segretezza, identità e immodificabilità della offerta, evitando manomissioni del contenuto del plico;
- il fatto che le specifiche modalità di presentazione delle offerte, prescritte a pena di esclusione, introducessero, è vero, un elemento di garanzia particolarmente avanzato in ordine alla genuinità e alla paternità della domanda di partecipazione e della documentazione allegata, contro rischi di frode o di indebita violazione della segretezza, ma senza imporre ai partecipanti alla procedura oneri particolarmente gravosi, trattandosi anzi di un “quid pluris” di “facile assolvimento”, dettato nell’esercizio di una discrezionalità indubbiamente spettante alla stazione appaltante in materia cosicché, in una procedura imperniata sul rigore formale, può concordarsi con il riferimento, fatto dal TAR in sentenza, alla rispondenza dell’art. 4 dell’avviso di gara a criteri di razionalità e di proporzionalità rispetto agli scopi perseguiti. In altri termini, in un conteso come quello tratteggiato sopra, nel quale il formalismo che caratterizza la disciplina delle procedure di gara risponde per un verso a esigenze pratiche di certezza e celerità e, per altro verso, alla necessità di garantire l'imparzialità dell'azione amministrativa e la parità di condizioni tra i concorrenti, appare fuori luogo il riferimento fatto dall’appellante a una “irregolarità innocua” o comunque sanabile, venendo in rilievo, invece, una clausola non irrazionale né superflua (a una diversa conclusione, favorevole all’appellante, si sarebbe potuti giungere qualora l’omissione della controfirma per esteso sui lembi di chiusura non fosse stata accompagnata da una specifica comminatoria di esclusione nell’avviso di gara).
In modo coerente con l’orientamento ricavabile da Cons. St., n. 4396/2001, su fattispecie per certi versi analoga a quelle odierna, in merito alla legittimità di una clausola del bando che imponga, a pena di esclusione, che la busta contenente l'offerta debba essere integralmente sigillata con ceralacca e controfirmata ai lembi di chiusura ed inserita in altra busta ugualmente sigillata e controfirmata, e ciò in quanto, coerentemente con la finalità di tutelare la "par condicio" tra i concorrenti, gli adempimenti prescritti assicurano l'autenticità della chiusura originaria proveniente dal mittente e, evitando la manomissione del contenuto del plico, garantiscono la segretezza dell'offerta; con la conseguente legittimità dell’esclusione dalla gara dell'impresa che abbia omesso la sigillatura del plico contenente l'offerta; coerentemente, si diceva, con l’orientamento giurisprudenziale sopra riassunto, gli argomenti svolti dall’appellante in ordine alla irragionevolezza della clausola dell’avviso di gara non meritano favorevole considerazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2012 n. 4696 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: L’interesse all’accesso ai documenti deve essere considerato in astratto, escludendo che, con riferimento al caso specifico, possa esservi spazio per l’amministrazione per compiere apprezzamenti in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale proponibile. La legittimazione all’accesso non può dunque essere valutata facendo riferimento alla fondatezza della pretesa sostanziale sottostante, ma ha consistenza autonoma, indifferente allo scopo ultimo per cui viene esercitata (…) deve negarsi che il giudizio di pertinenza possa essere inteso in modo così stringente da rimettere all’Amministrazione una sorta di improprio giudizio prognostico circa l’esito del giudizio alla cui proposizione la domanda di accesso è strumentale.
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L’affidamento delle posizioni organizzative non appare caratterizzato da un rapporto fiduciario fra il livello di indirizzo politico e quello gestionale, prevedendo il CCNL del 31.03.1999 – Comparto Regioni ed Enti locali, sulla revisione del sistema della classificazione professionale, al comma 1 dell’articolo 9, rubricato “Conferimento e revoca degli incarichi per le posizioni organizzative”, che «…Gli incarichi relativi all’area delle posizioni organizzative sono conferiti (…) previa determinazione di criteri generali da parte degli enti…».
Sotto altro profilo, nel nostro ordinamento giuridico, le ipotesi di attribuzione di incarichi intuitu personae costituiscono un’eccezione al sistema, essendo limitate, per quanto di interesse ai fini della presente trattazione, agli incarichi di diretta collaborazione con il livello di indirizzo politico, vale a dire «…quelli di maggiore coesione con gli organi politici (segretario generale, capo dipartimento e altri equivalenti)…» (Corte cost., 23.03.2007, n. 103) e quelli del personale addetto agli uffici di diretta collaborazione; infatti, il precetto costituzionale della imparzialità dell'azione amministrativa «...è alla base della stessa distinzione funzionale dei compiti tra organi politici e burocratici e cioè tra l'azione di governo –che è normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza– e l'azione dell'amministrazione, la quale, nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata, invece, ad agire senza distinzioni di parti politiche e dunque al «servizio esclusivo della Nazione» (art. 98 Cost.), al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall'ordinamento…» (Corte cost., ibidem).
Pertanto, essendo le posizioni organizzative collocate nell’ambito della struttura burocratica gestionale e non essendo legate da un rapporto di coesione (nel senso indicato dalla richiamata sentenza Corte cost. 103/2007) con il livello di indirizzo politico, non si può comunque ritenere, in ragione del doveroso rispetto del principio di separazione fra indirizzo politico e gestionale, e diversamente da quanto affermato nella impugnata nota del Direttore Generale, che il loro conferimento si fondi «…su valutazioni personali coerenti con l’indirizzo politico del Sindaco…».

... avverso il diniego di accesso opposto con nota del Direttore Generale del Comune di Villafranca Tirrena prot. 1039 del 17.01.2012, agli atti del fascicolo personale del responsabile del settore tecnico manutentivo del Comune, richiesto con istanza del 04.01.2012.
...
Con ricorso depositato il 23.02.2012, il ricorrente impugna il diniego di accesso ai documenti indicato in epigrafe, premettendo:
- di essere dipendente di VIII qualifica del Comune di Villafranca Tirrena;
- di aver proposto ricorso al Giudice del Lavoro di Messina avverso una selezione interna per la copertura di un posto Cat. D3 – profilo funzionario tecnico manutentivo, in cui si era classificato secondo;
- di aver proposto appello –tuttora pendente– avverso la sentenza 02.03.2007, n. 910, resa dal Tribunale di Messina;
- che nelle more del giudizio di secondo grado il vincitore della selezione è stato collocato a riposo, venendo sostituito da altra persona;
- di aver quindi chiesto accesso al fascicolo personale di tale persona.
Il Comune si è costituito, eccependo in rito l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione di questo Giudice Amministrativo, trattandosi di atti di gestione del rapporto di lavoro.
Nel merito ha dedotto l’inammissibilità della istanza di accesso per mancanza di motivazione circa l’interesse all’accesso, per genericità, visto che si chiederebbe genericamente l’accesso al fascicolo personale di un’altra persona, per difetto di legittimazione, dal momento che non si chiederebbero gli atti relativi alla nomina del responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune, ma di visionare il suo fascicolo personale, e dal momento che l’affidamento della posizione organizzativa di responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune sarebbe intuitu personae, ciò che implicherebbe la mancanza di un «…diretto collegamento fra il richiedente ed una specifica situazione giuridicamente rilevante…» (controricorso, pag. 6).
Preliminarmente, l’eccezione di difetto di giurisdizione può essere agevolmente superato in base al disposto dell’art. 133, comma 1, n. 6), cpa, che devolve alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo le controversie in materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi, in ciò riconfermando la previsione dell’art. 25, comma 5, ultimo periodo, della legge 241/1990, come modificato dall'art. 3, comma 6-decies, DL 14.03.2005, n. 35, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione 14.05.2005, n. 80.
Né rileva il riferimento agli atti di gestione del personale, trattandosi nella specie di documenti concernenti attività di pubblico interesse svolte da un’amministrazione pubblica (sul punto CGARS, Sez. Giurisdizionale, 19.05.2011, n. 374; TAR Sicilia–Palermo, 01.07.2011, n. 1269).
Nel merito, il ricorso è fondato.
Sulla dedotta inammissibilità della istanza di accesso per mancanza di motivazione: effettivamente, l’istanza è sfornita di motivazione circa l’interesse del ricorrente, ciò che avrebbe in ipotesi potuto determinare l’inammissibilità del ricorso (in tema, TAR Liguria, Sez. II, 19.11.2009, n. 3419); tuttavia, nell’impugnato provvedimento di diniego si legge che «…Ella ha formulato richiesta di atti senza alcuna motivazione e precisando verbalmente che è Sua intenzione fare ricorso dal momento che, avendo la laurea in ingegneria, ritiene di avere maggiore titolo e qualificazione alla nomina…»; con ciò l’Amministrazione ha dato prova dell’aver il ricorrente precisato, seppure per le vie brevi, l’esistenza dell’interesse all’accesso ai fini della tutela giudiziaria nei confronti del conferimento della posizione organizzativa di responsabile dell’Ufficio tecnico comunale.
Sulla inammissibilità per genericità e per difetto di legittimazione: l’essere stato evidenziato un interesse all’accesso, seppure per le vie brevi, integra l’indicazione degli elementi che consentono l’individuazione degli atti, vale a dire quelli su cui si fonda il provvedimento di conferimento della posizione organizzativa («…il richiedente ha l'onere di motivare la domanda di accesso e di indicare gli estremi del documento oggetto della richiesta ovvero gli elementi che ne consentano l'individuazione …» TAR Campania–Napoli, Sez. V, 07.06.2007, n. 6021).
Con riguardo alla dedotta inammissibilità per difetto di legittimazione, evincibile dalla circostanza che le posizioni organizzative sarebbero conferite intuitu personae, è sufficiente richiamare lo stabile e condivisibile orientamento secondo cui «…l’interesse all’accesso ai documenti deve essere considerato in astratto, escludendo che, con riferimento al caso specifico, possa esservi spazio per l’amministrazione per compiere apprezzamenti in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale proponibile. La legittimazione all’accesso non può dunque essere valutata facendo riferimento alla fondatezza della pretesa sostanziale sottostante, ma ha consistenza autonoma, indifferente allo scopo ultimo per cui viene esercitata (Cons. Stato, 13.10.2010, n. 7486) (…) deve negarsi che il giudizio di pertinenza possa essere inteso in modo così stringente da rimettere all’Amministrazione una sorta di improprio giudizio prognostico circa l’esito del giudizio alla cui proposizione la domanda di accesso è strumentale…» (Cons. Stato, Sez. VI, 12.03.2012, n. 1403).
Comunque, con riferimento al caso di specie, l’affidamento delle posizioni organizzative non appare caratterizzato da un rapporto fiduciario fra il livello di indirizzo politico e quello gestionale, prevedendo il CCNL del 31.03.1999 – Comparto Regioni ed Enti locali, sulla revisione del sistema della classificazione professionale, al comma 1 dell’articolo 9, rubricato “Conferimento e revoca degli incarichi per le posizioni organizzative”, che «…Gli incarichi relativi all’area delle posizioni organizzative sono conferiti (…) previa determinazione di criteri generali da parte degli enti…».
Sotto altro profilo, nel nostro ordinamento giuridico, le ipotesi di attribuzione di incarichi intuitu personae costituiscono un’eccezione al sistema, essendo limitate, per quanto di interesse ai fini della presente trattazione, agli incarichi di diretta collaborazione con il livello di indirizzo politico, vale a dire «…quelli di maggiore coesione con gli organi politici (segretario generale, capo dipartimento e altri equivalenti)…» (Corte cost., 23.03.2007, n. 103) e quelli del personale addetto agli uffici di diretta collaborazione; infatti, il precetto costituzionale della imparzialità dell'azione amministrativa «...è alla base della stessa distinzione funzionale dei compiti tra organi politici e burocratici e cioè tra l'azione di governo –che è normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza– e l'azione dell'amministrazione, la quale, nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata, invece, ad agire senza distinzioni di parti politiche e dunque al «servizio esclusivo della Nazione» (art. 98 Cost.), al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall'ordinamento…» (Corte cost., ibidem).
Pertanto, essendo le posizioni organizzative collocate nell’ambito della struttura burocratica gestionale e non essendo legate da un rapporto di coesione (nel senso indicato dalla richiamata sentenza Corte cost. 103/2007) con il livello di indirizzo politico, non si può comunque ritenere, in ragione del doveroso rispetto del principio di separazione fra indirizzo politico e gestionale, e diversamente da quanto affermato nella impugnata nota del Direttore Generale del Comune prot. 1039 del 17.01.2012 (allegata al ricorso sub 5), che il loro conferimento si fondi «…su valutazioni personali coerenti con l’indirizzo politico del Sindaco…».
L’accesso richiesto dal ricorrente deve quindi essere consentito, anche se, in relazione all’interesse manifestato, limitatamente ai documenti che abbiano influenza sul provvedimento di conferimento della posizione organizzativa, in ciò ricompresi anche titoli curriculari utili ai fini di tale conferimento.
Il Comune di Villafranca Tirrena dovrà quindi consentire l’accesso entro il termine di 30 giorni decorrenti dalla comunicazione in via amministrativa o notificazione di parte della presente sentenza (TAR Sicilia–Catania, Sez. II, sentenza 05.09.2012 n. 2097 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti. Danno erariale per appalti «scoperti». Pagamento a carico del funzionario che ha autorizzato l'impegno.
LE AUTORIZZAZIONI/ Imputabili all'ente solo le obbligazioni assunte con delibera autorizzativa e copertura prevista nei documenti contabili.

Il contratto sottoscritto dal Comune senza un valido impegno di spesa non può essere inquadrato nella categoria dei cosiddetti contratti attivi dell'ente e, pertanto, ne risponde per danno erariale direttamente il funzionario responsabile.
L'atto negoziale posto in essere con un impegno di spesa assunto senza la necessaria copertura finanziaria non è imputabile al Comune e l'azione di responsabilità è esperibile dai privati contro gli amministratori e i funzionari degli enti locali per prestazioni e servizi resi senza il rispetto delle prescritte formalità.

Questi i principi sanciti dalla Corte di Cassazione nella sentenza 04.09.2012 n. 14785, con cui è stato respinto il ricorso presentato da una società contro il Comune che non aveva pagato il corrispettivo di un contratto d'appalto, sottoscritto anni prima, relativo al servizio di rilevazione dei tributi comunali evasi.
La Corte ha chiarito che, nel rispetto dei principi di legalità e correttezza, gli atti di acquisizione di beni e servizi possono essere imputati all'ente solo in presenza di una delibera autorizzativa e della relativa copertura finanziaria. In mancanza di questa documentazione, il contratto d'appalto è solo apparentemente riconducibile al l'ente pubblico, mentre è sempre imputabile al funzionario che ha autorizzato l'effettuazione dei lavori.
In assenza dei necessari atti di imputazione della spesa, si realizza una frattura del nesso organico con l'apparato pubblico e la conseguente responsabilità non può essere attribuita all'amministrazione.
Secondo i magistrati, il mancato pagamento del dovuto non è in contrasto con i principi di correttezza e buona fede, in quanto la violazione dei principi sopra richiamati determina l'inesistenza di un rapporto diretto tra terzo contraente e Pa.
Come la nullità di una delibera conferente ad un professionista l'incarico per la progettazione di un'opera pubblica esclude la sua idoneità a costituire titolo per il compenso, la Cassazione ha chiarito che anche l'assenza di un valido impegno di spesa determina l'impossibilità di imputare all'ente l'obbligazione derivante dal contratto.
Inoltre, non avendo l'ente proceduto al formale riconoscimento di legittimità del debito fuori bilancio (che costituisce valutazione di competenza dell'amministrazione), il vizio di legittimità del contratto, conseguente alla mancata copertura finanziaria, non è stato nemmeno sanato dal Comune interessato.
Pertanto, il rapporto obbligatorio intercorreva unicamente tra il terzo contraente e il funzionario che aveva autorizzato la prestazione.
Il quadro normativo di riferimento stabilisce che il giudice non può sostituirsi al l'amministrazione, affermando l'esistenza di un diritto al riconoscimento del debito assunto fuori bilancio.
Infatti, se si ritenesse sussistente un diritto al riconoscimento giustiziabile davanti al giudice ordinario, in presenza e nei limiti degli accertati e dimostrati parametri di utilità e arricchimento per l'ente, nell'ambito del l'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, non si comprenderebbe poi il mantenimento del principio della sussistenza del rapporto obbligatorio unicamente tra il terzo e l'amministratore o il funzionario che ha irritualmente autorizzato i lavori o i servizi, ai sensi dell'articolo 191, comma 4, del Testo unico enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATAIntervento eseguito su opera abusiva.
L'intervento eseguito su un'opera abusiva non può comunque qualificarsi come di manutenzione o di ristrutturazione perché questi ultimi interventi, come si desume chiaramente dalle definizioni offerte dall'articolo 3 del d.p.r. 380/2001, presuppongono la preesistenza di un organismo edilizio non solo dal punto di vista meramente fattuale ma, ancor prima, da quello giuridico e correttamente si fa rilevare che siccome l'immobile totalmente abusivo, come il manufatto preesistente nel caso di specie, deve essere ritenuto giuridicamente inesistente e gli interventi di completamento del medesimo manufatto non possono mai considerarsi di manutenzione o di ristrutturazione, assumendo invece rilevanza autonoma ai fini dell'integrazione di un nuovo reato edilizio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2012 n. 33544 - tratto da e link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATABeni ambientali. Spontanea rimessione in pristino abuso edilizio.
Ai fini dell’applicazione della causa estintiva del reato di cui all'art. 1-quinquies dell'art. 181 d.lgs. 42/2004 deve osservarsi che tale disposizione, secondo cui «La rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d'ufficio dall'autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1» è stata introdotta nel Dlgs n. 42/2004 unitamente a quella del comma 1-bis dall'art. 1, co. 36, della legge 15.12.2004, n. 308 recante la Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione.
E’ del tutto evidente che, ove il legislatore avesse inteso estendere alla previsione del comma 1 bis il trattamento premiate indicato per il comma 1, ne avrebbe fatto espressa menzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2012 n. 33542 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il proprietario dell’immobile che non impedisce a un terzo la commissione dell’abuso edilizio risponde penalmente dell’abuso.
La Corte di Cassazione ravvisa il fondamento della responsabilità nell’art. 40 del codice penale, il quale stabilisce che: “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Secondo la Corte tale articolo deve essere interpretato in termini solidaristici, alla luce dell’art. 41, comma 2, Cost., sicché è da ritenere che il proprietario non possa utilizzare la cosa propria né consentire che altri la utilizzi in modo che ne derivi danno ai consociati ed abbia, quindi, l’obbligo giuridico di non consentire che l’evento dannoso o pericoloso si realizzi... (Sez. 3 n. 12163, 12/07/1999 rv. 215078).
Scrive la Corte di Cassazione: “In questo senso la sentenza sembra richiamare l’indirizzo inizialmente (ed a lungo) sostenuto dalla Corte secondo cui in tema di reati edilizi, non può essere attribuito ad un soggetto, per il mero fatto di essere proprietario dell’area, un dovere di controllo, dalla cui violazione derivi una responsabilità penale per costruzione abusiva, prescindendo dalla concreta situazione in cui venne svolta l’attività incriminata, cioè senza identificare, in relazione alla specifica situazione di fatto, il comportamento positivo o negativo posto in essere dal soggetto medesimo che possa essere assunto ad elemento integrativo della colpa. In relazione a tale orientamento coerentemente si è ritenuto che il proprietario risponde dei relativi reati non in quanto tale, ma solo se abbia la disponibilità dell’immobile ed abbia dato incarico dei lavori o li abbia eseguiti personalmente; mentre se l’incarico sia stato dato da altro proprietario o da altro detentore, non può essere ritenuto responsabile dell’abuso, anche se abbia espresso adesione alla realizzazione dell’opera.” (Sez. III n. 859 del 07/09/2000, ric. Cutaia ed altro, rv. 216945).
Tale indirizzo è stato, tuttavia, successivamente rivisitato. Si è puntualizzato, infatti, che nel caso in cui il proprietario sia consapevole che sul suo terreno sia eseguita da un terzo una costruzione abusiva e, potendo intervenire, deliberatamente se ne astenga, pone in essere una condotta omissiva che condiziona, rendendola possibile, la realizzazione della predetta opera abusiva che è, quindi, conseguenza diretta anche della sua omissione della quale egli deve essere ritenuto responsabile ai sensi del principio generale di causalità di cui al primo comma dell’art. 40 cod. pen.. Si è aggiunto poi che anche il secondo comma del succitato art. 40 cod. pen., per il quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”, deve essere interpretato in termini solidaristici, alla luce dell’art. 41, comma 2, Cost., sicché è da ritenere che il proprietario non possa utilizzare la cosa propria ne’ consentire che altri la utilizzi in modo che ne derivi danno ai consociati ed abbia, quindi, l’obbligo giuridico di non consentire che l’evento dannoso o pericoloso si realizzi... ” (Sez. 3 n. 12163, 12/07/1999 rv. 215078).
Anche nella successiva evoluzione giurisprudenziale si continua ad insistere sulla ravvisabilità del concorso del proprietario non committente nel caso in cui costui abbia piena consapevolezza dell’esecuzione delle opere da parte del coimputato o abbia prestato consenso, seppure implicito o tacito, all’attività edilizia posta in essere (Sez. 3, n. 44160 del 01/10/2003 Rv. 226589); e talora viene riaffermata per il proprietario l’esistenza dell’obbligo giuridico di non consentire che con l’utilizzo della cosa propria si realizzi l’evento dannoso o pericoloso, affermando il concorso morale nel reato consumato dall’autore della edificazione abusiva, in capo al proprietario che potendo intervenire se ne astenga deliberatamente, (Sez. 3, n. 43232 del 12/11/2002 Rv. 222969; ecc) .
Non è sufficiente, dunque, sulla base di tali pronunciamenti, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori ma occorre sostanzialmente qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all’abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l’esecuzione. Si pone allora il problema di individuare gli elementi indizianti.
Al riguardo si è precisato con motivazioni del tutto condivise dal Collegio che gli elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l’esecutore dei lavori, possono essere individuati, nella piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e nell’interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, nella eventuale presenza di quest’ultimo “in loco”, nello svolgimento di attività ó\ì vigilanza dell’esecuzione dei lavori, nella richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria, nel regime patrimoniale dei coniugi, ovvero in tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa (Sez. 3, n. 26121 del 12/04/2005 Rv. 231954).
In altre sentenze, in linea con i rilievi del PM ricorrente, si è effettivamente precisato che può essere attribuita al proprietario non formalmente committente dell’opera abusiva la responsabilità anche in relazione all’accertamento che questi abiti nello stesso territorio comunale ove è stata eretta la costruzione abusiva, che sia stato individuato sul luogo, che sia il destinatario finale dell’opera (Sez. 3, n. 9536 dei 20/01/2004 Rv. 227403). Appare di conseguenza evidente che l’esclusione della responsabilità del proprietario non committente possa essere ritenuta solo qualora, all’esito del vaglio degli elementi di prova, si possa escludere l’interesse o il consenso di quest’ultimo dell’abuso (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2012 n. 33540 - tratto da e link a www.venetoius.it).

EDILIZIA PRIVATAAbuso edilizio. Responsabilità proprietario dell'area .
Se la qualità di proprietario del terreno non può essere da sola sufficiente ad affermare la responsabilità per l'abuso, è ravvisabile in ogni caso il concorso nel reato del proprietario del terreno non committente dei lavori nel caso in cui quest'ultimo vi abbia interesse o abbia comunque consentito -sia pure tacitamente- alla loro esecuzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2012 n. 33540 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAImpianti elettroeolici.
ai fini della determinazione della superficie occupata da ogni singolo impianto elettroeolico, deve tenersi conto della proiezione della parte aerea sull'area sottostante. Ai fini di tale valutazione, infatti, non può non tenersi conto del movimento rotatorio dell'impianto stesso.
Il concetto di superficie coperta, con riferimento alla realizzazione di impianti industriali, infatti, non deve essere inteso in senso tecnico-costruttivo, bensì in quello più lato urbanistico-edilizio, quale superficie direttamente impegnata da un impianto fisso anche tenendo conto della superficie occupata per il suo funzionamento, in quanto detta superficie viene sottratta ad ogni altra possibilità di utilizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.08.2012 n. 33365 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: D.i.a. e silenzio dell'amministrazione.
In materia edilizia, la inutile scadenza del termine di legge per contestare all'interessato la carenza dei presupposti e dei requisiti per seguire la disciplina procedimentale della denunzia di inizio attività non configura un provvedimento implicito di silenzio-assenso, rimanendo impregiudicato il potere-dovere del Comune e dell'autorità giudiziaria di intervenire sul piano sanzionatorio nel caso in cui l'intervento realizzato a seguito della presentazione della D.I.A. risulti sottoposto a permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.08.2012 n. 33355 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rappresentazione dei luoghi difforme.
La rappresentazione di una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio di legittimità del titolo edilizio, determinato dallo stesso soggetto richiedente, costituisce ex se ragione idonea e sufficiente per l’adozione del provvedimento di annullamento di ufficio del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere, ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e concreto.
In dipendenza di ciò, risulta del tutto in conferente, il richiamo alla disciplina contenuta negli artt. 21-octies e 21-nonies della L. 241 del 1990, semmai, proprio la falsa rappresentazione della realtà dei grafici, rendeva necessaria e vincolante l’adozione, da parte dell’Amministrazione comunale, del provvedimento di annullamento in autotutela, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Va osservato che il giudice di primo grado ha comunque fatto buon governo nella specie di un principio per certo rilevante per il caso in esame, ben consolidato nella giurisprudenza e in forza del quale, se è stata rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio di legittimità del titolo edilizio, determinato dallo stesso soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se ragione idonea e sufficiente per l’adozione del provvedimento di annullamento di ufficio del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere, ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e concreto (cfr. in tal senso, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008 n. 6554, nonché Sez. V, 12.10.2004 n. 6554) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.08.2012 n. 4619 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità repressione tardiva abuso edilizio su area con vincolo paesistico.
Quando gli immobili abusivi ricadono in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, la prevalenza dell'interesse pubblico sull'interesse privato deve considerarsi “in re ipsa”, in considerazione del rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 Cost. (la tutela del paesaggio inserita dall’art. 9 Cost. tra i propri principi fondamentali, assurgere a valore primario o assoluto v. Corte Cost. n. 367/2007), dunque, sono da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio.
Pertanto, è legittima la repressione dell'abuso edilizio, disposta anche a distanza di tempo ragguardevole, purché accompagnata da una puntuale motivazione sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi, tesa a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.08.2012 n. 4610 - tratto da www.lexambiente.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego concessione edilizia ad una distanza dal confine inferiore a ml. 5,00.
E’ legittimo il diniego del rilascio di una concessione edilizia per costruzione di un fabbricato localizzato ad una distanza dal confine inferiore a ml. 5, ossia alla distanza minima prescritta dalla normativa urbanistica comunale, notoriamente inderogabile anche per accordo tra le parti (cfr., tra le tante Cass. Civ., Sez. II, 09.04.2010, n. 8465), non potendo operare in tale ipotesi la disciplina civilistica generale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.08.2012 n. 4555 - tratto da www.lexambiente.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: La Cassazione: modifica possibile pur trattandosi di uso più intenso della cosa comune dai singoli. Sottotetto, trasformazioni libere. Irragionevole vietare la conversione in terrazze a uso esclusivo.
Attici maggiormente appetibili. D'ora in poi, infatti, il proprietario dell'ultimo piano sottostante il tetto comune potrà trasformarne una parte in terrazza a uso esclusivo anche senza il consenso degli altri condomini.
Con la sentenza 03.08.2012 n. 14107 la Corte di Cassazione ha mutato il proprio orientamento in materia di trasformazione del tetto condominiale in terrazza privata, operazione fino a oggi considerata vietata in condominio.
La seconda sezione civile della Suprema corte, con un'innovativa lettura dei concetti di pari uso e di destinazione del bene comune, sembra quindi avere aperto la strada a un utilizzo più intenso delle proprietà esclusive in ambito condominiale.
Il caso concreto. Nella specie l'impresa costruttrice di una palazzina, che aveva venduto alcuni degli appartamenti a terzi, aveva trasformato delle soffitte di sua proprietà in mansarde abitabili con parziale abbattimento del tetto e innalzamento della restante parte. I proprietari del piano terra, riconosciuti in giudizio quali condomini, avevano quindi citato l'impresa dinanzi al tribunale per sentire dichiarare l'illegittimità delle opere in tal modo realizzate e la riduzione in pristino del tetto condominiale. In primo grado la domanda era stata rigettata ma la Corte d'appello, ritenendo che la trasformazione del tetto in tal modo realizzata dall'impresa comproprietaria ne avesse alterato illegittimamente la destinazione e ledesse il principio del pari utilizzo dei beni comuni, la aveva invece accolta. Di qui il ricorso in Cassazione proposto dall'impresa costruttrice.
La decisione della Suprema corte. Come si anticipava, i giudici di legittimità, nel prendere atto dell'orientamento costantemente seguito in materia di trasformazione del tetto comune in terrazza a uso esclusivo, operazione ritenuta sempre vietata in condominio perché utile a un solo condomino con violazione del pari diritto degli altri comproprietari (si veda altro articolo in pagina), hanno però inteso motivatamente discostarsene, con l'obiettivo di fornire una rilettura del principio del pari utilizzo dei beni comuni di cui all'art. 1102 c.c che favorisca le esigenze abitative dei singoli e limiti il potere di preclusione dei singoli.
La Suprema corte, in estrema sintesi, è partita dal considerare come l'orientamento in questione sia in sostanziale contraddizione con quella giurisprudenza di legittimità che ha ammesso l'apertura nel muro perimetrale (e finanche nel tetto) di luci e vedute inerenti gli appartamenti di proprietà esclusiva, consentendo quindi un uso più intenso del bene comune da parte di uno o più condomini, pur nell'ambito della sua destinazione principale.
Alla luce di ciò, secondo la Cassazione, appare del tutto irragionevole vietare sempre e comunque la trasformazione del tetto in terrazza, laddove l'intervento sia minimo e, soprattutto, vengano garantite le strutture sottostanti con appropriati interventi tecnici, quali la coibentazione termica, che suppliscano alla mancanza di copertura, mantenendone la sua destinazione principale. Il diritto di pari uso da parte degli altri condomini, secondo la Suprema corte, deve quindi essere garantito con riferimento a interessi concreti e non meramente astratti, mentre la salvaguardia della destinazione del bene comune deve avvenire in relazione alla funzione del medesimo, piuttosto che alla sua consistenza materiale.
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Inversione di rotta dei giudici supremi.
La recente sentenza della Corte di cassazione n. 14107/2012 si discosta notevolmente dalle precedenti decisione dei giudici supremi che in passato, in diverse occasioni, hanno sempre ritenuto illegittimo il comportamento del proprietario dell'ultimo piano che avesse modificato il tetto condominiale, trasformandolo in terrazza a livello per il proprio uso esclusivo.
I casi precedenti e le giustificazioni dei condomini dell'ultimo piano. Nei precedenti casi esaminati dalla Cassazione i proprietari dell'ultimo piano del caseggiato avevano generalmente modificato l'originaria copertura dello stabile con un terrazzo accessibile soltanto da una nuova scala posta all'interno dello stesso appartamento. Tali opere, secondo le ragioni dei diretti interessati, sarebbero rientrate nella facoltà di sopraelevazione spettante al proprietario dell'ultimo piano, che comprenderebbe anche la facoltà di sostituzione di un tetto con un lastrico solare o con una terrazza. In ogni caso, sempre secondo i condomini interessati, opere del genere non potrebbero essere ritenute illegittime perché dopo la trasformazione sia il tetto sia la terrazza assolvono comunque alla stessa funzione di copertura e, quindi, non verrebbe meno il diritto degli altri condomini si servirsi del nuovo manufatto come copertura dell'edificio. Infine, in altri precedenti, non si è mancato di giustificare dette opere con la necessità di assicurare aria e luce a un locale soppalcato indispensabile per l'abitabilità dello stesso.
Trasformazione del tetto e diritto di sopraelevazione. Le decisioni della Suprema corte hanno sempre affermato che la sostituzione, a opera del proprietario dell'ultimo piano di un edificio condominiale, del tetto con una diversa copertura (terrazza) che, pur non eliminando l'assolvimento della funzione originariamente svolta dal tetto stesso, costituisce alterazione della destinazione della cosa comune, non può considerarsi compresa nel più ampio diritto di sopraelevazione spettante al proprietario dell'ultimo piano.
Infatti, si realizza una sopraelevazione di edificio condominiale, soggetta al relativo regime legale, solo in presenza di opere che comporti lo spostamento in alto della copertura del fabbricato, mentre la stessa va esclusa nel caso di lavori che, pur investendo la struttura e il modo di essere di tale copertura, non incidano sulla posizione della stessa. Quindi, secondo i supremi giudici, solo le modificazioni del tetto di un fabbricato che comportino aumento della superficie esterna del tetto medesimo e aumento della volumetria dei vani sottostanti, indipendentemente dalla loro utilizzabilità ai fini abitativi, integrano una nuova costruzione.
Di conseguenza è chiaro, per esempio, che non si può parlare semplicemente di terrazza in sostituzione della preesistente copertura condominiale quando alla fine dei lavori il tetto risulti sopraelevato, con creazione di un piccolo sottotetto praticabile e di un terrazzo. Una terrazza del genere, a livello di locali costruiti in forza della facoltà di cui all'art. 1127 c.c., serve sì da copertura parziale dell'edificio, ma svolge anche l'altra e preminente funzione di assicurare particolari utilità al proprietario esclusivo dei contigui ambienti.
La violazione dei limiti di utilizzo dei beni comuni. Secondo i giudici di legittimità il tetto, che ai sensi dell'art. 11117 c.c. costituisce parte comune dell'edificio condominiale, adempie all'unica funzione di copertura del fabbricato nell'interesse di tutti i condomini.
La sua trasformazione, perciò, è indubbiamente ammessa, per esempio attraverso la creazione di un lastrico solare in sua sostituzione, sempre però che il nuovo manufatto mantenga inalterata l'originaria funzione di copertura dell'edificio, alla quale non può sovrapporsi una destinazione diversa.
Al contrario, come è stato costantemente ribadito dalla giurisprudenza, la trasformazione del tetto a opera di un condomino, nel senso di sostituire la copertura preesistente con una diversa, oltre a non costituire una sopraelevazione, determina il sorgere di un nuovo manufatto (la terrazza) che per le sue concrete caratteristiche strutturali e per i suoi annessi (scala di accesso interna all'appartamento) comporta una destinazione a uso esclusivo dei condomini autori dell'opera, causando un'alterazione della cosa comune, con l'esclusione degli altri comproprietari di farne uguale uso.
In tale ipotesi, infatti, la trasformazione, non può essere intesa come un'innovazione diretta al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento di un bene comune a vantaggio di tutti i condomini, ma comporta invece la violazione dei limiti previsti dalla legge, secondo i quali non è consentito che si alteri la destinazione della cosa comune e che si impedisca agli altri partecipanti di farne ugualmente uso secondo il loro diritto.
Per quanto sopra è stata anche dichiarata nulla la delibera dell'assemblea presa a maggioranza con cui un condomino era stato autorizzato ad aprire un varco nel tetto, trasformandolo in terrazza a livello per il proprio uso esclusivo: infatti la funzione di copertura di un caseggiato, che può essere assicurata sia dal tetto sia da un lastrico solare, presuppone una scelta che non può essere modificata se non con l'accordo di tutti i condomini (articolo ItaliaOggi Sette del 17.09.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIDiritto d'accesso cum grano salis.
Il giudizio tributario non «libera» il diritto di accesso, ex l. n. 241/1990, del contribuente ai documenti del procedimento tributario e comunque l'istanza di ostensione dei documenti può essere inerente solo ad atti già esistenti «in rerum natura».
Questo è il contenuto del responso emesso dalla IV Sez. del Consiglio di stato nella sentenza 30.07.2012 n. 4316.
Il giudizio in commento si è occupato del ricorso avverso un diniego di accesso a documenti, manifestato da un ufficio periferico dell'Agenzia delle entrate, a seguito di istanza presentata da una società coinvolta in una lite tributaria inerente un atto di recupero di credito d'imposta a seguito di pvc della Guardia di finanza. La richiesta di specie era, tra l'altro, indirizzata dalla società contribuente alle liste dei crediti irregolari o inesistenti e agli atti esistenti presso l'Anagrafe tributaria in relazione ai modelli F24 ivi trasmessi.
Il Consiglio di stato, riformando la decisione del Tar Veneto, ha argomentato che, nonostante l'orientamento della giurisprudenza in favore del diritto di accesso a seguito di instaurazione del giudizio tributario, si impone comunque all'istante l'onere di specificare la consistenza del proprio interesse all'accesso, indicando le ragioni sottostanti l'acquisizione di determinati atti e l'utile asservimento degli stessi a fini difensivi; in altri termini, secondo il responso in commento, la pendenza di un contenzioso tributario non determina l'automatica insorgenza di una generalizzata legittimazione del contribuente interessato a conoscere ogni e qualsiasi atti posto in essere dall'Amministrazione tributaria, semmai è il giudice tributario, destinatario di una richiesta in forma istruttoria, il soggetto più idoneo e qualificato ad apprezzare la sussistenza delle ragioni difensive evocate dalla istante.
Sul punto, inoltre il collegio ha aggiunto che «l'opposta opinione non si sottrae al rischio di legittimare il ricorso a istanze meramente «esplorative» e, in definitiva, intese a un controllo generalizzato dell'operato della p.a.». Il supremo giudice amministrativo, nell'occasione, ha poi rimarcato come dovesse ritenersi inammissibile l'istanza di specie, non rivolta all'Amministrazione per l'ostensione di atti già esistenti in rerum natura ma finalizzata una attività di elaborazione e formazione di nuovi documenti che non può mai essere pretesa in sede di accesso (articolo ItaliaOggi del 21.09.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sostanze pericolose. Amianto.
In caso di ritrovamento di amianto, è legittima l’ordinanza del Sindaco con la quale si dispone la caratterizzazione e la messa in sicurezza di aree inquinate da amianto, anche se la stessa non è stata preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Infatti l’Amministrazione con tale procedimento intende porre rimedio ad una situazione di grave pericolo per la salute, così come consentito dal primo comma dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 ( TAR Veneto, Sez. III, sentenza 23.07.2012 n. 1031 - tratto da www.lexambiente.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Depresso non licenziabile se ritarda l'avviso di malattia. Provvedimento illegittimo quando il contratto prevede il giustificato impedimento.
Non è licenziabile il dipendente che omette di comunicare tempestivamente la prosecuzione della malattia, qualora i giudici di merito accertino che l'omissione è giustificata, in base alla disciplina collettiva, da uno stato di depressione, manifestatosi e attestato al tempo del licenziamento.
Così la sentenza 12.07.2012 n. 11798 della Corte di Cassazione, ad "avallare" la decisione di appello che aveva ritenuto la malattia comprovato e giustificato impedimento, idoneo, secondo il contratto collettivo, a rendere non sanzionabile il fatto addebitato.
Il caso è quello di una lavoratrice che non comunica, nei tempi dovuti, la prosecuzione della malattia. Il datore la licenzia e lei fa causa. A conclusione del primo grado del giudizio il licenziamento viene confermato. La Corte di appello, invece, dichiara l'illegittimità del licenziamento, in quanto l'omessa comunicazione era giustificata dal compromesso equilibrio psicologico della lavoratrice. Il datore, a sua volta, ricorre in Cassazione. Lamenta, in primo luogo, che la Corte di merito ha affermato che la lavoratrice versava in una situazione di squilibrio psicologico, senza che tale valutazione avesse un riscontro nella documentazione medica acquisita agli atti.
Inoltre, contesta la sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione: i giudici di appello hanno ritenuto, quale causa di oggettiva attenuazione della gravità della mancanza addebitata alla lavoratrice, il fatto che il datore ben potesse prevedere che la malattia sarebbe proseguita e che lo stesso non avesse sollecitato la visita fiscale, addossando su di lui l'onere della prova.
Interviene, allora, la Cassazione. Che, in primo luogo, sostiene l'infondatezza del primo motivo di ricorso: la Corte territoriale ha constatato, grazie alla «copiosa documentazione versata in atti», che la lavoratrice, da almeno un anno prima del licenziamento, soffriva di disturbi d'ansia, con attacchi di panico, labilità emotiva esasperata, stato progressivamente aggravatosi fino ad evolvere, all'epoca del licenziamento, in vera e propria sintomatologia depressiva. Lo stesso ricorso datoriale contiene accenni a una sussistente sintomatologia depressiva. Pertanto l'Appello ha, correttamente, basato la decisione sull'esistenza di un comprovato e giustificato impedimento, idoneo, in base alla disciplina collettiva applicabile, a escludere la sanzionabilità disciplinare dei fatti addebitati.
La specifica clausola del contratto in questione, effettivamente, obbliga il lavoratore, in caso di malattia o infortunio nonché di prosecuzione della malattia stessa, a dare immediata notizia al datore, facendo però salvi «i casi di giustificato e comprovato impedimento». L'interpretazione della Cassazione, è bene precisare, può essere utile solo quando sussista un tale contenuto contrattuale.
Neanche il secondo motivo di ricorso convince i giudici. Il datore solleva dubbi sulla corretta interpretazione di norme contrattuali, senza, tuttavia, produrre, come richiesto dalle norme procedurali, il contratto collettivo: doveva allegare il testo integrale del contratto collettivo nazionale contenente quelle disposizioni, e invece ha depositato solo un estratto di clausole collettive. In conclusione, la Cassazione rigetta il ricorso condannando la società alle spese del giudizio (articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2012).

EDILIZIA PRIVATAIl Tar Puglia sdogana i pannelli, con limiti. Sì al fotovoltaico nei centri storici.
Sì al fotovoltaico nei centri storici se i pannelli installati non sono in contrasto con il contesto architettonico e non si produce alcun effetto visivo che distorca la visione degli elementi architettonici del bene.

Questo è il parere espresso dal TAR Puglia-Lecce, Sez. I, con la sentenza 12.07.2012 n. 1241.
I giudici del Tar hanno infatti annullato il provvedimento di diniego emesso dal dirigente dello Sportello unico per l'edilizia del comune relativo alla domanda per la realizzazione di un impianto fotovoltaico su fabbricato a uso residenziale ubicato in centro storico, classificato dal Prg come «edificio di notevole interesse ambientale», assoggettato alle prescrizioni dettate dall'art. 38 delle Nta, tra cui l'obbligo di sottoporre ogni progetto all'approvazione della Soprintendenza.
Quest'ultima esprimeva parere negativo «poiché le opere di progetto, consistenti in lavori per l'installazione di un impianto fotovoltaico da 9,66 kwp sul terrazzo di un fabbricato di un immobile per civile abitazione, per tipologia d'intervento e materiali, si ritenevano non compatibili con il fabbricato esistente e con il contesto architettonico del centro storico».
Sulla base di queste considerazioni il comune rigettava la domanda. Il cittadino presentava pertanto ricorso al Tar e quest'ultimo lo accoglieva giudicando contraddittorie le motivazioni della pubblica amministrazione. Le valutazioni operate dall'amministrazione si appalesano irrazionali e contraddittorie. Infatti, dalla documentazione depositata emerge che «la struttura sarà realizzata in modo da non risultare visibile dall'esterno, in quanto i muri perimetrali attigui a essa sono di altezza superiore».
Tali circostanze affermano i giudici non risultano essere state vagliate, dal momento che il parere si fonda in maniera apodittica sull'affermazione dell'asserito contrasto con il contesto architettonico, benché appaia evidente che lo stesso non è compromesso, se non si produce alcun effetto visivo che distorca la visione degli elementi architettonici del bene (articolo ItaliaOggi del 21.09.2012).

CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso agli appunti del Segretario: i consiglieri non ne hanno il diritto.
I consiglieri comunali e provinciali non sono legittimati ad accedere al brogliaccio formato dal segretario comunale per la successiva redazione del testo di una delibera consiliare, in quanto i relativi appunti in ordine alle opinioni espresse e alle valutazioni manifestate dai membri consiliari non integrano un documento amministrativo.
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Gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazione avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del "munus" da questi espletato. L’interesse del consigliere comunale ad ottenere determinate informazioni o copia di specifici atti detenuti dall'amministrazione civica non si presta, pertanto, ad alcuno scrutinio di merito da parte degli uffici interpellati in quanto, sul piano oggettivo, esso ha la medesima latitudine dei compiti di indirizzo e controllo riservati al Consiglio comunale (al cui svolgimento è funzionale).
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Il consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico.

Il ricorso è da ritenere infondato nella parte in cui parte ricorrente si duole della illegittimità del diniego interposto dall’Amministrazione comunale avverso l’istanza di accesso al brogliaccio delle delibere consiliari custodito dal segretario comunale, in quanto il Collegio ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo cui “i consiglieri comunali e provinciali non sono legittimati ad accedere al brogliaccio formato dal segretario comunale per la successiva redazione del testo di una delibera consiliare, in quanto i relativi appunti in ordine alle opinioni espresse e alle valutazioni manifestate dai membri consiliari non integrano un documento amministrativo” (cfr. TAR Lombardia Brescia, 31.12.2003, n. 1823).
Il ricorso è invece da accogliere con riferimento alle ulteriori istanze di accesso di cui in epigrafe.
L’actio ad exhibendum esercitata dalla ricorrente, nella valorizzata qualità di consigliere comunale di minoranza, trova preciso fondamento normativo nell’art. 43 d.lgs. n. 267 del 2000, che riconosce ai consiglieri comunali (e provinciali), per l’utile espletamento del loro mandato, un latissimo "diritto all’informazione" a cui si contrappone il puntuale obbligo degli uffici "rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti" di fornire ai richiedenti "tutte le notizie e le informazioni in loro possesso".
La chiarezza ed univocità della norma è di tale forza cogente da indurre la giurisprudenza (C. Stato, Sez. V, 02.09.2005, n. 4471) ad affermare che gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazione avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del "munus" da questi espletato. L’interesse del consigliere comunale ad ottenere determinate informazioni o copia di specifici atti detenuti dall'amministrazione civica non si presta, pertanto, ad alcuno scrutinio di merito da parte degli uffici interpellati in quanto, sul piano oggettivo, esso ha la medesima latitudine dei compiti di indirizzo e controllo riservati al Consiglio comunale (al cui svolgimento è funzionale).
La difesa comunale, nell’evidenziare che talune istanze ostensive sarebbero state evase favorevolmente anche prima della proposizione del ricorso, richiama l’affermazione giurisprudenziale secondo cui “il consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico” (cfr. n. 4471 cit.).
Nel caso di specie, tuttavia, non si possono ritenere varcati i confini di proporzionalità e ragionevolezza tracciati dall’autorevole intervento del Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa, in quanto le istanza di accesso di cui in epigrafe sub b) contengono adeguato riferimento ad atti specifici, il cui reperimento non comporta, in termini plausibili, un aggravio particolarmente significativo a carico dei compulsati uffici comunali (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 23.03.2012 n. 539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non sono sanabili, pur se realizzati dall'interessato con una denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire (art. 22, comma terzo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria, ma richiedono la procedura di accertamento di conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36 del citato decreto (fattispecie relativa alla realizzazione di un muro di contenimento).
Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di L'Aquila ha confermato la dichiarazione di colpevolezza di C.E.E. in ordine ai reati: a) di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b); b) di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64 e 71, a lui ascritti per avere realizzato un muro a in calcestruzzo armato dell'altezza di mt. 4 e della lunghezza di mt. 10, nonché una gabbionata con riempimento in pietrame dell'altezza di mt. 1 e la lunghezza di mt. 9 ed un altro muro in pietrame senza il permesso di costruire e senza avere fatto la prescritta denuncia per le opere in cemento armato.
La Corte territoriale ha rigettato i motivi di gravame con i quali l'appellante aveva dedotto che le opere di cui alla contestazione potevano essere realizzate in base a DIA, la cui carenza non costituisce reato, e dedotto che, in ogni caso, i reati dovevano dichiararsi estinti per effetto di una DIA in sanatoria.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore dell'imputato, che la denuncia per violazione di legge e vizi di motivazione.
Motivi della decisione
Con il primo mezzo di annullamento il ricorrente denuncia violazione ed errata applicazione di legge.
Si deduce che la sentenza impugnata ha erroneamente escluso che il muro di contenimento di cui alla contestazione fosse assentibile mediante DIA, in base al rilievo che lo stesso si eleva al di sopra del suolo, poiché tale accertamento deve essere riferito alla posizione del muro a monte e non a valle, da cui soltanto si nota la parete in sopraelevazione.
Si deduce, poi, che, anche se si ritenesse il manufatto soggetto a permesso di costruire, l'interessato può, con scelta discrezionale, optare, ai sensi del D.P.R n. 380 del 2001, art. 22, comma 2, per la richiesta di permesso di costruire o edificare previa denuncia di inizio attività, la cui mancanza è sanzionabile penalmente per il disposto di cui al citato D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, u.c..
Si inferisce da tale disposto normativo che l'abuso può essere sanato mediante il rilascio di DIA in sanatoria, che l'imputato aveva ottenuto nel caso in esame. Sul punto si richiamano anche le disposizioni del codice civile che non considerano costruzione, ai fini dell'osservanza delle distanze legali, i muri di contenimento.
Con il secondo mezzo di annullamento si denuncia carenza di motivazione in ordine alla destinazione dell'opera a servizio dell'edificio principale, essendo finalizzata a impedire smottamenti della scarpata con la conseguente natura pertinenziale della stessa.
Con l'ultimo mezzo di annullamento si denuncia carenza e illogicità della motivazione con riferimento alla interpretazione della DIA in sanatoria.
Si deduce che la sentenza impugnata ha affermato erroneamente che la DIA in sanatoria non è conforme allo strumento urbanistico, in quanto quest'ultimo prevede il ricorso alla DIA per opere provvisionali ed indifferibili, nonché carenza di motivazione con riferimento alle dichiarazioni del tecnico comunale esaminato come teste, che aveva ritenuto la sanatoria legittima. Il ricorso non è fondato.
E' stato già affermato da questa Suprema Corte che "In materia edilizia, è necessario il permesso di costruire per la realizzazione di un muro di contenimento, in quanto si tratta di un manufatto che si eleva al di sopra del suolo ed è destinato a trasformare durevolmente l'area impegnata, come tale qualificabile intervento di nuova costruzione". (sez. 3^, 14.05.2008 n. 35898, Russo e altro, RV 241075).
E' evidente che tale massima si riferisce a qualsiasi muro di contenimento, in considerazione delle rilevanti dimensioni che l'opera in genere assume ed alla modificazione edilizia permanente del territorio che essa determina, non in considerazione de fatto che l'opera si elevi al di sopra del suolo a monte o a valle, trattandosi di una distinzione che non ha senso in relazione alla funzione del manufatto.
Quanto alla DIA in sanatoria, anche se il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3, consente per gli interventi di nuova costruzione conformi agli strumenti urbanistici, nei casi previsti dalle lett. b) e c) del terzo comma, l'esecuzione dei lavori a seguito di denuncia di inizio di attività, l'art. 36 dello stesso testo unico stabilisce che la legittimazione dei manufatti già realizzati possa avvenire solo mediante il rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Sicché per le opere soggette a permesso di costruire, anche se l'interessato ha optato per l'esecuzione dei lavori mediante denuncia di inizio attività, ai sensi del citato art. 22, comma 3, non è affatto prevista la possibilità di sanatoria di dette opere mediante DIA, in considerazione del più pregnante controllo richiesto alla pubblica amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si proceda ad una valutazione di doppia conformità agli strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato accoglimento entro il termine di sessanta giorni (terzo comma dell'art. 36).
Nel caso in esame, peraltro, la sentenza impugnata ha rilevato che il muro di contenimento non risultava neppure conforme al PRG, in quanto detto strumento urbanistico prevede esclusivamente l'esecuzione di "opere provvisionali di assoluta urgenza, indispensabili per evitare pericoli e danni", mentre le opere incriminate, secondo la sentenza impugnata, non possono assolutamente essere considerate tali, essendo di tipo "durevole e permanente".
Il richiamo alle norme civilistiche in materia di distanze è del tutto improprio con riferimento alla disciplina edilizia ed urbanistica sotto il profilo penale.
E' noto che rientrano nella nozione di pertinenza solo manufatti di modeste dimensioni posti durevolmente a servizio di un edificio principale.
Tale certamente non può essere ritenuto il muro di contenimento di cui all'imputazione considerate le notevoli dimensioni dell'opera e la naturale destinazione del muro di contenimento ad una più ampia funzione di prevenzione in relazione alle eventuali modificazioni naturali del territorio.
Sull'ultimo motivo la sentenza ha correttamente osservato che le diverse valutazioni degli organi amministrativi non possono avere incidenza su quella del giudice ordinario e quanto affermato in punto di diritto in relazione al primo motivo di gravame risulta assorbente di qualsivoglia diversa opinione espressa dal tecnico comunale quale teste (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.11.2011 n. 41425).

EDILIZIA PRIVATALa perdita di efficacia della concessione edilizia per mancato inizio o ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale provvedimento dell'Amministrazione, anche ai fini del necessario contraddittorio con il privato circa l'esistenza dei presupposti di fatto e diritto che legittimano la declaratoria di decadenza, sicché non essendo stato adottato nel caso che occupa alcun provvedimento comunale di formale declaratoria della decadenza della concessione edilizia di cui trattasi, deve ritenersi che all’atto dell’adozione del provvedimento di annullamento della stessa l’atto era formalmente efficace e sussisteva interesse all’annullamento dell’atto di ritiro.
Osserva al riguardo la Sezione che la censura non è suscettibile di positiva valutazione, atteso che la perdita di efficacia della concessione edilizia per mancato inizio o ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale provvedimento dell'Amministrazione, anche ai fini del necessario contraddittorio con il privato circa l'esistenza dei presupposti di fatto e diritto che legittimano la declaratoria di decadenza (Consiglio Stato, sez. IV, 29.01.2008, n. 249), sicché non essendo stato adottato nel caso che occupa alcun provvedimento comunale di formale declaratoria della decadenza della concessione edilizia di cui trattasi, deve ritenersi che all’atto dell’adozione del provvedimento di annullamento della stessa l’atto era formalmente efficace e sussisteva interesse all’annullamento dell’atto di ritiro
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.05.2011 n. 2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQualora in sede di rilascio della concessione edilizia sia stato acquisito il parere della Commissione Edilizia, tale parere va acquisito anche all'atto dell'annullamento d'ufficio del suddetto titolo abilitativo, fatte salve le ipotesi in cui il provvedimento di autotutela sia supportato da ragioni formali o di tipo esclusivamente giuridico
In secondo luogo considera che in base al principio del contrarius actus, qualora in sede di rilascio della concessione edilizia sia stato acquisito il parere della Commissione Edilizia, tale parere va acquisito anche all'atto dell'annullamento d'ufficio del suddetto titolo abilitativo, fatte salve le ipotesi in cui il provvedimento di autotutela sia supportato da ragioni formali o di tipo esclusivamente giuridico (Consiglio Stato, sez. IV, 31.03.2009, n. 1909).
Nel caso che occupa il provvedimento di autoannullamento della concessione edilizia di cui trattasi è stato motivato con richiamo a ragioni non formali e non di tipo esclusivamente giuridico, essendo stato fatto riferimento ad incoerenze formali e dimensionali delle tavole di elaborati di progetto (risultanti da una relazione del consulente tecnico della Procura della Repubblica presso la Pretura di Lecco), quindi a regioni esclusivamente tecniche
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.05.2011 n. 2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Amministrazione (e per essa il concessionario appositamente incaricato) dispone del potere, esercitatile entro il termine prescrizionale, di pretendere il pagamento di quanto “ab origine” dovuto dal richiedente il titolo edilizio, come quest’ultimo ha il potere di pretendere, entro lo stesso termine, la restituzione di quanto eventualmente pagato in eccedenza.
Peraltro è vero che la liquidazione del contributo viene effettuata dall’Amministrazione, ma tale liquidazione non dà luogo ad un provvedimento (ancorché di carattere paritetico) avente natura costitutiva. Si tratta, invece, di attività meramente ricognitiva e contabile, perché frutto dell’applicazione di criteri automatici di determinazione del “quantum debeatur” (attraverso tabelle parametriche applicabili a volumi e superfici di progetto), nonché di norme giuridiche che nulla lasciano alla discrezionalità dell’Ente riguardo all’ammontare effettivamente dovuto.
L’Amministrazione non esercita, pertanto, alcun potere libero e discrezionale, tanto è vero che la determinazione potrebbe essere effettuata anche dal richiedente in via del tutto autonoma (come in effetti avviene quando esso contesta l’illegittima pretesa di un contributo superiore a quanto dovuto).
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Il diritto di credito dell’Amministrazione comunale, avente ad oggetto il pagamento degli oneri dovuti per il rilascio della concessione edilizia, è soggetto all’ordinario termine decennale di prescrizione, decorrente dalla data di rilascio della concessione edilizia, in cui il relativo credito diviene certo, agevolmente liquidabile ed esigibile.

Nel caso in esame, a giudizio del Collegio, non ricorre la fattispecie dell’autotutela amministrativa in senso stretto, cioè l’autoannullamento di atti illegittimi. Va, infatti, osservato che il concessionario si limita a richiedere un pagamento integrativo, senza disporre alcunché riguardo alla precedente determinazione del contributo effettuata dal Comune al momento del rilascio del titolo edilizio.
Questo, tuttavia, non esclude che l’Amministrazione (e per essa il concessionario appositamente incaricato) disponga comunque del potere, esercitatile entro il termine prescrizionale, di pretendere il pagamento di quanto “ab origine” dovuto dal richiedente il titolo edilizio, come quest’ultimo ha il potere di pretendere, entro lo stesso termine, la restituzione di quanto eventualmente pagato in eccedenza.
Peraltro è vero che la liquidazione del contributo viene effettuata dall’Amministrazione, ma tale liquidazione non dà luogo ad un provvedimento (ancorché di carattere paritetico) avente natura costitutiva. Si tratta, invece, di attività meramente ricognitiva e contabile (cfr. Cons. St., Sez. IV, 06.06.2008, n. 2686), perché frutto dell’applicazione di criteri automatici di determinazione del “quantum debeatur” (attraverso tabelle parametriche applicabili a volumi e superfici di progetto), nonché di norme giuridiche che nulla lasciano alla discrezionalità dell’Ente riguardo all’ammontare effettivamente dovuto.
L’Amministrazione non esercita, pertanto, alcun potere libero e discrezionale, tanto è vero che la determinazione potrebbe essere effettuata anche dal richiedente in via del tutto autonoma (come in effetti avviene quando esso contesta l’illegittima pretesa di un contributo superiore a quanto dovuto).
Di conseguenza, volendo analizzare la vicenda in termini paritetici e negoziali, l’errore è sempre riconoscibile da parte del debitore che si comporti osservando i canoni di correttezza e di ordinaria diligenza, il quale non può quindi invocare la tutela di un inesistente legittimo affidamento.
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Deve inoltre essere considerato infondato il terzo motivo del ricorso, con cui si deduce l’applicabilità del termine triennale di cui all’art. 35, comma 11, della L. 28.02.1985, n. 47, ormai infruttuosamente decorso.
Al riguardo il Collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il diritto di credito dell’Amministrazione comunale, avente ad oggetto il pagamento degli oneri dovuti per il rilascio della concessione edilizia, è soggetto all’ordinario termine decennale di prescrizione, decorrente dalla data di rilascio della concessione edilizia, in cui il relativo credito diviene certo, agevolmente liquidabile ed esigibile (cfr. Cons. St., Sez. IV, n. 2686/2008, cit.).
Peraltro va osservato che la disposizione invocata dalla ricorrente rappresenta norma speciale applicabile ai procedimenti in sanatoria che, come tale, deroga alla disciplina generale solo per le fattispecie espressamente considerate
(TAR Marche, sentenza 28.12.2009 n. 1475  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi delle LL. n. 10 del 1977 e n. 122 del 1989, in sede di rilascio della concessione edilizia, non sono assoggettabili al contributo commisurato al costo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione i parcheggi c.d. obbligatori fissati dall'art. 41-sexies della L. n. 1150 del 1942.
Infatti, la L. 24.03.1989 n. 122 (c.d. “legge Tognoli”), recante disposizioni in materia di parcheggi, dispone (art. 11, comma 1) che le opere e gli interventi da essa previsti “costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'art. 9, comma 1, lett. f), della l. 28.01.1977 n. 10”, e dunque non sono soggetti a contributo concessorio.
Pertanto gli atti di accertamento devono essere ritenuti illegittimi, nella parte in cui assoggettano al pagamento degli oneri di urbanizzazione i parcheggi privati realizzati dalla ricorrente, con la precisazione che il regime di gratuità riguarda soltanto i parcheggi di pertinenza delle nuove costruzioni nei limiti della dotazione obbligatoria, che fanno corpo con le stesse o che vengono realizzati in aree pertinenziali.

Osserva il Collegio che ai sensi delle LL. n. 10 del 1977 e n. 122 del 1989, in sede di rilascio della concessione edilizia, non sono assoggettabili al contributo commisurato al costo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione i parcheggi c.d. obbligatori fissati dall'art. 41-sexies della L. n. 1150 del 1942.
Infatti, la L. 24.03.1989 n. 122 (c.d. “legge Tognoli”), recante disposizioni in materia di parcheggi, dispone (art. 11, comma 1) che le opere e gli interventi da essa previsti “costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'art. 9, comma 1, lett. f), della l. 28.01.1977 n. 10”, e dunque non sono soggetti a contributo concessorio (Cons. St., Sez. V, 14.10.1992, n. 987; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 17.04.2007, n. 1779).
Pertanto gli atti di accertamento devono essere ritenuti illegittimi, nella parte in cui assoggettano al pagamento degli oneri di urbanizzazione i parcheggi privati realizzati dalla ricorrente, con la precisazione che il regime di gratuità riguarda soltanto i parcheggi di pertinenza delle nuove costruzioni nei limiti della dotazione obbligatoria, che fanno corpo con le stesse o che vengono realizzati in aree pertinenziali.
Per quanto riguarda invece la c.d. “strada interrata”, va rilevato che trattasi di accesso privato, interrato e ad esclusivo uso dei condomini, con conseguenza della rilevanza del relativo volume ai fini del calcolo degli oneri di urbanizzazione, onde gli atti di accertamento impugnati devono essere ritenuti “in parte qua” legittimi
(TAR Marche, sentenza 28.12.2009 n. 1475  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La decadenza della concessione edilizia non deve essere dichiarata mediante un provvedimento formale, avendo la stessa natura dichiarativa.
Osserva il Collegio che, come si evince dalla documentazione in atti, il ritiro del suddetto titolo edilizio è avvenuto il 16.02.2007, quando era decorso il termine di un anno dal suo rilascio (14.02.2006), con conseguente decadenza del medesimo ai sensi dell’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale “il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo”.
Ciò è stato del resto riconosciuto dallo stesso Comune di Fano, che con nota in data 17.05.2007 prot. n. 34219 ha accolto l’istanza della s.r.l. Domega di rimborso degli oneri (prima rata) già corrisposti, dando atto che il P.d.C. n. 818/2005 “è ormai decaduto”. Né, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa della società concessionaria, la decadenza deve essere dichiarata mediante un provvedimento formale, avendo la stessa natura dichiarativa (cfr. Cons. St., Sez. IV, 18.06.2008, n. 3030).
In accoglimento della censura deve essere pertanto disposto l’annullamento dell’atto di accertamento da ultimo menzionato
(TAR Marche, sentenza 28.12.2009 n. 1475  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanatoria prevista dall'art. 37 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 può essere richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività (D.I.A.), previsti dall'art. 22, commi primo e secondo, del d.P.R. citato e non è estensibile anche agli interventi edilizi, di cui al comma terzo della richiamata disposizione, per i quali la D.I.A. si pone quale titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire (c.d. SuperDIA), applicandosi in tale ultima ipotesi la sanatoria mediante procedura di accertamento di conformità di cui all'art. 36 del medesimo d.P.R..
Il primo motivo è infondato perché la corte d'appello, con un apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, ha osservato che nella specie non poteva ritenersi intervenuta alcuna sanatoria delle opere abusive dal momento che non era stata presentata alcuna documentazione da cui risultasse che era stato rilasciato il provvedimento conclusivo del procedimento di sanatoria, ossia il permesso di costruire.
Il ricorrente continua anche in questa sede a sostenere che le opere abusive sarebbero state sanate perché egli ha presentato DIA in sanatoria ai sensi del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 37, comma 5. L'assunto è pero palesemente infondato perché la sanatoria di cui al citato art. 37 può essere chiesta solo per gli interventi edilizi di cui all'art. 22, commi 1 e 2.
Nella specie si è invece chiaramente nell'ambito delle opere di cui all'art. 22, comma 3, trattandosi dell'innalzamento del solaio di copertura fino ad una quota di m. 3,15 circa, della realizzazione di un porticato di 15 mq., e della variazione del tetto da due ad una falda. Ai sensi dell'art. 36, comma 1, quindi, l'accertamento di conformità doveva avvenire mediante richiesta di permesso di costruire in sanatoria, richiesta che, ai sensi del medesimo art. 36, comma 3, si intende rifiutata se non accolta con adeguata motivazione entro 60 giorni, il che nella specie pacificamente non è avvenuto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.07.2009 n. 28048).

EDILIZIA PRIVATANon sono legittimi, e pertanto sono inidonei ad estinguere il reato di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, i provvedimenti amministrativi di sanatoria di immobile abusivo che subordinano gli effetti del beneficio alla esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre l'immobile stesso nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, atteso che detta subordinazione è ontologicamente contrastante con la "ratio" della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro conformità agli strumenti urbanistici.
Il Proc. della Repubblica di Tivoli ricorreva per cassazione avverso l'ordinanza (09.05.2007) del G.I.P. del Tribunale di Tivoli, che aveva disposto la revoca del sequestro probatorio dell'immobile identificato come in atti in relazione ai reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. B), e artt. 83, 93, 94 e 95, stesso Decreto, anche con riguardo agli artt. 64, 65, 67, 71 e 72.
Il G.I.P. aveva argomentato rilevando come nella specie non si fosse trattato di un'ipotesi di acquisizione del manufatto sequestrato al patrimonio del Comune, atteso che era intervenuto permesso in sanatoria relativamente a talune difformità dei lavori e al rispetto di quelli assentiti; e con il quale si era disposto, tra l'altro, la conservazione di alcune opere difformi del predetto permesso: ove ritenute non demolibili senza pregiudizio delle parti assentite, e con prescrizione di previa demolizione della parte di volumetria in eccedenza rispetto all'indice di piano.
Deduceva il procuratore ricorrente la violazione di legge, osservando:
- che il Gip non aveva nulla osservato circa il documentato contrasto con lo strumento urbanistico delle opere eseguite e circa gli effetti che il provvedimento di sanatoria avrebbe prodotto a riguardo delle violazioni concernenti la normativa antisismica e quella sulle opere in conglomerato cementizio;
- che, nella sostanza, la non condivisibile valutazione del provvedimento di sanatoria spiegherebbe i suoi effetti anche sulla procedura di acquisizione dell'immobile abusivo già perfezionatosi a seguito dell'inottemperanza dell'ordinanza di demolizione;
- mentre la natura e consistenza delle opere e la complessità dei procedimenti amministrativi instaurati rendevano necessario anche un diverso apprezzamento della normativa di cui agli artt. 254 e 262 c.p.p.: stante il fatto che il mantenimento del vincolo probatorio avrebbe garantito la conservazione dell'intervenuto abusivo senza alcuna alterazione e la possibilità di effettuare, anche in sede dibattimentale, ogni attività necessaria per una corretta valutazione della consistenza degli abusi.
Con memoria difensiva del 14.09.2007 il difensore degli indagati ribadiva la correttezza del provvedimento impugnato, richiamando, tra l'altro, la giurisprudenza amministrativa che, con provvedimenti recenti aveva ritenuto che l'istanza di sanatoria sospendesse nei fatti, anche a prescindere dall'impugnativa dell'atto davanti al TAR, l'efficacia del provvedimento che ordina la demolizione del manufatto; nonché precisando come, nel caso concreto, al momento del vaglio dell'istanza ex art. 36 si fosse verificato il c.d. completamento funzionale della costruzione, consentendo così agli uffici tecnici del Comune una valutazione unitario delle opere edificate.
Sembra corretto osservare sulla falsa riga di quanto dedotto dal procuratore ricorrente come non possa riconoscersi la legittimità di quei provvedimenti di sanatoria che, come quello in esame, subordinano gli effetti del beneficio all'esecuzione di interventi finalizzati a ricondurre l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti urbanistici (Cass. Sez. 3^ n. 10601 del 30.5.2000).
La ragione del principio affermato è nel fatto che la predetta subordinazione (...) non può che essere ontologicamente contrastante con gli elementi essenziali e la ratio della sanatoria: collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro conformità agli strumenti urbanistici (per tutte, Sez. 3^ n. 986 del 27.09.2005).
Viene da sé, peraltro, come il GIP avrebbe dovuto valutare l'efficacia di tale provvedimento, controllando i parametri stabiliti dal legislatore per l'operatività della sanatoria: spettando al Giudice penale il potere-dovere di espletare ogni accertamento per stabilire l'applicabilità della causa di estensione del reato: così da delibare inefficacia del provvedimento e quindi l'inestinguibilità del reato -quando non risulti la sussistenza dei requisiti che attengono alla conformità dell'opera realizzata agli strumenti urbanistici.
L'altro punto dell'ordinanza impugnata sicuramente discutibile riguarda il fatto che il provvedimento di sanatoria rilasciato aveva presupposto la conservazione di alcune opere e la demolizione "delle parti di volumetria in eccedenza": quando, invece in presenza di un aumento di volumetria (come nel caso di specie) non è regolare contenere abusivi solo i volumi realizzati in eccedenza rispetto all'intero manufatto (dovendosi; a questo punto, ritiene abusivo l'intero immobile): anche perché l'incidenza sull'assetto urbanistico del territorio dev'essere valutata contenendo l'abuso del suo complesso.
Peraltro non va trascurato come le violazioni contestate abbiano riguardato anche i reati commessi alla disciplina antisismica e a quella relativa al conglomerato cementizio: le cui finalità non sono quelle di regolare l'assetto e lo sviluppo del territorio sotto il solo profilo urbanistico ma anche di evitare possibili crolli (di conseguenza non sono estinti da sanatoria alcuna) (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 11.11.2007 n. 41567).

EDILIZIA PRIVATA: La esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22, commi 1 e 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, allorché non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, comporta l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 44 lett. a), del citato d.P.R. n. 380, atteso che soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA, ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 dello stesso decreto n. 380 del 2001.
Il primo motivo è infondato. Il giudice del merito, invero, ha accertato -e il punto non è stato contestato da nessuno- che la scala in questione costituisce una costruzione che non avrebbe avuto bisogno di permesso di costruire ma che, in astratto, avrebbe potuto essere realizzata mediante denunzia di inizio attività, ossia di un intervento rientrante -sempre in astratto- tra quelli previsti dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 22, comma 1, (testo unico dell'edilizia).
Ciò pero non comporta necessariamente, come sostiene invece il ricorrente, che la esecuzione della stessa senza alcun titolo abilitativo determinerebbe l'applicazione delle sole sanzioni amministrative previste dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 37, primo 1, (testo unico dell'edilizia), per gli interventi edilizi di cui all'art. 22, commi 1 e 2, realizzati in assenza o in difformità della denunzia di inizio attività (e sempre che, ovviamente, non si tratta di interventi suscettibili di realizzazione mediante DIA ai sensi dell'art. 22, comma 3, nel qual caso sono applicabili le sanzioni penali di cui all'art. 44).
L'art. 22, comma 1, cit., infatti, dispone che sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività non già tutti gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6, bensì solo quegli interventi di cui all'art. 10 ed all'art. 6 che siano anche "conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente". Solo se ricorre questa condizione, quindi, si potrà applicare la disposizione dell'art. 37 che prevede solo la sanzione amministrativa per gli interventi realizzati in assenza o in difformità della denunzia di inizio attività.
Qualora invece si tratti di interventi che siano non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, la loro realizzazione (sempre che non si tratti di interventi per i quali è richiesto il permesso di costruire ai sensi dell'art. 10) comporterà comunque l'applicazione della sanzione penale prevista dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. a), il quale appunto punisce con la pena dell'ammenda "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire".
Nel caso di specie il giudice del merito ha appunto accertato in punto di fatto -e anche questo accertamento non è stato contestato- che l'intervento in questione era in contrasto con lo strumento urbanistico comunale vigente, in quanto insistente su area destinata a diventare pubblica e, per questo motivo, non assentibile mediante denunzia di inizio attività e non sanabile. Del tutto correttamente, dunque, è stato ritenuto integrato il reato di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. a) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.12.2006 n. 41619).

EDILIZIA PRIVATALa decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della L. 28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i predetti termini indicati nell'atto sono intesi a dare certezza temporale all'attività edificatoria; detto istituto è rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge.
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è, pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di validità del titolo autorizzatorio, l'attività di trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico, la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che, invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore.
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L'orientamento giurisprudenziale sulla necessità di un espresso provvedimento di decadenza non è costante.
Ed infatti una parte della giurisprudenza ritiene che la decadenza della concessione edilizia per mancato inizio ed ultimazione dei lavori non sia automatica e, pertanto, tale decadenza debba essere necessariamente dichiarata con apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo, sicché non è configurabile nella specie un giudizio d'accertamento e che, pertanto, affinché la concessione edilizia perda, per decadenza , la propria efficacia occorre un atto formale dell'amministrazione che renda operanti gli effetti della decadenza accertata.
La decadenza avrebbe, pertanto, dovuto formare oggetto di un apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato i presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie, considerato che la perdita di efficacia della concessione è subordinata all'esplicazione di una potestà provvedimentale.
Il Collegio, in tale situazione, in aderenza all’orientamento che appare prevalente nella materia da ultimo, ritiene che debba farsi riferimento invece alla lettera della legge, la quale fa dipendere la decadenza, non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, infatti, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari della concessione ma anche della Pubblica Amministrazione, ai fini dell’accertamento con apposito atto amministrativa dell’intervenuta decadenza della concessione edilizia per l’inutile scadenza del termine di inizio lavori, con probabili disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presentano identiche sul punto che interessa.
La decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori, pertanto, opera di diritto, con la conseguenza che il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi "ex se" con l'inutile decorso del termine. Segue da ciò che:
a) l'eventuale provvedimento di decadenza è sufficientemente motivato con richiamo al termine ultimo previsto per l'inizio dei lavori, senza che sia necessaria una comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico, essendo quest'ultimo "ope legis" prevalente sul primo;
b) non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento, essendo la decadenza un effetto "ipso iure" del mancato inizio dei lavori e non residuando all'amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale.
La decadenza della concessione edilizia si determina, pertanto, anche in assenza di un'espressa dichiarazione da parte dell’amministrazione competente.
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Ai fini della sussistenza, o meno dei presupposti per la decadenza dalla concessione edilizia, l'effettivo inizio dei lavori relativi deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato ed autorizzato, all'evidente scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione dell'opera progettata.
L'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva volontà da parte del concessionario di realizzare il manufatto assentito, non essendo sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione.
Pertanto l'inizio dei lavori non si configura con la sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento senza che sia manifestamente messa a punto l'organizzazione del cantiere e vi siano altri indizi che dimostrino il reale proposito del titolare della concessione edilizia di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione ed al completamento dell'opera.
E la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo ove il titolare della concessione abbia eseguito "lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge" oppure lo sbancamento interessi un'area di vaste proporzioni.

La decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della L. 28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i predetti termini indicati nell'atto sono intesi a dare certezza temporale all'attività edificatoria; detto istituto è rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge (TAR Campania Napoli, sez. IV, 29.04.2004, n. 7513).
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è, pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di validità del titolo autorizzatorio, l'attività di trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico, la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che, invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore (TAR Sardegna, 06.08.2003, n. 1001).
Ne consegue, ai fini che interessano, la assoluta irrilevanza dello stato di salute della ricorrente, quale manifestatosi successivamente al presunto inizio dei detti lavori di realizzazione degli edifici e ritenuto causa della predetta interruzione, indipendentemente dalla circostanza che il predetto stato sia stato previamente portato a conoscenza dell’amministrazione comunale interessata con l’istanza di proroga della concessione e non invece dedotto, esclusivamente, in un momento successivo, in sede di richiesta di riesame del rigetto di rilascio della nuova concessione edilizia.
Ed infatti, alla luce della citata interpretazione oggettiva del suddetto termine di inizio lavori, la proroga dello stesso non sarebbe giuridicamente configurabile per alcun motivo, neppure quello inerente allo stato di salute del titola del titolo edificatorio.
Peraltro la ricorrente, considerata l’inerzia del Comune nel riscontrare la predetta istanza di proroga, presentata nelle more di decorrenza del termine annuale di inizio dei lavori (che si evidenzia non essere stata depositata nemmeno in copia nel presente giudizio né a cura della ricorrente, direttamente interessata, né a cura del Comune, che è rimasto, nella sostanza, assolutamente inottemperante all’O.P.I. n. 10/2005), avrebbe dovuto tempestivamente, e nei modi di legge, attivarsi contro la predetta inerzia, ai fini di fare valere, eventualmente, le proprie ragioni al riguardo nei confronti dell’amministrazione comunale.
Ciò premesso, deve rilevarsi che l'orientamento giurisprudenziale sulla necessità di un espresso provvedimento di decadenza non è costante.
Ed infatti una parte della giurisprudenza ritiene che la decadenza della concessione edilizia per mancato inizio ed ultimazione dei lavori non sia automatica e, pertanto, tale decadenza debba essere necessariamente dichiarata con apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo, sicché non è configurabile nella specie un giudizio d'accertamento (TAR Abruzzo Pescara, 28.06.2002, n. 595) e che, pertanto, affinché la concessione edilizia perda, per decadenza, la propria efficacia occorre un atto formale dell'amministrazione che renda operanti gli effetti della decadenza accertata (Consiglio Stato, sez. V, 26.06.2000, n. 3612).
La decadenza avrebbe, pertanto, dovuto formare oggetto di un apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato i presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie (Cfr. da ultimo V, 15.06.1998, n. 834), considerato che la perdita di efficacia della concessione è subordinata all'esplicazione di una potestà provvedimentale.
Il Collegio, in tale situazione, in aderenza all’orientamento che appare prevalente nella materia da ultimo, ritiene che debba farsi riferimento invece alla lettera della legge, la quale fa dipendere la decadenza, non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, infatti, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari della concessione ma anche della Pubblica Amministrazione, ai fini dell’accertamento con apposito atto amministrativa dell’intervenuta decadenza della concessione edilizia per l’inutile scadenza del termine di inizio lavori, con probabili disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presentano identiche sul punto che interessa.
La decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori, pertanto, opera di diritto, con la conseguenza che il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi "ex se" con l'inutile decorso del termine. Segue da ciò che:
a) l'eventuale provvedimento di decadenza è sufficientemente motivato con richiamo al termine ultimo previsto per l'inizio dei lavori, senza che sia necessaria una comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico, essendo quest'ultimo "ope legis" prevalente sul primo;
b) non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento, essendo la decadenza un effetto "ipso iure" del mancato inizio dei lavori e non residuando all'amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale (TAR Basilicata, 23.05.2003, n. 471).
La decadenza della concessione edilizia si determina, pertanto, anche in assenza di un'espressa dichiarazione da parte dell’amministrazione competente.
Ai fini della verifica dell’effettivo inizio dei suddetti lavori nei termini di legge di cui sopra, in punto di fatto, non può che prendersi dal contenuto essenziale del verbale di sopralluogo dell’U.T.C. del 27.2.1998, che, sebbene non depositato in copia agli atti del giudizio, nonostante apposita O.P.I. al riguardo, tuttavia è stato riportato, nella sua parte motivazionale, nel testo del provvedimento di cui al prot. n. 10466 del 05.11.1998, impugnato con il ricorso sub B), rileva la consistenza dei lavori effettuati quali “modesti sbancamenti di terreno oramai ricoperti di acqua e vegetazione”;
Si ricorda, infatti, come tale attestazione debba considerarsi veridica fino a prova contraria, prova che la ricorrente non è riuscita a fornire nel presente giudizio.
Ed infatti anche dall’elencazione dei lavori effettuati, come riportati nella richiesta di riesame, dette opere consistono in “picchettatura del terreno interessato dalla costruzione, livellamento del medesimo terreno al livello delle fondazioni, creazione degli scavi per il getto dei plinti di fondazione di entrambi gli assentiti edifici, realizzazione della strada di accesso”.
Ne consegue che, nella sostanza, non appare esservi un reale contrasto tra le parti in ordine alla natura dei detti lavori, che, secondo entrambe le rappresentazioni dello stato dei fatti, si sono fermati al livello dello sbancamento dei terreni e della loro preparazione all’edificazione, senza che, tuttavia, la edificazione in senso stretto, come intesa dalla prevalente giurisprudenza sul punto, possa effettivamente considerasi iniziata.
Ed infatti, ai fini della sussistenza, o meno dei presupposti per la decadenza dalla concessione edilizia, l'effettivo inizio dei lavori relativi deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato ed autorizzato, all'evidente scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione dell'opera progettata (Consiglio Stato, sez. V, 16.11.1998, n. 1615).
L'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva volontà da parte del concessionario di realizzare il manufatto assentito, non essendo sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione (Consiglio Stato, sez. V, 22.11.1993, n. 1165).
Pertanto l'inizio dei lavori non si configura con la sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento senza che sia manifestamente messa a punto l'organizzazione del cantiere e vi siano altri indizi che dimostrino il reale proposito del titolare della concessione edilizia di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione ed al completamento dell'opera (Consiglio Stato, sez. IV, 03.10.2000, n. 5242).
E la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo ove il titolare della concessione abbia eseguito "lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge" (Consiglio Stato, sez. V, 15.10.1992, n. 1006) oppure lo sbancamento interessi un'area di vaste proporzioni (Consiglio Stato, sez. V, 13.05.1996, n. 535)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 28.06.2005 n. 5370 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa prova dell’effettiva e piena conoscenza del provvedimento impugnato deve essere dimostrata in modo assolutamente rigoroso da chi eccepisce la tardività dell’impugnazione, sicché l’effettiva e piena conoscenza della concessione edilizia rilasciata a terzi deve essere provata da chi eccepisce la tardività della sua impugnazione in modo rigoroso, e non meramente induttivo.
Ed invero, ai fini dell’inizio della decorrenza del termine per l’impugnazione della concessione edilizia non basta la semplice notizia del rilascio dell’atto o la vaga cognizione del suo contenuto, oppure il mero inizio o lo svolgimento dei lavori di costruzione, in quanto occorre la conoscenza dei suoi elementi essenziali, conoscenza che può in via presuntiva trarsi quando risulta da dati incontrovertibili il completamento della costruzione.
D’altra parte, non può ritenersi acquisita la conoscenza piena del provvedimento amministrativo lesivo, quando questa avvenga nel corso del processo da parte del difensore, occorrendo che la conoscenza piena sia acquisita personalmente dal soggetto interessato.
Neppure può ritenersi acquisita la conoscenza piena degli atti amministrativi da parte del soggetto interessato che abbia presentato esposti o denunce per lamentarne la lesività o l’eventuale illegittimità.

E’ noto che, secondo la giurisprudenza, la prova dell’effettiva e piena conoscenza del provvedimento impugnato deve essere dimostrata in modo assolutamente rigoroso da chi eccepisce la tardività dell’impugnazione (fra le tante: Cons. St., Sez. IV, 04.12.2000 n. 6486), sicché l’effettiva e piena conoscenza della concessione edilizia rilasciata a terzi deve essere provata da chi eccepisce la tardività della sua impugnazione in modo rigoroso, e non meramente induttivo (fra le tante: Cons. St., Sez. VI, 14.03.2002 n.1533).
Ed invero, ai fini dell’inizio della decorrenza del termine per l’impugnazione della concessione edilizia non basta la semplice notizia del rilascio dell’atto o la vaga cognizione del suo contenuto, oppure il mero inizio o lo svolgimento dei lavori di costruzione, in quanto occorre la conoscenza dei suoi elementi essenziali, conoscenza che può in via presuntiva trarsi quando risulta da dati incontrovertibili il completamento della costruzione (Cons. St., VI, n. 1533 del 2002 cit.).
D’altra parte, non può ritenersi acquisita la conoscenza piena del provvedimento amministrativo lesivo, quando questa avvenga nel corso del processo da parte del difensore, occorrendo che la conoscenza piena sia acquisita personalmente dal soggetto interessato (fra le tante: Cons. St., Sez. IV, 07.09.2000 n. 4725).
Neppure può ritenersi acquisita la conoscenza piena degli atti amministrativi da parte del soggetto interessato che abbia presentato esposti o denunce per lamentarne la lesività o l’eventuale illegittimità (fra le tante: Cons. St., Sez. V, 17.12.1990 n.890)
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 28.06.2002 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di decadenza della concessione edilizia ha natura dichiarativa a carattere vincolato e il relativo effetto estintivo non è disponibile per l’Amministrazione; pur dovendo essere adottato ogni volta che ne sussistono i presupposti il provvedimento di decadenza, tuttavia, non è automatico; pertanto, la decadenza deve essere necessariamente dichiarata, ai sensi dell’art. 31 della legge n. 1150 del 1942, con apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo, sicché non è configurabile nella specie un giudizio d’accertamento, in quanto la competenza esclusiva del G.A. ex art. 16 della legge n. 10 del 1977 lascia ferma, in soggetta materia, la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi e, quindi, per questi ultimi il solo rito impugnatorio annullatorio.
Il Collegio considera che, secondo la giurisprudenza, il provvedimento di decadenza della concessione edilizia ha natura dichiarativa a carattere vincolato e che il relativo effetto estintivo non è disponibile per l’Amministrazione (Cons. St., Sez. V, 07.03.1997 n. 204); pur dovendo essere adottato ogni volta che ne sussistono i presupposti (Cons. St., Sez. V, 03.02.2000 n. 597) il provvedimento di decadenza, tuttavia, non è automatico (Cons. St., Sez. V, 23.11.1996 n. 1414); pertanto, la decadenza deve essere necessariamente dichiarata, ai sensi dell’art. 31 della legge n. 1150 del 1942, con apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo, sicché non è configurabile nella specie un giudizio d’accertamento, in quanto la competenza esclusiva del G.A. ex art. 16 della legge n. 10 del 1977 lascia ferma, in soggetta materia, la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi e, quindi, per questi ultimi il solo rito impugnatorio annullatorio (Cons. St., Sez. V, 15.06.1998 n.834).
Quest’ultima pronuncia appare attuale anche in seguito alla devoluzione alla giurisdizione esclusiva del G. A. delle controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle Amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia, disposta dall’art. 34 del D.Lgs. n. 80 del 1998 come sostituito dall’art. 7, comma 1, lett. b), della legge n. 205 del 2000, essendo ferma la disposizione contenuta nell’art. 103, I comma, della Costituzione.
Tuttavia, il Collegio considera che l’art. 34 cit. estende la giurisdizione del G. A. alle controversie sui “comportamenti” delle Amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia. Pertanto, ben può essere sindacato, ad avviso del Collegio, il comportamento dell’Amministrazione che, pur sussistendo i presupposti per dichiarare la decadenza di una concessione edilizia, non adotti il relativo provvedimento
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 28.06.2002 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell’annullamento di un atto in sede giurisdizionale, ma richiede la positiva verifica di tutti i requisiti previsti dalla legge; pertanto, oltre alla lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento (danno ingiusto), è indispensabile che siano accertate la colpa (o il dolo) dell’Amministrazione e l’esistenza di un danno al patrimonio con nesso causale tra l’illecito ed il danno subito.
Resta da esaminare la domanda di risarcimento danni proposta con i motivi aggiunti.
Al riguardo il Collegio deve rilevare che la domanda risulta proposta in modo indeterminato, in quanto priva della quantificazione del danno che si assume subito, sicché la stessa appare inammissibile (Cons. St., Sez. V, 16.01.2002 n. 227).
Peraltro, il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell’annullamento di un atto in sede giurisdizionale, ma richiede la positiva verifica di tutti i requisiti previsti dalla legge; pertanto, oltre alla lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento (danno ingiusto), è indispensabile che siano accertate la colpa (o il dolo) dell’Amministrazione e l’esistenza di un danno al patrimonio con nesso causale tra l’illecito ed il danno subito (Cons. St., Sez. IV, 14.06.2001 n.3169).
Nel caso in esame, la domanda proposta non risulta assistita da sufficienti principi di prova in ordine alla sussistenza di tutti i requisiti sopra indicati, sicché anche per questo verso la stessa appare inammissibile
(TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 28.06.2002 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa decadenza della concessione edilizia, per mancato inizio lavori nel termine di legge, deve formare oggetto di un apposito provvedimento sindacale, che ne accerti i presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto dalla giurisprudenza amministrativa per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie.
Osserva la Sezione, innanzitutto, che l’art. 15 della legge regionale ora citata non collega la decadenza della concessione edilizia al mancato ritiro del documento ma al mancato inizio dei lavori entro il termine di un anno decorrente da quello del ritiro del titolo.
La disposizione stabilisce anche che l’interessato “è tenuto” a prendere in consegna il documento nel termine di sessanta giorni dal suo rilascio.
La norma è evidentemente diretta a dare certezza al termine di validità della concessione edilizia ai fini di una puntuale individuazione del termine di inizio dei lavori di costruzione, non a sanzionarne la decadenza per il mancato ritiro del titolo nel termine da essa fissato.
In ogni caso, la decadenza avrebbe dovuto formare oggetto di un apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato i presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto dalla giurisprudenza amministrativa per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie (Cfr. da ultimo V, 15.06.1998, n. 834). Nel caso in esame, infine, la concessione edilizia è stata ritenuta operante dalla stessa amministrazione comunale, che, per l’appunto, l’ha annullata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.06.2000 n. 3612 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 17.09.2012

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AVVISO AI NAVIGANTI

     Nell'ottica di migliorare ed arricchire sempre più i contenuti del Portale PTPL, si chiede di volerci segnalare (all'indirizzo info.ptpl@tiscali.it) in quali regioni esiste il servizio giuridico che fornisce risposte agli enti locali in materia di edilizia, urbanistica, appalti ed ambiente-ecologia.
     Non solo, se esiste di segnalarci pure il link della pagina web ove risultano già pubblicate tali risposte.
     Per quanto di nostra conoscenza, sappiamo già del servizio reso dalle regioni Piemonte (attualmente sospeso) e Friuli Venezia Giulia con relativa pagina web, mentre la regione Lombardia risponde agli ee.ll. ma non pubblica on-line le relative risposte (e questa è una grandissima pecca istituzionale a detrimento della crescita del "comune sapere" ...
     Grazie per la collaborazione.
17.09.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il riferimento ad “un atto di pianificazione” contenuto nel co. 6 dell’art. 92 D.Lgs. 163/2006 è da intendersi limitato ad atti che abbiano oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di opere pubbliche (ad es. variante necessaria per la localizzazione di un’opera) e non ad atti di pianificazione generale quali possono essere la redazione del Piano regolatore o di una variante generale.
La norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente.
Con specifico riferimento alla figura del Responsabile del procedimento occorre rilevare che normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli Regolamenti predisposti dalle Amministrazioni ai sensi del co. 5 dell’art. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006, partecipa alla ripartizione dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di pianificazione collegati alla realizzazione di opere pubbliche. Occorre sottolineare, però, che la sua partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, così come accade nella fattispecie disciplinata dal co. 5 dell’art. 92 del Codice dei contratti, non avviene in ragione della sua qualifica ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione.
In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del Regolamento dell’Ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività di pianificazione, come sopra specificata, venga svolta all’esterno non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’Ufficio non vi è neppure un autonomo diritto del Responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio.

La richiesta di parere proveniente dal Sindaco del Comune di Sestriere riguarda l’interpretazione dell’art. 92, del D.lgs. 12.04.2006, n. 163, recante “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18CE”, al fine di verificare, in relazione alla previsione contenuta nel co. 6 della norma in questione, se sia possibile corrispondere l’incentivo ivi disciplinato al Responsabile del procedimento in caso di progettazione esterna di un atto di pianificazione urbanistica “(nel caso di specie variante strutturale al PRG vigente)”.
L’art. 92 del D.lgs. n. 163 del 2006 disciplina i corrispettivi e gli incentivi che possono essere erogati ai dipendenti dell’Amministrazione che procedano alla progettazione di opere pubbliche.
Lo scopo perseguito dal legislatore con le norme in esame è stato quello di incentivare i dipendenti delle Amministrazioni pubbliche ad eseguire attività di progettazione internamente agli uffici, anche al fine di diminuire i costi delle attività collegate alla progettazione delle opere pubbliche.
In particolare, il co. 5 dell’art. 92 stabilisce, in linea generale, l’ammontare massimo dell’incentivo, i casi nei quali può essere erogato e la procedura che deve essere seguita dagli Enti interessati.
A seguire, il co. 6, che forma oggetto della richiesta di parere proveniente dal Sindaco del Comune di Sestriere, prevede che “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
L’esame letterale della norma citata sopra evidenzia che ai dipendenti dell’Amministrazione che hanno concorso a redigere un “atto di pianificazione” compete cumulativamente un corrispettivo pari al trenta per cento della tariffa professionale prevista per la predisposizione affidata a professionisti esterni dell’atto di pianificazione.
Preliminarmente occorre rilevare che il riferimento ad “un atto di pianificazione” contenuto nel co. 6 dell’art. 92 è da intendersi limitato ad atti che abbiano oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di opere pubbliche (ad es. variante necessaria per la localizzazione di un’opera) (Corte conti, sez. contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213) e non ad atti di pianificazione generale quali possono essere la redazione del Piano regolatore o di una variante generale.
La norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente (come riconosciuto, in più occasioni, dalla giurisprudenza contabile, in sede consultiva. Per tutte: Corte conti, sez. contr. Lombardia, parere 30.05.2012 n. 259; parere 06.03.2012 n. 57; Sez. contr. Puglia, parere 16.01.2012 n. 1; Sez. contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213).
Con specifico riferimento alla figura del Responsabile del procedimento occorre rilevare che normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli Regolamenti predisposti dalle Amministrazioni ai sensi del co. 5 dell’art. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006, partecipa alla ripartizione dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di pianificazione collegati alla realizzazione di opere pubbliche. Occorre sottolineare, però, che la sua partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, così come accade nella fattispecie disciplinata dal co. 5 dell’art. 92 del Codice dei contratti, non avviene in ragione della sua qualifica ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione.
In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del Regolamento dell’Ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività di pianificazione, come sopra specificata, venga svolta all’esterno non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’Ufficio non vi è neppure un autonomo diritto del Responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 30.08.2012 n. 290).
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Contratti pubblici/ delibera della corte dei conti. Incentivi, responsabili all'asciutto.
Il responsabile del procedimento non ha diritto all'incentivo previsto per i tecnici interni alla Pubblica amministrazione sugli atti di pianificazione se l'atto è affidato all'esterno; risulta irrilevante la qualifica di responsabile del procedimento e le norme del regolamento comunali che prevedono l'attribuzione dell'incentivo previsto dal Codice dei contratti pubblici anche in questi casi sono illegittime.

È quanto afferma la Corte dei conti con il parere 30.08.2012 n. 290 della sezione regionale piemontese.
La Corte era chiamata a fornire un parere sull'interpretazione dell'art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici, al fine di verificare se sia possibile corrispondere l'incentivo al Responsabile del procedimento in caso di progettazione esterna di un atto di pianificazione urbanistica (si trattava di una variante strutturale al Prg del Comune di Sestrière). In particolare, il comma 6, sul quale verte la richiesta di parere, prevede che «il 30% della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto».
La questione, che nasce dalla presenza nel regolamento comunale di una norma che prevede comunque l'attribuzione dell'incentivo, anche quindi se l'attività pianificatoria è svolta all'esterno, è stata posta perché su questa norma alcune recenti pronunce delle Sezioni regionali della Corte dei conti hanno escluso l'applicabilità della norma per gli atti di pianificazione urbanistica e per la funzione di Rup, nel caso di progettazione esclusivamente esterna degli stessi.
La sezione in primo luogo chiarisce quale sia l'ambito di applicazione oggettivo della disposizione del Codice, affermando che l'incentivo competete ai dipendenti dell'Amministrazione rispetto alla redazione di un «atto di pianificazione» e che in tale nozione rientrano gli atti che abbiano ad oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di opere pubbliche (ad es. variante necessaria per la localizzazione di un'opera) e non atti di pianificazione generale quali possono essere la redazione del Piano regolatore o di una variante generale.
In secondo luogo la delibera chiarisce anche che il diritto al compenso scatta rispetto al fatto che «la redazione dell'atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all'interno dell'Ente». Diverso è il discorso laddove l'atto di pianificazione sia stato svolto da terzi (professionisti, società di professionisti, società di ingegneria ecc.). In quest'ultimo caso –precisa la magistratura contabile– «non sorge il diritto ad alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell'Ente».
Venendo poi alla figura del responsabile del procedimento, usualmente nei regolamenti comunali si prevede che egli partecipi alla ripartizione dell'incentivo, nei limiti in cui si tratti di una pianificazione collegata alla costruzione di opere pubbliche, ma ciò avviene non tanto «in ragione della sua qualifica, quanto in relazione al complessivo svolgimento interno dell'attività di progettazione».
Se invece l'attività di pianificazione viene svolta all'esterno, non sorge il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell'Ufficio e, quindi, neanche il responsabile del procedimento può ottenere un compenso per un'attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d'ufficio. In sostanza, quindi, il responsabile del procedimento è equiparato agli altri tecnici e se i tecnici non hanno predisposto la progettazione o l'atto di pianificazione, anche il Rup non ha diritto all'incentivo (articolo ItaliaOggi del 14.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONEDetermina un danno erariale l’illecita percezione degli incentivi destinati alla progettazione dell’opera ai sensi dell’art. 18 della legge n. 109/1994.
Le modifiche normative susseguitesi (D.L. 03.04.1995, n. 101, art. 6, conv. in legge n. 216 del 1995; L. 15.05.1997, n. 127, art. 6; L. 17.05.1999, n. 144, art. 13), nell’introdurre criteri (legali) di ripartizione degli incentivi per la progettazione, ovvero nello stabilire il criterio della permanenza dell’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera progettata o, ancora, nell’incrementare la quota parte del costo preventivato di un’opera o di un lavoro da destinare agli incentivi stessi, hanno mantenuto fermi i presupposti per la corresponsione degli incentivi alla progettazione, ossia il discendere l’attribuzione dei corrispettivi in questione da una effettiva attività svolta dal personale dell’Ente, e la natura premiale degli stessi, indubbiamente collegata alla presenza di un’effettiva utilità per l’amministrazione come attività propedeutica alla realizzazione dell’opera pubblica.
Ne discende che non possono considerarsi “utilmente corrisposte” le somme, percepite dai dipendenti dell’Ufficio Tecnico a titolo di incentivi per la progettazione che, come risulta dimostrato per tabulas, è stata affidata a soggetti esterni all’Amministrazione, di talché le stesse costituiscono danno erariale [Si segnala altresì, in tema di c.d. “danno alla concorrenza”, il principio secondo cui l'elusione delle garanzie prescritte dalla legge, dettate a salvaguardia dell'interesse pubblico e regolanti le procedure per l'individuazione del contraente privato più affidabile e più tecnicamente organizzato per l'espletamento dei lavori, comporta un danno patrimoniale per l’Ente appaltante, nella considerazione che dalla violazione di norme imperative discende sempre la nullità del contratto, con il conseguente obbligo, per l’Amministrazione, di erogare al privato contraente un compenso limitato al solo arricchimento senza causa, ai sensi dell’art. 2041 c.c., con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace] (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sardegna, sentenza 08.11.2011 n. 595 - link a www.corteconti.it).

UTILITA'

INCARICHI PROGETTUALI: DISCIPLINARI-TIPO E MANSIONARI PER LE PRESTAZIONI PROFESSIONALI DELL’INGEGNERE (committenti pubblici e privati) (Quaderni del Centro Studi Consiglio Nazionale Ingegneri, n. 135/2012).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazione edilizia e detrazione fiscale, come fare per ottenerla? Dall’Agenzia delle Entrate la nuova guida aggiornata.
La detrazione fiscale del 36%, la più diffusa fra le agevolazioni concesse per la ristrutturazione, dopo continue modifiche normative è entrata a regime ordinario dal primo gennaio 2012.
Le procedure e gli adempimenti burocratici che occorre soddisfare per usufruire della detrazione sono contenute nella nuova guida dell’Agenzia delle Entrate, aggiornata al mese di agosto 2012, con tutte le novità in materia di potenziamento della detrazione.
In particolare, con il Decreto Legge 83/2012 (Decreto Crescita) si è intervenuti innalzando la percentuale di detrazione IRPEF al 50% per le spese sostenute dal 26.06.2012 al 30.06.2013, per un massimo di spesa, raddoppiato, pari a 96.000 euro per unità immobiliare.
Nella guida dell’Agenzia le indicazioni su come richiedere e ottenere il beneficio fiscale, in dettaglio:
● Chi usufruisce della detrazione
● La tipologia di immobile soggetto a detrazione
● I lavori a cui spetta l’agevolazione
● La documentazione tecnica da trasmettere
● Le spese ammesse alla detrazione
● Come si perde l’agevolazione
● Cosa succede in caso di cambio possesso
● Cumulabilità con detrazione Irpef per risparmio energetico (13.09.2012 - link a www.acca.it).

INCARICHI PROFESSIONALIGuida e Vademecum sulla riforma delle professioni.
Il 12 settembre scorso il Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori ha messo in rete due documenti relativi alla riforma delle professioni: una guida, in riferimento al Decreto del Presidente della Repubblica del 07.08.2012, ed un vademecum con le domande più frequenti e le relative risposte, come ad esempio:
Cos’è la riforma delle professioni?
È possibile farsi pubblicità?
I neo laureati dovranno effettuare un tirocinio per poter fare l’esame di Stato?
Cosa cambia con la riforma?
Le tariffe rimangono abrogate?
In allegato a questo articolo il vademecum sulla riforma e la guida in cui si fa riferimento ad alcuni articoli del DPR 137/2012 che hanno comportato i cambiamenti più significativi allo sviluppo della riforma delle professioni, in particolare:
● abrogazione delle tariffe professionali
● obbligo di concordare preventivamente con i clienti il compenso professionale
● obbligo di indicare i dati della propria polizza
● tirocinio per potere sostenere l’esame di Stato (13.09.2012 - link a www.acca.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Determinazione della misura del tasso di interesse di mora per l’anno 2012 da applicarsi ai sensi e per gli effetti dell’art. 133 comma 1. del Codice dei contratti e dell’art. 144 del DPR 207/2010 (ritardato pagamento degli acconti e della rata di saldo) (ANCE di Bergamo, circolare 14.09.2012 n. 223).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: I Filippetti, La Plenaria scioglie i dubbi sulle dichiarazioni ex art. 38 in caso di cessione di azienda (link a www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: C. Ruga Riva, Reato di omessa bonifica e D.Lgs. n. 231/2001: la bonifica giova (anche) all’ente? (link a www.ipsoa.it).

APPALTI: H. D’Herin, La Plenaria fa luce sull’efficacia del DURC ai fini dell’esclusione dalle gare di appalto (link a www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Carbone, Il certificato di agibilità nella contrattazione immobiliare (03.09.2012 - link a www.altalex.com).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI - VARI: G.U. 13.09.2012 n. 214 "Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute" (D.L. 13.09.2012 n. 158).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 04.09.2012 n. 206 "Determinazione, per il periodo 01.01.2012–31.12.2012, della misura del tasso di interesse di mora da applicare ai sensi dell’articolo 144 del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207" (D.M. 28.08.2012).
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Ritardi di pagamento da parte della PA. Mora negli appalti, tasso allineato a quello sui c/c con imprese non finanziarie.
Fissata al 5,25 per cento la misura del tasso di interesse di mora da applicare per il periodo 01.01.2012-31.12.2012. Il tasso d'interesse è ora identificato, per caratteristiche dello strumento e della controparte, con il tasso sui conti correnti attivi con imprese non finanziarie.
Ai sensi dell'art. 133, comma 1, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, la misura del tasso di interesse di mora da applicare ai sensi dell'art. 144 del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, è fissata per il periodo 01.01.2012-31.12.2012 al 5,27 per cento.
In precedenza, il decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, del 27.05.2011 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana - Serie generale - n. 145 del 24.06.2011), aveva fissato al 4,08 per cento la misura del predetto tasso d'interesse di mora, per il periodo 01.01.2011-31.12.2011.
Con la nota n. 25129 del 28.03.2012 il Ministero dell'economia e delle finanze, Dipartimento del Tesoro, Direzione IV, Ufficio II, ha comunicato che, sentita la Banca d'Italia, tale tasso d'interesse può ora identificarsi, per caratteristiche dello strumento e della controparte, con il tasso sui conti correnti attivi con imprese non finanziarie.
Con la suddetta nota è stato precisato che tale tasso, disponibile nel Supplemento al Bollettino Statistico della Banca d'Italia, «Istituzioni Finanziarie Monetarie: Banche e Fondi Comuni Monetari», riferito a dicembre 2011, è pari al 5,27 per cento.
Il codice dei contratti pubblici prevede infatti che in caso di ritardo nella emissione dei certificati di pagamento o dei titoli di spesa relativi agli acconti e alla rata di saldo rispetto alle condizioni e ai termini stabiliti dal contratto, spettano all'esecutore dei lavori gli interessi, legali e moratori, questi ultimi nella misura accertata annualmente con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, ferma restando la sua facoltà, trascorsi i termini di cui sopra o, nel caso in cui l'ammontare delle rate di acconto, per le quali non sia stato tempestivamente emesso il certificato o il titolo di spesa, raggiunga il quarto dell'importo netto contrattuale,di agire ai sensi dell'articolo 1460 del codice civile, ovvero, previa costituzione in mora dell'amministrazione aggiudicatrice e trascorsi sessanta giorni dalla data della costituzione stessa, di promuovere il giudizio arbitrale per la dichiarazione di risoluzione del contratto
(commento tratto da www.ipsoa.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Legittimazione a intervenire in giudizio.
Domanda
In materia ambientale, la legittimazione a ricorrere in giudizio può essere individuata con un'interpretazione estensiva delle norme?
Risposta
In tema di legittimazione a intervenire o a ricorrere in un giudizio in materia ambientale, la giurisprudenza è abbastanza nutrita e, alle volte, di opinione diversa.
Il Tribunale regionale amministrativo del Piemonte (Tar), con la sentenza del 25.09.2009, numero 2292, emessa dalla sezione prima, ha rivisitato i principi affermati dalla giurisprudenza in tema di legittimazione a ricorrere in materia ambientale. Per i giudici amministrativi piemontesi:
- la legittimazione a ricorrere delle associazioni ambientaliste non riconosciute sussiste a condizione che venga accertato in capo all'associazione stessa il requisito del carattere non occasionale o strumentale della proposizione dell'impugnativa; lo stabile collegamento con il territorio, consolidatosi nel tempo; la rappresentatività della collettività locale di riferimento. In materia, infatti, la giurisprudenza ha superato il precedente orientamento secondo il quale l'articolo 128, comma 5, della legge 08.07.1986, numero 349, nell'attribuire la legittimazione a ricorrere in sede giurisdizionale per l'annullamento di atti illegittimi in materia ambientale alle associazioni individuate con decreto del Ministero dell'ambiente, esclude la legittimazione ad agire delle associazioni non riconosciute;
- la legittimazione del singolo a ricorrere in materia ambientale non trova conforto nel fatto che il fondo sia frontista di un altro, per il quale esiste un provvedimento autorizzativo di un'opera, ritenuta nociva. Devono esistere elementi fondati che da detta opera derivi un danno per il fondo del ricorrente. Per il Tar deve essere provata la sussistenza di una propria posizione giuridica differenziata, limitatamente all'impianto collegata al verosimile danno che al lui potrebbe derivare a seguito dell'esercizio dell'impianto medesimo;
- per le associazioni riconosciute, per il Tar, la legittimazione a ricorrere sussiste in capo alla struttura nazionale e non già in capo anche all'articolazione territoriale (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Vas e Vinca.
Domanda
Il procedimento di Valutazione di incidenza ambientale (Vinca) può essere considerato equipollente della procedura di Valutazione ambientale strategica (Vas)?
Risposta
Il Consiglio di stato, sezione sesta, con la sentenza del 10.05.2011, numero 2755, ha affermato che, in fase di predisposizione del piano faunistico-venatorio, la regione avrebbe dovuto avviare la procedura di Valutazione ambientale strategica (Vas), relativamente al piano in esame, con riferimento alla normativa statale entrata in vigore già prima dell'emanazione del decreto legislativo numero 4, del 2008.
I supremi giudici amministrativi hanno, pure, puntualizzato che il procedimento di Valutazione di incidenza ambientale (Vinca) non può essere considerato equipollente, né una duplicazione, tenuto conto della diversità delle regole procedimentali e sostanziali che caratterizzano tale Valutazione di incidenza ambientale.
La Valutazione ambientale strategica (Vas) e la Valutazione di incidenza ambientale (Vinca) sono due strumenti che hanno lo scopo di misurare programmi e interventi sul comparto ambiente.
La Valutazione ambientale strategica (Vas), che è regolamentata dal decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, si riferisce agli effetti ambientali del piano, in quanto tale, e ivi esplica i suoi effetti.
La normativa recepisce i principi, gli obiettivi e le finalità della direttiva del parlamento europeo e del consiglio, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull'ambiente, datata 27.06.2001–2001/42/Ce. Detta direttiva, all'articolo 1, stabilisce che l'obiettivo di detta procedura è quello di garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e di contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione e dell'adozione di piani e programmi al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile, assicurando che venga effettuata la valutazione ambientale di determinati piani e programmi che possono avere effetti significativi sull'ambiente.
La Valutazione di incidenza ambientale (Vinca), per il Consiglio di stato, con la summenzionata sentenza, «ha un rilevo settoriale, destinato alla particolare protezione di siti di importanza comunitaria (e da tenere in considerazione in sede di Vas, anch'essa divenuta necessaria in base alla normativa sopravvenuta del 2006)». Essa è disciplinata dal dpr 08.09.1997, numero 357, che contiene il Regolamento recante attuazione della direttiva numero 92/43 Ce, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche.
Pertanto, la Valutazione di incidenza ambientale (Vinca) riguarda piani, programmi pubblici e interventi pubblici e privati che possono produrre effetti soltanto sulle aree identificate e soggette a particolare tutela prevista dal citato dpr 357/1997 (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Cava di marmo.
Domanda
A che condizioni una cava di marmo all'interno di una Zona di protezione speciale (Zps) può essere edificata?
Risposta
Il Tribunale amministrativo regionale Sicilia (Tar Sicilia), Palermo, sezione seconda, con la sentenza del 21.04.2011, numero 784, ha affermato che l'inclusione di una area adibita a cava di marmo all'interno di una Zona di protezione speciale (Zps) non comporta una condizione giuridica di inedificabilità assoluta. Si ha nel caso, per i giudici amministrativi di Palermo una condizione giuridica di inedificabilità relativa, subordinata al giudizio positivo di Valutazione di impatto ambientale (Via) e di Valutazione di incidenza ambientale (Vinca).
Per quanto sopra la pubblica amministrazione ha l'obbligo di pronunciarsi in materia in modo espresso sulla compatibilità ambientale del progetto e sulla significatività della sua incidenza rispetto agli obiettivi di conservazione del sito medesimo. Per il predetto Tribunale amministrativo regionale la pubblica amministrazione: «è tenuta a una puntuale motivazione, che non solo è immanente alla natura negativa dell'atto, ma è normativamente specificata nel suo contenuto».
La Valutazione di impatto ambientale (Via), alla luce del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, così come novellato sia dal decreto legislativo del 16.01.2008, numero 4, sia dal decreto legislativo del 29.06.2010, numero 128, ha per finalità di proteggere la salute umana, nonché contribuire, con un migliore ambiente, alla qualità della vita. Ha pure lo scopo di provvedere al mantenimento delle specie e di conservare la capacità di riproduzione dell'ecosistema in quanto risorsa essenziale per la vita.
La Valutazione di incidenza ambientale (Vinca) ha un rilevo settoriale, destinato alla particolare protezione di siti di importanza comunitaria. Essa è disciplinata, come già scritto, dal dpr 08.09.1997, numero 357, che contiene il Regolamento recante attuazione della direttiva numero 92/43/Ce, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche. La Valutazione di incidenza ambientale (Vinca) riguarda, quindi, piani, programmi pubblici e interventi pubblici e privati che possono produrre effetti soltanto sulle aree identificate e soggette a particolare tutela prevista dal citato dpr 357/1997 (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Imposizione del vincolo.
Domanda
Ai fini dell'imposizione di un vincolo da parte dall'Amministrazione dei beni culturali è necessario che il bene vincolato debba necessariamente essere accessibile alla collettività e da questa debba essere compiutamente godibile?
Risposta
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione Sicilia, sezione giurisdizionale, con la sentenza del 10.06.2011, numero 418, ha affermato che il giudizio espresso dall'amministrazione dei beni culturali in ordine all'imposizione di un vincolo, attesa la sua fisiologica opinabilità, può essere suscettibile di sindacato soltanto quando esso viene a collocarsi al di fuori di quei limiti di naturale elasticità, che sono sottesi al concetto giuridico indeterminato che l'Amministrazione è chiamata, dal punto di vista istituzionale, ad applicare.
Infatti, per i giudici siciliani, il concetto di fruibilità di beni culturali non deve essere inteso come concreta e attuale possibilità per la collettività di godere del bene, atteso che la fruibilità si colloca, sul piano logico, quale momento successivo alla qualificazione del bene quale bene di interesse culturale e alla sua conseguente tutela.
Pertanto, sempre per i suddetti giudici, l'imposizione del vincolo non richiede una ponderazione degli interessi privati con gli interessi pubblici connessi con l'introduzione del regime di tutela, neppure allo scopo di dimostrare che il sacrificio del privato sia stato contenuto nel minimo possibile, sia perché la dichiarazione di particolare interesse non è un vincolo a carattere espropriativo sia perché comunque la disciplina costituzionale del patrimonio storico e artistico della Nazione, di cui all'articolo 9 della Carta costituzionale, erige la sua salvaguardia a valore primario del vigente ordinamento.
Pertanto, alla luce di detta sentenza, la fruibilità del bene viene a costituire una finalità della tutela e non un presupposto della stessa. Corollario è la conseguente, eventuale, destinazione funzionale del bene tutelato. Infatti, anche alla luce dell'articolo 4 del decreto legislativo numero 42, del 2004, è restrittivo imporre, al fine della conservazione e tutela del bene medesimo, che esso debba necessariamente essere accessibile alla collettività e da questa debba essere compiutamente godibile (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

CONDOMINIO: Convocazione annullabile.
Domanda
L'amministratore condominiale ha convocato l'assemblea annuale, che si è tenuta e ha deliberato, tra l'altro, l'esecuzione di alcuni lavori.
Per errore, però, non è stato inviato l'avviso di convocazione a uno dei condomini. Quali sono le conseguenze?
L'assemblea è nulla o annullabile? I contratti firmati restano validi?
Risposta
Fino alla sentenza n. 4806/2005 delle Sezioni unite della Corte di cassazione e in mancanza di una norma che regolasse tale problematica condominiale, la questione risultava dubbia.
La citata sentenza ha però chiarito che nel caso specifico si verte in una ipotesi di delibera annullabile (e non nulla), suscettibile di impugnazione entro il ristretto termine di trenta giorni dalla deliberazione (per i condomini presenti e dissenzienti) o dalla sua comunicazione (per gli assenti) di cui all'art. 1137, 3° comma, del codice civile.
La Cassazione ha chiarito che sono nulle le delibere prive degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva dei condomini e quelle comunque invalide in relazione all'oggetto.
Invece, sono solo annullabili le delibere con vizi circa la regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle con vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto.
Da quanto precisato consegue che in assenza di impugnazione nel termine di 30 giorni la delibera non può più essere contestata e restano validi i rapporti generati conseguentemente (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

CONDOMINIO: Ripartizione nulla.
Domanda
L'assemblea condominiale, su proposta e in accordo con l'amministratore (lui stesso condomino), ha deliberato a maggioranza di ripartire le spese di consolidamento e ristrutturazione delle scale in base ai millesimi di proprietà dei singoli condomini, anziché rispetto al criterio legale di cui all'art. 1124 c.c, nella considerazione che appare più equo nei riguardi di chi è proprietario di appartamenti ai piani alti dato che comunque le scale servono a tutti. Questo criterio ad alcuni condomini sembra in contrasto con quanto previsto dalla legge (il regolamento non dispone nulla).
Risposta
Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. p.es. la sent. n. 747/2009), si verte in ipotesi di nullità solo nel caso l'assemblea consapevolmente modifichi i criteri di ripartizione delle spese stabiliti dalla legge; invece, le deliberazioni relative alla ripartizione delle spese sono semplicemente annullabili nel caso in cui i suddetti criteri siano violati o disattesi (in tal senso, sent. n. 7708/2007 e n. 16793/2006).
Da quanto prospettato, nel caso specifico l'assemblea sembra avere inteso modificare volutamente i criteri legali, non ritenendoli equi o adeguati, senza raggiungere l'unanimità dei consensi, cosicché sembra attanagliarsi al caso concreto l'ipotesi più grave della nullità, anziché della semplice annullabilità. Fermo restando che in presenza di dubbi, come frequentemente accade nella materia in questione, il criterio più cautelativo è quello di rivolgersi a un legale specializzato con la massima tempestività e di cercare di procedere comunque all'impugnazione nel più ristretto termine di 30 giorni previsto per l'annullamento, il ricorrere della causa di nullità fa invece venire meno l'obbligo di rispettare il predetto termine (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La legge di conversione del decreto n. 74/2012 apporta modifiche alle disposizioni già previste dal decreto? (10.09.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il fresato d’asfalto è rifiuto o sottoprodotto? (10.09.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come devono essere trattati i RAEE raccolti separatamente? (27.08.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quale è il tasso di raccolta dei RAEE definito dalla nuova direttiva? (27.08.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Gli enti o imprese che trattano i RAEE che tipo di autorizzazione devono ottenere? (21.08.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quando entrerà in vigore la direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche? Quali sono le finalità? (21.08.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La Direttiva RAEE 2012/19/UE si applica anche alle vendite effettuate on-line? (21.08.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali apparecchiature elettriche ed elettroniche non ricadranno nell’ambito della Direttiva 2012/19/UE? (21.08.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Cosa si intende per produttore ai sensi della Direttiva RAEE 2012/19/UE? In che modo il produttore è responsabile? (21.08.2012 - link a www.ambientelegale.it).

NEWS

URBANISTICACONSIGLIO DEI MINISTRI/ Il governo vara il ddl contro il consumo di suolo agricolo. Terreni agevolati, 5 anni di vincolo. Dimezzato il tempo di blocco per i cambi di destinazione d'uso.
Scende da 10 a 5 anni l'obbligo per i terreni agricoli che hanno beneficiato di aiuti di stato o aiuti comunitari di mantenere la stessa destinazione d'uso. Sarà, però, possibile realizzare sul terreno interventi e costruzioni strumentali alla attività agricola. Niente più incentivi per i comuni e le province che recuperano i nuclei abitati rurali, che mantengono però la priorità nella concessione dei finanziamenti statali e regionali previsti in materia edilizia. Priorità che viene estesa anche ai privati.
Sono essenzialmente queste le novità presenti nel testo del disegno di legge sulla valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo, proposto dal ministro delle politiche agricole Mario Catania e approvato ieri dal consiglio dei ministri. Relativamente al suo iter parlamentare proprio Catania ha detto: «Non escludo che il ddl possa essere approvato entro questa legislatura. Potrebbe avvenire se il testo venisse esaminato in sede deliberante».
Rispetto alla versione iniziale illustrata a luglio (si veda ItaliaOggi 25/07/2012), il testo presenta alcune limature e risulta più flessibile, in seguito ad una serie di consultazioni avvenute in questi mesi. La novità più rilevante riguarda il limite temporale per il divieto di mutamento di destinazione dei terreni. Il ministro ha spiegato che, fermo restando l'obiettivo di bloccare il progredire dell'urbanizzazione in luoghi agricoli, la riduzione a 5 anni dall'ultima erogazione di aiuto statale o europeo è stata introdotta per non irrigidire troppo il vincolo. Vengono però fatte salve eventuali disposizioni esistenti più restrittive e, ad ogni modo, il vincolo dovrà essere espressamente richiamato negli atti di compravendita dei terreni, a pena di nullità dell'atto.
È stata inoltre prevista la possibilità di realizzare, nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, interventi strumentali alla coltivazione del fondo, all'allevamento del bestiame, alla silvicoltura, nonché quelli funzionali alla conduzione dell'impresa agricola e alle attività di trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli.
Per quanto riguarda le misure di incentivazione, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, per evitare che la Ragioneria di Stato muovesse eccezioni sulla copertura economico-finanziaria, è stata eliminata la previsione degli incentivi per i comuni e le province che procedono al recupero dei nuclei abitati rurali. Tuttavia, resta per le amministrazioni locali che effettuano opere di manutenzione, ristrutturazione, restauro, risanamento conservativo di edifici esistenti e conservazione ambientale del territorio, la priorità nella concessione di finanziamenti statali e regionali previsti in materia edilizia. Beneficio che viene esteso anche ai privati singoli o associati, che intendano realizzare il recupero di edifici nei nuclei abitati rurali.
Invariato il cuore del provvedimento, sul cui testo sarà acquisito il parere della Conferenza unificata. Viene creato un meccanismo di identificazione, a livello nazionale, dell'estensione massima di terreni agricoli edificabili che tiene conto dell'estensione e della localizzazione dei terreni agricoli rispetto alle aree urbane, dell'estensione del suolo che risulta già edificato, dell'esistenza di edifici inutilizzati, dell'esigenza di realizzare infrastrutture e opere pubbliche. L'estensione massima viene determinata con decreto del ministro delle politiche agricole d'intesa con quello dell'ambiente e delle infrastrutture e la quota viene ripartita tra le Regioni che, a loro volta, la ripartiscono tra i comuni.
Il provvedimento interviene infine sugli oneri di urbanizzazione dei comuni abrogando la norma che consente che i contributi di costruzione siano distolti dal finanziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e che consente agli enti locali di utilizzare una percentuale dei proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni per il finanziamento delle spese correnti (articolo ItaliaOggi del 15.09.2012).

ATTI AMMINISTRATIVICONSIGLIO DEI MINISTRI/ Approvato in via definitiva il correttivo al dlgs 104/2010. Codice amministrativo, atti short. Condanna alle spese per i ricorsi lunghi. Competenze rigide.
Condanna alle spese se l'atto è troppo lungo e incompetenza per territorio sollevata d'ufficio dal Tar.

Queste le novità più importanti del decreto correttivo al decreto legislativo 104/2010 (cpa, codice del processo amministrativo) approvato definitivamente dal Consiglio dei ministri di ieri 14.09.2012. Il provvedimento si propone di ridurre i tempi dei processi e di migliorare la funzionalità di alcuni istituti processuali.
Competenza del giudice amministrativo. Il difetto di competenza territoriale può sempre essere rilevato d'ufficio dal giudice amministrativo. La misura è finalizzata a ridurre la durata del giudizio. Inoltre si argina un malcostume della prassi giudiziaria, per cui le parti si rivolgevano al Tar più propenso a concedere provvedimenti cautelari favorevoli, violando le regole sulla competenza territoriale. Il secondo correttivo (con modifica all'articolo 13) prescrive che l'inderogabilità della competenza territoriale del Tar (regola generale) vale anche in ordine alle misure cautelari.
Anzi il giudice deve decidere sulla competenza prima di provvedere sulla domanda cautelare e, se non riconosce la propria competenza, non deve nemmeno pronunciarsi sulla sospensiva. La domanda cautelare può, peraltro, essere riproposta al giudice dichiarato competente. Le parti hanno comunque la possibilità di eccepire il difetto di competenza con una richiesta espressa rivolta al giudice entro un tempo determinato. In mancanza di domanda cautelare, infatti, il difetto di competenza, può essere eccepito entro il termine previsto per la costituzione in giudizio; a quel punto il presidente fissa la camera di consiglio per la pronuncia immediata sulla questione di competenza.
Atti difensivi sintetici e chiari. Il codice del processo amministrativo detta una disposizione rigorosa quanto a rispetto del principio di sinteticità degli atti. Richiamando il codice di procedura civile, l'articolo 26 del codice del processo amministrativo dispone che il giudice deve provvedere alla condanna alle spese del giudizio. La regola è che chi perde paga e le spese, anche per i giudici amministrativi, sono liquidati in base ai parametri del decreto del ministero della giustizia n. 140/2012. Il secondo correttivo prevede che la decisione sulle spese deve essere presa tenendo conto dell'obbligo che le parti hanno di redigere atti sintetici e chiari (articolo 3, comma 2 del cpa).
Questo significa che gli atti difensivi troppo lunghi o troppo oscuri aumentano il rischio di dovere pagare un conto salato di spese di soccombenza. Questo parametro non è scritto nel decreto 140/2012, ma è direttamente applicabile. Dunque le difese troppo prolisse, con riferimento alle spese di lite sono un azzardo.
Ricorso. Le singoli parti del ricorso devono essere indicate distintamente. L'atto deve essere scritto separando in maniera netta sette parti: 1) indicazione parti; 2) oggetto della domanda; 3) fatti di causa; 4) motivi di ricorso; 5) mezzi di prova; 6) provvedimenti chiesti al giudice; 7) firme. Il decreto, poi, prevede una specifica causa di inammissibilità in caso di violazione della regola della indicazione di motivi specifici; il giudizio si chiuderà con una pronuncia sul rito, senza passare alla valutazione di merito.
Condanna ad adottare un provvedimento. Il decreto correttivo interviene, anche, sulle azioni proponibili al giudice amministrativo (modifiche all'articolo 34 cpa). In particolare si specifica che l'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto deve essere proposta contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio. Quindi nell'atto di ricorso contro l'inerzia della pubblica amministrazione o contro un provvedimento che respinge una istanza si deve inserire la domanda di condanna specifica dell'amministrazione resistente.
Il secondo correttivo, sul punto, richiama l'articolo 31 del cpa: questo significa che il giudice potrà pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione. In caso di attività discrezionale il giudice condannerà la p.a. a emanare un provvedimento.
Processo amministrativo telematico. Tutti gli atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale degli uffici giudiziari e delle parti potranno essere sottoscritti con firma digitale. Fa un passo avanti, quindi, il processo amministrativo telematico.
Processo elettorale. In materia elettorale (articolo 129 cpa) il correttivo precisa che i provvedimenti immediatamente lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni sono impugnabili innanzi al tribunale amministrativo regionale competente nel termine di tre giorni; mentre gli altri atti sono impugnati alla conclusione del procedimento unitamente all'atto di proclamazione degli eletti (articolo ItaliaOggi del 15.09.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAAmbiente, un'autorizzazione al posto di sette.
Al posto di sette diverse autorizzazioni ambientali le Pmi dovranno presentarne una sola. Utilizzando tutte lo stesso interlocutore: lo sportello unico per le attività produttive (il cosiddetto Suap).
A prevederlo è il regolamento di attuazione dell'articolo 23 del decreto «Semplifica Italia», che il Governo ha approvato ieri in via preliminare e che comincerà ora la trafila di rito (Conferenza unificata, Consiglio di Stato, commissioni parlamentari), prima di tornare a Palazzo Chigi per l'ok definitivo.
Per la soddisfazione del premier Mario Monti: questa misura, ha detto, «renderà più semplice la vita delle imprese, particolarmente per quelle piccole e medie» e «sarà di grande aiuto per la crescita». Mentre il ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, ha insistito sugli 1,3 miliardi di risparmi che il provvedimento consentirà al nostro sistema produttivo.
Che l'argomento gli stesse a cuore il presidente del Consiglio lo aveva già dimostrato nell'intervista in esclusiva al Sole 24 Ore del 29 agosto scorso quando aveva indicato nella «certificazione unica ambientale» il primo tassello attuativo da emanare dopo la pausa estiva. E così è stato. Ma l'attuazione delle norme varate sin qui sta a cuore anche a questo giornale che, con l'iniziativa «rating 24», ha deciso di monitorare passo passo il follow up delle singole riforme.
Una circostanza a cui sembra essersi riferito lo stesso Monti nella conferenza stampa post Cdm di ieri quando ha dichiarato che «in quest'ultimo periodo si è molto discusso della necessità di attuare fino in fondo nella concretezza i provvedimenti di riforma che questo Governo ha assunto». Nel ricordare che il visto unico ambientale è stato introdotto dal «Semplifica-Italia», il premier ha poi assicurato: «Sono passati tre o quattro mesi, cerchiamo di abbreviare il tempo tra il varo delle riforme e il loro impianto nel terreno».
Il Dpr messo a punto dall'Unità per la Semplificazione amministrativa di Palazzo Vidoni, in coordinamento con l'Ambiente e lo Sviluppo, ricalca quello anticipato sul Sole 24 ore di mercoledì. I 12 articoli che lo compongono consentono alle Pmi di richiedere al Suap –al posto dei sette «titoli abilitativi» attualmente rilasciati da Pa diverse– la nuova autorizzazione unica ambientale (Aua). Che affiancherà l'Aia per le grandi imprese e la Via.
Salvo modifiche dell'ultim'ora, i sette documenti dovrebbero riguardare gli scarichi, l'utilizzo di acque reflue, le emissioni in atmosfera (anche di ... (articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Diagnosi energetica sugli immobili. Nelle compravendite qualità testata da tecnici. Stop al fai-da-te.  In arrivo un decreto interministeriale sulle autodichiarazioni e un sistema omogeneo di certificazione.
Stop all'autodichiarazione dei proprietari di immobili di cattiva qualità energetica al momento della compravendita. Al suo posto arriverà una procedura semplificata, che prevede una diagnosi energetica svolta da un tecnico. La certificazione energetica sarà anche più omogenea ed estesa a tutti gli edifici; ad eccezione di quelli per cui risulta tecnicamente impossibile effettuarla.
Inoltre, verrà dato maggior ruolo ai tecnici di Cti, Enea e Cnr per la qualificazione dei software commerciali volti al calcolo della prestazione energetica.

È quanto prevede uno schema di decreto interministeriale di modifica del dm 26.06.2009 sulle «Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici», proposto dal ministero dello sviluppo economico di concerto con quello delle infrastrutture e dell'ambiente.
Composto da quattro articoli, il decreto, che non comporterà maggiori oneri per l'erario, intende estendere in modo omogeneo a tutti gli edifici del territorio nazionale la certificazione energetica. Che diventa dunque obbligatoria al momento dei trasferimenti di proprietà (non in caso di locazione) per tutti gli immobili ad eccezione di box, cantine, autorimesse, parcheggi multipiano, depositi, strutture stagionali a protezione degli impianti sportivi. Restano esclusi dall'obbligo di certificazione energetica anche i ruderi, ma solo previa dichiarazione di tale stato nell'atto notarile di trasferimento, e gli immobili venduti nella stati di scheletro strutturale, privi cioè di pareti verticali esterne, o al rustico. Vengono poi definite specifiche indicazioni per il calcolo della prestazione energetica di edifici sprovvisti di impianto di climatizzazione invernale e di produzione di acqua calda.
La possibilità per il proprietario di utilizzare, al momento del trasferimento immobiliare, un'autodichiarazione in caso di immobili di cattiva qualità energetica verrà sostituita da una diagnosi energetica svolta da un tecnico. Inoltre, lo schema di decreto specifica meglio i ruoli degli enti tecnici Cti, Enea e Cnr per la qualificazione dei software commerciali per il calcolo della prestazione energetica nel caso utilizzino i metodi più rigorosi o quelli semplificati.
Gli strumenti di calcolo, secondo il dettato normativo, dovranno garantire che i valori degli indici di prestazione energetica abbiano uno scostamento massimo di più o meno il 5% rispetto ai corrispondenti parametri determinati con l'applicazione dei sistemi di riferimento nazionali. Va detto che il decreto risponde alla necessità di ovviare alla procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea nei confronti dell'Italia per incompleta e non conforme attuazione della direttiva 2002/91/Ce sul rendimento energetico in edilizia.
Tre gli obblighi disattesi secondo il parere motivato del 29.09.2011 della Commissione europea: la deroga concessa nella legislazione nazionale all'obbligo di rendere disponibile l'attestato di certificazione energetica al momento della stipula del contratto nel caso di edifici non ancora in possesso del certificato; la possibilità, inserita nel dm 26.06.2009, dei proprietari di determinati immobili di emettere un'autodichiarazione sulla classe energetica più bassa; la mancata notifica alla Commissione delle misure attuative riguardanti le ispezioni sugli impianti di climatizzazione estiva (articolo ItaliaOggi del 14.09.2012).

ENTI LOCALIPiccoli enti e servizi. La gestione associata non è una panacea per i comuni. Vanno raggiunti elevati livelli di efficienza, efficacia ed economicità. Sennò si passa all'unione.
I piccoli comuni possono utilizzare le convenzioni per la gestione associata, uno strumento che offre occasioni di flessibilità molto più ampi delle unioni, ma devono preoccuparsi che esse raggiungano elevati livelli di efficienza, efficacia ed economicità della gestione dei servizi. Il mancato raggiungimento di tali risultati viene sanzionato con il superamento della convenzione in favore della unione.
In altri termini, il legislatore è preoccupato di impedire che i comuni utilizzino questo strumento per aggirare i vincoli stringenti dettati dalla normativa alla attivazione delle gestioni associate, ma devono operare una scelta consapevole che assuma comunque come proprio elemento caratterizzante il raggiungimento di risultati di miglioramento della qualità dei servizi e/o di riduzione dei costi.
Occorre sottolineare che questo rischio, alla luce delle disposizioni dettate dal dl n. 95/2012, è ancora maggiore poiché i vincoli alla stipula di convenzioni sono molto minori rispetto a quelli dettati per le unioni, per cui i comuni sono più «stimolati» a preferire le convenzioni. A favore del ricorso alle convenzioni si deve ricordare che i municipi con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, soglia che scende a 3.000 nei territori delle comunità montane, devono raggiungere la cifra minima di 10.000 abitanti per le unioni, mentre il legislatore non pone alcuna soglia minima obbligatoria di popolazione da raggiungere nel caso di convenzioni. Ed ancora, si deve ricordare che nel caso del conferimento della gestione di una funzione amministrativa alle convenzioni non vi sono obblighi di trasferimento del personale, mentre nel caso in cui il destinatario sia una unione, diventa obbligatorio il trasferimento del personale.
Il che costituisce un forte incentivo a dare corso alle convenzioni, visto che il personale dipendente ha una forte ostilità al trasferimento alle dipendenze di altri soggetti, sia per il variare delle condizioni di lavoro sia per la condizione di aumento della incertezza del rapporto che si determina. E inoltre, si deve sottolineare che i comuni mantengono una capacità di controllo e di influenza molto maggiore verso le convenzioni rispetto alle unioni: basta considerare che non nasce una nuova amministrazione e che nel contenuto della intesa devono essere necessariamente previste le forme di coinvolgimento dei sindaci.
Ed infine, i margini di flessibilità nella gestione sono molto maggiori nelle convenzioni, sia per la durata sia per la possibilità di dare vita alla istituzione di uffici unitari o alla delega o all'avvalimento, nonché per la possibilità di limitazione alla individuazione del solo responsabile. Si deve inoltre ricordare che l'esperienza degli ultimi anni ci dice che il numero delle convenzioni è molto più elevato delle altre forme di gestione associata, sia come valore assoluto che come rilievo delle funzioni.
Nella scelta che i comuni andranno ad effettuare entro la fine del 2012 per la gestione associata di almeno tre funzioni fondamentali e, entro la fine del 2013, delle altre sei funzioni fondamentali, occorre scegliere con oculatezza tra le convenzioni e le unioni. Senza farsi prendere dalla «pancia», che va nella direzione della convenzione perché gli amministratori dei singoli comuni contano di continuare comunque ad avere una capacità di influenza maggiore, perché i dipendenti si sentono più tutelati in quanto il loro datore di lavoro continua a essere il municipio e in quanto il «campanile» si può dire soddisfatto dal permanere della titolarità della gestione di funzioni e servizi. La eventuale scelta della convenzione per la gestione associata di una o più funzioni fondamentali deve essere ancorata alla realizzazione di un preciso e cadenzato programma di obiettivi da raggiungere.
Tale programma deve caratterizzarsi sul terreno della qualità dei servizi nuovi, innovativi e/o aggiuntivi che ci si propone di attivare, indicando i tempi di attuazione e descrivendo in modo preciso le loro caratteristiche. Ma, per molti versi soprattutto, essa deve indicare gli obiettivi di contenimento della spesa ovvero del numero dei dipendenti addetti che si conta di raggiungere. E questi obiettivi devono essere strutturati in termini operativi, cioè con la indicazione delle modalità e la fissazione delle scadenze (articolo ItaliaOggi del 14.09.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Registrazioni senza segreti. Accesso garantito alla sbobinatura della seduta. C'è trasparenza in consiglio comunale ai sensi della legge 241 del 1990.
Quesito: L'ente locale è tenuto a dare positivo riscontro alla richiesta di accesso al c.d. «sbobinamento» della registrazione sonora di una seduta di consiglio comunale?

Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. d), della legge n. 241/1990, deve intendersi per «documento amministrativo» di cui può essere chiesto l'accesso «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale».
A tale proposito, la giurisprudenza amministrativa si è più volte pronunciata nel senso di ritenere che semplici appunti, come devono essere considerate le registrazioni effettuate dal segretario comunale a proprio uso, non ancora tradotti in atti, «_ non assurgono alla qualificazione di documento amministrativo». (Tar Veneto n. 60 del 2002, Tar Lombardia, Milano, n. 1914 del 2009).
In senso contrario si è espresso recentemente il Tar Piemonte ritenendo che «_ la registrazione sonora delle sedute consiliari è suscettibile di essere inclusa nella nozione di «documento amministrativo» rilevante, ai sensi dell'art. 22, comma 1, lettera d), della legge n.241/90, ai fini dell'esercizio del diritto di accesso_». (Tar Piemonte sentenza 27/05/2011, n. 563).
Con parere reso in data 22 ottobre 2002 in riferimento alla medesima problematica, la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, istituita nell'ambito della presidenza del Consiglio dei ministri, ha precisato che occorre «_ distinguere il caso in cui il segretario comunale raccolga per proprio uso personale dei meri appunti informali dell'adunanza consiliare, anche eventualmente su supporto magnetico per la redazione del successivo verbale, dall'ipotesi in cui la registrazione dello svolgimento della seduta consiliare costituisca adempimento di una mansione d'ufficio.
Nel primo caso, gli appunti raccolti dal segretario sono da considerarsi alla stregua di una bozza strettamente personale, che potendo essere liberamente modificata non ha alcun carattere di documento amministrativo. Nel secondo caso, invece, la registrazione non è modificabile, ed il segretario o il personale espressamente incaricato di essa rispondono della sua genuinità; sicché la registrazione, dovendosi ritenere fedele riproduzione del dibattito consiliare, costituisce documento amministrativo, come tale accessibile da parte degli interessati

Nel parere del 25.11.2008, la medesima Commissione ha ritenuto ostensibile la registrazione della seduta di un consiglio comunale confermandone la natura di «documento amministrativo» al quale è garantito il diritto di accesso degli interessati, «_ senza che sia necessario fare richiamo alla normativa di speciale favore prevista per i consiglieri comunali».
Pertanto, nel caso in cui il comune si avvalga, in via istituzionale, di un apposito servizio di trascrizione da nastro di interventi delle sedute consiliari, sussistono i presupposti oggettivi circa la natura di «documento amministrativo» delle registrazioni in discorso, richiesti dall'art. 22, comma 1, lett. d) della legge n. 241/1990 ai fini dell'esercizio del diritto di accesso.
Per quanto concerne il requisito soggettivo previsto dalla normativa in commento, si rammenta che ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241/1990 si definiscono «interessati» tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso.
Tale nozione è stata interpretata in giurisprudenza in senso più ampio rispetto all'interesse all'impugnativa qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo. «La legittimazione all'accesso, conseguentemente, viene riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto d'accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante alla impugnativa dell'atto» (Cds, sez. VI, sent. n. 6440 del 27/10/2006, Tar Lazio, n. 3115 del 2008).
La sussistenza dell'interesse, quale requisito soggettivo ex art. 22, comma 1, lett. b), citato, del soggetto richiedente l'accesso dovrà essere valutata alla luce dei principi giurisprudenziali sopra evidenziati ed in base alle disposizioni regolamentari recanti la disciplina del diritto di accesso adottate dall'ente locale (articolo ItaliaOggi del 14.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIGli impianti installati sugli edifici p.a. accedono agli incentivi. Fotovoltaico, tariffe facili sui tetti dei pubblici uffici.
Accesso diretto alle tariffe incentivanti del Quinto Conto energia senza obbligo di iscrizione al Registro per gli impianti fotovoltaici realizzati sugli edifici e sulle aree della pubblica amministrazione (art. 1, 2 comma, dlgs 165/01). Non sono soggetti all'obbligo di iscrizione al Registro e accedono direttamente alle tariffe incentivanti (dm 05.05.2011) gli impianti realizzati sugli edifici pubblici e sulle aree delle amministrazioni pubbliche, a condizione che: l'edificio o l'area ove sono ubicati gli impianti siano di proprietà delle p.a. già alla data di entrata in esercizio dell'impianto e per tutta la durata del periodo di incentivazione; gli impianti entrino in esercizio entro il 31.12.2012.
Questa è una delle risposte fornite dal Gestore dei Servizi energetici (Gse), in merito ai quesiti ricevuti per le modalità procedurali da seguire per l'iscrizione al Registro. Il Gse fornisce inoltre un secondo chiarimento sulle cause di esclusione della graduatoria. La graduatoria degli impianti rientranti nel limite di costo è formata applicando i criteri di priorità previsti dal dm 05.07.2012, utilizzando i dati e le informazioni di cui alle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà (dpr 445/2000), della cui correttezza e veridicità il dichiarante si assume piena ed esclusiva responsabilità.
Come previsto dal dm 05.07.2012, il mancato inserimento dei documenti previsti ai fini dell'iscrizione comporta l'esclusione dalla graduatoria. Il Gse, al fine di sensibilizzare gli operatori al caricamento corretto dei dati e dei documenti necessari, ritiene utile segnalare di seguito le cause più frequenti di possibile esclusione dalla graduatoria riscontrate nei precedenti registri:
- mancata allegazione del documento di identità del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, in corso di validità;
- assenza della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà;
- mancata sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà;
- presenza di modifiche, integrazioni e/o alterazioni apportate manualmente alla dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà;
- incertezza sul contenuto o sulla provenienza della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà o del documento di identità del sottoscrittore della dichiarazione, per difetto di elementi essenziali o per presenza di parti non leggibili.
Il Gse ricorda che l'applicazione informatica consente di verificare i documenti inseriti e, se necessario, di annullare la richiesta di iscrizione al Registro già inviata e di ripresentarne una nuova purché tali operazioni avvengano durante il periodo di apertura del Registro. Il Gse ha inoltre redatto un documento nel quale vengono forniti agli operatori alcuni chiarimenti da tenere in considerazione per l'ammissione alle tariffe incentivanti, relativi alla definizione di edificio energeticamente certificabile e alle certificazioni/attestazioni richieste per i moduli e gli inverter ai sensi del quinto Conto energia (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOTrasferimenti bloccati anche con una disabilità non grave. La sentenza della cassazione potrebbe richiedere la revisione del contratto sulla mobilità.
Trasferimenti bloccati per chi assiste un parente disabile anche se la disabilità non è grave.
Una recente sentenza in materia di assistenza ai soggetti dichiarati disabili dalle commissioni mediche dell'Asl, pronunciata dai giudici della sezione lavoro della Corte di cassazione e depositata in cancelleria lo scorso 7 giugno, se dovesse essere confermata da altre sentenze della medesima Suprema Corte, renderebbe necessaria una importante modifica della disposizione contenuta nell'articolo 33, comma 5, della legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappata n. 104/1992 e successive modificazioni,
Il predetto comma 5, nella formulazione attualmente in vigore dispone che il lavoratore che assiste un parente con handicap in situazione di gravità (coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti) ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso in altra sede.
Ad avviso dei giudici il diritto del lavoratore a non essere trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso non può, invece, subire limitazioni neppure allorquando la disabilità del familiare non si configuri come grave.
L'inamovibilità del lavoratore è giustificata dalla cura e dall'assistenza del familiare disabile, sempre che non risultino provate da parte del datore di lavoro –a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica del familiare– specifiche esigenze datoriali che, in equilibrato bilanciamento tra interessi, risultino effettive, urgenti e comunque suscettibili di essere diversamente soddisfatte.
Sempre ad avviso dei giudici della sezione lavoro della Suprema Corte, la limitazione contenuta nel comma 5, producendo l'effetto di privare i disabili di una assistenza indispensabile alla loro esistenza e finalizzata alla tutela psico-fisica e all'integrazione nella famiglia e nella collettività, contrasterebbe anche con quanto dispone la Convenzione Onu del 13.12.2006 sui diritti delle persone con disabilità recepita dalla legge 15/2009. Fin qui la tesi dei predetti giudici. Una estensione del diritto alla inamovibilità alle condizioni e con le finalità indicate nella sentenza appare, tuttavia, improbabile a meno che non si definiscano preliminarmente e con chiarezza le cause che possono determinare lo stato di disabilità e soprattutto il tipo di assistenza di cui il disabile avrebbe bisogno.
Una eventuale modifica legislativa del comma 5, nel senso ipotizzato dai giudici della Corte di Cassazione, costringerebbe l'amministrazione scolastica e, per quanto di competenza, anche le organizzazioni sindacali del comparto scuola, a rivedere le norme sulla mobilità e soprattutto quelle che disciplinano la formazione delle graduatorie d'istituto da compilare annualmente per l'individuazione del personale eventualmente in soprannumero che dovrà essere trasferito ad altra sede.
La modifica, in particolare, di queste ultime norme avrebbe peraltro conseguenze devastanti tra il personale di ruolo sia docente che Ata il cui mantenimento della sede di titolarità verrebbe ad essere condizionato dalla presenza in tutte le scuole di numeroso personale, anche di prima nomina, che assiste un parente disabile non in situazione di gravità (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2012).

CONDOMINIO: Fotovoltaico, il condomino è spa. Con impianti oltre 20 kw o vendita scatta la società di fatto. I chiarimenti delle Entrate a un quesito del Gse. Nessuna rilevanza fiscale agli incentivi.
Sconta l'Iva e la ritenuta alla fonte del 4% la cessione di energia da fotovoltaico effettuata dai condomini a favore del Gse (Gestore dei servizi energetici). Ciò perché, ove vengano superati i limiti di potenza previsti per l'autoconsumo, si è in presenza di una vera e propria società di fatto tra i soggetti (condomini) che di comune accordo intraprendono l'attività; resta invece del tutto esclusa qualsiasi rilevanza per il condominio, inteso come soggetto autonomo che non può mai esercitare attività d'impresa.
È la soluzione che l'Agenzia delle entrate ha adottato, con risoluzione 03.08.2012 n. 84/E, in merito a un quesito avanzato dallo stesso Gse.
Il punto di partenza, condiviso, è che le somme percepite a titolo di tariffa incentivante in relazione all'energia prodotta con impianti di potenza fino a 20 kw asserviti al condomino, non assumono rilevanza fiscale, al pari di quella percepita dalle persone fisiche e dagli enti non commerciali che gestiscono impianti fotovoltaici della stessa potenza per soddisfare principalmente le esigenze domestiche.
Ma cosa succede quando il condominio utilizza un impianto, di potenza superiore a 20 kw o in relazione al quale opti per la cessione integrale o parziale alla rete dell'energia prodotta?
Il problema attiene all'individuazione del soggetto che, in sostanza, esercita l'attività imprenditoriale.
Il Gse, nella propria soluzione interpretativa aveva individuato nel condominio il soggetto cui attribuire l'attività e i relativi obblighi tributari.
Per l'Agenzia delle entrate, però, il condominio resta estraneo, in ogni caso, all'attività di produzione di energia, in quanto, gli effetti economici (percezione dei proventi) e fiscali (tassazione dei proventi) conseguenti allo svolgimento di questa attività, si producono direttamente sui condòmini. Il condominio, infatti, disciplinato dagli articoli 1117 e seguenti del codice civile, rappresenta una particolare forma di comunione che riguarda le parti comuni dell'edificio che necessita di essere amministrata o dall'assemblea dei condòmini, che decide in base al principio di prevalenza della maggioranza, nel bene degli interessi comuni, oppure, per gli edifici condominiali con più di quattro condòmini, dall'amministratore, avente compiti di carattere amministrativo, esecutivo e rappresentativo che permettono al condominio di agire in modo unitario nei rapporti con i terzi (fornitori, utenze, amministrazione finanziaria, eccetera). In sostanza il condominio è un ente di gestione che opera per conto dei condòmini limitatamente all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condòmino.
Nell'ipotesi in cui negli spazi condominiali venga realizzato un impianto fotovoltaico che configura lo svolgimento di un'attività commerciale abituale, il condominio non può mai configurarsi come soggetto che svolge l'attività di produzione e vendita dell'energia.
Ebbene, secondo l'Agenzia l'accordo tra i condomini per la realizzazione dell'impianto individua una società di fatto tra gli stessi. Più precisamente, poiché la realizzazione dell'impianto fotovoltaico per fini commerciali rientra tra le «Innovazioni» che i condomini possono disporre ai sensi dell'art. 1120 del codice civile «(_) dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni» sono considerati soci della società di fatto i condòmini che hanno deliberato con la maggioranza richiesta dall'art. 1136 del codice civile, la realizzazione dell'investimento. Restano esclusi, dalla società di fatto i condòmini che non hanno approvato la decisione e che non intendono trarre vantaggio dall'investimento. In questo caso gli stessi, sulla base di quanto disposto dall'art. 1121, primo comma, ultima parte, del codice civile «sono esonerati da qualsiasi contributo di spesa».
Cosicché da un lato la società di fatto tra condòmini che gestisce un impianto fotovoltaico è commerciale e deve emettere fattura nei confronti del Gse, in relazione all'energia che immette in rete e dall'altro il Gse che eroga la tariffa incentivante deve operare nei confronti della società di fatto la ritenuta del 4% di cui all'art. 28 del dpr n. 600 del 1973 sulla tariffa relativa alla parte di energia immessa in rete (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

ENTI LOCALI - VARI: Pass disabili, conto alla rovescia. Entro tre anni sostituiti contrassegni arancioni e segnaletica.  Pubblicato sulla G.U. il decreto n. 151 del 30 luglio, che disciplina il rilascio del permesso Ue.
Entro tre anni dovrà essere rilasciato il nuovo contrassegno per disabili conforme al modello europeo, che consentirà la sosta nei paesi dell'Unione europea che si sono conformati alla raccomandazione del consiglio dell'Unione europea n. 98/376/Ce del 04.06.1998. E dovrà essere adattata la corrispondente segnaletica verticale. Per i titolari scatterà l'obbligo di esporre il permesso in modo visibile nella parte anteriore del veicolo.
Lo prevede il decreto del presidente della repubblica n. 151 del 30.07.2012 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 203 del 31.08.2012.
Il contrassegno comunitario è già stato adottato da tempo da molti stati dell'Unione europea in adesione alla raccomandazione n. 98/376/Ce del 04.06.1998 del consiglio, modificata dalla raccomandazione n. 2008/205/Ce del 03.03.2008. Sul modello di colore azzurro chiaro, con il simbolo bianco della sedia a rotelle su fondo azzurro scuro, saranno trascritti e apposti la data di scadenza, il numero di serie e il nome e il timbro dell'autorità nazionale che rilascia il contrassegno e nella parte retrostante, non visibile, il nominativo e la fotografia del soggetto autorizzato.
Il titolare può fruire delle facilitazioni di sosta in tutti gli stati membri dell'unione europea che hanno aderito alla raccomandazione, comunque con l'obbligo di rispettare le specifiche disposizioni di ogni singolo paese. L'Italia non aveva finora dato seguito alla raccomandazione 98/376/Ce. Tuttavia, grazie alla riforma stradale del 2010, si erano poste le basi per adottare il contrassegno uniforme europeo per la sosta dei disabili. Infatti, l'art. 58 della legge n. 120 del 29.07.2010 aveva modificato l'art. 74 del decreto legislativo n. 196 del 30.06.2003 (codice in materia di protezione dei dati personali), sopprimendo il divieto di usare diciture o simboli, dai quali si possa desumere la speciale natura dell'autorizzazione per effetto della sola visione del contrassegno.
Queste nuove disposizioni, in vigore dal 13.08.2010, avevano eliminato gli ostacoli normativi all'adozione in Italia del contrassegno europeo per invalidi. Restava da compiere però un ultimo passo, ovvero l'emanazione di un decreto del presidente della repubblica, che, modificando l'art. 381 del regolamento di esecuzione e attuazione del codice della strada, recepisca la raccomandazione 98/376/Ce. Ora, il decreto del presidente della repubblica n. 151/2012, in vigore dal 15.09.2012, oltre a introdurre nell'ordinamento interno il contrassegno invalidi comunitario, prevede altre importanti novità per i veicoli al servizio di persone invalide, apportando modifiche all'art. 381 del regolamento di esecuzione e attuazione del codice della strada).
Il nuovo «contrassegno di parcheggio per disabili» (denominazione diversa da quella finora usata di «contrassegno invalidi»), dovrà essere conforme al modello previsto dalla raccomandazione del consiglio dell'Unione europea del 04.06.1998, e sarà rilasciato a chi abbia capacita di deambulazione sensibilmente ridotta o (e questa è la novità) impedita. La sostituzione del vecchio contrassegno con quello nuovo dovrà avvenire entro tre anni dalla data di entrata in vigore del regolamento. I comuni potranno però fissare tempi inferiori. Durante il periodo transitorio di tre anni i permessi già rilasciati resteranno validi, ma in sede di rinnovo dovrà essere rilasciato il nuovo modello.
Nell'ambito dell'art. 381 viene inserito l'obbligo di esporre il permesso in originale nella parte anteriore del veicolo in modo che sia chiaramente visibile per i controlli. L'esposizione nella parte anteriore del mezzo è già imposta dall'art. 12 del decreto del presidente della repubblica n. 503 del 24.07.1996; viene però specificato che si deve esporre l'originale in modo visibile. Resta isolato e ampiamente contraddetto il parere prot. n. 300/A42756/103/48 del 05.05.1999 con il quale il ministero dell'interno aveva affermato che la mancata esposizione del contrassegno per disabili, dovuta a dimenticanza o caso fortuito, non era sanzionabile.
Con la modifica del comma 4 dell'art. 381 viene chiarito che, scaduto il periodo di validità del contrassegno a tempo determinato, potrà esserne emesso uno nuovo previa ulteriore certificazione medica rilasciata dall'ufficio medico legale dell'azienda sanitaria locale di appartenenza con la quale si attesti che le condizioni della persona invalida danno diritto all'ulteriore rilascio.
Viene introdotta un'importante condizione per l'assegnazione a titolo gratuito di uno spazio di sosta nei casi di particolare invalidità, nelle zone ad alta densità di traffico. Infatti, non occorre più che il titolare del contrassegno sia abilitato alla guida e disponga di un autoveicolo, ma è necessario che l'interessato dimostri di non avere la disponibilità di uno spazio di sosta privato accessibile e fruibile. Il comune potrà prevedere la gratuità della sosta per gli invalidi nei parcheggi a pagamento, qualora risultino già occupati o indisponibili gli stalli a loro riservati.
Pur essendo pregevole l'intento del legislatore, non sarà del tutto agevole per gli organi di polizia stradale accertare se tali posti, a una certa ora e in un dato momento, erano occupati da altri veicoli. Il comune potrà stabilire, anche nelle aree a pagamento gestite in concessione, un numero di posti destinati alla sosta gratuita degli invalidi muniti di contrassegno superiore al limite minimo di un posto ogni cinquanta o frazione di cinquanta posti disponibili, previsto dal decreto del presidente della repubblica n. 503 del 24.07.1996. L'introduzione del nuovo modello di contrassegno invalidi sarà accompagnata dall'aggiornamento della corrispondente segnaletica stradale.
Entro tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto del presidente della repubblica n. 151 del 30.07.2012 la segnaletica riguardante la mobilità delle persone disabili dovrà essere adatta recependo la rappresentazione grafica del nuovo contrassegno. In dettaglio, per quanto riguarda la segnaletica orizzontale, le strisce che delimitano lo stallo di sosta restano gialle, ma il simbolo della carrozzella diventa blu.
Con riferimento alla segnaletica verticale vengono modificati il cartello che individua lo stallo di sosta e i segnali di area pedonale e di zona a traffico limitato, nella parte relativa alle eccezioni (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

INCARICHI PROFESSIONALI/PROGETTUALI: Mandato professionale, mai più senza l'accordo sul compenso. Gli effetti del regolamento del Mingiustizia. Parametri applicati solo in caso di dissenso.
Per il professionista è ormai indispensabile che il mandato professionale contenga anche l'accordo sul compenso.
I parametri previsti dal regolamento emanato dal ministero della giustizia verranno applicati dal giudice solo in caso di mancato accordo tra le parti sul compenso stesso. Qualora il professionista sia in grado di dimostrare che tra le parti era stato raggiunto un accordo sul compenso il giudice non potrà che prenderne atto e liquidare il compenso sulla base dell'accordo sottoscritto.
Nell'ambito delle regole generali dettate dal regolamento, viene precisato come nel compenso determinato con l'applicazione dei parametri non siano ricomprese le spese da rimborsare, «secondo qualsiasi modalità, compresa quella concordata in modo forfettario», né tantomeno non vi sono ricompresi oneri e contributi dovuti a qualsiasi titolo per lo svolgimento dell'incarico. Sono a carico del professionista i costi per le prestazioni rese dai suoi collaboratori.
Il compenso così liquidato comprende l'intero corrispettivo dovuto per la prestazione resa, ivi comprese le attività accessorie alla stessa.
In caso di incarichi collegiali il compenso, che rimane sempre unico, può essere aumentato fino al doppio; l'unicità del compenso nel caso di incarico conferito a una società tra professionisti, anche se la prestazione è stata resa da più soci.
Per gli incarichi non portati a compimento ovvero per quelli che sono prosecuzione di incarichi precedentemente affidati ad altri si dovrà tener conto dell'opera effettivamente svolta.
L'assenza di prova del preventivo di massima costituisce elemento di valutazione negativa da parte del giudice per la liquidazione del compenso.
In nessun caso le soglie numeriche indicate, sia come minimi che come massimi, sono elementi vincolanti per la liquidazione stessa: cioè i parametri costituiscono un mero riferimento per il giudice, e quindi possono essere anche disattesi.
Secondo quanto riportato dalla relazione ministeriale, quest'ultima disposizione, si è resa necessaria, per evitare che i parametri assurgessero al ruolo di tariffa.
Rimangono sul punto delle perplessità, soprattutto alla luce delle prassi che sembrano ormai prevalere da alcuni anni in alcuni tribunali, di liquidare sempre e comunque i compensi minimi, quando non addirittura sotto i minimi, per gli incarichi di ausiliario del giudice (ctu) o nelle procedure concorsuali, e ciò indipendentemente dal lavoro effettivamente svolto e dalle singole circostanze che possono aver interessato lo svolgimento dell'incarico stesso.
Sarà pertanto opportuno che l'accordo sul compenso sia trasfuso nel mandato professionale, divenuto oramai sempre più uno strumento indispensabile per il professionista e per l'organizzazione del proprio lavoro.
Rileggendo con attenzione il 4 comma dell'art. 9, dl 1/2012, nella parte che riguarda il preventivo di massima, si rileva come l'attenzione della norma sia posta alla «misura» del compenso, e non al compenso stesso inteso quale puntuale riferimento a un univoca misura di valore: oggetto della pattuizione tra il cliente ed il professionista è quindi la modalità di determinazione del compenso, cioè rendere noto al cliente come verrà determinato il compenso per la prestazione richiesta, esplicitando tutte le voci di costo relative alle singole prestazioni che si rendono necessarie o, per meglio dire, che si presume si rendano necessarie per l'adempimento dell'incarico conferito (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori in edilizia semplificati. Prevalgono le autocertificazioni al posto dei pareri degli enti. Alcune delle misure contenute nel decreto crescita. Meno adempimenti per presentare la Scia.
Ancora più semplificazione in edilizia. L'autocertificazione la fa da padrona, diventano libere le opere interne e i mutamenti di destinazione d'uso per gli edifici non abitativi. Lo sportello unico deve liberare da incombenza di presentazione di certificati e nulla osta. E la Dia somiglia sempre di più alla Scia.
Il decreto legge 83/2012, convertito nella legge 134/2012, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 187 dell'11.08.2012 modifica alcune norme del T.u. dell'edilizia (dpr 380/2001) relative alla disciplina dei procedimenti amministrativi relativi alla Scia e prevede che, nei casi ordinari, per iniziare i lavori sarà sufficiente accompagnare i due titoli abilitativi con autocertificazioni o certificazioni di tecnici abilitati, anziché con i pareri tecnici e gli altri atti preliminari.
Il comma 1 dell'articolo 13 del decreto 83/2012 semplifica ulteriormente le modalità di presentazione della Scia.
Prevalgono l'autocertificazione e le attestazioni e le asseverazioni di tecnici: sono sostitutivi dei pareri degli enti o organi preposti e delle verifiche previsti non solo dalla normativa di rango legislativo, ma anche di rango regolamentare, salve le verifiche successive degli organi o amministrazioni competenti. A livello regionale e locale, continuano a essere in vigore passaggi procedimentali previsti da atti regolamentari, formalmente non intaccati dall'articolo 19 della legge 241/1990 (dedicato alla Scia), che, nella versione ante dl 83/2012, dichiarava la possibilità di sostituire pareri e nulla osta previsti dalla «legge», lasciando in piedi quelli previsti da regolamenti. Dell'allargamento dell'autocertificazione beneficeranno non solo i procedimenti edilizi, ma anche l'attività imprenditoriale, commerciale e artigianale.
Per completezza va ricordato che non possono essere sostituiti dalla Scia e, rimangono, pertanto, soggetti a pareri e verifiche preventive tutti gli interventi che interferiscono con vincoli ambientali, paesaggistici, culturali, di pubblica sicurezza, difesa nazionale, costruzioni in zone sismiche, normativa comunitaria e gli altri elencati nel primo periodo del comma 1 dell'articolo 19 della legge 241/1990.
La Scia consente di iniziare l'attività immediatamente e senza necessità di attendere la scadenza di alcun termine; mentre per la Dia bisogna attendere un termine iniziale, entro il quale l'amministrazione può bloccare l'avvio dell'attività.
Già con circolare del 16.09.2010 il ministero per la semplificazione normativa ha chiarito che la Scia non si applica solo all'avvio dell'attività di impresa, ma sostituisce anche la Dia in edilizia, eccetto la Dia alternativa al permesso di costruire (cosiddetta superDia) e nei casi in cui le leggi regionali abbiano previsto l'utilizzo della Dia per ulteriori tipi di intervento rispetto a quelle previste dal T.u. dell'edilizia. La Scia consente di avviare i lavori il giorno stesso della sua presentazione, mentre con la Dia occorre attendere 30 giorni.
L'articolo 5 del decreto legge n. 70/2011 ha precisato che la Scia deve essere corredata delle dichiarazioni, attestazioni e asseverazioni dei relativi elaborati tecnici a cura del professionista abilitato. Per il settore edilizio sono stati esclusi dalla Scia i casi relativi alla normativa antisismica e quelli in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali. L'articolo 6 del decreto legge n. 138/2011 ha previsto che la Scia venga corredata dalle attestazioni e asseverazioni dei tecnici abilitati non più in via generale, ma solo se previsto dalle norme di settore.
Il decreto 83/2012 estende alla Dia le semplificazioni procedimentali prevista per la Scia, in relazione alla possibilità di sostituire atti o pareri di enti o organi con autocertificazioni o certificazioni di tecnici abilitati.
Anche per la Dia, analogamente alla Scia, le autocertificazioni, attestazioni, asseverazioni o certificazioni di tecnici abilitati sostituiscono gli atti o pareri di organi o enti appositi o le verifiche preventive, salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti.
Conseguentemente i pareri preliminari di stampo tecnico saranno sostituiti da attestazioni e asseverazioni di professionisti abilitati, andandosi ad ampliare il sistema delle autocertificazioni sostitutive del controllo pubblico preventivo. Il controllo preventivo rimane sempre obbligatorio nel caso di vincoli ambientali, paesaggistici, pubblica sicurezza e negli altri casi previsti nello stesso comma 1-bis dell'articolo 23 del Testo unico per l'edilizia. Le certificazioni devono essere prodotte da tecnici abilitati e attestare la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge, dagli strumenti urbanistici approvati o adottati e dai regolamenti edilizi. Esse devono essere prodotte a corredo della documentazione richiesta nel momento della presentazione della Dia.
Con il dl 83/2012 Dia e Scia si somigliano sempre di più, anche per le modalità di presentazione. Innanzi tutto è prevista l'emanazione di un regolamento per la presentazione della Dia con strumenti telematici. Fino all'emanazione del regolamento, la Dia, corredata dalle dichiarazioni e asseverazioni nonché dai relativi elaborati tecnici, può essere presentata mediante posta raccomandata con avviso di ricevimento, a eccezione dei procedimenti per cui è previsto l'utilizzo esclusivo della modalità telematica e, in tal caso, essa si considera presentata al momento della ricezione da parte dell'amministrazione.
Altri ritocchi apportati dal dl 83/2012 riguardano il caso in cui l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto a un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale: il termine di 30 giorni per l'effettivo inizio dei lavori decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Se tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti. Qualora l'immobile sia, invece, sottoposto a un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione comunale, se il parere favorevole del soggetto preposto alla tutela non sia allegato alla denuncia, l'ufficio comunale deve convocare una conferenza di servizi e il termine di 30 giorni decorre dall'esito della conferenza. Le nuove disposizioni si applicano entro il 12.02.2013.
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Imprese, la modifica interna è senza vincoli.
L'attività edilizia conquista spazi di libertà. Il decreto 83/2012 introduce un'ulteriore tipo di interventi per i quali non è necessario alcun titolo abilitativo: le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti a esercizio di impresa e le modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti a esercizio d'impresa (nuova lettera e-bis dell'articolo 6, comma 2, del Testo unico per l'edilizia).
Inoltre, viene eliminato l'obbligo generalizzato di allegare alla comunicazione di inizio dei lavori le autorizzazioni eventualmente obbligatorie ai sensi delle normative di settore. Viene mantenuto, per gli interventi di manutenzione straordinaria e per la nuova categoria di interventi introdotti con la lettera e-bis), l'obbligo di allegare alla comunicazione di inizio dei lavori i dati identificativi dell'impresa alla quale si intende affidare la realizzazione dei lavori, nonché una relazione tecnica con la quale un tecnico abilitato asseveri che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti e che per essi la normativa statale e regionale non prevede il rilascio di un titolo abilitativo.
Il tecnico deve inoltre dichiarare di non avere rapporti di dipendenza con l'impresa né con il committente. Viene introdotta una disposizione per i nuovi interventi di cui alla lett. e-bis) per i quali si prevede la trasmissione delle dichiarazioni di conformità, che attestino la sussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, da parte delle agenzie per le imprese.
L'articolo 6 del c.d. T.u. dell'edilizia elenca gli interventi rientranti nell'attività edilizia libera che include la manutenzione ordinaria, l'eliminazione di barriere architettoniche e le opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo, interventi di manutenzione straordinaria, opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee, opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, pannelli solari, fotovoltaici e termici, aree ludiche senza fini di lucro ed elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici. Questi interventi sono realizzabili senza alcun titolo abilitativo anziché mediante segnalazione certificata di inizio attività (Scia).
La norma differenzia le tipologie di intervento in due categorie, a seconda che occorra una previa comunicazione all'amministrazione comunale dell'inizio dei lavori, anche per via telematica, da parte dell'interessato, insieme con le autorizzazioni eventualmente obbligatorie ai sensi delle normative di settore.
Esclusivamente per i lavori di manutenzione straordinaria e per le nuove categorie di intervento introdotte dal decreto legge 83/2012 è prevista comunicazione e allegazione documentale.
La mancata segnalazione di inizio attività o la mancata trasmissione della relazione tecnica comportano la sanzione pecuniaria di 258 euro, che può essere ridotta a due terzi se la comunicazione è effettuata spontaneamente quando l'intervento è in corso di esecuzione. L'articolo 6 del T.u. edilizia, infine, prevede che le regioni a statuto ordinario possono estendere la semplificazione a interventi edilizi ulteriori rispetto a quelli previsti, individuare ulteriori interventi edilizi per i quali è necessario trasmettere al comune la relazione tecnica o stabilire ulteriori contenuti per la medesima relazione tecnica (articolo ItaliaOggi Sette del 10.09.2012).

CORTE DEI CONTI

ATTI AMMINISTRATIVI: Una “notizia di danno” è valida ai fini dell’avvio delle indagini anche se da essa non emergono con certezza i requisiti dell’attualità e concretezza del danno.
Invero gli elementi dell'attualità e concretezza del danno si configurano come presupposti oggettivi necessari ai fini dell'esercizio dell'azione di responsabilità amministrativa dovendo sussistere al momento dell'emissione dell'invito a dedurre, ma non anche al momento dell'avvio delle indagini da parte dell'inquirente.
In tale fase, secondo l’art. 17, comma 30, del decreto legge n. 78 del 2009 s.m.i., è sufficiente che sussista l'indicazione attendibile di una condotta la quale, nella sua specifica fattualità, sia idonea a determinare un immediato effetto dannoso il cui concreto prodursi formerà, anch’esso, oggetto di indagine da parte dell'inquirente e degli organi di polizia giudiziaria [fattispecie in materia di inquadramenti e assunzioni in mancanza di requisiti previsti dalla legge] (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. III giur. centrale d'appello, sentenza 03.09.2012 n. 567 - link a www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: La carenza di personale interno eventualmente idoneo a svolgere il compito affidato all’esterno deve accertato per mezzo di una reale ricognizione.
Invero, il conferimento di incarichi all’esterno, anche attraverso un co.co.co., è consentito solo allorquando nell’ambito della dotazione organica non sia possibile reperire personale competente ad affrontare problematiche di particolare complessità od urgenza.
In altri termini la facoltà di ricorrere a collaborazioni esterne non può considerarsi una prerogativa arbitraria di chi amministra ma va collocata nell’ambito del contesto normativo predisposto dal legislatore il quale la consente solo in situazioni assolutamente residuali e per un tempo assolutamente limitato (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giur. Calabria, sentenza 20.08.2012 n. 240 - link a www.corteconti.it).

APPALTI: Il danno da “perdita di chance” o “danno alla concorrenza” sussiste ogni qualvolta non vengano osservate le regole di evidenza pubblica.
Premesso che con l’espressione danno da “perdita di chance” o “danno alla concorrenza” si indica il danno subito dall’Amministrazione nel caso in cui non vengano osservate le regole di evidenza pubblica che subordinano la stipulazione dei contratti di acquisto dei beni o servizi al previo espletamento di una gara, qualora sia omessa qualsiasi procedura concorsuale, anche nella forma di semplice gara informale tra più operatori economici, la prova dell’effettività del danno può essere individuata nel fatto notorio che il confronto concorrenziale delle offerte di più operatori economici avrebbe consentito all’amministrazione aggiudicatrice di conseguire condizioni più vantaggiose di quelle ottenute contrattando con un’unica ditta.
Ed invero, nei casi di omissione delle prescritte procedure concorrenziali, la perdita delle condizioni più favorevoli non costituisce una mera ipotesi da provare, ma rappresenta una ragionevole probabilità (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei conti, Sez. giur. Liguria, sentenza 31.07.2012 n. 187 - link a www.corteconti.it).

APPALTI: La “perdita di chance” suscettibile di risarcimento deve consistere in una rilevante probabilità di conseguire il risultato utile sperato.
Premesso che la giurisprudenza intende la perdita di chances quale perdita di un’occasione favorevole, il danno conseguente va configurato come danno emergente concreto, attuale, ricollegabile alla perdita di una prospettiva favorevole, non commisurato alla perdita del risultato, ma alla possibilità di conseguirlo.
Tuttavia, al fine di evitare che la consistenza della chance sia talmente aleatoria da permettere il risarcimento di qualsiasi possibilità di risultato (anche esigua ed irrilevante), si richiede in ogni caso che il ristoro del danno subito venga effettuato sulla base di un giudizio di congruità e verosimiglianza.
Decisivo diventa, quindi, distinguere tra probabilità di riuscita (chance risarcibile) e mera possibilità di conseguire un risultato utile (chance irrisarcibile) attraverso un’analisi del caso concreto che, come è stato acutamente osservato dalla dottrina, scandagli fra il livello della certezza e quello della mera possibilità, l’ambito della c.d. “probabilità relativa” consistente in un rilevante grado di possibilità (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei conti, Sez. giur. Liguria, sentenza 25.07.2012 n. 178 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOLa produzione di un falso diploma di laurea per assumere un incarico da dirigente determina un danno pari agli emolumenti illecitamente percepiti.
Invero, la giurisprudenza della Corte dei conti è ferma nel ritenere che l’erogazione di compensi in favore di soggetti che abbiano svolto un’attività senza il possesso del prescritto titolo di studio costituisce danno a carico del bilancio dell’ente interessato, a nulla rilevando la circostanza che gli emolumenti percepiti abbiano corrisposto a prestazioni effettivamente svolte; in questo quadro, e soprattutto con riferimento alle delicate funzioni dirigenziali, il possesso dei requisiti culturali e professionali si pone come necessaria premessa per l’utile svolgimento della relativa attività (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giur. Lazio, sentenza 04.07.2012 n. 671 - link a www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: L’incarico esterno deve essere necessariamente determinato nel suo oggetto.
Invero, l’oggetto dell’incarico costituisce il parametro di base per valutare sia la rispondenza dell’incarico medesimo ai fini istituzionali dell’ente, sia la reale sussistenza della ineludibile necessità di fare ricorso a terzi (c.d. “indefettibilità” della consulenza), sia la “congruità” e la “proporzionalità” del compenso e sia, infine, il corretto espletamento dell’attività commissionata (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. III giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 28.03.2012 n. 263 - link a www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALILa violazione degli ormai noti vincoli posti dalla legge al conferimento di incarichi esterni fonda ipso facto la colpa grave degli amministratori.
Nella fattispecie, deve in effetti ritenersi che fosse da tempo notoria, presso gli enti locali, l’impossibilità di avvalersi dell’onerosa collaborazione di personale esterno per compiti che potevano essere ugualmente svolti dalle risorse umane interne.
E questa notorietà comporta indubbiamente la gravità delle colpe sia degli amministratori che approvarono la deliberazione di conferimento dell’incarico e del dirigente che espresse parere favorevole sul provvedimento, che del dirigente che emanò la determinazione (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. II giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 23.03.2012 n. 174 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Lede il rapporto sinallagmatico tra retribuzione e prestazione lavorativa l’esercizio non autorizzato di attività extralavorativa durante i periodi di congedo ordinario o di assenza per permessi di vario tipo.
Nella specie vengono meno le ragioni sottostanti alla erogazione del trattamento retributivo da parte dell’amministrazione di appartenenza della convenuta durante i periodi contestati dall’attore, poiché tutte le assenze autorizzate e retribuite dal servizio non esonerano il dipendente dall’obbligo di fedeltà e di esclusività. Il che vale anche nelle ipotesi in cui l’attività professionale incompatibile sia stata prestata presso terzi durante il congedo ordinario, ovvero in occasione della fruizione di permessi richiesti a vario titolo, fra cui quelli ex legge 104/1992.
Invero, gli obblighi sottostanti al rapporto di lavoro pubblico permangono anche nei casi in cui il pubblico dipendente si trovi temporaneamente esonerato dall’obbligo di prestare attività lavorativa per ragioni di salute, anche perché in tali circostanze -correlativamente alla percezione della retribuzione durante il periodo di sospensione dell’attività lavorativa, ed in applicazione del principio di sinallagmaticità delle prestazioni- la controprestazione dovuta dal lavoratore assente per malattia si converte nell’obbligo di curarsi e di non prestare altre attività anche solo assimilabili a quelle lavorative, anche per non aggravare la durata e l’entità della malattia stessa, in applicazione del principio di cui all’art. 2104 cod. civ. che prescrive l’obbligo di diligenza del prestatore di lavoro, e comunque del più generale dovere di eseguire il contratto in buona fede imposto dall’art. 1375 cod. civ. (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Trento, sentenza 23.03.2012 n. 12 - link a www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: L’adozione di una delibera di indebitamento comporta il dovere, da parte dei votanti, di informarsi adeguatamente sulla natura dell'operazione, in tutti i suoi principali aspetti.
Al riguardo, la Sezione ritiene di dover far proprie le persuasive considerazioni svolte in giurisprudenza (Sez. Umbria, sent. 128 dell’08.05.2007) secondo cui l’indagine sullo stato soggettivo rilevante, nella fattispecie sanzionatoria in esame, investe il particolare profilo del diligente adempimento del dovere –funzionale alla corretta assunzione della delibera stessa– che gli amministratori hanno di ben comprendere l'operazione finanziaria posta in essere; in quest'ottica, il grado della colpa va rapportato allo sforzo di diligenza impiegato per conoscere la natura dell'operazione deliberata e ne segue l’andamento in termini proporzionalmente inversi.
Quanto maggiore, cioè, è lo sforzo di diligenza dispiegato per conoscere la natura dell'operazione da deliberare (sotto il duplice aspetto del reperimento delle risorse finanziarie e dell'individuazione delle spese da sostenere), tanto minore sarà il grado della colpa e viceversa: il livello di massima gravità è costituito dalla mancanza di una qualsivoglia iniziativa di approfondimento della fattispecie (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Abruzzo, sentenza 21.03.2012 n. 85 - link a www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Le difficoltà in termini di gestione ed organizzazione del personale del Comune non giustificano il conferimento di un incarico professionale esterno.
L’illegittimità della delibera comunale consegue, oltre che alla genericità dell'incarico, anche al fatto che le problematiche afferenti al personale costituiscono un momento indefettibile dei poteri di organizzazione e di ordinamento delle risorse professionali e umane del Comune, e che, inoltre, costituisce un ingiustificato pregiudizio economico, per la notevole spesa sostenuta, l’incarico al consulente estraneo all'Amministrazione a fronte di non identificati contributi consulenziali e legali (in assenza, peraltro, della individuazione di questioni concrete e contenziosi effettivi).
A conferma di ciò giova evidenziare che l’espletamento dell’incarico risulta confermato solo da una scarna dichiarazione, rilasciata dal Sindaco, formulata in modo generico e unicamente con riferimento al periodo della consulenza, senza la possibilità di concreti e puntuali riscontri per mancanza di atti o pareri scritti del consulente, avendo egli intrattenuto esclusivamente rapporti verbali diretti con gli organi elettivi, a favore dei quali veniva espletata dichiaratamente l’attività di consulenza (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti Sez. Giurisdizionale per il Lazio, con sentenza 18.11.2011 n. 1619 - link a www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa mancata raccolta differenziata dei rifiuti genera un danno erariale all'Amministrazione nel cui interesse il servizio doveva essere svolto.
 Tale danno - addebitabile all'ente affidatario del servizio e agli amministratori e dirigenti che hanno omesso di vigilare sulla sua corretta esecuzione - si compone di un lucro cessante, individuabile nei mancati profitti che l'Amministrazione avrebbe potuto conseguire dalla vendita dei prodotti ricavabili dai rifiuti riciclati, e di un danno emergente, conseguente ai maggiori costi subiti dall'Amministrazione per lo smaltimento dei rifiuti (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale Campania, sentenza 10.06.2011 n. 1041 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Cagiona un danno erariale all’ente di appartenenza il funzionario comunale che fruisce di permessi retribuiti ex lege 104/1992 senza averne diritto.
 La titolarità della legittimazione alla fruizione dei permessi in esame può essere rinvenuta soltanto in capo a quel lavoratore che effettivamente presti il suo ausilio non in maniera saltuaria od occasionale ma con assiduità e costanza, in modo tale da prestare un servizio adeguato e sistematico, ossia regolare, alla persona diversamente abile (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 08.06.2011 n. 203 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Anche il poliziotto omertoso che non denuncia il collega scoperto a commettere reati contro la p.a. è perseguibile per il danno all’immagine cagionato alla pubblica amministrazione.
 L’art. 17, comma 30-ter, decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito nella legge 03.08.2009, n. 102, va infatti interpretato nel senso che, per effetto di esso, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione per fatto dei suoi dipendenti continua a sussistere sia nel caso di danno all’immagine derivante da reati contro la pubblica amministrazione che nel caso di danno all’immagine derivante da ogni altro reato (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 06.06.2011 n. 202 - link a www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl carattere anonimo di un esposto non è di per sé di ostacolo al legittimo avvio dell’istruttoria da parte del P.M. contabile.
 Ciò premesso va poi evidenziato che l’esposto che ha originato l’istruttoria della Procura contabile, versato al fascicolo di causa, presenta in maniera indubbia i caratteri della specificità e concretezza in ordine ad un’ipotesi di danno per le finanze della Fondazione (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Basilicata, sentenza 06.06.2011 n. 114 - link a www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: La palese illegittimità dell’atto di conferimento di un incarico professionale esterno (nella specie ad un architetto) determina l’illiceità dell’esborso con conseguente danno erariale.
Le lacune procedurali, rilevabili per il tramite della motivazione del provvedimento, quindi, non sono meri vizi inficianti l’azione amministrativa con rilevanza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma si riverberano anche sugli effetti economici prodotti da questo, rendendo, automaticamente, dannosa per l’erario la conseguente spesa (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Veneto, sentenza 20.05.2011 n. 284 - link a www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Illegittimo e produttivo di danno erariale l'incarico ad un avvocato per svolgere, in via continuativa, l'incarico di consigliere giuridico del Sindaco.
Il ricorso a consulenze esterne non può essere finalizzato a sopperire a presunte carenze di organico e, in ogni caso, l'incarico deve essere conferito a persona di elevata professionalità e per lo svolgimento di compiti specifici e determinati (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale Calabria, sentenza 21.04.2011 n. 282 - link a www.corteconti.it).

APPALTI: La condanna del Comune per responsabilità precontrattuale va riversata sul funzionario inerte.
Risponde del danno indiretto subito dall'ente di appartenenze il funzionario che, dopo avere autorizzato una ditta allo svolgimento di lavori di arredo urbano, ne dispone la sospensione e rimane inerte dinanzi alle legittime sollecitazioni di quest'ultima (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania, sentenza 14.04.2011 n. 673 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Cagiona un danno da disservizio “in senso lato” il pubblico dipendente che esercita le proprie funzioni in modo illecito e penalmente irrilevante.
Il “disservizio da pubbliche funzioni” prescinde da una valutazione parametrata ai criteri dell'efficacia, efficienza ed economicità e si risolve nel mancato collegamento tra il potere esercitato dal pubblico dipendente ed il fine istituzionale che l'ordinamento gli attribuisce (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Piemonte, sentenza  03.03.2011 n. 52 - link a www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: In tema di jus superveniens, la P.A. è tenuta ad applicare le regole fissate nel bando, atteso che questo costituisce la lex specialis della procedura ad evidenza pubblica, che non può essere disapplicata nel corso del procedimento, neppure nel caso in cui talune delle regole in essa contenute risultino non più conformi allo jus superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del potere di autotutela. Data la funzione regolatrice della gara propria del bando, quale lex specialis, con vincoli cogenti innanzitutto per la stazione appaltante, dottrina e giurisprudenza escludono che le prescrizioni del bando possano essere disapplicate sia dall'amministrazione, sia dal giudice amministrativo. Dalla natura provvedimentale deriva l'ulteriore conseguenza che il bando resiste allo jus superveniens.
La Pubblica amministrazione è, quindi, tenuta ad applicare le regole fissate nel bando, atteso che questo costituisce la lex specialis della gara che non può essere disapplicata nel corso del procedimento, neppure nel caso in cui talune delle regole in essa contenute risultino non più conformi allo jus superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del potere di autotutela.
Tale soluzione è giustificata, si ripete, in base al rilevo per cui il bando è atto amministrativo a carattere normativo, lex specialis della procedura, rispetto alla quale l'eventuale jus superveniens di abrogazione o di modifica di clausole non ha effetti innovatori. Da siffatto principio generale discende, quale logico corollario, quello della indifferenza ed insensibilità del bando, e, quindi, delle regole della gara, alle modifiche, sopravvenute, del regime normativo vigente, ed osservato con la lex specialis, al momento della sua emanazione.
Ne consegue che l'Amministrazione è tenuta, nella conduzione della procedura selettiva, ad applicare le regole contenute nel bando, anche nel caso di sopravvenuta abrogazione o modifica della disciplina vigente al momento della sua adozione, e che, al contempo, le è precluso di derogare al regolamento di gara per come cristallizzato nella lex specialis, quand'anche fosse divenuto medio tempore difforme dallo jus superveniens.
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L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha precisato in ambito simile (pubblici concorsi) che mentre le norme legislative o regolamentari vigenti al momento dell’indizione della procedura devono essere applicate anche se non espressamente richiamate nel bando, le norme sopravvenienti per le quali non è configurabile alcun rinvio implicito nella lex specialis, non modificano, di regola, i concorsi già banditi “a meno che diversamente non sia espressamente stabilito dalle norme stesse”.
E’ così affermato il principio generale della inefficacia delle norme sopravvenute a modificare le procedure concorsuali in svolgimento, ma è altresì prevista la possibilità che, in via speciale e particolare, tali modifiche possano prodursi ad effetto di normative sopravvenute il cui oggetto specifico sia quel medesimo concorso, quando, evidentemente, il legislatore ragionevolmente ravvisi la necessità di un tale intervento.

Per dirimere il dubbio interpretativo è, tuttavia, necessario chiarire che il bando per l’erogazione dei contributi di cui è causa è stato indetto con D.D.U.O. della Regione Lombardia n. 7840 del 16.07.2008 e che le determinazioni comunitarie che hanno provveduto a innalzare il minimum erogabile sono certamente successive al bando di gara.
Sul punto, la giurisprudenza ormai consolidata, che il Collegio condivide, ha precisato che in tema di jus superveniens (Cons. St., Sez. IV, 18.10.2002, n. 5714; Sez. V, 22.04.2002, n. 2197; Sez. V, 03.09.1998, n. 591; Sez. V, 11.07.1998, n. 224), la P.A. è tenuta ad applicare le regole fissate nel bando, atteso che questo costituisce la lex specialis della procedura ad evidenza pubblica, che non può essere disapplicata nel corso del procedimento, neppure nel caso in cui talune delle regole in essa contenute risultino non più conformi allo jus superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del potere di autotutela. Data la funzione regolatrice della gara propria del bando, quale lex specialis, con vincoli cogenti innanzitutto per la stazione appaltante, dottrina e giurisprudenza escludono che le prescrizioni del bando possano essere disapplicate sia dall'amministrazione, sia dal giudice amministrativo. Dalla natura provvedimentale deriva l'ulteriore conseguenza che il bando resiste allo jus superveniens.
La Pubblica amministrazione è, quindi, tenuta ad applicare le regole fissate nel bando, atteso che questo costituisce la lex specialis della gara che non può essere disapplicata nel corso del procedimento, neppure nel caso in cui talune delle regole in essa contenute risultino non più conformi allo jus superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del potere di autotutela (Sez. V, 11.07.1998, n. 224; id., 03.09.1998, n. 591).
Tale soluzione è giustificata, si ripete, in base al rilevo per cui il bando è atto amministrativo a carattere normativo, lex specialis della procedura, rispetto alla quale l'eventuale jus superveniens di abrogazione o di modifica di clausole non ha effetti innovatori (Cons. Giust. Amm., 03.11.1999, n. 576; Cons. St., Sez. IV, 18.10.2002, n. 5714). Da siffatto principio generale discende, quale logico corollario, quello della indifferenza ed insensibilità del bando, e, quindi, delle regole della gara, alle modifiche, sopravvenute, del regime normativo vigente, ed osservato con la lex specialis, al momento della sua emanazione (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. IV, 29.12.1998, n. 1605).
Ne consegue che l'Amministrazione è tenuta, nella conduzione della procedura selettiva, ad applicare le regole contenute nel bando, anche nel caso di sopravvenuta abrogazione o modifica della disciplina vigente al momento della sua adozione, e che, al contempo, le è precluso di derogare al regolamento di gara per come cristallizzato nella lex specialis, quand'anche fosse divenuto medio tempore difforme dallo jus superveniens (Cons. St. sez. V, 23.06.2010, n. 3964, Cons. St., Sez. V, 15.11.2001, n. 5843; Cons. St., Sez. V, 03.10.2002, n. 5206).
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L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 9/2011) ha precisato in ambito simile (pubblici concorsi) che mentre le norme legislative o regolamentari vigenti al momento dell’indizione della procedura devono essere applicate anche se non espressamente richiamate nel bando, le norme sopravvenienti per le quali non è configurabile alcun rinvio implicito nella lex specialis, non modificano, di regola, i concorsi già banditi “a meno che diversamente non sia espressamente stabilito dalle norme stesse” (Sez. IV, 24.08.2009, n. 5032; 06.07.2004 n. 5018; Sez. VI, 12.06.2008, n. 2909).
E’ così affermato il principio generale della inefficacia delle norme sopravvenute a modificare le procedure concorsuali in svolgimento, ma è altresì prevista la possibilità che, in via speciale e particolare, tali modifiche possano prodursi ad effetto di normative sopravvenute il cui oggetto specifico sia quel medesimo concorso, quando, evidentemente, il legislatore ragionevolmente ravvisi la necessità di un tale intervento (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.09.2012 n. 2343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGONei pubblici concorsi, le pubblicazioni scientifiche scritte dal candidato che le produce in collaborazione con altri studiosi possono essere oggetto di valutazione da parte della commissione di concorso, in quanto risultino scindibili ed individuabili i contributi dei singoli autori e quindi si possa enucleare l’apporto del candidato e si possa verificare che esso sia autonomamente apprezzabile sia nella fase dello studio e della ricerca, sia nel momento di redazione della pubblicazione con conseguente attribuzione di punteggio solo se possibile scindere l’apporto dei singoli autori.
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E' sufficiente, in quanto conforme alla lettera dell’art. 38 del D.P.R. n. 445 del 2000, la circostanza della presenza nella busta di una sola copia fotostatica dell’identità del dichiarante, anche in presenza di un pluralità di dichiarazioni sostitutive.

Secondo la costante giurisprudenza, “nei pubblici concorsi, le pubblicazioni scientifiche scritte dal candidato che le produce in collaborazione con altri studiosi possono essere oggetto di valutazione da parte della commissione di concorso, in quanto risultino scindibili ed individuabili i contributi dei singoli autori (Consiglio Stato, sez. V, 01.10.2001, n. 5182) e quindi si possa enucleare l’apporto del candidato e si possa verificare che esso sia autonomamente apprezzabile sia nella fase dello studio e della ricerca, sia nel momento di redazione della pubblicazione (Consiglio Stato, sez. VI, 08.04.2000, n. 2045) con conseguente attribuzione di punteggio solo se possibile scindere l’apporto dei singoli autori” (TAR Lombardia, Milano, IV, 11.09.2012, n. 2290).
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Con la documentazione depositata in data 12.01.2012 da parte dell’Avvocatura erariale è stato attestato che il ricorrente ha prodotto a corredo delle dichiarazioni sostitutive, sia nel plico contenente la domanda, che nel plico contenente le pubblicazioni, la copia della carta d’identità.
Ciò rende legittima l’ammissione del ricorrente alla procedura e validamente attestato quanto prodotto in sede di domanda. A tal fine non assume natura invalidante la circostanza che a fronte di tre dichiarazioni sostitutive siano state prodotte soltanto due copie della carte d’identità, visto che la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che sia sufficiente, in quanto conforme alla lettera dell’art. 38 del D.P.R. n. 445 del 2000, la circostanza della presenza nella busta di una sola copia fotostatica dell’identità del dichiarante, anche in presenza di un pluralità di dichiarazioni sostitutive (Consiglio di Stato, VI, 22.10.2010, n. 7608)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.09.2012 n. 2332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La valutazione di impatto ambientale (V.I.A.) non si sostanzia in una mera verifica di natura tecnica circa la astratta compatibilità ambientale dell’opera, ma implica una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio–economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d. opzione–zero.
Pur essendo pacifico che il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione possa svolgersi attraverso la verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni compiute da quest’ultima, sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo, è necessario precisare che il controllo del giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto extrinsecus, nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di invalidità e non alla sostituzione dell’amministrazione.

Secondo la più recente giurisprudenza, “la valutazione di impatto ambientale non si sostanzia in una mera verifica di natura tecnica circa la astratta compatibilità ambientale dell’opera, ma implica una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio–economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d. opzione–zero” (Consiglio di Stato, V, 31.05.2102, n. 3254).
Inoltre è consolidato l’orientamento che, pur essendo pacifico che il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione possa svolgersi attraverso la verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni compiute da quest’ultima, sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo, è necessario precisare che il controllo del giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto extrinsecus, nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di invalidità e non alla sostituzione dell’amministrazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.09.2012 n. 2331 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha sottolineato la necessità, in sede di adozione di un atto in autotutela, della comparazione tra interesse pubblico e quello privato, nel caso in cui l’esercizio dell’autotutela discenda da errori di valutazione dovuti alla P.A., cosicché, anche ad accedere alla tesi per la quale il Comune avrebbe errato, in sede di rilascio del permesso di costruire, a non tener conto della data di scadenza dell’autorizzazione paesaggistica, l’annullamento in autotutela del permesso stesso avrebbe comunque dovuto essere subordinato ad un’attenta comparazione dell’interesse pubblico e di quello privato: comparazione che, nel caso di specie, non risulta adeguatamente effettuata, poiché il provvedimento gravato si limita a dar conto delle ragioni di interesse pubblico ad esso sottese, ma non dà alcun conto delle ragioni del privato e, soprattutto, dell’affidamento ingenerato in questi dal contenuto del permesso di costruire (in specie, dalla data di inizio dei lavori ivi specificata).
Ed invero, la giurisprudenza ha sottolineato la necessità, in sede di adozione di un atto in autotutela, della comparazione tra interesse pubblico e quello privato, nel caso in cui l’esercizio dell’autotutela discenda da errori di valutazione dovuti alla P.A. (TAR Liguria, Sez. I, 02.11.2011, n. 1509), cosicché, anche ad accedere alla tesi per la quale il Comune avrebbe errato, in sede di rilascio del permesso di costruire, a non tener conto della data di scadenza dell’autorizzazione paesaggistica, l’annullamento in autotutela del permesso stesso avrebbe comunque dovuto essere subordinato ad un’attenta comparazione dell’interesse pubblico e di quello privato: comparazione che, nel caso di specie, non risulta adeguatamente effettuata, poiché il provvedimento gravato si limita a dar conto delle ragioni di interesse pubblico ad esso sottese, ma non dà alcun conto delle ragioni del privato e, soprattutto, dell’affidamento ingenerato in questi dal contenuto del permesso di costruire (in specie, dalla data di inizio dei lavori ivi specificata) (TAR Lazio-Latina, sentenza 14.09.2012 n. 649 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Si ravvisa la lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio laddove vengano iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati, o comunque dettate dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione. Si ravvisa, inoltre, quando tale trasformazione sia predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche (quali la dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti), denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
La definizione di cui all’art. 30 dpr 380/2001, in cui è stata trasfusa senza modificazioni quella contenuta nell’art. 18 della l. n. 47/1985, prevede, quindi, due distinte ipotesi di lottizzazione abusiva, l’una (cd. materiale) posta in essere attraverso l’esecuzione di opere che determinino una trasformazione edilizia od urbanistica del territorio, in violazione degli strumenti urbanistici vigenti od adottati o comunque di leggi statali o regionali, l’altra (cd. cartolare) mediante il compimento di attività negoziale che, tramite il frazionamento dei terreni, ne determini in maniera inequivocabile la destinazione d’uso a scopo edificatorio.
Per quanto riguarda la lottizzazione cd. materiale, si è precisato che questa sussiste in presenza di qualsivoglia tipo di opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in definitiva, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico necessitante un adeguamento degli standards; che essa non richiede la realizzazione di vere e proprie costruzioni abusive, essendo sufficiente la sussistenza di opere le quali, sebbene nella fase iniziale, denotino che è stato iniziato o è in corso un procedimento di trasformazione urbanistica ed edilizia del terreno, in contrasto con le norme vigenti; che per verificarne l’esistenza appare necessaria una visione d’insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell’attività edilizia realizzata, giacché potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all’attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione.
Con riguardo, invece, alla lottizzazione cd. cartolare –comportante anch’essa la trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche– si è sottolineato che essa si verifica quando la suddetta trasformazione venga predisposta mediante il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti i quali, per le loro caratteristiche, come la dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua destinazione sulla base degli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di urbanizzazione, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio; ne discende che l’elemento oggettivo della fattispecie è costituito dal frazionamento di mappali seguito necessariamente da atti di vendita, o da atti ad essi equiparati, sicché in mancanza di detti atti non è possibile contestare legittimamente la lottizzazione abusiva de qua. Infatti, l’attività negoziale è presa in considerazione dalla norma quale strumento di perseguimento dell’intento lottizzatorio e, quindi, come indice della sussistenza di siffatto intento, il quale deve però trovare conferma anche in altre circostanze, che rendano evidente la non equivocità della destinazione a scopo edificatorio sia del frazionamento, sia della vendita. Anche la più recente giurisprudenza ribadisce che l’accertamento della lottizzazione cd. negoziale, intesa quale effetto del frazionamento contrattuale di un vasto terreno, con la creazione di lotti sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, richiede la sussistenza di indici di significato inequivoco, quali le dimensioni ed il numero dei lotti, la natura del terreno, l’eventuale revisione di opere di urbanizzazione, la loro destinazione a scopo edificatorio.
Relativamente all’elemento oggettivo della lottizzazione abusiva, si è sottolineato che si tratta di un illecito non solo di danno (rispetto alle opere già eseguite), ma anche di pericolo (rispetto alle urbanizzazioni ancora possibili), qualora, pur a fronte dell’avvenuta ultimazione degli edifici, strade od altri manufatti, vi sia la possibilità che l’urbanizzazione del comprensorio, ancora incompleta, sia condotta a termine per stati di avanzamento successivi. Quanto, poi, all’elemento soggettivo, la giurisprudenza più recente, in base all’affinità tra l’acquisizione delle aree da parte dell’autorità amministrativa ex art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 e la confisca urbanistica disposta dall’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 44 del medesimo decreto, ha affermato la vigenza del principio della necessità, per l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene, le quali non si presentino come meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo di natura colposa da parte del soggetto che subisce la sanzione: ne deriva che l’acquirente di un lotto non può considerarsi, come tale, estraneo al reato di lottizzazione abusiva, essendo tenuto a dimostrare di aver agito in buona fede, senza cioè rendersi conto (pur avendo adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza) di partecipare ad un’opera di illecita lottizzazione.
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La giurisprudenza ha ritenuto idonee a comportare detta trasformazione anche opere in fase iniziale, denotanti l’inizio del procedimento di trasformazione e ciò, sia che si tratti di opere di urbanizzazione, sia che si tratti invece di opere edilizie, sempreché in grado di conferire alla zona un’articolazione apprezzabile in termini di trasformazione edilizia ed ai terreni l’attitudine ad accogliere insediamenti non consentiti o programmati. Si è già visto che la fattispecie lottizzatoria è integrata mediante l’esecuzione di ogni tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l’assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo ed, in definitiva, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione –che viene posta di fronte al cd. fatto compiuto–, sia un carico urbanistico, necessitante un adeguamento degli standards.
La giurisprudenza ha interpretato il concetto di opere che comportino una trasformazione urbanistica od edilizia dell’area in maniera funzionale rispetto alla ratio della norma in esame, il cui bene giuridico tutelato consiste nella necessità di preservare la potestà programmatoria della P.A., nonché l’effettivo controllo del territorio da parte del Comune, quale Ente titolare della funzione di pianificazione, al fine di garantire l’ordinata pianificazione urbanistica, il corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards urbanistici compatibile con la finanza pubblica.

Va premesso che il quadro normativo di riferimento è dato dall’art. 30 del d.P.R. n. 380/2001, il quale, al comma 1, ravvisa la lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio laddove vengano iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati, o comunque dettate dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione. La ravvisa, inoltre, quando tale trasformazione sia predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche (quali la dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti), denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio. La definizione di cui all’art. 30 cit., in cui è stata trasfusa senza modificazioni quella contenuta nell’art. 18 della l. n. 47/1985, prevede, quindi, due distinte ipotesi di lottizzazione abusiva, l’una (cd. materiale) posta in essere attraverso l’esecuzione di opere che determinino una trasformazione edilizia od urbanistica del territorio, in violazione degli strumenti urbanistici vigenti od adottati o comunque di leggi statali o regionali, l’altra (cd. cartolare) mediante il compimento di attività negoziale che, tramite il frazionamento dei terreni, ne determini in maniera inequivocabile la destinazione d’uso a scopo edificatorio (C.d.S., Sez. IV, 03.08.2010, n. 5170).
Per quanto riguarda la lottizzazione cd. materiale, si è precisato che questa sussiste in presenza di qualsivoglia tipo di opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in definitiva, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico necessitante un adeguamento degli standards (TAR Liguria, Sez. I, 20.01.2012, n. 161); che essa non richiede la realizzazione di vere e proprie costruzioni abusive, essendo sufficiente la sussistenza di opere le quali, sebbene nella fase iniziale, denotino che è stato iniziato o è in corso un procedimento di trasformazione urbanistica ed edilizia del terreno, in contrasto con le norme vigenti (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 12.10.2011, n. 798); che per verificarne l’esistenza appare necessaria una visione d’insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell’attività edilizia realizzata, giacché potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all’attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione (TAR Lazio, Roma, Sez. I, 09.10.2009, n. 9859).
Con riguardo, invece, alla lottizzazione cd. cartolare –comportante anch’essa la trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche– si è sottolineato che essa si verifica quando la suddetta trasformazione venga predisposta mediante il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti i quali, per le loro caratteristiche, come la dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua destinazione sulla base degli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di urbanizzazione, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio; ne discende che l’elemento oggettivo della fattispecie è costituito dal frazionamento di mappali seguito necessariamente da atti di vendita, o da atti ad essi equiparati, sicché in mancanza di detti atti non è possibile contestare legittimamente la lottizzazione abusiva de qua. Infatti, l’attività negoziale è presa in considerazione dalla norma quale strumento di perseguimento dell’intento lottizzatorio e, quindi, come indice della sussistenza di siffatto intento, il quale deve però trovare conferma anche in altre circostanze, che rendano evidente la non equivocità della destinazione a scopo edificatorio sia del frazionamento, sia della vendita (C.d.S., Sez. IV, 20.07.2009, n. 4578). Anche la più recente giurisprudenza (C.d.S., Sez. V, 12.03.2012, n. 1374) ribadisce che l’accertamento della lottizzazione cd. negoziale, intesa quale effetto del frazionamento contrattuale di un vasto terreno, con la creazione di lotti sufficienti per la costruzione di un singolo edificio, richiede la sussistenza di indici di significato inequivoco, quali le dimensioni ed il numero dei lotti, la natura del terreno, l’eventuale revisione di opere di urbanizzazione, la loro destinazione a scopo edificatorio.
Relativamente all’elemento oggettivo della lottizzazione abusiva, si è sottolineato che si tratta di un illecito non solo di danno (rispetto alle opere già eseguite), ma anche di pericolo (rispetto alle urbanizzazioni ancora possibili), qualora, pur a fronte dell’avvenuta ultimazione degli edifici, strade od altri manufatti, vi sia la possibilità che l’urbanizzazione del comprensorio, ancora incompleta, sia condotta a termine per stati di avanzamento successivi (TAR Toscana, Sez. III, 28.02.2012, n. 392). Quanto, poi, all’elemento soggettivo, la giurisprudenza più recente, in base all’affinità tra l’acquisizione delle aree da parte dell’autorità amministrativa ex art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 e la confisca urbanistica disposta dall’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 44 del medesimo decreto, ha affermato la vigenza del principio della necessità, per l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene, le quali non si presentino come meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo di natura colposa da parte del soggetto che subisce la sanzione: ne deriva che l’acquirente di un lotto non può considerarsi, come tale, estraneo al reato di lottizzazione abusiva, essendo tenuto a dimostrare di aver agito in buona fede, senza cioè rendersi conto (pur avendo adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei doveri di informazione e conoscenza) di partecipare ad un’opera di illecita lottizzazione (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 04.08.2011, n. 4210).
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In ordine alla pretesa irrilevanza delle opere eseguite nell’area de qua, vista la loro modestia, ai fini della trasformazione urbanistica ed edilizia dell’area, è agevole replicare che la giurisprudenza ha ritenuto idonee a comportare detta trasformazione anche opere in fase iniziale, denotanti l’inizio del procedimento di trasformazione e ciò, sia che si tratti di opere di urbanizzazione, sia che si tratti invece di opere edilizie, sempreché in grado di conferire alla zona un’articolazione apprezzabile in termini di trasformazione edilizia ed ai terreni l’attitudine ad accogliere insediamenti non consentiti o programmati (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 10.11.2006, n. 9458). Si è già visto che la fattispecie lottizzatoria è integrata mediante l’esecuzione di ogni tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l’assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo ed, in definitiva, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione –che viene posta di fronte al cd. fatto compiuto–, sia un carico urbanistico, necessitante un adeguamento degli standards.
La giurisprudenza ha interpretato il concetto di opere che comportino una trasformazione urbanistica od edilizia dell’area in maniera funzionale rispetto alla ratio della norma in esame, il cui bene giuridico tutelato consiste nella necessità di preservare la potestà programmatoria della P.A., nonché l’effettivo controllo del territorio da parte del Comune, quale Ente titolare della funzione di pianificazione, al fine di garantire l’ordinata pianificazione urbanistica, il corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards urbanistici compatibile con la finanza pubblica (C.d.S., Sez. IV, 06.10.2003, n. 5849): esigenze, queste, non rispettate dalla condotta serbata nel caso di specie dal sig. Maisto, che –si ripete– non poteva, né doveva ignorare l’assetto complessivo dell’area in cui l’intervento da lui realizzato (a prescindere dalla sua modestia o meno) si è andato ad inserire
(TAR Lazio-Latina, sentenza 14.09.2012 n. 647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La comunicazione di avvio del procedimento di individuazione (e di repressione) della fattispecie di lottizzazione abusiva risulta superflua ove il contenuto dell’atto non possa essere diverso da quello in concreto adottato e, più precisamente, laddove la partecipazione del privato a detto procedimento sia inutile (ed egli non possa fornire alcun apporto conoscitivo e/o documentale rilevante), sussistendo la certezza assoluta della finalità edificatoria della lottizzazione.
I provvedimenti in materia di sanatoria edilizia operano nell’ambito di uno schema procedimentale che prevede interventi, adempimenti e termini specificamente modellati sulla fattispecie della singola costruzione sprovvista di titolo abilitativo, la quale non può essere pedissequamente trasposta alla diversa fattispecie delle costruzioni eseguite in comprensori abusivamente lottizzati, trattandosi di differenti tipologie di illecito edilizio, connotate da un differente grado di illiceità: la lottizzazione abusiva, infatti, incide sulla conservazione delle destinazioni impresse dallo strumento urbanistico ad un certo comprensorio, nonché sulla corretta urbanizzazione del territorio, ed è suscettibile di condizionare indebitamente le scelte pianificatorie future della P.A. e quindi appare ledere la prerogativa comunale della programmazione urbanistica, mentre il singolo abuso edilizio non assume una così estesa potenzialità lesiva. In questa ottica, si è perciò ritenuto che i manufatti abusivamente eseguiti nell’ambito dell'attività lottizzatoria possano essere recuperati alla legalità solo in presenza delle condizioni che legittimano l’approvazione di un piano di lottizzazione (artt. 29 e 35, comma 13, della l. n. 47/1985), dunque previa adozione di una variante allo strumento urbanistico generale.

Del pari infondato e da respingere è, poi, il primo motivo di ricorso, mosso avverso sia il diniego di condono edilizio, sia avverso l’accertamento della fattispecie lottizzatoria e riguardante la violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, in quanto, come già osservato da questa Sezione in una fattispecie analoga (TAR Lazio, Latina, Sez. I, ord. 21.04.2011, n. 184), è applicabile il principio di cui all’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990, atteso il carattere vincolato e non discrezionale dei provvedimenti repressivi di lottizzazioni edilizie.
Ciò, in accordo, altresì, con l’insegnamento della più recente giurisprudenza (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. II, 09.09.2011, n. 4363), secondo cui la comunicazione di avvio del procedimento di individuazione (e di repressione) della fattispecie di lottizzazione abusiva risulta superflua ove il contenuto dell’atto non possa essere diverso da quello in concreto adottato e, più precisamente, laddove la partecipazione del privato a detto procedimento sia inutile (ed egli non possa fornire alcun apporto conoscitivo e/o documentale rilevante), sussistendo la certezza assoluta della finalità edificatoria della lottizzazione.
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Più in particolare, la giurisprudenza ha sottolineato che i provvedimenti in materia di sanatoria edilizia operano nell’ambito di uno schema procedimentale che prevede interventi, adempimenti e termini specificamente modellati sulla fattispecie della singola costruzione sprovvista di titolo abilitativo, la quale non può essere pedissequamente trasposta alla diversa fattispecie delle costruzioni eseguite in comprensori abusivamente lottizzati, trattandosi di differenti tipologie di illecito edilizio, connotate da un differente grado di illiceità: la lottizzazione abusiva, infatti, incide sulla conservazione delle destinazioni impresse dallo strumento urbanistico ad un certo comprensorio, nonché sulla corretta urbanizzazione del territorio, ed è suscettibile di condizionare indebitamente le scelte pianificatorie future della P.A. e quindi appare ledere la prerogativa comunale della programmazione urbanistica, mentre il singolo abuso edilizio non assume una così estesa potenzialità lesiva. In questa ottica, si è perciò ritenuto che i manufatti abusivamente eseguiti nell’ambito dell'attività lottizzatoria possano essere recuperati alla legalità solo in presenza delle condizioni che legittimano l’approvazione di un piano di lottizzazione (artt. 29 e 35, comma 13, della l. n. 47/1985), dunque previa adozione di una variante allo strumento urbanistico generale (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 09.09.2011, n. 4378)
(TAR Lazio-Latina, sentenza 14.09.2012 n. 647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIQualora la partecipazione a una pubblica gara avvenga in R.T.I., i requisiti generali di partecipazione, in quanto relativi alla regolarità della gestione delle singole imprese sotto gli aspetti dell’ordine pubblico e della moralità, devono essere posseduti da tutte le imprese raggruppate, data la preminenza dell’interesse pubblico all’affidabilità del soggetto chiamato a eseguire l’appalto.
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Per quanto riguarda invece la definitività delle suddette pendenze tributarie e previdenziali occorre rilevare che l’avvenuta rateizzazione o la previsione di un piano di riordino non può attribuire alcun carattere di precarietà alla suddetta pendenza quando gli atti di accertamento del debito siano divenuti definitivi per mancata impugnazione nei termini dei relativi accertamenti.
A ciò si aggiunge che la rateizzazione del debito tributario è stata richiesta tardivamente in quanto presentata ad ottobre 2011, mentre l’esclusione dalla gara è stata disposta nel gennaio dello stesso anno. La stessa giurisprudenza citata dai ricorrenti chiarisce puntualmente che “deve escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, quand’anche ricondotto retroattivamente, quanto ad efficacia, al momento della scadenza del termine di pagamento”.
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Il mancato possesso dei requisiti di partecipazione, sia di quelli cd. di ordine generale, previsti dall’art. 38 del D.lgs. n. 163 del 2006, sia di quelli specifici di cui al successivo art 48, comporta oltre alla esclusione dalla procedura di gara anche la escussione della cauzione provvisoria.
Infatti, la possibilità di incamerare la cauzione provvisoria discende direttamente dall’art. 75, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006 e riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario, costituito da qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile; pertanto non rilevano ai suddetti fini solo il rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma anche la carenza di requisiti generali di cui all’art. 38 del D.lgs. n. 163.

Il primo motivo di ricorso deve essere disatteso nella parte in cui contesta la mancanza della comunicazione di avvio del procedimento in quanto nell’effettuare il controllo disposto dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 48 del D.Lgs. 163/2006 la stazione appaltante ha richiesto all’interessato di comprovare i requisiti indicati nelle dichiarazioni sostitutive con la conseguenza che nessun altro obbligo comunicativo gravava in capo all’amministrazione.
E’ infondato anche nella parte in cui allega che la mancanza dei requisiti di uno dei partecipanti al R.T.I. possa comportare l’esclusione di tutto il raggruppamento in quanto la giurisprudenza ha chiarito che qualora la partecipazione a una pubblica gara avvenga in R.T.I., i requisiti generali di partecipazione, in quanto relativi alla regolarità della gestione delle singole imprese sotto gli aspetti dell’ordine pubblico e della moralità, devono essere posseduti da tutte le imprese raggruppate, data la preminenza dell’interesse pubblico all’affidabilità del soggetto chiamato a eseguire l’appalto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.06.2012, n. 3339).
Per quanto riguarda invece la definitività delle suddette pendenze tributarie e previdenziali occorre rilevare che l’avvenuta rateizzazione o la previsione di un piano di riordino non può attribuire alcun carattere di precarietà alla suddetta pendenza quando gli atti di accertamento del debito siano divenuti definitivi per mancata impugnazione nei termini dei relativi accertamenti. A ciò si aggiunge che la rateizzazione del debito tributario è stata richiesta tardivamente in quanto presentata ad ottobre 2011, mentre l’esclusione dalla gara è stata disposta nel gennaio dello stesso anno. La stessa giurisprudenza citata dai ricorrenti (Cons. Stato, VI, 06.04.2010, n. 1930) chiarisce puntualmente che “deve escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, quand’anche ricondotto retroattivamente, quanto ad efficacia, al momento della scadenza del termine di pagamento (Cons. Stato, sez. IV, n. 1458/2009; v. anche Consiglio Stato, Sez. V, 26.06.2012, n. 3738)”.
Da ultimo occorre rilevare che la valutazione di gravità dell’inadempimento effettuata dalla stazione appaltante deve considerarsi corretta e non richiedeva specifica motivazione in considerazione del fatto che la gravità risulta ictu oculi: infatti le irregolarità fiscali ammontavano ad € 150.000,00 e quelle previdenziali a diverse migliaia di euro.
Anche il secondo è infondato, in quanto il mancato possesso dei requisiti di partecipazione, sia di quelli cd. di ordine generale, previsti dall’art. 38 del D.lgs. n. 163 del 2006, sia di quelli specifici di cui al successivo art 48, comporta oltre alla esclusione dalla procedura di gara anche la escussione della cauzione provvisoria. Infatti, la possibilità di incamerare la cauzione provvisoria discende direttamente dall’art. 75, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006 e riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario, costituito da qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile; pertanto non rilevano ai suddetti fini solo il rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma anche la carenza di requisiti generali di cui all’art. 38 del D.lgs. n. 163 (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 04.08.2009, n. 4907) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 13.09.2012 n. 2319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl sistema di valutazione della congruità dell’offerta economicamente più vantaggiosa, così come delineato dal codice dei contratti pubblici, è ancorato ad una previa individuazione di eventuale anormalità del ribasso contenuto nell’offerta stessa.
Qualora sia ritenuto necessario verificare la congruità dell’offerta, come nel caso di specie, la stazione appaltante, ottenute dalle offerenti le giustificazioni relative alle voci di prezzo che concorrono a formare l’importo complessivo posto a base di gara, nonché le giustificazioni relative agli altri elementi (tecnici) di valutazione dell’offerta, all’esito del procedimento di verifica, dichiara le eventuali esclusioni di ciascuna offerta che, in base all’esame degli elementi forniti, risulta, nel suo complesso, inaffidabile (artt. 87, comma 1, e 88, comma 7, del d.lgs. n. 163/2006).
In sede di controllo giurisdizionale, il giudice amministrativo può certamente sindacare le valutazioni compiute dalla pubblica amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza (al fine di verificare la presenza delle relative figure sintomatiche di eccesso di potere), così come insegna l’indirizzo tradizionale della giurisprudenza, ma può procedere anche alla verifica funditus della congruità dell’istruttoria all’esito della quale l’amministrazione ha proceduto alle proprie valutazioni. In tali sensi e limiti, il giudice può anche considerare i singoli elementi o voci dell’offerta, ma non già al fine di valutarne l’eventuale anomalia, bensì solo come elementi concreti suffraganti la verifica della suddetta sussistenza dei profili di completezza dell’istruttoria, nonché di ragionevolezza e logicità della valutazione effettuata dalla pubblica amministrazione.
Peraltro, in ordine alla possibilità che il giudice amministrativo disponga una verificazione ovvero una consulenza tecnica d’ufficio sulle valutazioni compiute dalla stazione appaltante in sede di riscontro di eventuali anomalie nelle offerte presentate, deve rilevarsi che dette valutazioni sono state considerate, secondo una risalente corrente di pensiero, espressione di un ampio potere tecnico–discrezionale, insindacabili in sede giurisdizionale, salva l’ipotesi in cui esse siano palesemente illogiche, irrazionali o fondate su insufficiente motivazione o su errori di fatto.
L’assunto per il quale nella materia de qua il sindacato giurisdizionale possa esplicarsi in un ambito di per sé molto limitato, non potendo giammai giungersi alla sostituzione della valutazione operata dall’amministrazione con quella del giudice (pena la violazione dello stesso fondamentale principio della separazione dei poteri), deve ad ogni modo contemperarsi con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, cui si è ispirato il nuovo codice del processo amministrativo, e spingersi fino a verificare, nel caso di utilizzo di regole tecniche tratte da discipline scientifiche od economiche, se le valutazioni operate siano attendibili; il che trae meditatamente le mosse dalla ulteriore premessa, che il Collegio ha già in precedenza condiviso, secondo la quale le materie governate in via esclusiva da regole diverse da quelle giuridiche non si collocano all’interno dell’area della riserva amministrativa.
In ogni caso, l’attendibilità dell'offerta va valutata nella sua globalità, poiché l’art. 88, comma 7, del d.lgs. n. 163/2006 -quando statuisce che, all’esito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta, la stazione appaltante dichiara l'eventuale esclusione dell’offerta che risulta, “nel suo complesso”, inaffidabile- va inteso nel senso che la valutazione della stazione appaltante deve appuntarsi sull’affidabilità globale dell'offerta mediante un giudizio sintetico sulla serietà o meno dell’offerta stessa nel suo insieme.

Al riguardo, pare opportuno rammentare che il sistema di valutazione della congruità dell’offerta economicamente più vantaggiosa, così come delineato dal codice dei contratti pubblici, è ancorato ad una previa individuazione di eventuale anormalità del ribasso contenuto nell’offerta stessa.
Qualora sia ritenuto necessario verificare la congruità dell’offerta, come nel caso di specie, la stazione appaltante, ottenute dalle offerenti le giustificazioni relative alle voci di prezzo che concorrono a formare l’importo complessivo posto a base di gara, nonché le giustificazioni relative agli altri elementi (tecnici) di valutazione dell’offerta, all’esito del procedimento di verifica, dichiara le eventuali esclusioni di ciascuna offerta che, in base all’esame degli elementi forniti, risulta, nel suo complesso, inaffidabile (artt. 87, comma 1, e 88, comma 7, del d.lgs. n. 163/2006).
In sede di controllo giurisdizionale, il giudice amministrativo può certamente sindacare le valutazioni compiute dalla pubblica amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza (al fine di verificare la presenza delle relative figure sintomatiche di eccesso di potere), così come insegna l’indirizzo tradizionale della giurisprudenza, ma può procedere anche alla verifica funditus della congruità dell’istruttoria all’esito della quale l’amministrazione ha proceduto alle proprie valutazioni (Cons. Stato, sez. V, 23.02.2010, n. 1040). In tali sensi e limiti, il giudice può anche considerare i singoli elementi o voci dell’offerta, ma non già al fine di valutarne l’eventuale anomalia, bensì solo come elementi concreti suffraganti la verifica della suddetta sussistenza dei profili di completezza dell’istruttoria, nonché di ragionevolezza e logicità della valutazione effettuata dalla pubblica amministrazione (cfr., tra le altre, Consiglio di Stato, Sezione V - Sentenza 23/06/2011 n. 3807).
Peraltro, in ordine alla possibilità che il giudice amministrativo disponga una verificazione –come nel caso di specie è avvenuto- ovvero una consulenza tecnica d’ufficio sulle valutazioni compiute dalla stazione appaltante in sede di riscontro di eventuali anomalie nelle offerte presentate, deve rilevarsi che dette valutazioni sono state considerate, secondo una risalente corrente di pensiero, espressione di un ampio potere tecnico–discrezionale, insindacabili in sede giurisdizionale, salva l’ipotesi in cui esse siano palesemente illogiche, irrazionali o fondate su insufficiente motivazione o su errori di fatto (ex multis, C.d.S., sez. V, 23.11.2010, 22.06.2010, n. 3890, 18.03.2010, n. 1589, 29.01.2009, 08.07.2008, n. 8 luglio 2008).
L’assunto per il quale nella materia de qua il sindacato giurisdizionale possa esplicarsi in un ambito di per sé molto limitato, non potendo giammai giungersi alla sostituzione della valutazione operata dall’amministrazione con quella del giudice (pena la violazione dello stesso fondamentale principio della separazione dei poteri), deve ad ogni modo contemperarsi con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, cui si è ispirato il nuovo codice del processo amministrativo, e spingersi fino a verificare, nel caso di utilizzo di regole tecniche tratte da discipline scientifiche od economiche, se le valutazioni operate siano attendibili (C.d.S., sez. IV, 11.04.2007, n. 1658; sez. V, 03.12.2005, n. 7059; sez. VI, 09.11.2006, n. 6607); il che trae meditatamente le mosse dalla ulteriore premessa, che il Collegio ha già in precedenza condiviso, secondo la quale le materie governate in via esclusiva da regole diverse da quelle giuridiche non si collocano all’interno dell’area della riserva amministrativa.
In ogni caso, l’attendibilità dell'offerta va valutata nella sua globalità, poiché l’art. 88, comma 7, del d.lgs. n. 163/2006 -quando statuisce che, all’esito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta, la stazione appaltante dichiara l'eventuale esclusione dell’offerta che risulta, “nel suo complesso”, inaffidabile- va inteso nel senso che la valutazione della stazione appaltante deve appuntarsi sull’affidabilità globale dell'offerta mediante un giudizio sintetico sulla serietà o meno dell’offerta stessa nel suo insieme (cfr., tra le altre, Consiglio di Stato, Sezione V 29/03/2011 n. 1925) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 13.09.2012 n. 2318 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sotto la vigenza dell'art. 10 della legge n. 47/1985, la sanzione della demolizione non opera nei riguardi di un'opera edilizia eseguita senza la necessaria autorizzazione ovvero in difformità da essa, dovendosi applicare esclusivamente la sanzione pecuniaria prevista dalla predetta disposizione legislativa.
Con l'unico motivo di censura, il ricorrente ha denunciato che per le opere abusivamente realizzate (tettoia costituita da intelaiatura metallica sormontata da onduline in plastica) non poteva essere ingiunta la demolizione, trattandosi di opere non soggette a concessione, bensì a mera autorizzazione. Invero, nella medesima ordinanza impugnata, l’amministrazione –senza fare menzione dell’esistenza di alcun vincolo paesaggistico- riconosce che le opere sono state realizzate “in assenza di autorizzazione edilizia”, per cui essa si palesa affetta dal denunciato vizio di violazione di legge.
Costituisce, infatti, indirizzo giurisprudenziale consolidato, che -sotto la vigenza dell'art. 10 della legge n. 47/1985- la sanzione della demolizione non opera nei riguardi di un'opera edilizia eseguita senza la necessaria autorizzazione ovvero in difformità da essa, dovendosi applicare esclusivamente la sanzione pecuniaria prevista dalla predetta disposizione legislativa (cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.06.2003, n. 3652; TAR Campania Napoli, sez. IV, 08.11.2005, n. 18670) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 13.09.2012 n. 2158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L'Amministrazione gode in materia urbanistica di ampi margini di discrezionalità nel determinare l'assetto del territorio, con la conseguenza che le scelte in concreto operate, che possono valorizzare alcune aree mortificando le prospettive di utilizzazione di altre, costituiscono apprezzamenti che restano tendenzialmente soggetti a un mero sindacato esterno per l'eventuale individuazione di errori di fatto, contraddizioni, incoerenze o manifeste illogicità.
Le scelte dell'Amministrazione riguardo alla destinazione dei suoli in sede di pianificazione generale del territorio, non necessitano una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il P.R.G., derogandosi a tale regola solo in presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo.

Al riguardo, il Collegio osserva che alla stregua di una consolidata giurisprudenza, l'Amministrazione gode in materia urbanistica di ampi margini di discrezionalità nel determinare l'assetto del territorio, con la conseguenza che le scelte in concreto operate, che possono valorizzare alcune aree mortificando le prospettive di utilizzazione di altre, costituiscono apprezzamenti che restano tendenzialmente soggetti a un mero sindacato esterno per l'eventuale individuazione di errori di fatto, contraddizioni, incoerenze o manifeste illogicità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 09.06.2008, n. 2837).
Con riguardo alle doglianze concernenti le scelte urbanistiche compiute con gli atti impugnati rispetto alla destinazione delle aree di proprietà dei ricorrenti va, inoltre, richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale in base al quale le scelte dell'Amministrazione riguardo alla destinazione dei suoli in sede di pianificazione generale del territorio, non necessitano una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il P.R.G. (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.02.2011, nr. 1222 e 18.10.2010, nr. 7554), derogandosi a tale regola solo in presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.01.2011, nr. 352; e, 12.01.2011, nr. 133) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 13.09.2012 n. 2152 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’art. 11 del DPR 327/2001 stabilisce che al proprietario del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all'esproprio, che risulti dai registri catastali, va inviato l'avviso dell'avvio del procedimento:
a) nel caso di adozione di una variante al piano regolatore per la realizzazione di una singola opera pubblica, almeno venti giorni prima della delibera del Consiglio comunale;
b) nei casi di vincoli derivanti dagli atti diversi dai piani urbanistici generali di cui all'art. 10, comma 1, almeno venti giorni prima dell'emanazione dell'atto se ciò risulti compatibile con le esigenze di celerità del procedimento.
La norma costituisce una delle più importanti novità del T.U. espropriazioni in quanto ha esteso la partecipazione al momento della scelta dell'area da espropriare.
Prima della riforma solo una parte della giurisprudenza di merito aveva riconosciuto la diretta applicabilità dell'art. 7 della L. 241/1990, indipendentemente dall'esistenza della dichiarazione di pubblica utilità, in considerazione del fatto che la variante si iscrive comunque in un procedimento espropriativo. La norma riprende quella giurisprudenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto che gli atti di imposizione di vincoli possono avere carattere non solo urbanistico ma anche espropriativo, ogni volta che siano sostanzialmente tali, e quindi sono soggetti al regime costituzionale proprio degli atti espropriativi.
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Mentre il piano regolatore e la variante generale trovano sufficiente motivazione nei criteri posti a base del piano stesso e che sono indicati nella relazione allegata ad esso, in caso di variante limitata il Comune è obbligato ad effettuare una ponderazione comparativa in ordine alla destinazione di zona delle singole aree. La motivazione vale in tal caso a mettere in evidenza le ragioni del mutamento delle originarie valutazioni generali di piano e degli obiettivi da perseguire, in modo che la specifica previsione risulti coerente con le linee di sviluppo dello strumento urbanistico.
Spesso, inoltre, quando viene inserito nel piano regolatore un vincolo preordinato all'espropriazione che ha per oggetto una singola opera si anticipano scelte discrezionali che sono di regola proprie della pianificazione particolareggiata. Poiché ciò dispensa l'Amministrazione dal dover motivare nella fase attuativa ed in particolare nella dichiarazione di pubblica utilità le scelte discrezionali già effettuate, la giurisprudenza afferma che l'onere della motivazione deve risalire al momento in cui tali scelte sono fatte, cioè il momento della variante specifica.
La motivazione vale in tal caso a mettere in evidenza le ragioni del mutamento delle originarie valutazioni generali di piano e degli obiettivi da perseguire, in modo che la specifica previsione risulti coerente con le linee di sviluppo dello strumento urbanistico. Nel caso in cui, invece, il privato abbia effettuato proposte alternative l'onere di motivazione si intende assolto solo mediante una comparazione con l'interesse del privato.

L’art. 11 del DPR 327/2001 stabilisce che al proprietario del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all'esproprio, che risulti dai registri catastali, va inviato l'avviso dell'avvio del procedimento:
a) nel caso di adozione di una variante al piano regolatore per la realizzazione di una singola opera pubblica, almeno venti giorni prima della delibera del Consiglio comunale;
b) nei casi di vincoli derivanti dagli atti diversi dai piani urbanistici generali di cui all'art. 10, comma 1, almeno venti giorni prima dell'emanazione dell'atto se ciò risulti compatibile con le esigenze di celerità del procedimento.
La norma costituisce una delle più importanti novità del T.U. espropriazioni in quanto ha esteso la partecipazione al momento della scelta dell'area da espropriare.
Prima della riforma solo una parte della giurisprudenza di merito aveva riconosciuto la diretta applicabilità dell'art. 7 della L. 241/1990 (TAR Lazio, sez. II-bis, 08.10.2001, n. 827), indipendentemente dall'esistenza della dichiarazione di pubblica utilità, in considerazione del fatto che la variante si iscrive comunque in un procedimento espropriativo. La norma riprende quella giurisprudenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto che gli atti di imposizione di vincoli possono avere carattere non solo urbanistico ma anche espropriativo, ogni volta che siano sostanzialmente tali (Corte cost., 20.05.1999, n. 179), e quindi sono soggetti al regime costituzionale proprio degli atti espropriativi.
Per quanto riguarda l’ambito di applicabilità la norma positivizza l’orientamento giurisprudenziale che riconosceva l’applicazione delle garanzie partecipative esclusivamente ai casi di variante limitata o ad oggetto specifico, che ha per oggetto un'area limitata del territorio e per scopo la realizzazione di una singola opera pubblica.
Il riconoscimento normativo delle garanzie partecipative è la conseguenza di quell’orientamento giurisprudenziale oggi prevalente (Cons. Stato, Ad. Plen., 21.10.1980, n. 37; Cons. stato, sez. V, 23.05.2000, n. 2982 ) secondo il quale la limitatezza territoriale dell'intervento urbanistico e degli scopi perseguiti, impone l'obbligo di una motivazione specifica; infatti la partecipazione procedimentale ha senso solo in quanto il Comune si faccia carico delle osservazioni dei privati mediante una congrua motivazione.
Mentre il piano regolatore e la variante generale trovano sufficiente motivazione nei criteri posti a base del piano stesso e che sono indicati nella relazione allegata ad esso, in caso di variante limitata il Comune è obbligato ad effettuare una ponderazione comparativa in ordine alla destinazione di zona delle singole aree. La motivazione vale in tal caso a mettere in evidenza le ragioni del mutamento delle originarie valutazioni generali di piano e degli obiettivi da perseguire, in modo che la specifica previsione risulti coerente con le linee di sviluppo dello strumento urbanistico.
Spesso, inoltre, quando viene inserito nel piano regolatore un vincolo preordinato all'espropriazione che ha per oggetto una singola opera si anticipano scelte discrezionali che sono di regola proprie della pianificazione particolareggiata. Poiché ciò dispensa l'Amministrazione dal dover motivare nella fase attuativa ed in particolare nella dichiarazione di pubblica utilità le scelte discrezionali già effettuate, la giurisprudenza afferma che l'onere della motivazione deve risalire al momento in cui tali scelte sono fatte, cioè il momento della variante specifica (Cons. Stato, sez. IV, 19.02.1988, n. 79).
La motivazione vale in tal caso a mettere in evidenza le ragioni del mutamento delle originarie valutazioni generali di piano e degli obiettivi da perseguire, in modo che la specifica previsione risulti coerente con le linee di sviluppo dello strumento urbanistico (TAR Lazio, sez. I, 26.11.1986, n. 2044; Cons. Stato, Ad. Plen., 21.10.1980, n. 37). Nel caso in cui, invece, il privato abbia effettuato proposte alternative l'onere di motivazione si intende assolto solo mediante una comparazione con l'interesse del privato (Cons. Stato, sez. IV, 13.05.1991, n. 357; C.G.A. Sicilia, sez. consult., 14.06.1999, n. 271) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 13.09.2012 n. 386 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai fini della legittimità di un atto amministrativo, ove questo sia sorretto da una pluralità di motivi autonomi, è sufficiente che uno solo di essi sia riconosciuto idoneo a sorreggere l'atto stesso.
Ne consegue che, poiché il provvedimento di diniego impugnato si fonda su una pluralità di motivi autonomi, essendo fondate alcune delle contestazioni sollevate dal Comune nei confronti del progetto dei ricorrenti, il provvedimento stesso è legittimamente supportato da tali osservazioni, in ossequio al principio per cui ai fini della legittimità di un atto amministrativo, ove questo sia sorretto da una pluralità di motivi autonomi, è sufficiente che uno solo di essi sia riconosciuto idoneo a sorreggere l'atto stesso ( cfr. ex multis TAR Sicilia Catania, Sez. IV, 25.07.2012, n. 1918; TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.09.2012 n. 2144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per regola generale, l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie precedenti previsioni urbanistiche) e non deve fornire motivazione specifica delle singole scelte urbanistiche.
La giurisprudenza è, infatti, uniforme nel ritenere che la scelta di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessiti di particolare motivazione, giacché le stesse trovano giustificazione nei criteri generali d’impostazione del piano.
Le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante.
Tuttavia, la regola generale della non necessità di puntuale onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento urbanistico subisce delle eccezioni in alcune situazioni specifiche in cui il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione: ciò si verifica nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto alla precedente va ad incidere su singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione, in tali casi, ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità di modificare la precedente destinazione urbanistica di un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno portato a tale nuova scelta pianificatoria. Si tratta di tutti i casi di affidamento qualificato del privato, riconducibili a convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, e alle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione.
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Il sovradimensionamento degli standard non necessita di apposita, specifica motivazione ove lo scostamento dai minimi legali risulti contenuto, mentre il notevole superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 deve essere congruamente motivato, con la precisazione che la motivazione va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree.

Osserva il Collegio che, per regola generale, l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie precedenti previsioni urbanistiche) e non deve fornire motivazione specifica delle singole scelte urbanistiche.
La giurisprudenza è, infatti, uniforme nel ritenere che la scelta di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessiti di particolare motivazione, giacché le stesse trovano giustificazione nei criteri generali d’impostazione del piano (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 07.04.2010, n. 1986; TAR Sicilia Catania, sez. I, 15.04.2010, n. 1089; Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 23.11.2010, n. 8074).
Inoltre, sempre in tema di obbligo motivazionale, va posto in rilievo che le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 19.03.2009, n. 1652).
Tuttavia, la regola generale della non necessità di puntuale onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento urbanistico subisce delle eccezioni in alcune situazioni specifiche in cui il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione: ciò si verifica nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto alla precedente va ad incidere su singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione, in tali casi, ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità di modificare la precedente destinazione urbanistica di un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno portato a tale nuova scelta pianificatoria. Si tratta di tutti i casi di affidamento qualificato del privato, riconducibili a convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, e alle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione.
È altresì pacifico in giurisprudenza che il sovradimensionamento degli standard non necessiti di apposita, specifica motivazione ove lo scostamento dai minimi legali risulti contenuto, mentre il notevole superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 deve essere congruamente motivato, con la precisazione che la motivazione va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.09.2012 n. 2142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Se in linea generale le scelte operate dall'Amministrazione in ordine alla destinazione delle singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che può evincersi dai criteri generali seguiti nell'impostazione del piano, tuttavia, la regola generale della non necessità di puntuale onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento urbanistico subisce delle eccezioni in alcune situazioni specifiche, nelle quali il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione.
Ciò si verifica nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto alla precedente va ad incidere su singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione, in tali casi, ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità di modificare la precedente destinazione urbanistica di un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno portato a tale nuova scelta pianificatoria.

A tale riguardo, il Collegio osserva che, se in linea generale le scelte operate dall'Amministrazione in ordine alla destinazione delle singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che può evincersi dai criteri generali seguiti nell'impostazione del piano (Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2010, n. 1986; sez. IV, 26.04.2006, n. 2297 e 22.06.2004, n. 4466; TAR Sicilia Catania, sez. I, 15.04.2010, n. 1089), tuttavia, la regola generale della non necessità di puntuale onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento urbanistico subisce delle eccezioni in alcune situazioni specifiche, nelle quali il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione.
Ciò si verifica nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto alla precedente va ad incidere su singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione, in tali casi, ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità di modificare la precedente destinazione urbanistica di un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno portato a tale nuova scelta pianificatoria (Cons. Stato, sez. IV, 26.10.2007, n. 5601 e 06.10.2003, n. 5869) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.09.2012 n. 2141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIAVVOCATI/ Ordinanza del Tar Lombardia-Brescia sul nuovo regolamento sulle tariffe. Il compenso è onnicomprensivo. Nessuna distinzione tra diritti e onorari per il difensore
La determinazione del compenso professionale dovuto ai difensori a seguito dell'entrata in vigore del decreto del ministero della giustizia 20 luglio 2012 n.140 è onnicomprensiva: è venuta meno, cioè, la distinzione fra diritti e onorari.
Questo è quanto ha chiarito il Tar Lombardia-Brescia, con l'ordinanza 10.09.2012 n. 1528 la quale fornisce una prima linea interpretativa dei criteri per liquidare gli onorari di giudizio previsti dal decreto del ministero della giustizia 20.07.2012, n. 140 (in Gazzetta Ufficiale n. 195 del 22.08.2012; in vigore dal 23.08.2012) «Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell'articolo 9 del decreto legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27».
Nel caso in esame un avvocato difensore di uno straniero, ammesso al gratuito patrocinio, aveva presentato istanza per la liquidazione del compenso a lui spettante davanti al giudice amministrativo.
In merito alla domanda i giudici amministrativi lombardi precisano, innanzitutto, che la materia è disciplinata dal sopra citato decreto ministeriale che ai sensi dell'art. 42 è entrato in vigore dal giorno successivo alla propria pubblicazione e deve essere applicato a tutte le liquidazioni eseguite dopo la sua entrata in vigore. Inoltre, con questa ordinanza, si sancisce l'applicabilità del decreto per analogia a tutti i casi di liquidazione del compenso di professionisti, compresa la fattispecie di gratuito patrocinio.
In secondo luogo il Tribunale amministrativo regionale afferma il criterio generale del compenso unico ovvero fa venir meno la pregressa distinzione fra diritti e onorari: mentre precedentemente il tariffario forense comprendeva diritti (fissi) relativi all'attività meramente esecutiva e onorari (compresi tra un minimo ed un massimo) relativi all'attività squisitamente professionale ed intellettuale, tale differenziazione viene sostituita da una liquidazione onnicomprensiva.
Altro aspetto peculiare dell'interpretazione del Tar concerne la possibilità di diminuire il compenso sotto il minimo tariffario nei casi in cui la causa sia di minima complessità dal momento che i criteri contenuti dal decreto ministeriale devono essere ritenuti solamente indicativi. Viene ad assumere così particolare rilevanza, ai fini della liquidazione del compenso professionale in favore degli avvocati, la difficoltà o meno delle questioni giuridiche trattate.
E tale complessità deve essere valutata, come nel caso oggetto dell'ordinanza, anche con riferimento all'esistenza di un orientamento giurisprudenziale costante ed univoco. Tale liquidazione, ai sensi dell'art. 10 del medesimo decreto, nel caso di sentenze di rito comporta un compenso ulteriormente ridotto del 50% (articolo ItaliaOggi del 14.09.2012).

ESPROPRIAZIONE: La dichiarazione di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per l'avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla, onde l'occupazione costituisce mero comportamento materiale in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della Pubblica amministrazione; di conseguenza spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dal privato perché in tal caso essa è da ritenere emessa in carenza ovvero in difetto assoluto di attribuzione del potere stesso, che comporta nullità del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti della procedura ablatoria.
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Prima dell’entrata in vigore del T.U. sulle espropriazioni non esisteva alcuna norma che consentisse alla PA, in caso di illegittimità della procedura espropriativa e di realizzazione dell’opera pubblica, di evitare la restituzione dell’area.
L’istituto giurisprudenziale dell’accessione avvertita, creato dalla Cassazione per colmare tale lacuna nell’ordinamento giuridico allora vigente, non può più essere condiviso, per contrasto con il principio di legalità, come ripetutamente affermato anche dalla Corte CEDU in numerose sentenze, tra le quali la n. 36813/1597 del 2006 (Scordino c. Italia) non potendo la giurisprudenza consentire l’acquisto della proprietà sulla base di un fatto illecito.
In ogni caso, l’accertamento dell’irreversibile trasformazione del suolo e della perdita del diritto di proprietà privata in favore della PA, dovrebbe essere riservato al Giudice e non certo alla pubblica amministrazione, alla quale non è mai stato attribuito né dalla legge, né tanto meno dalla giurisprudenza, tale, inesistente, potere.
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L'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. Ciò sulla base di un superamento dell'interpretazione, prima richiamata, che riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e all'irreversibile trasformazione del suolo effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato.
Partendo dall'esame della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente non fosse aderente alla Convenzione europea e, in particolare, al Protocollo addizionale n. 1. La Corte aveva ritenuto che la realizzazione dell'opera pubblica non fosse di impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva o usurpativa- di acquisizione del terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente occupato dall'amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell'occupazione e l'annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo e la sua riduzione in pristino.
La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è, dunque, in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
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Nessun risarcimento è dovuto per il periodo di occupazione legittima del suolo, in quanto, sebbene il procedimento espropriativo non sia stato definito nel termine previsto, la fase relativa all'occupazione risulta legittima ed efficace sino alla scadenza del termine previsto nei singoli decreti di occupazione; infatti l'iniziale occupazione, qualora non siano stati annullati tutti gli atti a decorrere dalla dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima solo dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di esproprio; ne consegue che per il periodo di occupazione legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del danno, ma l'ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, confermata dall'art. 53, comma 2, t.u. 08.06.2001 n. 327.

Come ritenuto da recente e condivisibile giurisprudenza, la dichiarazione di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per l'avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla, onde l'occupazione costituisce mero comportamento materiale in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della Pubblica amministrazione; di conseguenza spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dal privato perché in tal caso essa è da ritenere emessa in carenza ovvero in difetto assoluto di attribuzione del potere stesso, che comporta nullità del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti della procedura ablatoria (Consiglio di Stato sez. IV, 28.02.2012, n. 1133).
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Prima dell’entrata in vigore del T.U. sulle espropriazioni (DPR 327 del 2001, il cui termine di entrata in vigore è stato prorogato prima al 30.06.2002, dall'art. 5, D.L. 23.11.2001, n. 411, poi al 31.12.2002 dall'art. 5, comma 3, L. 01.08.2002, n. 166 e successivamente ulteriormente prorogato al 30.06.2003 dall'art. 3, D.L. 20.06.2002, n. 122, nel testo modificato dalla relativa legge di conversione) non esisteva alcuna norma che consentisse alla PA, in caso di illegittimità della procedura espropriativa e di realizzazione dell’opera pubblica, di evitare la restituzione dell’area (Consiglio di Stato, Ad. Plen. N. 2 del 2005).
L’istituto giurisprudenziale dell’accessione avvertita, creato dalla Cassazione per colmare tale lacuna nell’ordinamento giuridico allora vigente, non può più essere condiviso, per contrasto con il principio di legalità, come ripetutamente affermato anche dalla Corte CEDU in numerose sentenze, tra le quali la n. 36813/1597 del 2006 (Scordino c. Italia) non potendo la giurisprudenza consentire l’acquisto della proprietà sulla base di un fatto illecito.
In ogni caso, anche secondo l’orientamento giurisprudenziale richiamato, l’accertamento dell’irreversibile trasformazione del suolo e della perdita del diritto di proprietà privata in favore della PA, dovrebbe essere riservato al Giudice e non certo alla pubblica amministrazione, alla quale non è mai stato attribuito né dalla legge, né tanto meno dalla giurisprudenza, tale, inesistente, potere.
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Deve premettersi che la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV, 02.09.2011, n. 4970) ha più volte chiarito che l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. Ciò sulla base di un superamento dell'interpretazione, prima richiamata, che riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e all'irreversibile trasformazione del suolo effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato.
Partendo dall'esame della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente non fosse aderente alla Convenzione europea e, in particolare, al Protocollo addizionale n. 1 (sentenza 30.05.2000, ric. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera). Nella sentenza citata, la Corte aveva ritenuto che la realizzazione dell'opera pubblica non fosse di impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva o usurpativa- di acquisizione del terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente occupato dall'amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell'occupazione e l'annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo e la sua riduzione in pristino.
La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è, dunque, in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
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Nessun risarcimento, infatti, è dovuto per il periodo di occupazione legittima del suolo, in quanto, sebbene il procedimento espropriativo non sia stato definito nel termine previsto, la fase relativa all'occupazione risulta legittima ed efficace sino alla scadenza del termine previsto nei singoli decreti di occupazione; infatti l'iniziale occupazione, qualora non siano stati annullati tutti gli atti a decorrere dalla dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima solo dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di esproprio (TAR Catania Sicilia sez. II, 28.05.2012, n. 1350); ne consegue che per il periodo di occupazione legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del danno, ma l'ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, confermata dall'art. 53, comma 2, t.u. 08.06.2001 n. 327 (TAR Catanzaro , sez. II, 01.02.2012, n. 132)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 10.09.2012 n. 923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori.
Va premesso che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, la destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori (v., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992 n. 219) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 07.09.2012 n. 537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONI: Ai fini delle procedure espropriative, l'Amministrazione non è tenuta ad alcuna indagine ulteriore finalizzata ad accertare l'identità di coloro che sono effettivamente proprietari dei terreni, ma deve limitarsi a prendere in considerazione quanto viene indicato nei registri catastali, senza che per ciò risulti compromessa la legittimità della procedura.
Il principio, invero pacifico, trova oggi conferma nell'art. 3 del D.P.R. n. 327 del 2001. Il soggetto passivo della procedura è sempre l'intestatario catastale del bene, in quanto la necessità di provvedere celermente all'approvazione del progetto ed all'acquisizione dell'area mal si concilia con le indagini sulla proprietà effettiva, e ciò tanto più vale quando si rendano necessari complessi accertamenti sulla successione ereditaria, come nella fattispecie.

Dispone in proposito l’art. 3, comma 2, del TU espropriazioni, che «Tutti gli atti della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di esproprio, sono disposti nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo…»; l’art. 25, comma 2, dello stesso TU dispone poi che «Le azioni reali e personali esperibili sul bene espropriando non incidono sul procedimento espropriativo e sugli effetti del decreto di esproprio…».
Sul punto, condivisibilmente, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di affermare che «…L'Amministrazione non è infatti tenuta ad alcuna indagine ulteriore finalizzata ad accertare l'identità di coloro che sono effettivamente proprietari dei terreni, ma deve limitarsi a prendere in considerazione quanto viene indicato nei registri catastali, senza che per ciò risulti compromessa la legittimità della procedura (si veda, tra molte, Cons. Stato, sez. V, 10.07.2000, n. 3850; Id., sez. IV, 28.02.2002, n. 1200; Id., sez. IV, 30.11.2006, n. 7014). Il principio, invero pacifico, trova oggi conferma nell'art. 3 del D.P.R. n. 327 del 2001. Il soggetto passivo della procedura è sempre l'intestatario catastale del bene, in quanto la necessità di provvedere celermente all'approvazione del progetto ed all'acquisizione dell'area mal si concilia con le indagini sulla proprietà effettiva, e ciò tanto più vale quando si rendano necessari complessi accertamenti sulla successione ereditaria, come nella fattispecie…» (TAR Puglia–Bari, Sez. I, 05.04.2011, n. 548; sul punto, anche Cass. civ. Sez. I, 06.07.2012, n. 11407) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 05.09.2012 n. 2099 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’informativa prefettizia antimafia “tipica” costituisce una misura preventiva volta a colpire l’azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione, configurandosi come tipica misura cautelare di polizia, preventiva ed interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale.
Come tale, essa, prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti di soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal prefetto territorialmente competente.
Ai fini della sua legittima adozione, dunque, non occorre la prova di fatti di reato, né la prova della effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa né la prova del reale condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti mafiosi; essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, la misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sulla esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazioni malavitose e, quindi, nel condizionamento in atto dell’attività di impresa.
Quanto ai parametri di legittimità del provvedimento, si afferma, pertanto, che non occorre che sia provata l’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, essendo, invece, sufficiente, secondo un giudizio prognostico, latamente discrezionale, la mera possibilità di interferenza della criminalità organizzata, richiedendosi la concomitanza di un quadro di oggettiva rilevanza dal quale desumere elementi che, secondo un giudizio probabilistico, o anche secondo comune esperienza, possano far presumere non una attuale ingerenza delle organizzazioni mafiose negli affari, ma una effettiva possibilità che tale ingerenza sussista o possa sussistere. Si ritiene, invero, sufficiente il “tentativo di infiltrazione” avente lo scopo di condizionare le scelte dell’impresa, anche se tale scopo non si è in concreto realizzato.
La misura interdittiva, di conseguenza, può essere legittimamente sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza della criminalità organizzata nella attività imprenditoriale, costituendo presupposto sufficiente la rilevazione di elementi indizianti idonei a configurare nell’attualità l’oggettiva e qualificata probabilità del tentativo di infiltrazione mafiosa per il condizionamento dell’attività di impresa pur senza attingere il grado di prova proprio dell’accertamento penale; non è, invero, ritenuto necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per provare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.
Ferma, dunque, la sufficienza (nei sensi sopra esposti) di meri elementi sintomatici ed indiziari a sorreggere la legittimità della interdittiva antimafia, va rilevato che la giurisprudenza ne ha ulteriormente precisato (e così delimitato) l’ambito di rilevanza, dovendosi comunque ragionevolmente contemperare la finalità di tutela preventiva dell’istituto con esigenze di tutela del principio di legalità, di certezza del diritto e dei valori costituzionalmente rilevanti (libertà di iniziativa economica privata) da esso incisi.
Si è, di conseguenza, affermato:
- che non possono ritenersi sufficienti il solo sospetto o mere congetture prive di alcun riscontro fattuale;
- che occorre, invece, l’individuazione e l’esternazione di idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la pubblica amministrazione;
- che, invero, la necessaria coerenza costituzionale di tale forma avanzata di tutela impone di non prescindere da un riscontro oggettivo dell’intuizione prognostica, risultando doverosa la oggettiva individuazione di un coerente, ancorché non perfezionato, quadro indiziario, idoneo a supportare il paventato pericolo di inquinamento camorristico;
- che gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente o atomisticamente, dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata e nel quale ogni elemento acquista valenza nella sua connessione con gli altri.

Va premesso che la valutazione riservata al Prefetto è espressione di ampia discrezionalità, onde può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (cfr. Cons. Stato, III; 14-09-2011, n. 5130; 19-01-2012, n. 254); il controllo in sede giurisdizionale può attestarsi, quindi, nei limiti della assenza di eventuali vizi della funzione che possano essere sintomo di un non corretto esercizio del potere quanto alla completezza dei dati acquisiti, alla non travisata valutazione dei fatti ed alla logicità delle conclusioni (cfr. Cons. Stato, V, 01-10-2010, n. 7260).
L’informativa prefettizia antimafia “tipica” costituisce una misura preventiva volta a colpire l’azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione (cfr. Cons. Stato, III; 14-09-2011, n. 5130; III, 19-01-2011, n. 254), configurandosi come tipica misura cautelare di polizia, preventiva ed interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale (cfr. Tar Campania, Napoli, I, 03-05-2012, n. 2016).
Come tale, essa, prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti di soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal prefetto territorialmente competente (cfr. Cons. Stato, III, n. 5130/2011 e n. 254/2012 cit.; Tar Piemonte, I, 02-04-2012, n. 373).
Ai fini della sua legittima adozione, dunque, non occorre la prova di fatti di reato, né la prova della effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa né la prova del reale condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti mafiosi (TAR Campania, n. 2016/2012, cit.; Tar Lazio, I, 06-12-2010, n. 35388); essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, la misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sulla esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazioni malavitose e, quindi, nel condizionamento in atto dell’attività di impresa.
Quanto ai parametri di legittimità del provvedimento, si afferma, pertanto, che non occorre che sia provata l’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, essendo, invece, sufficiente, secondo un giudizio prognostico, latamente discrezionale, la mera possibilità di interferenza della criminalità organizzata (cfr. Cons. Stato, III, 06-09-2011, n. 5019; Tar Campania, I, 17-06-2011, n. 3242), richiedendosi la concomitanza di un quadro di oggettiva rilevanza dal quale desumere elementi che, secondo un giudizio probabilistico, o anche secondo comune esperienza, possano far presumere non una attuale ingerenza delle organizzazioni mafiose negli affari, ma una effettiva possibilità che tale ingerenza sussista o possa sussistere (cfr. Tar Calabria, Reggio Calabria, I, 01-02-2012, n. 91). Si ritiene, invero, sufficiente il “tentativo di infiltrazione” avente lo scopo di condizionare le scelte dell’impresa, anche se tale scopo non si è in concreto realizzato (Cons. Stato, IV, 30-05-2005, n. 2796 e 13-10-2003, n. 6187).
La misura interdittiva, di conseguenza, può essere legittimamente sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza della criminalità organizzata nella attività imprenditoriale (cfr. Cons. Stato, III, n. 254/2012 e n. 5019/2011, cit.), costituendo presupposto sufficiente la rilevazione di elementi indizianti idonei a configurare nell’attualità l’oggettiva e qualificata probabilità del tentativo di infiltrazione mafiosa per il condizionamento dell’attività di impresa pur senza attingere il grado di prova proprio dell’accertamento penale (Cons. Stato, VI, 27-07-2011, n. 4468); non è, invero, ritenuto necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per provare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo (Cons. Stato, III, n. 254/2012, cit.).
Ferma, dunque, la sufficienza (nei sensi sopra esposti) di meri elementi sintomatici ed indiziari a sorreggere la legittimità della interdittiva antimafia, va rilevato che la giurisprudenza ne ha ulteriormente precisato (e così delimitato) l’ambito di rilevanza, dovendosi comunque ragionevolmente contemperare la finalità di tutela preventiva dell’istituto con esigenze di tutela del principio di legalità, di certezza del diritto e dei valori costituzionalmente rilevanti (libertà di iniziativa economica privata) da esso incisi.
Si è, di conseguenza, affermato:
- che non possono ritenersi sufficienti il solo sospetto o mere congetture prive di alcun riscontro fattuale;
- che occorre, invece, l’individuazione e l’esternazione di idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la pubblica amministrazione (cfr. Cons. Stato, III, n. 5130/2011, Tar Campania, I, n. 2016/2012, Tar Piemonte, I, n. 373/2012, cit.);
- che, invero, la necessaria coerenza costituzionale di tale forma avanzata di tutela impone di non prescindere da un riscontro oggettivo dell’intuizione prognostica, risultando doverosa la oggettiva individuazione di un coerente, ancorché non perfezionato, quadro indiziario, idoneo a supportare il paventato pericolo di inquinamento camorristico (cfr. Cons. Stato, III, 09-05-2012, n. 2678);
- che gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente o atomisticamente, dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata (cfr. Cons. Stato, III, n. 254/2012; n. 5995/2011; n. 5130/2011; n. 5019/2011) e nel quale ogni elemento acquista valenza nella sua connessione con gli altri (Tar Campania, Napoli, I, 17-06-2011, n. 3242).
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Il richiamo -operato dalla citata giurisprudenza- alla necessaria presenza di un quadro indiziario ed alla coerenza ed idoneità dello stesso, riveniente dalla necessità di riscontrare la compatibilità costituzionale dell’istituto in ragione della avanzata soglia di anticipazione di tutela del bene giuridico protetto in esso presente, induce il Tribunale ad ulteriori precisazioni.
L’utilizzazione dello strumento indiziario richiede il rispetto dei parametri di validità dello stesso concordemente riconosciuti.
Il riferimento alla necessità di un “quadro” indiziario ed alla valutazione unitaria e non atomistica costituisce, pertanto, conferma della regola generale secondo cui gli indizi devono essere precisi e concordanti.
Dunque, non appare sufficiente un unico elemento di fatto dalla valenza non direttamente ed immediatamente probatoria, ma occorre la pluralità di essi.
Di poi, tali elementi devono essere concordanti, cioè condurre, nella loro valenza induttiva, alla medesima conclusione, corroborandone la bontà, sia pure nella sua valenza possibilistica e probabilistica.
In buona sostanza, la valutazione sulla esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa deve essere fondata su plurimi elementi di fatto che logicamente e ragionevolmente vanno nella medesima direzione, così fondando una conclusione sulla configurabilità in concreto di elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa.
Va, peraltro , sottolineato che la legittimità di tale conclusione non è in assoluto e sempre esclusa dalla esistenza, nella vicenda oggetto di valutazione, di elementi di segno opposto ovvero di dubbia connotazione. E’, però, in tutta evidenza necessario che questi ultimi siano isolati, di contenuto e valenza non rilevante, assolutamente minoritari, sia quantitativamente che qualitativamente, rispetto a quelli che inducono a conclusioni positive circa la presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa.
L’esistenza di fattori dissonanti obbliga, peraltro, l’amministrazione ad approfondimenti istruttori e, comunque, ad una ponderazione più attenta ed approfondita del residuo quadro indiziario a disposizione, al fine di confermarne (con adeguata esternazione) la valenza verso la conclusione interdittiva, attraverso una analisi che tenga conto (e dia adeguatamente ragione) non solo della sua rilevanza positiva ma anche dei motivi per i quali esso non è vinto o posto incisivamente in discussione dall’elemento di segno contrario.
Le sopra esposte considerazioni in ordine ai necessari contenuti e caratteri del quadro indiziario sufficiente ed idoneo a fondare una legittima informazione interdittiva trovano significativa conferma in un ulteriore aspetto della normativa di riferimento.
Questa opera richiamo a “tentativi” di infiltrazione mafiosa.
Pur nella consapevolezza del carattere amministrativo della misura in esame, la sua spiccata valenza “anticipatoria” della funzione di tutela del bene protetto e la già evidenziata rilevante incidenza su valori costituzionalmente tutelati inducono il Tribunale a ritenere pertinente, nella esegesi del citato dato normativo, anche il riferimento agli elementi che connotano il “tentativo” nel diritto penale.
La ratio garantista, tendente, nel rispetto del principio costituzionale di offensività, alla individuazione di una indefettibile connotazione offensiva del fatto verso il bene giuridico protetto (sia pur sub specie di mero pericolo) –e ciò a giustificazione della limitazione della altrui libertà– appare, invero, comune ad entrambi gli istituti.
Orbene, l’articolo 56 del codice penale connota il tentativo in termini di “idoneità” ed "univocità” degli atti.
L’idoneità evidenzia l’adeguatezza degli atti alla realizzazione del risultato, ovvero la capacità degli stessi di causarne o favorirne la realizzazione; la univocità di direzione ne connota, invece, un grado di sviluppo che lascia verosimilmente prevedere la realizzazione del risultato medesimo.
Riassumendo e sintetizzando le esposte considerazioni, va, dunque, affermato, ai fini della legittima adozione di una interdittiva antimafia, che:
- l’amministrazione deve compiere una istruttoria completa e non parziale, attraverso l’acquisizione e la valutazione di tutti gli elementi fattuali esistenti ed a disposizione, al fine di verificare l’esistenza di un quadro indiziario idoneo ed adeguato a supportare un giudizio di esistenza ( certa o probabile) di tentativi di infiltrazione mafiosa;
- il richiamato requisito della completezza dell’istruttoria comporta che debba esservi esame della totalità dei dati fattuali a disposizione, che è necessaria la valutazione di tutti gli elementi esistenti nella attualità, che, ove vengono considerati fatti risalenti nel tempo, tale circostanza impone un doveroso approfondimento che ne giustifichi la utilizzazione attuale per la mancanza di rilevanti elementi di novità atti ad inficiarne la portata, che, ove emergano elementi nuovi, questi devono essere necessariamente oggetto di valutazione;
- i dati fattuali costituenti il quadro indiziario devono essere plurimi e concordanti in relazione alla conclusione interdittiva;
- l’esistenza di elementi dissonanti o di segno contrario non esclude, di per sé sola, la legittimità della conclusione interdittiva, ma impone comunque un valutazione più approfondita dei dati a disposizione;
-in particolare, la presenza di elementi di segno contrario, non esclude l’esistenza di un quadro indiziario concordante tutte le volte in cui essi siano di scarsa rilevanza e risultino comunque vinti dal peso preponderante, quantitativo e qualitativo, degli altri a disposizione dell’amministrazione.
La necessaria esistenza di un quadro indiziario idoneo ed adeguato, quale presupposto per la legittima adozione di una interdittiva antimafia, richiede al Collegio un ulteriore approfondimento in ordine alle questioni relative alla risalenza temporale dei dati fattuali utilizzati , alla rilevanza delle sopravvenienze ed alla efficacia temporale delle interdittive antimafia.
L’articolo 2, comma 1, del dpr 03-06-1998, n. 252 ha stabilito che “La documentazione prevista dal presente regolamento è utilizzabile per un periodo di sei mesi dalla data del rilascio, anche per altri procedimenti riguardanti i medesimi soggetti”.
Oggi l’articolo 86 del d.lgs. n. 159/2001 prevede, al comma 1, che “la comunicazione antimafia è utilizzabile per un periodo di sei mesi dalla data del rilascio, anche per altri procedimenti riguardanti i medesimi soggetti”; il successivo comma 2 dispone che “L’informazione antimafia è utilizzabile per un periodo di dodici mesi dalla data del rilascio, qualora non siano intervenuti mutamenti nell’assetto societario e gestionale dell’impresa oggetto dell’informazione. Esso è utilizzabile anche per altri procedimenti riguardanti i medesimi soggetti“.
Al riguardo, la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, VI, 30-12-2011, n. 7002; V, 28-02-2006, n. 851; V, 12-06-2007, n. 3126) ha avuto modo di affermare che l’attualità dei fatti e del rischio, che deriva dall’emersione di tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata in organismi imprenditoriali, va intesa nel senso che, se non vi sono fatti nuovi rispetto ad una precedente valutazione di presenza di tentativi siffatti, non è ragionevole, per ciò solo, concludere per il suo venir meno.
Non si deve, invero, dimenticare che la ratio delle disposizioni normative in materia riflette non già una funzione sanzionatoria, ma di prevenzione, finalizzata a costituire efficaci argini alla penetrazione criminale negli appalti pubblici. E’ perciò ragionevole, e conforme a proporzionalità, considerare a questi fini che la situazione di rischio di infiltrazioni, che non è costituita ma solo manifestata da singoli e rilevati episodi, si può considerare davvero fugata non già per il mero e formale successivo trascorrere di un breve lasso di tempo dall’ultima verifica fatta, quanto per la necessità che siano sopravvenuti e accertati fatti positivi, idonei a dar conto di un nuovo e consolidato operare dei soggetti cui era stato collegato il pericolo, che persuasivamente e fattivamente dimostri un avvenuto discostamento dalla situazione prima rilevata.
E’ stato, pure, sottolineato (cfr. Tar Campania, Napoli, I, 08-04-2010, n. 1835) che, se è vero che determinati accadimenti non possono, in linea di principio, rappresentare dei vincoli ostativi permanenti al reinserimento dell’impresa colpita da precedente interdittiva, è altresì vero che il mero trascorrere del tempo non può in quanto tale automaticamente fungere da fattore di riabilitazione.
Ciò può ritenersi di certo in situazioni in cui il periodo di tempo che si colloca tra l’evento indiziario e la sua rilevazione sia effettivamente tale da neutralizzarne la sintomaticità, come si verifica ad esempio in relazione ad eventi passati rispetto ai quali il nesso di causalità indiziante appare non più sussistente perché è mutato l’assetto societario o è venuta meno la pericolosità del gruppo criminale ritenuto contiguo all’impresa.
Invece, nella ipotesi in cui gli indizi addotti, sebbene non attuali ratione temporis, ma comunque non eccessivamente lontani, esprimano una non lieve compromissione rispetto ad ambienti o logiche malavitose, rispetto alle quali, nonostante il trascorrere del tempo, non sia fornita alcuna riprova di una successiva dissociazione, non vi è ragione di ritenere implausibile una valutazione di permanenza di una condizione di contiguità mafiosa.
Dai richiamati principi sono stati, poi, ricavati, importanti corollari:
- la previsione normativa (art. 2, comma 1, del dpr 03-06-1998, n. 252 ; oggi, art. 86, commi 1 e 2 , del d.lgs. n. 159/2011), affermante la limitata utilizzabilità temporale della documentazione antimafia , intende riferirsi ai soli casi di documentazioni negative, vale a dire che attestino che non risultano infiltrazioni della criminalità organizzata, e non già anche ai casi di documentazioni positive, le quali conservano la loro capacità interdittiva anche oltre quel termine (cfr. Cons. Stato, VI, n. 7002/2011, cit.);
- la valenza interdittiva nell’attualità di un precedente accertamento non è scalfito da sopravvenienze meramente formali, obiettivamente non comprovanti un reale e sostanziale discostamento da ambienti e logiche malavitose, quali il mero trasferimento di sede ovvero il trasferimento di quote ad un familiare (cfr. Consiglio di Stato, VI, 20.05.2011, n. 2996); sul punto va, in particolare rilevato che la sopravvenuta normativa, con evidente intento dissuasivo al loro ricorso, ha trasformato tali elementi sopravvenuti da meri elementi irrilevanti ad excludendum in fattori positivi da cui ricavare la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa (si veda l’art. 84, comma 4, lett. f, del d.lgs. n. 159/2011) (TAR Campania-Salerno, sentenza 05.09.2012 n. 1624 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Stante l’obbligo per l’ente locale di esternare le ragioni per le quali ritiene l’opera compatibile con i valori protetti dal vincolo, risulta evidente che, nel caso di avvenuta enunciazione dei motivi, l’autorità amministrativa che pronunci l’annullamento deve specificare diffusamente le ragioni della riscontrata illegittimità, con riferimento a quanto affermato dall’ente locale. Al contrario, quando l’ente regionale o subregionale siano venuti meno all’obbligo di motivazione, risulta sufficiente il rilievo da parte del Ministero della suddetta mancanza, non essendo stata in concreto esternata alcuna verifica di compatibilità dell’opera con il valore paesistico protetto, accertamento che costituisce funzione e contenuto essenziale del nulla osta.
Se è vero che l’Amministrazione Statale non può disporre l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica o del parere paesaggistico adottato in sede regionale per ragioni di merito, né ha il potere di modificare il contenuto dell’autorizzazione o di imporre modifiche progettuali, essa non esprime un giudizio di merito sovrapponendo il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quello dell’Amministrazione competente nel caso in cui rilevi che l’autorità amministrativa che ha emesso il nulla osta o il parere non abbia esternato alcuna congrua motivazione dalla quale evincere le ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico.
L’ente delegato o sub–delegato deve effettuare la valutazione di propria competenza motivando adeguatamente la compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera assentita, prendendo in considerazione le specifiche circostanze di fatto, sussistendo, in caso contrario, l’illegittimità del nulla osta o dell’autorizzazione per carenza di motivazione o di istruttoria. Pertanto, l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo esame, nel proprio provvedimento, può motivare sulla non compatibilità dell’intervento edilizio programmato rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo.
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Il preavviso di provvedimento negativo di cui all’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 (introdotto dalla l. 11.02.2005 n. 15) non si applica al procedimento volto all’annullamento, in tempi stretti e perentori, dell’autorizzazione paesaggistica sub specie di riesame di quell’atto da parte dell’autorità statale, e che si configura come una fase di riscontro della già ritenuta possibilità giuridica di mutare lo stato dei luoghi.
Il preavviso di diniego istituto finalizzato ad aprire una fase, anche non breve, di confronto endoprocedimentale è invero di suo incompatibile con la stretta tempistica del vaglio delle condizioni di legittimità di un atto legittimamente già rilasciato e produttivo di taluni effetti.
Si tratta, del resto, di uno strumento partecipativo che la legge prevede solo «nei procedimenti ad istanza di parte» e che non trova applicazione per questa sequenza di secondo grado, che è avviata d’ufficio e che, pur configurando un secondo tratto di un’unica vicenda amministrativa di cogestione del vincolo, segue la cesura procedimentale del già avvenuto rilascio del provvedimento di base che conclude la fase ad istanza di parte (mentre la successiva fase soprintendizia concreta una sequenza officiosa, avviata con la trasmissione degli atti da parte del Comune).

Il decreto dell’08.02.2008, a firma del Soprintendente B.A.P.P.S.A.E. di Salerno ed Avellino, di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, rilasciata dal Comune di Centola, propedeutica al rilascio della concessione edilizia in sanatoria, richiesta dalla ricorrente ai sensi della l. 47/1985, è fondato, tra le altre circostanze, su quella, secondo cui il provvedimento comunale è motivato esclusivamente –“per relationem”– con riferimento al parere, espresso dalla Commissione comunale per il Paesaggio in data 06.12.2005, del seguente testuale tenore: “Considerato che l’intervento non appare tale da risultare pregiudizievole per l’ambiente circostante, né tale da incidere sostanzialmente sui valori paesistici; Presa in esame la pratica di condono edilizio, la Commissione dal punto di vista paesistico–ambientale, per le sole opere oggetto di sanatoria, esprime il seguente parere: Favorevole–Condizionato: alla installazione di gronde e pluviali in rame; adeguata sistemazione dell’area esterna al fabbricato; il tutto fatti salvi eventuali pareri e/o nulla osta di organi sovra comunali”.
Riguardo a tale motivazione, il Soprintendente ne rilevava, nel decreto impugnato, la natura “stereotipata”, denotante “una carenza d’istruttoria, nella parte in cui non ha neanche rilevato che le facciate sono parzialmente intonacate, la copertura è a lastrico solare con presenza di ferri d’attesa, etc.”.
Osservava in proposito la difesa erariale come l’effettiva sussistenza del prefato difetto di motivazione dell’autorizzazione paesaggistica fosse “idoneo da solo a legittimare l’annullamento”.
Orbene, il Tribunale conviene circa il dedotto carattere “apparente e tautologico” della giustificazione fornita –attraverso il richiamo al parere della Commissione per il Paesaggio– dal Responsabile del Servizio Tutela Beni Ambientali del Comune di Centola (“Considerato che l’intervento non appare tale da risultare pregiudizievole per l’ambiente circostante, né tale da incidere sostanzialmente sui valori paesistici”), concepito in maniera tale, da non rendere affatto percepibile la concreta ragione del positivo apprezzamento, manifestato riguardo all’intervento abusivo in questione.
Di conseguenza, non può condividersi l’assunto della ricorrente, secondo cui l’assenso paesistico comunale, oggetto dell’impugnato annullamento, sarebbe viceversa “adeguatamente motivato attraverso la pedissequa trascrizione dell’articolato parere della Commissione per il Paesaggio”; il Collegio, in particolare, ritiene non particolarmente significative, a fronte del rilevato carattere anodino della motivazione de qua, le condizioni, concernenti l’uso di determinati materiali e l’esecuzione di opere esterne di completamento, apposte dalla stessa Commissione (“installazione di gronde e pluviali in rame; adeguata sistemazione dell’area, esterna al fabbricato”).
La soluzione prescelta è conforme a giurisprudenza pacifica, per la quale si leggano, ex multis, le seguenti massime: “Stante l’obbligo per l’ente locale di esternare le ragioni per le quali ritiene l’opera compatibile con i valori protetti dal vincolo, risulta evidente che, nel caso di avvenuta enunciazione dei motivi, l’autorità amministrativa che pronunci l’annullamento deve specificare diffusamente le ragioni della riscontrata illegittimità, con riferimento a quanto affermato dall’ente locale. Al contrario, quando l’ente regionale o subregionale siano venuti meno all’obbligo di motivazione, risulta sufficiente il rilievo da parte del Ministero della suddetta mancanza, non essendo stata in concreto esternata alcuna verifica di compatibilità dell’opera con il valore paesistico protetto, accertamento che costituisce funzione e contenuto essenziale del nulla osta” (TAR Lazio Roma sez. II, 12.10.2010, n. 32758); “Se è vero che l’Amministrazione Statale non può disporre l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica o del parere paesaggistico adottato in sede regionale per ragioni di merito, né ha il potere di modificare il contenuto dell’autorizzazione o di imporre modifiche progettuali, essa non esprime un giudizio di merito sovrapponendo il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quello dell’Amministrazione competente nel caso in cui rilevi che l’autorità amministrativa che ha emesso il nulla osta o il parere non abbia esternato alcuna congrua motivazione dalla quale evincere le ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico” (TAR Campania Napoli sez. VI, 07.12.2011, n. 5729); “L’ente delegato o sub–delegato deve effettuare la valutazione di propria competenza motivando adeguatamente la compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera assentita, prendendo in considerazione le specifiche circostanze di fatto, sussistendo, in caso contrario, l’illegittimità del nulla osta o dell’autorizzazione per carenza di motivazione o di istruttoria. Pertanto, l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo esame, nel proprio provvedimento, può motivare sulla non compatibilità dell’intervento edilizio programmato rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo” (Consiglio di Stato sez. VI, 23.04.2012, n. 2395).
Le considerazioni che precedono, con il ritenere condizione sufficiente, per l’esercizio del potere d’annullamento statale, il rilievo della carenza motivazionale che affligge l’autorizzazione dell’ente subdelegato, privano di pregio le censure, esposte dalla ricorrente nei motivi rubricati sub 1) e 2), inidonee a scalfire il profilo sopra enunciato, in sé idoneo a fondare il provvedimento impugnato.
Per ciò che concerne, invece, la terza doglianza, imperniata sulla dedotta violazione dell’art. 10-bis l. 241/1990, la stessa è parimenti infondata, aderendo il Tribunale all’orientamento giurisprudenziale espresso, da ultimo, nella seguente massima: “Il preavviso di provvedimento negativo di cui all’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 (introdotto dalla l. 11.02.2005 n. 15) non si applica al procedimento volto all’annullamento, in tempi stretti e perentori, dell’autorizzazione paesaggistica sub specie di riesame di quell’atto da parte dell’autorità statale, e che si configura come una fase di riscontro della già ritenuta possibilità giuridica di mutare lo stato dei luoghi. Il preavviso di diniego istituto finalizzato ad aprire una fase, anche non breve, di confronto endoprocedimentale è invero di suo incompatibile con la stretta tempistica del vaglio delle condizioni di legittimità di un atto legittimamente già rilasciato e produttivo di taluni effetti. Si tratta, del resto, di uno strumento partecipativo che la legge prevede solo «nei procedimenti ad istanza di parte» e che non trova applicazione per questa sequenza di secondo grado, che è avviata d’ufficio e che, pur configurando un secondo tratto di un’unica vicenda amministrativa di cogestione del vincolo, segue la cesura procedimentale del già avvenuto rilascio del provvedimento di base che conclude la fase ad istanza di parte (mentre la successiva fase soprintendizia concreta una sequenza officiosa, avviata con la trasmissione degli atti da parte del Comune)” (Consiglio di Stato sez. VI, 21.09.2011, n. 5293) (TAR Campania-Salerno, sentenza 05.09.2012 n. 1621 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo un indirizzo interpretativo «nell’impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso».
Secondo un diverso e preferibile orientamento tale principio non opera nel caso in cui il denunciate sia un soggetto il cui diritto di proprietà risulta direttamente leso dall’opera edilizia.

La giurisprudenza di questo Consiglio ha seguito orientamenti differenti in ordine alla qualificazione, quali controinteressati, dei soggetti che denunciano abusi edilizi ai fini dell’esercizio dei poteri officiosi dell’amministrazione.
In particolare, secondo un indirizzo interpretativo «nell’impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso» (Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2011 n. 3380; Id., sez. V, 03.07.1995, n. 991).
Secondo un diverso e preferibile orientamento tale principio non opera nel caso in cui il denunciate sia un soggetto il cui diritto di proprietà risulta direttamente leso dall’opera edilizia (Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2007, n. 2742) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.09.2012 n. 4684 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZISi ha concessione quando l'operatore si assume in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza per mezzo della riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa, mentre si ha appalto quando l'onere del servizio stesso viene a gravare sostanzialmente sull'Amministrazione.
Quando l'operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull'utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha concessione, ragione per cui può affermarsi che è la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione dall'appalto di servizi. Pertanto, si avrà concessione quando l'operatore si assuma in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà appalto quando l'onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull'amministrazione.

Emerge con evidenza che assume un rilievo determinante ai fini del decidere la corretta qualificazione giuridica dell’affidamento per cui è causa (affidamento che il Tribunale ha ritenuto di ascrivere al genus dell’appalto di servizi ai sensi del comma 10 dell’art. 3 del d.lgs. n. 163 del 2006).
Ad avviso del Collegio, l’appello in epigrafe è meritevole di accoglimento laddove afferma, al contrario, che l’affidamento in questione è qualificabile come concessione di servizi la quale –come è noto– viene definita come “un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo, in conformità all’articolo 30” (art. 3, comma 12, d.lgs. n. 163 del 2006).
Ai fini della qualificazione in parola risultano dirimenti da un lato la circostanza per cui il rischio della gestione del servizio all’origine dei fatti di causa resta interamente in capo al soggetto affidatario, il quale –oltretutto– è anche tenuto a corrispondere un importo pecuniario piuttosto cospicuo in favore dell’Amministrazione, e dall’altro lato la circostanza che il servizio viene erogato non in favore della Università, ma della collettività di utenti universitari (studenti, docenti, personale).
Nel caso di specie deve, quindi, trovare puntuale applicazione il consolidato orientamento giurisprudenziale (conforme peraltro al paradigma comunitario di riferimento) secondo cui si ha concessione quando l'operatore si assume in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza per mezzo della riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa, mentre si ha appalto quando l'onere del servizio stesso viene a gravare sostanzialmente sull'Amministrazione (in tal senso –ex plurimis -: Cons. St., sez. V, 09.09.2011, n. 5068).
Si è precisato, al riguardo, che quando l'operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull'utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha concessione, ragione per cui può affermarsi che è la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione dall'appalto di servizi. Pertanto, si avrà concessione quando l'operatore si assuma in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà appalto quando l'onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull'amministrazione (Cons. St., sez. V, 06.06.2011, n. 3377) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.09.2012 n. 4682 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici.
Se, dunque, l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta edificatoria, al contrario, qualora uno o più controinteressati (siano essi comproprietari o, come nel caso di specie, confinanti) si attivino per denunciare il proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo edificatorio, il comune dovrà verificare se, a base dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile l’effettiva sussistenza della disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio.

Giova premettere, in linea di diritto, che secondo l’orientamento prevalente di questo Consiglio di Stato, condiviso da questo Collegio, in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici (v., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 10.12.2007, n. 6332; C.d.S., Sez. IV, 11.04.2007, n. 1654).
Se, dunque, l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta edificatoria, al contrario, qualora –come nel caso di specie– uno o più controinteressati (siano essi comproprietari o, come nel caso di specie, confinanti) si attivino per denunciare il proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo edificatorio, il comune dovrà verificare se, a base dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile l’effettiva sussistenza della disponibilità del bene oggetto dell’intervento edificatorio, limitando invero l’art. 70 l. prov. 11.08.1997, n. 13 (nella versione all’epoca in vigore), la legittimazione attiva all’ottenimento della concessione edilizia “al proprietario dell’area o a chi abbia il titolo per richiederla” (disposizione normativa emanata dalla Provincia autonoma di Bolzano nell’esercizio della potestà legislativa primaria in materia di urbanistica, cui nell’ordinamento statale corrisponde la previsione contenuta nell’art. 11 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, di tenore sostanzialmente eguale) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.09.2012 n. 4676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl muro medesimo, assolvendo a mere finalità di recinzione e non eccedendo i 3 metri (ma, anzi, essendo di altezza considerevolmente inferiore a tale misura), non può essere configurato quale “costruzione” al fine della disciplina regolamentare ec art. 9, comma 2, del D.M. 1444/1968.
Per quanto attiene alla dedotta violazione dell’art. 29-bis delle N.T.A. del P.R.G., già illustrata in primo grado e riproposta in appello, va evidenziato che il Della Giovampaola afferma che il muro costruito dal Comune al fine di delimitare l’area dove è sta realizzata la stazione ecologica dista dal confine della proprietà del medesimo appellante ricorrente soltanto m. 1,5 e non già m. 5.
Come emerso in sede di giudizio di primo grado, ad una determinata distanza da tale muro sono in effetti i cassonetti di raccolta dei rifiuti.
L’art. 29-bis delle N.T.A., che ha per oggetto “Attrezzature e servizi speciali a gestione pubblica e privata (S4),” prevede che “in tali aree possono insediarsi, su iniziativa pubblica, privata o mista, attività di servizio (compresa la commercializzazione) per il deposito, il trattamento ed il trasporto di rifiuto liquidi e solidi.”, con contestuale obbligo per gli edifici ivi realizzati, sia per servizi che per le residenze di servizio per il gestore o il custode dell’attività insediata, di articolarsi in due piani al massimo, di avere un’altezza massima di m. 12, di avere una copertura a capanna, a padiglione, o piana, di collocarsi ad una distanza dai confini di zona e di proprietà privata di m. 5, di rispettare la distanza dalle strade prevista dal Codice della Strada e –da ultimo– di estendersi per una superficie territoriale coperta massima del 40%.
Come rettamente rilevato da giudice di primo grado, la surriportata disciplina di piano contempla distanze dai confini e dalla proprietà previste che ragionevolmente non possono che riferirsi alle costruzioni e non già ai muri di cinta, quale è -per l’appunto- quello la cui realizzazione è segnatamente contestata da Della Giovampaola.
In tal senso, deve pertanto concludersi che la realizzazione del muro medesimo è comunque conforme a quanto disposto dall’art. 878 cod. civ., in forza del quale –per l’appunto– “il muro di cinta e ogni altro muro isolato che non abbia un’altezza superiore ai tre metri non è considerato per il computo della distanza indicata dall’articolo 873” dello stesso codice: e, poiché il muro di cui trattasi è alto soltanto m. 1,20, ne consegue l’irrilevanza, nell’economia della presente causa, di tutta la giurisprudenza della Corte di Cassazione che il medesimo Della Giovampaola cita a preteso conforto delle proprie tesi.
Va anche respinto il motivo d’appello con il quale il Della Giovampaola afferma che “il muro funzionale alla stazione ecologica” sarebbe stato realizzato a distanza minore di dieci metri dal capannone di proprietà del ricorrente stesso (posto a sette metri dal detto muro), così violando la distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista in dieci metri dall’art. 9, comma 2, del D.M. n. 1444 del 1968: e ciò in quanto il muro medesimo, assolvendo a mere finalità di recinzione e non eccedendo i 3 metri (ma, anzi, essendo di altezza considerevolmente inferiore a tale misura), non può essere configurato quale “costruzione” al fine della disciplina regolamentare testé richiamata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.09.2012 n. 4672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli oneri urbanizzativi devono essere determinati con riguardo alla disciplina vigente al momento della presentazione della d.i.a..
La denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge.
Tale lettura, in senso non provvedimentale, è stata peraltro immediatamente fatta propria dal legislatore il quale, introducendo il comma 6-ter dell’art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi” tramite l'articolo 6, comma 1, lettera c), del D.L. 13.08.2011, n. 138, ha espressamente qualificato tali atti come “non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili”.
In questo senso, appare consequenziale e condivisibile la ricostruzione della natura del silenzio tenuto dall’amministrazione (sempre come ritenuto dalla citata Consiglio di Stato ad. plen. 29.07.2011 n. 15), per cui “il passaggio del tempo non produce un titolo costitutivo avente valore di assenso ma impedisce l'inibizione di un'attività già intrapresa in un momento anteriore”.
In tal modo, appare chiaro che l’efficacia del titolo formatosi in base all’atto del privato (rectius, la modalità abilitativa alla realizzazione dell’intervento edilizio) si determina indipendentemente dal mancato esercizio del potere di interdizione da parte della pubblica amministrazione, trattandosi di fattispecie che operano su piani giuridici diversi.
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Sussiste l’immediato sorgere dell’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione in relazione alla situazione esistente al momento della presentazione della d.i.a..
Tra l'altro, la vicenda deve ritenersi confermata anche dalla particolare disciplina della d.i.a. contenuta nella l.r. 12/2005 (art. 42, commi 2 e 3) che prevede, da un lato, che il calcolo dei dovuti oneri di urbanizzazione e costo di costruzione sia allegato già al momento della presentazione della denuncia di inizio attività e, in secondo luogo, disponendo che il pagamento sia effettuato con le modalità previste dalla vigente normativa che, per gli oneri di urbanizzazione, impone l’adempimento entro trenta giorni successivi alla presentazione della denuncia di inizio attività, rendendo quindi impermeabile la disciplina ai mutamenti disciplinari successivi.

Con ricorso iscritto al n. 2569 del 2010, Nova Domus Italia s.r.l. propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione seconda, n. 13 del giorno 11 gennaio 2010 con la quale è stato respinto il ricorso proposto contro il Comune di Milano per l'annullamento della nota pg. 90611/2008 del Comune di Milano, Sportello Unico dell’Edilizia, in data 30.01.2008, avente ad oggetto: “Denuncia di inizio attività per ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione in via Carbonera Azzo n. 1, pratica n. 10740/2007, P.G. 1111435000/2007 – Integrazione del contributo di costruzione”.
Dinanzi al giudice di prime cure, la Nuova Domus Italia s.r.l. aveva impugnato il provvedimento con il quale il Comune aveva disposto il conguaglio del contributo di costruzione relativo alla d.i.a., presentata in data 30.01.2008, relativa ad un intervento via Carbonera Azzo n. 1, in esecuzione della deliberazione del consiglio comunale n. 73/2007, divenuta esecutiva in data 08.01.2008, che aveva aggiornato in aumento gli oneri di urbanizzazione dovuti per gli interventi edilizi.
La ricorrente riteneva che l’integrazione richiesta fosse illegittima per violazione degli artt. 42, 44 e 48 della L.R. 12/2005 e degli artt. 16 e 23 del D.P.R. 380/01 ed eccesso di potere in quanto gli oneri urbanizzativi dovrebbero essere determinati con riguardo alla disciplina vigente al momento della presentazione della domanda. Chiedeva quindi il risarcimento dei danni per la stipulazione della fideiussione richiesta dal Tribunale in sede cautelare.
La difesa comunale ha invece sostenuto la legittimità del provvedimento comunale in quanto, dovendo ritenersi che la d.i.a. produca effetti decorsi trenta giorni dalla sua presentazione al Comune, tutte le sopravveninenze normative intercorse tra la presentazione e l’efficacia debbono essere applicate al procedimento.
Il ricorso veniva deciso con la sentenza appellata. In essa, il TAR riteneva infondate le censure proposte, considerando la DIA, indifferentemente alla considerazione della sua natura come atto di autorizzazione implicita o come atto privato, fosse comunque soggetta alle modifiche normative fino al momento della compiuta efficacia, ossia fino alla data di possibile esercizio del potere interdittivo dell’amministrazione.
...
Il giudice di prime cure ha affrontato il tema delle sopravvenienze normative intercorse tra la presentazione della DIA e la sua efficacia evidenziando come “la DIA, indipendentemente dalla qualifica giuridica assegnata –punto su cui come noto si contrappongono due differenti orientamenti che sostengono rispettivamente la natura di autorizzazione implicita (Cons. Stato sez IV 5811/2008) e di atto privato (Cons. Stato sez. VI 717/2009)– produce effetti al trentesimo giorno dalla sua presentazione, purché, come già affermato da questa Sezione, sia completa di tutti gli elementi richiesti dalla legge (sentenza n. 5737/2008).
Nello spatium deliberandi dei trenta giorni dalla presentazione della denuncia, periodo durante il quale l’Amministrazione ha un compito di controllo, a conclusione del quale può esercitare poteri inibitori dei lavori non ancora avviati, le eventuali modifiche normative devono trovare applicazione, in quanto il procedimento non è ancora perfezionato e la DIA non può produrre effetti: vige allora il principio del tempus regit actum, per cui l'Amministrazione è tenuta ad applicare la normativa in vigore al momento dell'adozione del provvedimento definitivo, quand'anche sopravvenuta, e non già, salvo che espresse norme statuiscano diversamente, quella in vigore al momento dell'avvio del procedimento.
Tale posizione è stata ampiamente espressa da questa Sezione nella sentenza richiamata dalla difesa comunale (n. 588/2006), in cui si è affermato il principio secondo cui “le innovazioni normative introdotte medio tempore non sono irrilevanti, giacché un intervento edilizio, ancorché conforme alla normativa vigente al tempo della denuncia, ben può essere interdetto ove non sia più in linea con la normativa sopravvenuta, entrata in vigore (o destinata a entrare in vigore) prima del compimento del trentesimo giorno dalla presentazione della denuncia stessa.”
E il principio della “sensibilità” della DIA alle modifiche legislative nei trenta giorni tra la presentazione e l’inizio dell’efficacia, deve trovare applicazione anche rispetto ad eventuali variazioni delle disposizioni regolamentari, tra cui la disciplina pianificatoria e le tariffe degli oneri. Pare quindi corretta la posizione dell’Amministrazione Comunale laddove ritiene che la nuova disciplina introdotta con un atto deliberativo che produce effetti dall'08.01.2008 vada applicato anche alle DIA per le quali non è decorso il termine di trenta giorni
”.
L’impostazione seguita dal giudice di prime cure non appare però in linea con i più recenti arresti giurisprudenziali e con le disposizioni legislative successive che, sebbene non applicabili ratione temporis, servono a meglio illuminare il tema della disciplina applicabile alla fattispecie.
Occorre, infatti, rilevare come questo Consiglio abbia posto fine al dibattito sulla natura dei titoli abilitativi non provvedimentali in edilizia con la sentenza dell’Adunanza plenaria 29.07.2011 n. 15 dove, a seguito di un’attenta ricostruzione delle diverse posizioni sostenute, raffrontate al quadro normativo in evoluzione, si è affermato che “la denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge”.
Tale lettura, in senso non provvedimentale, è stata peraltro immediatamente fatta propria dal legislatore il quale, introducendo il comma 6-ter dell’art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi” tramite l'articolo 6, comma 1, lettera c), del D.L. 13.08.2011, n. 138, ha espressamente qualificato tali atti come “non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili”.
In questo senso, appare consequenziale e condivisibile la ricostruzione della natura del silenzio tenuto dall’amministrazione (sempre come ritenuto dalla citata Consiglio di Stato ad. plen. 29.07.2011 n. 15), per cui “il passaggio del tempo non produce un titolo costitutivo avente valore di assenso ma impedisce l'inibizione di un'attività già intrapresa in un momento anteriore”. In tal modo, appare chiaro che l’efficacia del titolo formatosi in base all’atto del privato (rectius, la modalità abilitativa alla realizzazione dell’intervento edilizio) si determina indipendentemente dal mancato esercizio del potere di interdizione da parte della pubblica amministrazione, trattandosi di fattispecie che operano su piani giuridici diversi.
Deve quindi convenirsi con l’appellante in merito all’immediato sorgere dell’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione in relazione alla situazione esistente al momento della presentazione della domanda, vicenda che deve ritenersi confermata anche dalla particolare disciplina della denuncia di inizio attività contenuta nella legge regionale (art. 42, commi 2 e 3, della legge regionale Lombardia n. 12 del giorno 11.03.2005 “Legge per il governo del territorio”) che prevede, da un lato, che il calcolo dei dovuti oneri di urbanizzazione e costo di costruzione sia allegato già al momento della presentazione della denuncia di inizio attività e, in secondo luogo, disponendo che il pagamento sia effettuato con le modalità previste dalla vigente normativa che, per gli oneri di urbanizzazione, impone l’adempimento entro trenta giorni successivi alla presentazione della denuncia di inizio attività, rendendo quindi impermeabile la disciplina ai mutamenti disciplinari successivi (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.09.2012 n. 4669 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica di destinazione ed aggravio del carico urbanistico.
L'aggravio urbanistico va considerato in relazione alla interezza della condotta ed alle finalità perseguite con le realizzazioni abusive. Il mutamento di destinazione dell'area attraverso la realizzazione delle opere contestate comporta evidentemente l'inadeguatezza delle strutture (strade, fognature, elettrificazione, ecc.) che non possono non essere diverse tra un'area “verde" ed una adibita a scopo produttivo per le diverse esigenze delle stesse (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.08.2012 n. 33353 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVILa giurisprudenza prevalente, formatasi in tema di localizzazione di discariche o comunque di localizzazione di impianti per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti, è infatti orientata nel senso di ritenere che l’associazione ambientale locale sia priva di legittimazione attiva, in quanto carente del riconoscimento ministeriale previsto dall’art. 13 della legge 08.07.1986, n. 349.
Più precisamente, si afferma che la speciale legittimazione delle associazioni a protezione ambientale a ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986 riguardi l’associazione ambientalistica nazionale formalmente riconosciuta e non le sue strutture territoriali, le quali non possono ritenersi munite di autonoma legittimazione processuale neppure per l’impugnazione di un provvedimento ad efficacia territorialmente limitata.
In altri termini, o l’articolazione costituisce un soggetto a sé stante, ed in tale caso rientra nella sfera di previsione dell’art. 18 già citato, oppure rappresenta un’articolazione territoriale dell’associazione, ed in quanto tale il presidente del club o comitato locale non ha la rappresentanza dell’associazione nazionale, la sola legittimata ex lege, né il potere di promuovere la lite per suo conto ed in suo nome. Secondo un siffatto orientamento, dunque, il carattere nazionale od ultra regionale dell’associazione costituisce al tempo stesso presupposto del riconoscimento e limite della legittimazione speciale, la quale ha dunque carattere ontologicamente unitario.
Si è anche evidenziato che ove la legittimazione ad agire discenda direttamente dalla legge, con carattere dunque eccezionale, neppure la previsione statutaria può assegnare ad articolazioni interne dell’ente associativo la contitolarità della predetta legittimazione, che resta in capo all’ente di carattere nazionale accreditato in sede ministeriale; ciò in quanto lo statuto non può conferire una legittimazione che la legge non ha previsto.
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La giurisprudenza prevalente ritiene che la mera vicinanza di un fondo ad una discarica o ad un impianto di trattamento di rifiuti non legittimi di per sé il proprietario frontista ad insorgere avverso il provvedimento od il contegno autorizzativo dell’opera, essendo necessaria anche la prova del danno che egli da questa possa ricevere, che, esemplificativamente, può essere connesso al fatto che la localizzazione dell’impianto riduce il valore economico del fondo situato nelle sue vicinanze, od al fatto che le prescrizioni dettate dall’Autorità competente in ordine alle modalità di gestione dell’impianto sono inidonee a salvaguardare la salute di chi vive nelle vicinanze, od anche all’incremento del traffico veicolare.
La vicinitas, intesa quale stabile e significativo collegamento del ricorrente con la zona il cui ambiente si intende proteggere, può fondare la legittimazione al ricorso (in quanto enuclea la titolarità di una posizione giuridica differenziata rispetto alla collettività indifferenziata), ma non anche l’interesse al ricorso, inteso come utilità concreta ritraibile dall’eventuale accoglimento del ricorso.

La giurisprudenza prevalente, formatasi in tema di localizzazione di discariche o comunque di localizzazione di impianti per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti, è infatti orientata nel senso di ritenere che l’associazione ambientale locale sia priva di legittimazione attiva, in quanto carente del riconoscimento ministeriale previsto dall’art. 13 della legge 08.07.1986, n. 349.
Più precisamente, si afferma che la speciale legittimazione delle associazioni a protezione ambientale a ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986 riguardi l’associazione ambientalistica nazionale formalmente riconosciuta e non le sue strutture territoriali, le quali non possono ritenersi munite di autonoma legittimazione processuale neppure per l’impugnazione di un provvedimento ad efficacia territorialmente limitata.
In altri termini, o l’articolazione costituisce un soggetto a sé stante, ed in tale caso rientra nella sfera di previsione dell’art. 18 già citato, oppure rappresenta un’articolazione territoriale dell’associazione, ed in quanto tale il presidente del club o comitato locale non ha la rappresentanza dell’associazione nazionale, la sola legittimata ex lege, né il potere di promuovere la lite per suo conto ed in suo nome. Secondo un siffatto orientamento, dunque, il carattere nazionale od ultra regionale dell’associazione costituisce al tempo stesso presupposto del riconoscimento e limite della legittimazione speciale, la quale ha dunque carattere ontologicamente unitario (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 14.04.2006, n. 2151; Sez. VI, 09.03.2010, n. 1403; Sez. VI, 07.04.2010, n. 1960).
Si è anche evidenziato, richiamando il precedente di Cons. Stato, Ad. Plen., 11.01.2007, n. 2 (in tema di associazioni di consumatori, tematica distinta, ma contenutisticamente simmetrica), che ove la legittimazione ad agire discenda direttamente dalla legge, con carattere dunque eccezionale, neppure la previsione statutaria può assegnare ad articolazioni interne dell’ente associativo la contitolarità della predetta legittimazione, che resta in capo all’ente di carattere nazionale accreditato in sede ministeriale; ciò in quanto lo statuto non può conferire una legittimazione che la legge non ha previsto (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 19.10.2011, n. 1481).
Obietta parte ricorrente, nei propri scritti difensivi, che, al di là della legittimazione legale ex artt. 13 e 18 della legge n. 349 del 1986, vi sia spazio per riconoscere anche una legittimazione ordinaria alle associazioni ambientalistiche che godano di un adeguato grado di stabilità e rappresentatività in un ambito territorialmente limitato.
Su tale questione si registra in giurisprudenza qualche oscillazione, nel senso che talune pronunce affermano che il giudice amministrativo può riconoscere, caso per caso, legittimazione ad impugnare atti amministrativi incidenti sull’ambiente anche ad associazioni a carattere locale, che perseguano, conformemente al loro statuto, in modo non occasionale, obiettivi di tutela ambientale, avendo altresì un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un’area di afferenza riconducibile alla zona ove si colloca il bene a fruizione collettiva che si asserisce leso (Cons. Stato, Sez. IV, 08.11.2010, n. 7907).
Al contrario, altra parte della giurisprudenza afferma che dopo l’entrata in vigore della legge n. 349 del 1986 non vi è più spazio per il riconoscimento della legittimazione processuale in capo ad associazioni diverse da quelle rientranti nella previsione dell’art. 13 della legge stessa, in quanto la pregressa costruzione giurisprudenziale è stata elaborata per risolvere il problema della tutela processuale dei ridetti interessi “diffusi”, per i quali all’epoca non esistevano meccanismi normativi che autorizzassero particolari soggetti ad invocare tale tutela; una volta che il legislatore è intervenuto con la previsione di una legittimazione ex lege, si esaurisce l’ambito della tutela processuale riconosciuta dall’ordinamento (Cons. Stato, Sez. IV, 28.03.2011, n. 1876).
Entrambe le soluzioni presentano profili di coerenza sistematica.
Nel caso di specie, peraltro, anche a volere seguire l’indirizzo meno restrittivo, osserva il Collegio che in capo al ricorrente Club della Teverina difettano i requisiti per riconoscergli autonoma legittimazione, e non già come articolazione territoriale di un’associazione nazionale. A questo riguardo, la giurisprudenza richiede che le associazioni locali perseguano statutariamente, in modo non occasionale, obiettivi di tutela ambientale, e posseggano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene che si assume leso (Cons. Stato, Sez. VI, 26.07.2001, n. 4123).
L’Associazione Amici della Terra-Club della Teverina non possiede il carattere di ente esponenziale in via stabile e continuativa di interessi diffusi radicati sul territorio, essendo sorto solamente nel marzo 2010, cioè circa due mesi prima della proposizione del presente ricorso, per effetto della confluenza in esso del comitato spontaneo “Salviamo il basso Tevere”; e non basta il mero scopo associativo a rendere differenziato un interesse diffuso od adespota, facente capo alla popolazione nel suo complesso, quale la salvaguardia dell’ambiente (cfr. art. 2 dello Statuto), in quanto, diversamente, si eluderebbe il divieto di azione popolare (in termini Cons. Stato, Sez. V, 14.06.2007, n. 3192).
Al difetto di legittimazione attiva dell’associazione ricorrente si accompagna quella, anche in proprio, del suo legale rappresentante dr. Claudio Cesaretti, che non ha allegato la titolarità di alcuna situazione giuridica soggettiva specifica.
Si deve ora procedere allo scrutinio dell’eccezione di difetto di legittimazione e di interesse al ricorso dei sigg.ri Morresi e Tata, argomentata dalle parti resistenti nella considerazione dell’inadeguatezza della mera allegazione di essere residenti a Giove e proprietari di terreni situati nelle immediate vicinanze del sito ove è in corso di realizzazione il biodigestore (la cui opera, peraltro, gli stessi ricorrenti, con la memoria di discussione, precisano essere interrotta, ed il cantiere abbandonato da più di un anno e mezzo), senza provare il danno arrecato nella loro sfera giuridica.
Anche tale eccezione appare meritevole di positiva valutazione.
Occorre infatti considerare come la giurisprudenza prevalente ritenga che la mera vicinanza di un fondo ad una discarica o ad un impianto di trattamento di rifiuti non legittima di per sé il proprietario frontista ad insorgere avverso il provvedimento od il contegno autorizzativo dell’opera, essendo necessaria anche la prova del danno che egli da questa possa ricevere, che, esemplificativamente, può essere connesso al fatto che la localizzazione dell’impianto riduce il valore economico del fondo situato nelle sue vicinanze, od al fatto che le prescrizioni dettate dall’Autorità competente in ordine alle modalità di gestione dell’impianto sono inidonee a salvaguardare la salute di chi vive nelle vicinanze, od anche all’incremento del traffico veicolare (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2012, n. 2460; Sez. V, 16.06.2009, n. 3849; Sez. V, 20.05.2002, n. 2714).
I ricorrenti, nella memoria di discussione, deducono che la prova del pregiudizio non può essere fornita a priori, essendo celata dal lamentato difetto di istruttoria, dovendosi dunque radicare l’interesse nel solo criterio della vicinitas.
Tale assunto non è peraltro condivisibile, in quanto la vicinitas, intesa quale stabile e significativo collegamento del ricorrente con la zona il cui ambiente si intende proteggere (così Cons. Stato, Sez. V, 26.02.2010, n. 1134), può fondare la legittimazione al ricorso (in quanto enuclea la titolarità di una posizione giuridica differenziata rispetto alla collettività indifferenziata), ma non anche l’interesse al ricorso, inteso come utilità concreta ritraibile dall’eventuale accoglimento del ricorso.
Sotto questo profilo, anch’esso attinente ad una condizione dell’azione, il sindacato di legittimità su di un provvedimento preordinato alla cura di interessi generali che nel territorio trovano la loro esplicazione può essere provocato da un soggetto che agisce uti singulus solo prospettando il pregiudizio specifico che astrattamente viene prodotto nella sfera giuridica del ricorrente, senza, ovviamente, dover provare l’effettività del danno subendo.
Si consideri, in questa prospettiva, che l’impianto contestato, per il quale è stata presentata la D.I.A. n. 162/2010, ha una capacità di generazione inferiore a 1 MW (è dunque un impianto di piccola cogenerazione), il che ne giustifica la sottoposizione, per l’installazione e per l’esercizio, al regime semplificato della D.I.A. ai sensi dell’art. 27, comma 20, della legge n. 99 del 2009.
Inoltre l’area in cui l’impianto dovrà essere collocato è classificata dal piano regolatore come “area agricola marginale”, compatibile dunque con l’intervento finalizzato alla produzione di energia da fonti rinnovabili.
Ed, ancora, si può evincere dalla documentazione tecnica in atti, ed inoltre è ribadito costantemente negli scritti difensivi della Tiber Eko S.r.l., con riferimento tanto allo statuto societario, quanto alle caratteristiche tecniche dell’impianto progettato, che lo stesso produce energia elettrica ed energia termica da prodotti agricoli.
Di qui la conseguenza che il nuovo impianto non appare in grado di determinare un deterioramento ambientale (e, conseguentemente, un significativo deprezzamento di valore economico) dell’area in misura non proporzionata alla vocazione urbanistica della stessa (TAR Umbria, sentenza 28.08.2012 n. 334 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Rifiuti plastici.
Anche i teloni e i film di protezione dei prodotti agricoli non costituiscono “imballaggio" bensì oggetti a composizione plastica destinati a supportare le attività agricole produttive; con la conseguenza che tali oggetti, indipendentemente dalla operatività del decreto 02/05/2006 del Ministero dell'Ambiente e del Territorio, una volta cessato il loro ciclo di impiego, vanno considerati rifiuti destinati possibilmente al recupero.
Il mancato conferimento ai consorzio Polieco di rifiuti plastici non può allo stato essere considerato condotta antigiuridica e valutabile come “abusiva" nei termini integrativi della fattispecie incriminatrice ex art. 260 d.lgs. 152/2006.
I trasporti di rifiuti plastici non pericolosi destinati a impianti di recupero operanti all'interno della Repubblica popolare cinese debbono rispettare le formalità e le garanzie richieste, con conseguente illiceità anche per l'ordinamento italiano delle relative violazioni (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.07.2012 n. 30793 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Soggetto danneggiato e persona offesa.
Con riguardo alla materia edilizio-urbanistica, stante la natura monooffensiva del reato edilizio-urbanistico, unico soggetto che può assumere la veste di persona offesa dal reato è la Pubblica Amministrazione in quanto soggetto titolare di interessi attinenti alla tutela del territorio protetti norma incriminatrice, mentre il privato che dalla costruzione possa subire un danno assume la veste di persona danneggiata dal reato.
Da qui la mancanza di legittimazione alla opposizione avverso la richiesta di archiviazione in capo al soggetto privato danneggiato dal reato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.07.2012 n. 30483 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Veicoli fuori uso.
I veicoli fuori uso devono essere inutilizzabili come tali per poter essere assoggettati alla disciplina normativa sui rifiuti, anche qualora non siano ancora privi di valore economico (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.07.2012 n. 30128 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: Gare, sulle false dichiarazioni Autorità LL.PP. senza poteri investigativi.
Nelle gare d'appalto l'Autorità di vigilanza può soltanto accertare se la notizia comunicata dalla Stazione appaltante sia conferente ovvero se la falsità sia innocua o se la stessa abbia ad oggetto fatti e circostanze irrilevanti ai fini della aggiudicazione della selezione.

Con sentenza 16.07.2012 n. 4160, la VI Sez. del Consiglio di Stato ha affermato che nelle gare d'appalto l'art. 48 comma 2 D.L.vo 12.04.2006 n. 163 non impone all’Autorità di vigilanza di svolgere accertamenti ulteriori, rispetto alla falsità della dichiarazione, finalizzati a verificare la sussistenza del requisito oggettivo della gravità della violazione e a prendere in esame la «situazione soggettiva del dichiarante».
Per i giudici di Palazzo Spada l’Authority può soltanto accertare se la notizia comunicata dalla Stazione appaltante sia inconferente ovvero se la falsità sia innocua o se la stessa abbia ad oggetto fatti e circostanze irrilevanti ai fini della aggiudicazione della selezione.
Al riguardo, è stato rilevato che l’art. 48, secondo comma, del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede, in particolare, che le stazioni appaltanti richiedono, tra gli altri, all’aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria di comprovare il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico organizzativa eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito.
Qualora tale prova non sia fornita ovvero non confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta l’Autorità può adottare determinati provvedimenti sanzionatori.
In particolare, può disporre la sospensione dell’impresa, per un periodo da uno a dodici mesi, dalla partecipazione alle procedure di affidamento, nonché irrogare una sanzione amministrativa fino ad euro 25.822,00 ovvero, in presenza di informazioni o documenti falsi, fino ad euro 51.545,00.
Nel caso deciso con sentenza n 4160/2012, il provvedimento sanzionatorio conteneva una articolata motivazione relativa all’accertamento della falsità della dichiarazione e della sua oggettiva rilevanza.
Pertanto, il giudice amministrativo non ha ritenuto che fosse necessario svolgere ulteriori accertamenti a cura dell’Autorità di vigilanza (commento tratto da www.ispoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Risarcimento danni per occupazione abusiva: dipende dalla colpa della PA.
L'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione.
Con sentenza 10.07.2012 n. 4089, la IV Sez. del Consiglio di Stato ha affermato i seguenti principi.
L'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e della gravità delle violazioni imputabili all'Amministrazione, secondo l'ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all' organo amministrativo, nonché delle condizioni concrete in cui ha operato la P.A, non essendo il risarcimento una conseguenza automatica della pronuncia del giudice della legittimità.
Affinché possa configurarsi la responsabilità della pubblica amministrazione è sufficiente la colpa, anche lieve, dell'apparato amministrativo.
Ai fini della responsabilità risarcitoria dell'Amministrazione a seguito di annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile, spettando poi all'Amministrazione dimostrare che si è invece trattato di errore scusabile.
Il giudice investito della domanda per il conseguimento del risarcimento del danno da fatto illecito non può condannare il convenuto al pagamento di un indennizzo per atto legittimo, in quanto in tal modo non si opera una mera qualificazione della domanda, ma si pronuncia su domanda diversa per "causa petendi" e "petitum", tenendo presente che il potere-dovere del giudice di qualificare correttamente la domanda non consente di sostituire la domanda proposta con una diversa, fondata su altra "causa petendi", e dunque di introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto, trattandosi di passare da una fattispecie incentrata sul fatto colposo o doloso a una riguardante un fatto esente da colpa.
In caso di danno illegittimo per spossessamento di un bene, rileva l’elemento soggettivo della condotta, tenendo presente che nella materia non vige un sistema indifferenziato di responsabilità, tale per cui si può giungere alla qualificazione del fatto generatore del danno quale illecito prescindendosi, al contempo dall’accertamento del requisito della colpa ai fini della risarcibilità del medesimo, dovendosi precisare che il principio contenuto nell'art. 1147 Cod. civ., in forza del quale la buona fede è presunta, vige in tema di responsabilità contrattuale ma non nell'ipotesi di danno da occupazione appropriativa, con conseguente trasformazione del bene del privato, che costituisce fatto illecito e conseguente operatività delle regole della responsabilità extracontrattuale le quali implicano che:
a) provata l’illegittimità della condotta, debba, tuttavia, sussistere anche la prova dell’elemento soggettivo;
b) la prova è “facilitata” dalla oggettiva circostanza dell’avvenuto illegittimo spossessamento, ed al privato danneggiato non pertiene l’onere di dimostrare che l’amministrazione abbia agito con negligenza, imprudenza imperizia;
c) tuttavia, in ossequio ai principi generale espresso dall'art. 2043 Cod. civ. la stessa Amministrazione può non soggiacere a conseguenze risarcitorie laddove dimostri che nessuna ipotesi di condotta colposa può esserle ascritta (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: ORDINE DI DEMOLIZIONE NON APPLICABILE PER LA VIOLAZIONE DELL’ART. 44, LETT. A), D.P.R. N. 380/2001.
L’art. 31, comma 9, D.P.R. n. 380/2001, nell’imporre al giudice l’obbligo di ordinare, con la sentenza di condanna, la demolizione delle opere di cui al presente articolo, si riferisce esclusivamente al tipo di abusi edilizi previsti dall’intitolazione dell’articolo medesimo, meglio descritti nel primo comma con riferimento all’ipotesi della totale difformità dal permesso di costruire; ne consegue che non rientrano nella predetta previsione normativa gli abusi minori (puniti ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. a), del citato decreto) per i quali le sanzioni amministrative, costituite dal ripristino dello stato dei luoghi o dalla irrogazione di una sanzione pecuniaria sostitutiva, ai sensi dell’art. 34 del Testo Unico, restano di esclusiva competenza della pubblica Amministrazione, mentre l’autorità giudiziaria può solo irrogare la pena dell’ammenda comminata dalla norma.
Particolare il tema affrontato dalla Suprema Corte con la sentenza in esame, riguardante l’esistenza o meno di un obbligo per il giudice penale di disporre l’ordine di demolizione del manufatto abusivo in relazione alla violazione ‘‘semplice’’, punita solo con l’ammenda, di cui all’art. 44, comma 1, lett. a), del T.U. edilizia.
La vicenda processuale segue ad una sentenza di condanna nei confronti di un imputato cui era stato contestato di avere realizzato un manufatto in zona sismica, ubicandolo su un terrapieno in posizione diversa da quella prevista dal permesso di costruire, senza avere denunciato l’inizio dei lavori alle competenti autorità e senza avere ottenuto la prescritta autorizzazione dall’Ufficio Tecnico Regionale in relazione alla diversa ubicazione dell’immobile; per l’effetto, unitamente alla condanna era stata ordinata dal giudice la demolizione del manufatto abusivo.
La difesa censurava la sentenza, muovendo doglianza per violazione di legge, in particolare sostenendo che il giudice di merito, avendo derubricato l’imputazione di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001 nella fattispecie di cui alla lett. a) del citato articolo non avrebbe potuto disporre la demolizione del manufatto abusivo ai sensi dell’art. 31, comma 9, del Testo Unico.
La tesi è stata accolta dai giudici di Piazza Cavour i quali, in particolare, hanno affermato che l’art. 31, comma 9, T.U. edilizia, nell’imporre al giudice l’obbligo di ordinare, con la sentenza di condanna, la demolizione delle opere di cui al presente articolo, si riferisce esclusivamente al tipo di abusi edilizi previsti dall’intitolazione dell’articolo medesimo, meglio descritti nel primo comma con riferimento all’ipotesi della totale difformità dal permesso di costruire.
Non rientrano, pertanto, nella previsione normativa dell’art. 31 gli abusi minori, puniti ai sensi della lett. a) dell’art. 44 citato; per tali violazioni, infatti, le sanzioni amministrative costituite dal ripristino dello stato dei luoghi o dalla irrogazione di una sanzione pecuniaria sostitutiva, ai sensi dell’art. 34 del Testo Unico, restano di esclusiva competenza della pubblica amministrazione, mentre l’autorità giudiziaria può solo irrogare la pena dell’ammenda comminata dalla norma (in precedenza, sull’illegittimità dell’ordine di demolizione in tale ipotesi, v.: Cass. pen., sez. III, 14.11.2011, n. 41423, in Ced. Cass., n. 251326) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.06.2012 n. 21274 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7-8/2012).

URBANISTICA: LOTTIZZAZIONE ABUSIVA E PERMANENZA DELL’ILLECITO LOTTIZZATORIO NELL’IPOTESI DI REATO PLURISOGGETTIVO.
Nell’ipotesi di carattere plurisoggettivo del reato di lottizzazione abusiva, che implica nella quasi totalità dei casi la partecipazione di un venditore lottizzatore e di vari acquirenti, occorre applicare i principi generali vigenti in materia, per cui la permanenza continua per ogni concorrente sino a che perdura la sua condotta volontaria e la sua possibilità di far cessare la condotta antigiuridica dei concorrenti. Ne consegue che:
a) il concorso del venditore lottizzatore permane sino a quando continua l’attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei singoli lotti edificatori;
b) il concorso degli acquirenti dei singoli lotti proseguirà nella sua permanenza sino a quando continuerà l’attività edificatoria nel proprio lotto e la realizzazione di opere di urbanizzazione nell’area interessata alla lottizzazione, non potendo, invece, il singolo acquirente rispondere dell’ulteriore attività edificatoria realizzata negli altri lotti.

Sicuramente di estremo interesse la questione giuridica affrontata dalla Suprema Corte in relazione alla individuazione del momento di cessazione della permanenza dell’illecito lottizzatorio per il singolo concorrente, in ipotesi di realizzazione concorsuale del reato di lottizzazione abusiva. La vicenda processuale segue ad un sequestro preventivo interessante un’area che -secondo gli strumenti urbanistici vigenti nella zona- era classificata in parte come F, zona turistica ed in parte come zona agricola, parte della quale ricadeva nella fascia di 300 metri dalla linea della battigia marina.
La predetta area, in origine, era di proprietà in prevalenza di un’unica persona, poi trasferita per successione, a seguito della morte di quest’ultimo, ai propri figli. In epoca prossima agli anni 1970 e successivi, la famiglia aveva iniziato a frazionare l’intera proprietà, vendendo singoli lotti a terzi acquirenti che avevano poi realizzato manufatti ad uso residenziale, il tutto senza essere muniti dei prescritti titoli abilitativi, ossia permesso di costruire ed autorizzazione paesaggistica.
L’indagata, con atto di compravendita del 2003, aveva acquistato un terreno nell’area de qua ed aveva realizzato un immobile tipo abitativo, con veranda e lastrico, di circa 60 mq, manufatto del tutto abusivo. Detto immobile si inseriva nelle opere abusive che avevano contribuito alla trasformazione, urbanistica ed edilizia del territorio in esame, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti nella zona (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31), con conseguente sussistenza degli elementi costitutivi del reato di lottizzazione abusiva tipo mista, realizzata a partire dagli anni 1970-1980 all’attualità.
Il Tribunale del riesame -quanto all’eccezione di prescrizione del reato de quo, dedotta dalla difesa della ricorrente, secondo cui la realizzazione dell’immobile sarebbe stata ultimata in epoca remota- respingeva la stessa affermando che la lottizzazione abusiva, tipo ‘‘mista’’ (come quella in esame) costituiva un reato permanente a carattere progressivo nell’evento, che non si esauriva con il primo atto con cui veniva frazionata l’area, bensì proseguiva nelle successive fasi in cui si evolveva, sino alla ultimazione di tutti gli immobili realizzati nei singoli lotti in cui era stata frazionata l’area.
La difesa contestava in Cassazione l’ordinanza di rigetto dell’istanza di riesame, sostenendo come necessitasse accertare -ai fini dell’individuazione della cessazione o meno della permanenza del reato di lottizzazione abusiva nei confronti dell’indagata, quale acquirente del lotto acquistato dall’originario venditore lottizzatore- in modo concreto ed esaustivo, l’epoca non solo dell’ultimazione dell’immobile edificato dall’indagata, ma anche la data di realizzazione (se realizzate) delle  opere di urbanizzazione interessanti la zona in questione.
La tesi ha convinto i giudici della Suprema Corte che hanno accolto il ricorso della difesa, affermando come nell’ipotesi di carattere plurisoggettivo del reato (come nella specie), che implica nella quasi totalità dei casi la partecipazione di un venditore lottizzatore e di vari acquirenti, occorre applicare i principi generali vigenti in materia, per cui la permanenza continua per ogni concorrente sino a che perdura la sua condotta volontaria e la sua possibilità di far cessare la condotta antigiuridica dei concorrenti.
Ne deriva, quindi, che:
a) il concorso del venditore lottizzatore permane sino a quando continua l’attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei singoli lotti edificatori;
b) il concorso degli acquirenti dei singoli lotti proseguirà nella sua permanenza sino a quando continuerà l’attività edificatoria nel proprio lotto e la realizzazione di opere di urbanizzazione nell’area interessata alla lottizzazione.
Non può, invece, il singolo acquirente rispondere dell’ulteriore attività edificatoria realizzata negli altri lotti (v., da ultimo, sulla natura permanente del reato: Cass. pen., sez. III, 20.05.2011, n. 20006, in Ced. Cass., n. 250387) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.06.2012 n. 21714 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7-8/2012).

URBANISTICA: LOTTIZZAZIONE EDILIZIA E NOZIONE DI TRASFORMAZIONE EDILIZIA.
Per ‘‘trasformazione edilizia’’ idonea ad integrare il reato di lottizzazione abusiva (artt. 30 e 44, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 380/2001) deve intendersi il conferimento all’area di un diverso assetto territoriale, attraverso impianti di interesse privato e di interesse collettivo, in modo da creare una nuova maglia di tessuto urbano.
La Corte di Cassazione si pronuncia, con la sentenza in esame, sul tema della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio, chiarendo, in particolare, cosa debba intendersi per ‘‘trasformazione edilizia’’ di un terreno ai fini della configurabilità dell’illecito lottizzatorio.
La vicenda processuale vedeva imputati il committente dei lavori (nonché proprietario e comodatario dei terreni interessati dall’attività edilizia) nonché l’amministratore unico della società che, quale dante causa della proprietaria attuale dei terreni, aveva ottenuto i titoli abilitativi necessari alla realizzazione di alcune opere.
Le opere abusive che avevano determinato la lottizzazione abusiva -secondo la contestazione- erano consistite:
a) nella realizzazione di un rimessaggio all’aperto per mezzi agricoli;
b) nella realizzazione di un autoparco con annesso autolavaggio e costruzione di servizi (ossia, box in latero-cemento ed alloggio per custode) in relazione ad altro terreno.
I giudici di merito avevano ritenuto la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva, per tre ragioni:
1) che gli imputati avevano conferito alle due porzioni del territorio un assetto diverso da quello pianificato dal PRG con modalità non consentite neanche attraverso la predisposizione di un piano di lottizzazione;
2) che le aree destinate a parcheggio ricadevano in una maglia destinata dalle NTA alle attività primarie;
3) che la trasformazione dei due terreni agricoli, estesi oltre 20.000 mq ciascuno, in rimessaggi industriati (veicoli agricoli e commerciali) uno dei quali dotato anche degli impianti tecnologici per il lavaggio dei mezzi, aveva determinato la necessità di predisporre opere di urbanizzazione primaria.
Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per cassazione i due imputati, sostenendo, in particolare, la non configurabilità dell’illecito lottizzatorio.
La Corte ne ha condiviso le argomentazioni. Ed infatti, ha affermato che per trasformazione edilizia si deve intendere il conferimento all’area di un diverso assetto territoriale, attraverso impianti di interesse privato e di interesse collettivo, in modo da creare ‘‘una nuova maglia di tessuto urbano’’. Detta ipotesi concreta, secondo gli Ermellini, non si era verificata nella fattispecie in esame, con conseguente esclusione di una specifica autorizzazione alla lottizzazione o di piano esecutivo di urbanizzazione.
Invero, si afferma, la realizzazione del parcheggio e del rimessaggio privato (non pubblico) per veicoli industriali e civili (in base alle opere sino ad allora realizzate), non implicava vere e proprie opere di nuova urbanizzazione, non essendo univocamente funzionale ad un nuovo assetto urbanistico e non era perciò tale da interferire con la riserva pubblica di programmazione territoriale (sulla nozione di ‘‘trasformazione edilizia’’, rilevante ex art. 30, comma 1, D.P.R. n. 380 del 2001, non constano precedenti) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.06.2012 n. 21698 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7-8/2012).

EDILIZIA PRIVATA: NOZIONE DI COSTRUZIONE EDILIZIA E CONFIGURABILITA` DEL REATO URBANISTICO.
Sono assoggettati al regime del permesso di costruire tutti gli interventi che incidono sull’assetto del territorio, comportando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale, rientrando nella figura giuridica di costruzione (per la quale occorre, ex art. 10, comma 1, lett. a), D.P.R. n. 380/2001, il premesso di costruire), le opere di ogni genere con le quali s’intervenga sul suolo o nel suolo, senza che abbia rilevanza la circostanza che i manufatti non siano costruiti in muratura oppure che abbiano modesta consistenza e ancora che non comportino incremento del carico insediativo, se idonei a modificare lo stato dei luoghi.
Certamente interessante la questione giuridica affrontata dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento, con cui la Corte si sofferma sul tema della configurabilità dell’illecito edilizio, in presenza di interventi sulla cui qualificazione come ‘‘costruzioni’’ sarebbe lecito dubitare.
La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario di un immobile per avere, senza permesso di costruire e in zona sismica e vincolata, previa demolizione della copertura a falda inclinata del primo piano di una palazzina, costruito un muro perimetrale al secondo piano sovrastato da un nuovo solaio di copertura sì da ricavare un’unità abitativa di circa 13 mq. Condannato in sede di merito, questi proponeva ricorso per cassazione, sostenendo:
a) che il realizzato manufatto, esteso appena 13 mq, aveva dimensioni modeste e non aveva mutato la sagoma e il volume dell’edificio;
b) che la soprintendenza BBCCAA aveva riscontrato che la sagoma esterna dell’edificio non era stata modificata e che non era pregiudicato l’assetto urbanistico della zona;
c) che l’intervento, definibile di manutenzione straordinaria, era stato eseguito per eliminare infiltrazioni d’acqua piovana;
d) che l’intervento costituiva recupero a fini abitativi di un sottotetto ai sensi della legge regionale di riferimento, essendo state rispettate le altezze di colmo e di gronda.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che hanno rigettato il ricorso, osservando come la prescrizione dell’obbligo di munirsi della concessione edilizia a costruire persegue le finalità di controllo del territorio e di corretto uso dello stesso ai fini urbanistici e edilizi, sicché sono assoggettati al regime del permesso di costruire tutti gli interventi che incidono sull’assetto del territorio, comportando una trasformazione urbanistica e edilizia del territorio comunale.
Il manufatto in questione, a giudizio della Cassazione, rientra nella figura giuridica di ‘‘costruzione’’, occorrendo il permesso di costruire per le opere di ogni genere con le quali s’intervenga sul suolo o nel suolo, senza che rilevi la circostanza secondo cui i manufatti non siano costruiti in muratura oppure che abbiano modesta consistenza e ancora che non comportino incremento del carico insediativo, se idonei a modificare lo stato dei luoghi (in precedenza, sulla questione, v.: Cass. pen., sez. III, 23.12.1997, n. 12022, in Ced. Cass., n. 209199) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.05.2012 n. 20884 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7-8/2012).

EDILIZIA PRIVATA(NON) DISAPPLICAZIONE DELL’ATTO AMMINISTRATIVO E RILEVANZA DELL’ABUSIVITA` DELL’INTERVENTO.
Gli strumenti normativi urbanistici, ed, in particolar modo, le norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale (come pure il regolamento edilizio o la concessione edilizia) costituiscono il parametro organico per l’accertamento della liceità o meno dell’opera edilizia.
Ne consegue che, a fronte di un’accertata aporia dell’opera edilizia rispetto agii strumenti normativi urbanistici ovvero alle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale, il giudice penale deve ugualmente concludere per la illiceità penale anche se sia stato rilasciato il permesso di costruire, perché quest’ultimo, nel suo contenuto, nonché per le caratteristiche strutturali e formali dell’atto, non è idoneo a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell’opera realizzanda senza rinviare al quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle stesse rappresentazioni grafiche del progetto, a seguito della cui approvazione, tale atto amministrativo viene emesso.

Senza alcun dubbio di particolare interesse la questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame, relativa alla esistenza o meno del potere di disapplicazione da parte del giudice penale in presenza di un titolo abilitativo illegittimo.
La vicenda processuale vedeva indagato un soggetto per violazioni edilizie verificatesi in una vicenda alquanto complessa che aveva avuto origine nel 1983 quando, nell’ambito di un progetto di ampliamento di una via comunale, era stato disposto l’esproprio di vari fabbricati tra i quali quello appartenente alla famiglia dell’indagato. Solo per uno era prevista la ricostruzione integrale, mentre, per gli altri, era stata disposta la corresponsione di un indennizzo che, però , non venne confermata in sede di consiglio comunale. Per tale ragione, si instaurò un lungo contenzioso tra il comune e gli eredi del proprietario originario, all’esito del quale, tra le parti, intervenne un accordo transattivo secondo cui gli eredi avrebbero rinunciato alla retrocessione della parte di fondo espropriata ed avrebbero, in cambio, accettato la corresponsione di una somma pari a circa 900.000 euro a titolo di risarcimento danni.
Nonostante ciò , in base ad una norma delle IM.T.A. al PRG, venne prevista anche la possibilità di ricostruzione nel rispetto della cubatura e del numero dei piani originari del fabbricato preesistente di mc. 1308,56, a suo tempo demolito nell’ambito dei piano di esproprio; conseguentemente, gli eredi ottennero di poter edificare, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ex art. 131, D.Lgs. n. 42/2004, tre villette ad uso residenziale per mc. 1308,56, con suddivisione in tre autonomi lotti di cui due complete e, la terza, in corso di costruzione. Dal momento che, però , il fabbricato residenziale preesistente aveva una cubatura minore, pari a 900 mc., venne aperto procedimento penale per costruzione edilizia abusiva che portò all’emissione di un primo decreto di sequestro preventivo da parte del GIP con cui fu sottoposto a vincolo parte dell’immobile, in misura pari a mc. 408,56, vale a dire, quella eccedente i 900 mc. consentiti.
Successivamente, il PM chiese ed ottenne dal GIP nuovo provvedimento ablatorio relativamente ai rimanenti 900 mc.; la decisione muoveva dal presupposto che il permesso di costruire dovesse essere considerato illegittimo in quanto fondato su una norma di PRG che gli stessi consulenti tecnici del PM avevano definito norma ‘‘anomala’’ e che, sulla base delle indagini, doveva essere considerata frutto di accordo illecito perché inserita su esplicita richiesta degli amministratori e verosimilmente del responsabile dell’ufficio tecnico dell’epoca. Il tribunale del riesame aveva, invece, disposto il dissequestro e la restituzione agli aventi diritto.
Contro tale provvedimento, pertanto, proponeva ricorso il PM censurando, per quanto qui di interesse, la decisione del tribunale, ritenuta erronea in quanto la stessa si fonderebbe sull’equiparazione tra atto non disapplicabile ed atto, dunque, esistente e legittimo laddove, per contro, anche la giurisprudenza di legittimità si è orientata verso una tutela sostanziale del territorio conferendo, cioè, al giudice penale un potere accertativo circa la illegittimità del permesso di costruire che costituisce un elemento normativo della fattispecie penale.
La prospettazione accusatoria è stata ritenuta fondata dalla Cassazione. In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che gli strumenti normativi urbanistici, ed, in particolar modo, le norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale (come pure il regolamento edilizio o il permesso di costruire) costituiscono il parametro organico per l’accertamento della liceità o meno dell’opera edilizia, sicché a fronte di un’accertata aporia dell’opera edilizia rispetto agli strumenti normativi urbanistici ovvero alle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale, il giudice penale deve ugualmente concludere per la illiceità penale anche se sia stato rilasciato il permesso di costruire, perché quest’ultimo, nel suo contenuto, nonché per le caratteristiche strutturali e formali dell’atto, non è idoneo a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell’opera realizzanda senza rinviare ai quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle stesse rappresentazioni grafiche del progetto, a seguito della cui approvazione, tale atto amministrativo viene emesso (v., sul punto, per tutte, la celeberrima: Cass. pen., Sez. Un., 21.12.1993, n. 11635, in Ced. Cass., n. 195359) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.05.2012 n. 20673 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7-8/2012).

EDILIZIA PRIVATA: INIZIO DEI LAVORI DI COSTRUZIONE E MOMENTO IDENTIFICATIVO.
Si configura inizio di lavori di costruzione ogni volta che le opere intraprese, di qualsiasi tipo esse siano e quale che sia lo loro entità , manifestino oggettivamente un’effettiva volontà di realizzare un manufatto. Il proposito criminoso si realizza anche nella fase, necessariamente prodromica e funzionale, dell’armatura dei pilastri con l’installazione delle gabbie di ferro e della carpenteria di contenimento.
La Cassazione si pronuncia, con la sentenza in commento, sulla questione dell’individuazione del momento in cui può affermarsi, senza rischio di errore percettivo, che siano effettivamente iniziati i lavori di costruzione di un immobile abusivo.
La vicenda processuale segue al decreto di sequestro preventivo di un cantiere e di una rampa di collegamento stradale; in particolare, al titolare di una s.r.l. era stato contestato di avere proseguito i lavori, mediante accumulo di un rilevato di mq. 4.000, alto in media metri 2.5 e costituito da materiale da scavo, nonostante l’ordinanza di sospensione immediata dei lavori adottata dal responsabile del Settore servizi tecnici del Comune e di altra ordinanza di sospensione immediata dei lavori notificatagli a distanza di pochi mesi dalla prima.
Si contestava, ancora, di avere realizzato, in zona vincolata, una rampa di collegamento tra due comparti senza avere conseguito il permesso di costruire e il nullaosta paesaggistico procedendo anche al taglio di essenze non protette, non rilevando la presentazione di una SCIA perché i lavori erano stati eseguiti in zona sottoposta a vincolo d’inedificabilità e paesaggistico; in particolare, era irrilevante se la SCIA presentata fosse sostitutiva o integrativa di quella presentata precedentemente; infine, era infondata la tesi difensiva che la prodotta documentazione valesse a caducare l’ordinanza di sospensione dei lavori, stante la sua reiterazione.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione, censurando le argomentazioni dei giudici di merito, in particolare osservando -per quanto qui di interesse- come la SCIA successivamente presentata era autonoma e sganciata da quella presentata in precedenza e che, ancora, non era ipotizzabile il reato paesaggistico per la natura temporanea e provvisoria della rampa di collegamento, che al termine dei lavori sarebbe stata eliminata.
La doglianza difensiva non è stata però accolta dalla Cassazione.
In particolare, i Supremi Giudici hanno osservato come non potesse ritenersi fondata l’osservazione del ricorrente, secondo cui il disvalore penale del costruito va valutato sul risultato finale perché, per la configurazione del reato di abuso edilizio, è irrilevante che la costruzione sia stata completata in ogni sua parte essendo sufficiente il solo inizio delle opere e delle relative attività prodromiche (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 07.10.1998, n. 10505, in Ced. Cass., n. 211984) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.05.2012 n. 19659 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7-8/2012).

EDILIZIA PRIVATA: RISANAMENTO CONSERVATIVO ED ESCLUSIONE DEL PERMESSO DI COSTRUIRE.
L’opera edilizia qualificabile come intervento di risanamento conservativo ex art. 3, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001, non richiede, in virtù del combinato disposto degli artt. 9 e 10 del citato decreto, il preventivo rilascio del permesso a costruire anche nelle zone vincolate.
La decisione in commento affronta la questione inerente la necessità o meno del massimo titolo abilitativo edilizio (permesso di costruire) in relazione ad interventi edilizi qualificabili come di restauro o risanamento conservativo.
La vicenda processuale segue ad una pronuncia di condanna emessa dal tribunale nei confronti di un imputato cui era stato contestato di avere realizzato uno scavo di fondazione lungo m. 13 e largo m. 50 e profondo m. 50 nel quale era stata posizionata un’armatura in ferro priva del getto di calcestruzzo. A seguito della condanna in sede di merito, proponeva ricorso per cassazione l’imputato, dolendosi, anzitutto, del fatto che l’opera doveva essere considerata come intervento di risanamento conservativo per il quale non è prescritto il permesso a costruire anche nelle zone vincolate.
Diversamente, i giudici di merito, pur avendo ritenuto la natura conservativa dell’opera considerata finalizzata a garantire la statica di un tratto di muro di circa tredici metri, avevano ritenuto la necessità del permesso stante l’avvenuta trasformazione urbanistica del territorio, attesa la natura, le dimensioni ed il carattere stabile e permanente dell’intervento. In realtà, aggiungeva la difesa, lo zoccolo sotterraneo adiacente al vecchio muro e realizzato per imbrigliare lo stesso non poteva avere altra funzione se non quella di ‘‘consolidarne’’ la statica.
La tesi è stata ritenuta fondata dai giudici di legittimità, che hanno accolto il ricorso. In particolare -ha osservato la Cassazione- l’imputato, a fronte dell’argomentazione della sentenza di primo grado con cui si escludeva la natura delle opere poste in essere quale restauro o risanamento conservativo in ragione della natura delle stesse, delle loro dimensioni e del carattere evidentemente stabile e permanente,  aveva presentato un atto di appello con cui aveva dedotto motivi specifici, in particolare evidenziando che il carattere stesso del risanamento conservativo doveva ritenersi riferibile ad opere stabili sicché tale ultima connotazione non poteva di per sé valere ad escludere la qualificazione dell’intervento nei termini invocati; né poteva parlarsi di trasformazione del territorio giacché l’opera era adiacente ed attaccata ad un muro preesistente che si doveva preservare proprio con essa.
Da ciò , dunque, avrebbe dovuto dedursi, la non necessità del permesso a costruire in base a quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 9 e 10, D.P.R. n. 380 del 2001 (In precedenza, in giurisprudenza, nel senso che gli interventi di restauro e di risanamento conservativo necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire solo ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d’uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e, qualora debbano essere realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d’uso all’interno di una categoria omogenea, v.: Cass. pen., sez. III, 15.01.2007, n. 594, in Ced. Cass., n. 235870) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.05.2012 n. 19243 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7-8/2012).

AGGIORNAMENTO AL 10.09.2012

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GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI: G.U. 07.09.2012 n. 209, suppl. ord. n. 182, "Linee guida per la gestione della sicurezza delle infrastrutture stradali ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 15.03.2011, n. 35" (Ministero delle Infrastrutture ed ei Trasporti, decreto 02.05.2012).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 del 05.09.2012, "Modalità di versamento degli oneri istruttori per i procedimenti di competenza regionale di cui alla l.r. 02.02.2010 n. 5 “Norme in materia di valutazione di impatto ambientale” (decreto D.U.O. 04.09.2012 n.  7600).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCORTE CONTI/ Personale, i tagli sono un obbligo. Ridurre la spesa non è un semplice obiettivo per gli enti. La sezione del Veneto avverte: niente premi di risultato se non ci sono risparmi.
L'obbligo di riduzione della spesa di personale non è un semplice obiettivo, bensì un vero e proprio vincolo alle autonomie locali, giacché non è più la mera espressione di un principio di buona gestione al quale tendere, ma rappresenta un vero e proprio obiettivo vincolato dalla cui violazione discende, a titolo di sanzione, il divieto di assunzione.
Parte da questo assunto il parere 16.08.2012 n. 513 con cui la sezione regionale di controllo per il Veneto della Corte dei conti propone una serie di chiarimenti circa la riduzione delle spese di personale e gli effetti che la violazione di tale obbligo comporta.
La prima questione è se, nel caso di mancato rispetto dell'obbligo di riduzione della spesa del personale rispetto a quella dell'anno precedente, previsto dall'art. 1, comma 557, della legge n. 296/2006, le conseguenti sanzioni previste dal comma 557-ter e dall'art. 76, comma 4, del dl n. 112/2008 siano da riferirsi solamente all'anno successivo lo sforamento o si protraggono di anno in anno fino al rispetto dell'anno iniziale.
La sezione chiarisce che il divieto è operante nel solo anno successivo a quello della violazione.
La seconda questione è se la mancata integrazione del fondo per le risorse decentrate nell'anno del mancato rispetto di riduzione della spesa riguardi anche le risorse ex art. 15, comma 1, lett. k), del Ccnl del 01.04.1999 (incentivazione di prestazioni o risultati). Netta la chiusura della Corte, secondo cui non è possibile incrementare il trattamento economico in caso di mancata riduzione della spesa di personale alla luce dell'art. 9, comma 2-bis, del dl n. 78/2010, che cristallizza al 2010 l'ammontare complessivo delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale.
La terza questione è se, ai fini del rispetto del limite di cui all'art. 9, comma 2-bis, cit. si debbano considerare anche le economie realizzate con l'attuazione dei «piani di razionalizzazione» che, secondo quanto previsto dall'art. 16, commi 4-6, del dl n. 98/2011, le p.a. possono adottare entro il 31 marzo di ogni anno. I piani devono indicare la spesa sostenuta per ciascuna delle voci di spesa interessate e i correlati obiettivi in termini fisici e finanziari; le economie realizzate possono essere utilizzate, nell'importo massimo del 50%, per la contrattazione integrativa.
In questo caso, la sezione afferma che le risorse derivanti dalle economie non sono soggette al vincolo di cui all'art. 9, comma 2-bis, in quanto assumono una sorta di «autonomia» rispetto al vincolo stesso, per tre motivi: un primo è di ordine letterale, dato che è la norma stessa a consentire l'utilizzazione delle risorse per la contrattazione integrativa; vi è poi una questione di ordine cronologico legata al principio lex posterior derogat priori; il terzo è correlato all'art. 6, comma 1, del dlgs n. 141/2011, che consente l'utilizzo di queste economie fino alla tornata di contrattazione collettiva successiva a quella del quadriennio 2006-2009.
Queste economie sono dunque sottratte al vincolo dell'art. 9, comma 2-bis, ma non possono essere destinate al fondo per le risorse decentrate qualora l'ente non abbia conseguito la riduzione della spesa di personale rispetto agli anni precedenti.
L'ultima questione concerne il computo delle spese per lavoro straordinario e altri oneri di personale connessi alle elezioni comunali che, a differenza delle altre consultazioni elettorali, non sono soggetti a rimborso. La sezione si limita a ricordare che le spese correlate all'attività elettorale rappresentano componenti da sottrarre all'ammontare della spesa del personale limitatamente alle somme per le quali è previsto il rimborso da parte del ministero degli interni (articolo ItaliaOggi del 07.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGOEsodati, il provvedimento non serve. Basta il parere. Nota della Funzione pubblica sulla deroga al pensionamento dei dipendenti della p.a..
Esodati anche se non «autorizzati» formalmente all'esonero al 04.12.2011. Per essere incluso tra gli aventi diritto ad andare in pensione con le vecchie regole (i cd esodati), infatti, all'impiegato pubblico non serve necessariamente che l'amministrazione da cui dipende abbia formalmente adottato il provvedimento di concessione dell'esonero entro il 04.12.2011; può farlo anche successivamente.
Perché è sufficiente anche solo che a tale data il lavoratore sia in possesso della domanda di richiesta dell'esonero, con su espresso il parere favorevole del segretario generale pro-tempore.

A precisarlo, tra l'altro, è la nota 03.09.2012 n. 35430 di prot. della presidenza del consiglio dei ministri, dipartimento della funzione pubblica, che fa proprio un parere del Consiglio di stato. La novità, di fatto, amplia la platea dei potenziali beneficiari della deroga ai nuovi requisiti di pensione introdotti dalla riforma Fornero.
Basta il «sì». La nota della funzione pubblica affronta due questioni relative alla disciplina dei cosiddetti esodati, ossia dei lavoratori (in mobilità, con contributi volontari ecc.) che conservano il diritto ad andare in pensione con le vecchie regole (quelle cioè previgenti alla riforma Fornero) anche successivamente al 01.01.2012 (data di entrata in vigore della riforma Fornero).
In particolare, si tratta di due questioni attinenti alla posizione degli impiegati pubblici «che alla data del 04.12.2011 hanno in corso l'istituto dell'esonero dal servizio» e che, per tale ragione, hanno diritto a essere inclusi nel novero degli esodati e nel limite di 950 unità ad andare in pensione in base ai vecchi requisiti (la domanda si presenta entro il 21 novembre).
Peraltro, in tal caso, l'istituto dell'esonero «si considera comunque in corso qualora il provvedimento di concessione sia stato emanato prima del 04.12.2011». La prima questione concerne dunque la possibilità, per un'amministrazione, di adottare un provvedimento ricognitivo di riconoscimento dell'esonero. Nella precedente circolare n. 2/2012, la funzione pubblica ha chiarito che l'esonero s'intende concesso anche «se l'amministrazione nelle veste del dirigente competente... abbia adottato una determina formale dalla quale si desuma la volontà di accoglimento dell'istanza dell'interessato».
Il Consiglio di stato, invece, ha espresso differente orientamento, ritenendo che il «parere favorevole espresso dal segretario generale pro-tempore abbia la stessa valenza del provvedimento di accoglimento della domanda». Pertanto, spiega la funzione pubblica, l'adozione del provvedimento ricognitivo diventa in questo caso necessario, per consentire ai potenziali beneficiari di poter regolarmente presentare l'istanza per la richiesta dei benefici pensionistici (in essa, infatti, vanno indicati gli estremi del provvedimento).
La decorrenza dell'esonero. La seconda questione riguarda l'individuazione della data di decorrenza dell'esonero. La funzione pubblica spiega che tale data va individuata nel quinquennio precedente la data di decorrenza della pensione dell'interessato calcolata in base alle vecchie regole (comprendendo finestra e speranza di vita).
Un esempio. Lavoratrice con diritto ad andare in pensione con «quota 97» (vecchie regole), che compie 61 anni (età minima per maturare quota 97) il 18.02.2016. Aggiungendo i 12 mesi per la finestra (18.02.2017) e i tre mesi (per ora) della speranza di vita, si ottiene l'epoca di pensionamento: 19.05.2017. Andando a ritroso di cinque anni, viene a fissarsi la data di decorrenza dell'esonero: 18.05.2012 (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2012).

EDILIZIA PRIVATAAgli uffici tecnici comunali il rilascio del certificato di idoneità. Circolare Funzione pubblica-Interno spiega le novità. Niente autocertificazione per il documento. Ricongiungimenti, la casa è tutto.
Agli uffici tecnici comunali il compito di rilasciare il certificato di idoneità abitativa per gli extracomunitari, necessario per i ricongiungimenti familiari: è un documento tecnico, sottratto al regime dell'autocertificazione.
È quanto previsto dalla circolare 17.04.2012 n. 3/2012 a doppia firma del ministro per la pubblica amministrazione Filippo Patroni Griffi e del ministro dell'interno Anna Maria Cancellieri, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 05.09.2012 n. 207.
La circolare definisce l'ambito di applicazione della novella introdotta dall'articolo 15, legge n. 183 del 2011 in materia di certificazione e procedimenti per la cittadinanza.
Il primo problema riguarda i certificati necessari per ottenere il permesso di soggiorno e in particolare l'attestato di idoneità abitativa relativo all'alloggio occupato, requisito necessario per potersi ricongiungere ai propri familiari.
L'articolo 15 della legge n. 183 del 2011 ha introdotto la cosiddetta «decertificazione»: certificati sostituiti a tappeto da autocertificazioni e impossibilità di usare i certificati presentandoli ad una pubblica amministrazione (come da apposito dicitura su timbro da apporre sui certificati stessi).
In un primo momento non è stata toccata la norma del dpr 445/2000 (relativo alla documentazione amministrativa), che salvava le speciali disposizioni contenute nelle leggi e nei regolamenti concernenti la disciplina dell'immigrazione e la condizione dello straniero (articolo 3, comma 2, dpr 445/2000).
Di conseguenza ai cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia le amministrazioni possono continuare a chiedere la produzione di certificati ai fini dei procedimenti disciplinati dal Testo unico dell'immigrazione.
Inoltre sulle certificazioni da produrre ai soggetti privati non deve essere apposta la dicitura che blocca la produzione agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi. Sui certificati deve essere apposta la diversa dicitura: «Certificato rilasciato per i procedimenti disciplinati dalle norme sull'immigrazione».
In materia è, poi, sopravvenuto il decreto-legge n. 5 del 2012, che ha soppresso, a partire dal 01.01.2013, dall'articolo 3, comma 2, dpr 445/2000 la clausola di salvezza delle speciali disposizioni contenute nelle leggi e nei regolamenti concernenti la disciplina dell'immigrazione e la condizione dello straniero. La conseguenza è che, a decorrere dal 2013, sulle certificazioni da produrre ai soggetti privati deve essere apposta, a pena di nullità, la dicitura sull'impossibilità di utilizzo per la presentazione ad altri uffici pubblici.
Attenzione, però, quanto sopra non vale per l'attestato di idoneità abitativa dell'alloggio occupato dall'extracomunitario, previsto dall'articolo 29 del dlgs 286/1998, quale requisito per ottenere il ricongiungimento dei propri familiari.
L'idoneità deve essere attestata dagli uffici comunali a seguito di accertamenti di carattere prettamente tecnico.
Dunque, anche se si parla di certificato, l'atto non è proprio un certificato, ma un'attestazione di conformità tecnica resa dagli uffici tecnici comunali; la circolare conclude che non ha, quindi, natura di certificato e non può, pertanto, essere sostituita da un'autocertificazione.
Sugli attestati di idoneità abitativa non deve quindi essere apposta, a pena di nullità, la dicitura, prevista per i certificati.
Con altro chiarimento la circolare precisa che al procedimento relativo alla cittadinanza si applicano le norme sull'acquisizione d'ufficio della documentazione; inoltre i cittadini extracomunitari possono utilizzare le dichiarazioni sostitutive limitatamente agli stati, alle qualità personali e ai fatti certificabili o attestabili da parte di soggetti pubblici italiani; se il dato richiesto attenga ad atti formati all'estero e non registrati in Italia o presso un consolato italiano deve procedersi all'acquisizione della certificazione prodotta dal paese straniero, legalizzata e tradotta all'estero nei termini di legge (articolo ItaliaOggi del 07.09.2012).

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: OGGETTO: Comune di Tortolì: accesso procedimentale: modalità.
Con nota del 29.07.2011 il Segretario comunale di Tortolì ha riferito:
- che le ditte X ed Y hanno entrambe presentato un progetto di pianificazione urbanistica relativo anche ad aree di proprietà della ditta X;
- che la ditta X ha presentato osservazioni avverso il progetto della ditta Y;
- che esso segretario comunale, acquisita una relazione con cui il tecnico comunale esprimeva il parere che le suddette osservazioni erano prive di fondamento, ha trasmesso queste ultime agli amministratori del Comune con una propria nota con cui ha espressamente condiviso detta relazione, peraltro non allegata;
- che la ditta X ha chiesto l’accesso all’indicata relazione, senza indicare alcun tipo di interesse.
Ciò premesso il Segretario Comunale ha chiesto di conoscere:
a) se la relazione di un tecnico può essere equiparata ad un parere legale, ai fini di un eventuale diniego di accesso;
b) se dal fatto che è stata presentata una domanda d’accesso deve o può desumersi l’esistenza di una situazione precontenziosa, suscettibile di precludere l’accesso;
c) se, qualora l’accesso possa essere consentito, debbano essere preventivamente informati i controinteressati;
d) se la comunicazione ai controinteressati debba essere effettuata dall’accedente o dall’Amministrazione.
Al riguardo la Commissione esprime il parere:
a) che l’indicata nota del Segretario Comunale, che è documento amministrativo sicuramente accessibile, è dichiaratamente fondata sul parere del tecnico comunale; il che ai sensi dell’art. 7 del d.P.R. n. 184/2006, rende accessibile anche il parere del tecnico comunale;
b) che in ogni caso, trattandosi di progetti connessi ed alternativi che vanno quindi esaminati in unico contesto, la disciplina applicabile è quella dell’art. 10 della legge n. 241/1990, relativa all’accesso procedimentale; con la conseguenza che tutti gli atti del procedimento devono essere considerati liberamente accessibili –salvo specifiche esigenze di tutela di dati sensibili, che nel caso in esame non risulta che ricorrano- da parte di ciascuno dei partecipanti;
c) che, ai sensi dell’art. 3 del citato d.P.R. n. 184/2006, la domanda d’accesso va comunicata ai controinteressati, a cura dell’Amministrazione (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.10.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri comunali. Diffida di annullamento o disapplicazione di norme statutarie e regolamentari in contrasto con disposizioni legislative.
Il Sig. ..., consigliere comunale del Comune di Cerveteri, ha presentato diffida allo stesso Comune perché, in via di autotutela, annulli o disapplichi alcune disposizioni contenute nello Statuto del Comune (art. 53, comma 3), nel Regolamento del Consiglio (artt. 39, comma 3, e 40, commi 1 e 2) e nel Regolamento sul diritto di accesso ai documenti amministrativi (art. 5, comma 3), che limitano o sottopongono a condizione o regolano in maniera restrittiva il diritto di accesso agli atti comunali da parte dei consiglieri.
Sottolinea il ... nel proprio atto di diffida il contrasto di dette disposizioni con la legge (in particolare, l’art. 43, TUEL) e la prevalente giurisprudenza. Sul contenuto della diffida e sulle sue considerazioni chiede il parere di questa Commissione.
Sulla questione questa Commissione non può che ribadire il proprio orientamento giurisprudenziale, alla luce del quale la pretesa del Consigliere comunale istante appare pienamente condivisibile.
Infatti, in conformità al consolidato orientamento giurisprudenziale amministrativo (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007, n. 929), riguardo le modalità di accesso alle informazioni e alla documentazione richieste dai consiglieri comunali ex art 43 TUEL, il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale –nell’esercizio del proprio munus publicum- non può subire compressioni di alcun genere, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente: ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza che possano aggravare l’ordinaria attività amministrativa.
Ricorda, per completezza, questa Commissione che l’eventuale esito negativo della diffida potrà essere contestato, trattandosi di applicazione di norme regolamentari, soltanto dinanzi il giudice amministrativo (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.10.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - VARI: OGGETTO: Richiesta di copia cartacea dell’intervento in seduta “aperta” di rappresentante politico locale. Notifica al controinteressato.
L’amministrazione comunale di Matelica ha ricevuto da parte di un cittadino presente ad una seduta “aperta” del Consiglio comunale la richiesta di accesso e la consegna di copia cartacea dell’intervento di un rappresentante politico locale in quanto, ad avviso del richiedente, nelle parole pronunciate potrebbero esserci gli estremi per una eventuale denuncia.
In ordine a tale richiesta la Città di Matelica chiede a questa Commissione se l’accesso non possa essere escluso essendo motivato da finalità giudiziarie e, in caso positivo, si debba procedere alla notifica (rectius, alla comunicazione) al controinteressato, il quale potrebbe opporsi all’accesso solo per motivi inerenti alla privacy.
Per quanto riguarda i cittadini residenti (siano essi persone fisiche, associazioni o persone giuridiche), il principio fondamentale che informa l’orientamento consolidato della Commissione sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è quello di “specialità”: si ritiene cioè che il legislatore abbia adottato una disciplina specifica per gli enti locali versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n. 267/2000.
Tale specialità comporta, in linea generale, che le norme contenute nella l. n. 241/1990 si applicano al TUEL solo in via suppletiva, ove necessario, e nei limiti in cui siano con esso compatibili. E mentre, per l’accesso agli atti di amministrazioni centrali dello Stato (e sue articolazioni periferiche) l’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990 prevede che la legittimazione all’accesso spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece alcuna restrizione e si limita a prevedere l’esistenza di un’area di atti (non precisata) il cui accesso o è assolutamente precluso per legge o è differibile (tale essendo l’effetto pratico della necessaria dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti da un apposito regolamento, a tutela della riservatezza. Secondo la Commissione i diversi contenuti delle due disposizioni citate caratterizzano la specificità del diritto di accesso dei cittadini comunali configurandolo alla stregua di un’azione popolare che non deve essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante né da un’adeguata motivazione.
L’accesso, nella specie, come sottolineato dalla stessa amministrazione comunale, motivato dalla eventualità di una difesa giudiziale non può essere certamente negato e ad esso non può opporsi il controinteressato (al quale va comunque comunicata l’esistenza dell’istanza, ex art. 3, d.P.R. n. 184/2006) nemmeno ricorrendo all’esigenza di tutela della privacy (nella specie, difficilmente fondata, attesa la pubblicità dell’intervento in Consiglio comunale) che risulta recessiva rispetto a quella giudiziaria.
Militano a favore di tali considerazioni l’esistenza nel cittadino-residente di un diritto generale all’informazione (art. 10, comma 2, ult. parte) e, più in particolare, il diritto ad avere copia di un documento (verbale dei lavori consiliari) che può qualificarsi “atto interno” di un procedimento amministrativo, come tale ammesso all’accesso secondo la consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.10.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Albo pretorio comunale on-line. Pubblicazione limitata ad alcuni atti. Assunta violazione del principio della trasparenza di cui alla l.n. 15/2009 e al d.lgs. n. 150/2009.
Il Circolo istante lamenta che sul sito on-line del Comune di Nocera Terinese non sono pubblicate tutte le delibere comunali. Tale comportamento dell’amministrazione comunale violerebbe i principi sulla trasparenza amministrativa introdotti dalla legge delega n. 15 del 2009 e dal successivo decreto legislativo di attuazione n. 150/2009 che fanno riferimento al concetto di “accessibilità totale”.
I principi sulla trasparenza amministrativa introdotti dai due testi normativi citati sottolineano effettivamente (art. 4, commi 6 e 7, l. n. 15/2009, ripresi dall’art. 11, comma 1, d.lgs. n. 150/2009), da un lato, che la trasparenza costituisce livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche a norma dell’art. 117, secondo comma, lett. m. della Cost. e, dall’altro, che la trasparenza è intesa come “accessibilità totale”. I successivi commi dell’art. 11 del d.lgs. n. 150/2009 stabiliscono, poi, le modalità con le quali ogni pubblica amministrazione dovrebbe attuare tali principi: fra questi l’adozione di un Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, da aggiornare annualmente, che indica le iniziative previste per garantire l’attuazione di tali principi.
In particolare, il comma 8 dell’art. 11 cit. stabilisce quali siano gli atti che ogni amministrazione ha l’obbligo di pubblicare sul proprio sito istituzionale, ma l’eventuale inadempimento non influisce direttamente sul diritto di conoscenza del cittadino, nel senso che l’amministrazione non è obbligata per legge a rendere trasparente ciò che non ha reso tale, ma ha soltanto ricadute sulla performance dei dirigenti preposti agli uffici coinvolti, nei confronti dei quali è fatto divieto di erogazione della retribuzione di risultato (art. 11, comma 9).
La legge, in sostanza, non ha previsto un meccanismo di reazione alla violazione del principio della trasparenza che automaticamente restituisca al cittadino il diritto alla conoscenza dell’atto o del documento cui lo stesso è interessato obbligando l’amministrazione ad un facere, diritto che può essere esercitato, invece, attraverso il ricorso all’accesso così come regolato dalla l. n. 241/1990 e dal d.P.R. n. 184/2006 (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta dell'11.10.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

NEWS

INCARICHI PROGETTUALI: Appalti, stop ai ribassi selvaggi. Il compenso del progettista deve salvaguardare l'interesse pubblico.  In arrivo un dm giustizia-infrastrutture che rivede le liberalizzazioni in materia di tariffe.
Appalti con tariffe professionali in chiaro. Si avvia al tramonto l'era in cui le stazioni appaltanti si presentavano alle gare offrendo progettazione ed esecuzione delle opere a prezzi stracciati (con ribassi anche del 90% rispetto al prezzo iniziali) svilendo così il ruolo del professionista. Sta, infatti, per arrivare un decreto con nuovi parametri precisi: il corrispettivo del tecnico dovrà, infatti, essere composto da compenso, spese ed oneri accessori, essere congruo, salvaguardare l'interesse pubblico e garantire la qualità delle opere.
Dopo la definizione dei parametri (dm 01/08/2012) per la liquidazione dei corrispettivi in caso di contenzioso, un altro provvedimento si occuperà di comporre lo scenario complessivo di riforma delle professioni che, tra i suoi capisaldi ha visto l'abolizione delle tariffe professionali e un nuovo sistema per la definizione dei compensi: si tratta del decreto interministeriale giustizia-infrastrutture (ora all'attenzione di quest'ultimo) che dovrà definire i parametri da utilizzare per la determinazione dell'importo da porre a base di gara nell'ambito dei contratti pubblici dei servizi di ingegneria e architettura.
Un passaggio necessario dopo che il decreto legge sulle liberalizzazioni (1/12) aveva di fatto cancellato ogni riferimento tariffario, privando le stazioni appaltanti di regole per calcolare gli importi e per determinare, di conseguenza, le procedure per l'affidamento. Un'assenza di regole denunciata a gran voce dalle professioni tecniche che, tra le altre cose, rischiava di alimentare un'eccessiva discrezionalità delle stazioni appaltanti che, invece, con il nuovo regolamento avranno a disposizione un riferimento sulla base del quale impostare le gare. Ma l'assenza di riferimenti tariffari per i servizi di ingegneria e di architettura non è uno scenario nuovo per il settore già colpito in questo senso da modifiche significative nel 2006 con l'eliminazione delle tariffe minime obbligatorie, introdotta dalle lenzuolate Bersani.
Questa abolizione pur con delle eccezioni (giacché il ricorso alle tariffe non era vietato del tutto se utilizzate come parametri di riferimento) non contemplava comunque più l'obbligo per le stazioni appaltanti di applicare tariffe fisse o minime con il risultato di avere ribassi delle offerte nelle gare pubbliche anche del 90% del loro valore iniziale. Una situazione che il decreto in questione punta a correggere, pur avendo dall'altra parte abolito le tariffe per i compensi.
Il corrispettivo, si legge infatti nel dm, composto da compenso, spese ed oneri accessori, deve essere congruo, salvaguardare l'interesse pubblico e garantire la qualità delle opere. Il provvedimento richiama nella valutazione del compenso quanto stabilito nel decreto relativo ai parametri giudiziali prevedendo anche la classificazione dei servizi professionali, tenendo conto della categoria dell'opera e del grado di complessità. All'interno della stessa categoria d'opera sono qualificanti «le destinazioni funzionali delle opere con grado di complessità uguale o maggiore a quello di base di gara».
Si ottiene così un metodo che quantifica il prezzo in base alla complessità dell'incarico, all'importanza dell'opera e alle voci di costo. L'importo delle spese e degli oneri accessori, invece si legge sul dm, è determinato «forfettariamente» in una percentuale del compenso pari al 25% per importo delle opere fino a 1 milione di euro e pari al 10% per importo di opere pari o superiore a 25 mila euro; per gli importi intermedi infine dicono i ministeri le percentuali si applicano per interpolazione lineare» (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2012).

VARIPatenti al compleanno, la Motorizzazione si adegua.
Dal 17 settembre chi otterrà la patente o ne richiederà il rinnovo in tempo si vedrà allungare la scadenza normale fino al giorno del compleanno. Ma questo riordino generale varrà solo per le patenti di categoria A e B con scadenza ordinaria.
Lo ha confermato il Ministero dei trasporti con la nota 07.09.2012 n. 23907 di prot. che abroga la precedente disposizione contraria 05.03.2012 n. 6193 (si veda ItaliaOggi del 21/08/2012).
L'art. 7 del dl 5/2012 dispone che i documenti di identità e di riconoscimento di cui all'art. 1 del dpr n. 445 del 28.12.2000 sono rilasciati o rinnovati con validità allungata fino alla data del compleanno del titolare immediatamente successiva alla scadenza che sarebbe altrimenti prevista per il documento stesso.
Da subito erano stati avanzati dubbi sulla possibilità di ricomprendere le patenti fra i documenti soggetti alla semplificazione imposta dalla novella (ItaliaOggi del 21/02/2012). E immediatamente il ministero dei trasporti, con la circolare n. 6193 del 05.03.2012 aveva precisato che alla patente di guida non si applica l'allineamento della scadenza al compleanno dell'interessato (ItaliaOggi del 07/03/2012) trattandosi di normativa speciale.
Con la circolare n. 7 del 20.07.2012 (pubblicata sulla G.U. n. 207 del 05/09/2012) la presidenza del consiglio di ministri interpreta invece in senso estensivo la portata dell'art. 7 del dl 5/2012, affermando che la nuova regola che fissa la scadenza dei documenti in coincidenza con la data del compleanno si applica anche alle patenti di guida. Peraltro la novella non si applica alle patenti rilasciate per le categorie superiori C e D, a quelle la cui durata è fissata in misura ridotta, rispetto alla durata ordinaria, dalla commissione medica legale, e alla carta di qualificazione del conducente.
Per correre ai ripari la motorizzazione ha quindi diramato le istruzioni operative di ieri. Le nuove procedure informatiche che consentiranno l'adeguamento entreranno in linea dal 17.09.2012. In pratica da quella data in occasione del primo rilascio o del primo rinnovo tempestivo della patente di guida AM, A1, A2, A, B1, B e BE con scadenza ordinaria «la scadenza di validità della stessa è prorogata alla data del compleanno del titolare». Restano escluse dalla riforma le patenti superiori (C, D ecc.) e quelle rilasciate con limitazioni mediche (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2012).

TRIBUTI - VARITarsu, lo spettro dell'illegittimità. Ctp grosseto: prelievo non dovuto dal 2010 in avanti.
A partire dal 31.12.2009, la Tassa sui rifiuti solidi urbani non esiste più e, pertanto, la pretesa avanzata dai comuni per gli anni 2010 e seguenti è illegittima; la conseguenza è che i comuni che non sono ancora passati alla Tia (attualmente la maggior parte) potrebbero trovarsi alle prese con richieste di rimborso di quanto versato dai cittadini per il 2010 e seguenti, e contestazioni relative agli atti di riscossione per questi stessi anni.
Con la sentenza 19.04.2012 n. 124/4/12, solo ora resa nota, la Ctp Grosseto ha disposto la non legittimità della Tarsu dopo il 31.12.2009, rendendo di fatto illegittima la richiesta del Comune di Castiglione della Pescaia. Questi effetti derivano dalla soppressione della Tarsu, disposta dal primo comma dell'art. 49 del dlgs 22/1997 (decreto Ronchi), efficace, in mancanza di ulteriori proroghe, sin dal 31/12/2009.
Lo stesso art. 49 prevedeva un regime transitorio da disciplinarsi mediante un regolamento attuativo (dpr 158/1999), in base al quale i comuni avrebbero dovuto raggiungere la piena copertura dei costi di gestione del servizio rifiuti urbani introducendo la Tariffa di igiene ambientale (cosiddetta Tia/1) in sostituzione della Tarsu, in un lasso temporale di 8 anni (termine poi esteso sino al 01.01.2010).
Col successivo dlgs 152/2006, art. 238, la stessa Tia/1 è stata soppressa e sostituita dalla Tariffa integrata ambientale (Tia/2); tuttavia, la disciplina della nuova tariffa resta sospesa sino all'emanazione di un regolamento ministeriale (che avrebbe dovuto essere emanato entro il 30.06.2010), in mancanza del quale «continuano ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti» (comma 10 dell'art. 238 cit.), ossia le disposizioni previste dal dpr 158/99 (regolamento attuativo della Tia/1).
Al momento, dunque, a prescindere dalle difficoltà interpretative legate all'applicazione della nuova Tia, il prelievo che la maggior parte dei comuni opera per la copertura del servizio di gestione dei rifiuti è ancora basato sulla vecchia Tarsu; ed è proprio qui che si prospetta il problema, in quanto non esiste più dal 2010 una normativa primaria a sostegno di questa tassa, che i comuni continuano a richiedere sulla base dei regolamenti (normativa secondaria).
Per cui, ogni pretesa avanzata dai comuni a titolo di Tarsu, non trovando riscontro in alcuna normativa primaria attualmente vigente, potrebbe ritenersi illegittima anche in ragione dell'art. 23 della Costituzione, secondo cui «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge». Il tutto assume una rilevanza ancora maggiore se si considera che i comuni continuano a vedere nella Tarsu l'unico strumento chiaramente applicabile e idoneo a garantire quell'entrata necessaria alla copertura del servizio rifiuti, in assenza di una disciplina ben delineata della nuova Tia (ed è anche per questo che circa l'80% di essi rimane ancorato alla vecchia tassa).
La risposta dei comuni potrebbe volgere nel senso che, a prescindere dalla tipologia di strumento di riscossione adottato, il servizio di gestione rifiuti è obbligatorio e deve obbligatoriamente essere coperto (in parte o in tutto) mediante tassa o tariffa; per cui, a fronte della obbligatorietà ed esecutività del servizio fornito, l'eventuale illegittimità del tributo potrebbe avere natura meramente formale, non potendo essere messa in discussione la piena debenza dei versamenti da parte dei cittadini. Tale interpretazione troverebbe però un preciso limite proprio nel precitato art. 23 della Costituzione.
La stessa posizione della Cassazione sul punto verte in una direzione poco favorevole alle amministrazioni: per esempio, nella sentenza n. 23583/2009 (ItaliaOggi del 17.11.2009), gli ermellini, esprimendosi circa la legittimità della Tarsu nelle aree portuali, ne affermavano la non debenza anche in considerazione del fatto che «il potere impositivo deve trovare la sua fonte necessariamente nella legge e non può pertanto rinvenirsi in ragione dello svolgimento di una mera attività di fatto da parte di un soggetto» (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2012).

ENTI LOCALI - VARISe il semaforo è rotto responsabilità al 50%. In caso di incidenti il comune risponde col gestore.
Sono responsabili in egual misura dell'incidente stradale provocato dal semaforo mal funzionante il comune e la società che gestisce la manutenzione stradale.
Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con sentenza 06.09.2012 n. 14927, ha respinto il ricorso della società di manutenzione che rivendicava l'esclusione da ogni responsabilità per il sinistro.
Sulla base del rapporto della polizia stradale, al momento dell'incidente, l'impianto semaforico comunale posto all'incrocio era mal funzionante: mostrava contemporaneamente la luce verde nei confronti della direzione di marcia di entrambi i conducenti coinvolti. Dunque in sentenza è stato ricostruito che il malfunzionamento del semaforo è stata la causa esclusiva dell'incidente. Questa circostanza è stata anche confermata nella testimonianza di uno degli agenti che, raggiunto il luogo del sinistro, ha redatto il verbale.
Il giudice di pace, cui gli automobilisti hanno presentato ricorso i primo grado, aveva escluso la corresponsabilità di comune e società. Poi il Tribunale di Roma ha ribaltato il verdetto. La terza sezione civile, in linea con il Tribunale di Roma, ha sancito la responsabilità concorrente e solidale della società e del comune, accogliendo la richiesta di risarcimento dei danni riportati dopo lo scontro tra due veicoli perché il semaforo segnalava costantemente la luce verde verso entrambe le direzioni opposte.
Piazza Cavour ha ritenuto erronea la linea sostenuta dalla difesa dell'ente locale e della società aggiudicataria dell'appalto di manutenzione secondo cui solo l'ente proprietario ha l'obbligo del controllo del funzionamento degli impianti semaforici e tale obbligo non è estensibile alla società cui affidata i lavori, non incombendo alcun obbligo di vigilanza in capo all'impresa manutentrice.
La Suprema corte, invece, ha riconosciuto contestualmente la responsabilità del comune quale proprietario dell'impianto semaforico e della società in quanto contrattualmente responsabile a provvedere alla manutenzione e al controllo dell'efficienza tecnica dei dispositivi di accensione a fasi alterne delle lanterne semaforiche veicolari. Quindi all'azienda non resta che risarcire i due automobilisti rimasti coinvolti nell'incidente (articolo ItaliaOggi del 07.09.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSPENDING REVIEW/ Caos stipendi nei comuni. Convenzioni Mef obbligatorie. Ma incomplete. Gli enti brancolano nel buio. Rischio danno erariale.
C'è grande incertezza, fra i comuni, sulla portata dell'art. 5, comma 10, del dl 95/2012. Tale disposizione impone a tutte le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1 del dlgs 165/2001 (ivi compresi, quindi, gli enti locali) di stipulare convenzioni con il ministero dell'economia e delle finanze per la fruizione dei servizi connessi al pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, ovvero, in alternativa, di utilizzare i parametri di qualità e di prezzo stabiliti dallo stesso Mef per l'acquisizione dei medesimi servizi sul mercato di riferimento. Ove non si ricorra alle convenzioni, il mancato rispetto di tali standard determina nullità dei contratti, illecito disciplinare e responsabilità erariale. Per i contratti già in essere, inoltre, è previsto un obbligo di rinegoziazione che garantisca un abbattimento degli attuali costi non inferiore al 15%.
A ben vedere, la formulazione di tali norme non è chiarissima: i servizi cui esse fanno riferimento, infatti, sono individuati mediante un rinvio ad altre precedenti disposizioni (art. 1, comma 447, della l. 296/2006 e art. 2, comma 197, della legge 191/2009) che riguardavano le sole amministrazioni statali. Ma al di là di tali aspetti formali, la questione è di merito. La «Convenzione per l'utilizzo dei servizi stipendiali», resa disponibile sul sito del Mef nello scorso mese di luglio, infatti, non contempla tutta una serie di servizi indispensabili che per gli enti locali sono gestiti in forma integrata con quelli (gestione dipendenti a tempo determinato e indeterminato, cedolini paga, versamenti contributivi ed erariali, altri adempimenti contributivi, fiscali e normativi, cessioni del quinto, riscatti e ricongiunzioni, monitoraggio assenze mensile, dichiarativi annuali) prettamente riferiti alla corresponsione degli emolumenti. I servizi non inclusi riguardano tutte le attività svolte tipicamente dagli uffici del personale degli enti, o, presso quelli più piccoli, da esperti/service esterni (per esempio, immissione di giustificativi di assenza, aggiornamenti anagrafici, comunicazione ai centri per l'impiego).
Rimangono fuori, inoltre, tutte le attività relative alle tipologie di reddito non elaborate dal Mef quali redditi assimilati, autonomi e diversi (dipendenti altra p.a., amministratori locali, collaboratori coordinati e continuativi, Lsu cantieri di lavoro, borse di lavoro, borse di studio, forestali, professionisti, indennità di esproprio, contributi ad enti e associazioni ecc.). Un problema ulteriore nasce dal fatto che, nella maggior parte dei casi, gli enti hanno acquistato sul mercato un «pacchetto» onnicomprensivo, il che rende assai complessa la comparazione fra i relativi prezzi e quelli fissati dal Mef. Non è chiaro, inoltre, come si possa garantire il collegamento fra il programma paghe del Mef e i diversi programmi di contabilità in uso presso i singoli comuni, né è precisato come avverrà l'interscambio di dati fra il nuovo sistema e gli attuali rilevatori (che sono centinaia, di cui alcuni fuori commercio).
Più in generale, l'adesione alla convenzione imporrebbe di adeguare la struttura procedurale di ogni ente ai tempi e modi per l'invio dei dati utili all'elaborazione delle retribuzioni, e per la ricezione degli elaborati imposti dal Mef, con complessità e costi tutti da stimare e tutti a carico delle singole amministrazioni.
Infine, per la gestione del sistema, la convezione quadro richiede la nomina, da parte di ciascuna amministrazione, di un referente tecnico-informatico e di un referente tecnico amministrativo. È evidente che molti enti, e specialmente i piccoli comuni, sono sprovvisti di simili figure, in quanto si avvalgono perlopiù di consulenti esterni, ne potrebbero agevolmente procurarsele, visti i limiti al turnover e alle spese per la formazione specialistica (articolo ItaliaOggi del 07.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Referendum non vincolanti. L'ente resta autonomo e può discostarsi dall'esito. Secondo la giurisprudenza la consultazione non incide sull'azione di governo.
È possibile indire un referendum popolare al fine di annullare le scelte adottate dall'amministrazione comunale con deliberazione avente per oggetto una variante a un piano particolareggiato?

L'istituto dei referendum locali, contemplato dall'art. 8, comma 3 del Tuel, costituisce un tipico istituto di democrazia diretta, una forma di partecipazione popolare di carattere opzionale, in quanto si configura quale elemento meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale.
Rispetto alla normativa previgente è stata ampliata la valenza dell'istituto del referendum popolare, attualmente configurabile non solo più come consultivo (unica tipologia prevista nell'originale formulazione della legge n. 142 del 1990 e volta a consentire la consultazione della popolazione su rilevanti questione di interesse locale), ma anche come abrogativo (di provvedimenti a carattere generale degli organi istituzionali e burocratici dell'ente), propositivo (per approvare proposte di atti avanzate dalla stessa amministrazione o da altri soggetti), confermativo, di indirizzo e oppositivo-sospensivo.
Come sottolineato dalla prevalente dottrina, il dlgs n. 267/2000 nulla dice circa l'effetto dell'esito del referendum consultivo e gli statuti comunali tendono a escludere che l'esito sia vincolante per l'amministrazione, preferendo precisare che l'ente locale possa discostarsi dallo stesso, con adeguata motivazione, al fine di tutelare la piena autonomia politica del consiglio.
In tal senso, si è anche affermato che il potere statutario in materia resta ampio con riguardo all'oggetto del referendum (che è sufficiente che rientri tra le materie di competenza esclusiva dell'ente), alla determinazione del numero dei partecipanti per la sua validità, alla possibilità di prevedere effetti consequenziali per l'amministrazione locale legati all'esito del referendum con il solo limite della conservazione del potere decisionale in capo agli organi di governo.
La giurisprudenza amministrativa, inoltre, ha affermato che «il referendum consultivo impone solo all'amministrazione che l'ha indetto di tener conto della volontà popolare, ma non esplica alcun effetto sull'azione amministrativa che ne è stato oggetto, né tanto meno su vicende successive o di altre amministrazioni, né la volontà popolare espressa con il referendum è idonea ad attribuire all'ente locale poteri estranei alla sfera di attribuzione fissate con legge» (Consiglio di stato, sez. VI, 20.05.2004, n. 3263 e Tar Puglia, Bari, sez II, 10.03.2003, n. 1098).
Tale orientamento è stato confermato da successive pronunce (Consiglio di stato, sez IV, 29.07.2008, n. 3769 e Tar Veneto, Venezia, sez. II 21.03.2007, n. 807), nelle quali si legge che «le consultazioni costituiscono strumento di partecipazione popolare all'elaborazione delle scelte amministrative, non strumento di verifica a posteriori da parte dei cittadini di scelte già definite con formali provvedimenti amministrativi (_). L'attività consultiva, per propria natura, deve precedere l'attività decisionale, non seguirla» (articolo ItaliaOggi del 07.09.2012).

APPALTI SERVIZIAlle cooperative sociali affidamenti senza gara. L'authority di vigilanza sui contratti pubblici detta i chiarimenti sulla procedura.
Pubblicate dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture le linee guida per gli affidamenti a cooperative sociali ai sensi dell'art. 5, comma 1, della legge n. 381/1991.
Con la determinazione 01.08.2012 n. 3 l'Authority, a conclusione del procedimento di consultazione avviato nell'aprile scorso, fornisce chiarimenti riguardo alle deroghe applicabili alle procedure di affidamento ex dlgs 163/2006 per gli appalti di importo sotto soglia comunitaria in caso di convenzioni stipulate con cooperative sociali di tipo B.
L'art. 5 della legge 381/1991, contenente la disciplina delle cooperative sociali, dispone, infatti, che gli enti pubblici, inclusi quelli economici, e le società a partecipazione pubblica possono stipulare, in deroga al principio generale della gara, direttamente con le cooperative sociali convenzioni per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari e educativi al verificarsi di determinate condizioni.
Per prima cosa ai fini dell'applicabilità della disposizione, come ricorda l'Autorità, i soggetti beneficiari delle convenzioni devono essere ascrivibili alla tipologia delle cooperative sociali di tipo B, vale a dire quelle che, ai sensi dell'art. 1, comma 1, lettera b) della legge 381/1991, svolgono attività diverse (agricole, industriali, commerciali o di servizi) finalizzate all'inserimento lavorativo di «persone svantaggiate» così come definite dall'art. 4 della stessa legge 381/1991; in tali cooperative, inoltre, le «persone svantaggiate», sempre come previsto dal predetto art. 4, devono costituire almeno il 30% dei lavoratori.
È necessario, inoltre, per la stipula delle convenzioni che le cooperative sociali risultino iscritte all'albo regionale introdotto dallo stesso articolo 5. In caso di mancata istituzione dell'albo da parte delle regioni le cooperative sociali devono, comunque, attestare il possesso dei requisiti previsti dai citati articoli 1 e 4 della legge n. 381/1991. Le convenzioni, inoltre, potranno essere stipulate anche con operatori avente sede in altri stati dell'Unione europea a condizione che siano in possesso dei requisiti equivalenti per l'iscrizione all'albo e siano iscritte nelle liste regionali dei soggetti idonei per la stipula delle stesse (art. 5, commi 2 e 3, legge 381/1991).
Le convenzioni in esame dovranno avere ad oggetto, come disciplinato dallo stesso articolo 5, la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari e educativi il cui importo contrattuale al netto dell'Iva sia inferiore alle soglie comunitarie previste per gli appalti pubblici e dovranno essere finalizzate a creare opportunità di lavoro per «le persone svantaggiate».
Come sottolineato dall'Autorità, per la deroga alle regole previste dal dlgs 163/2006 per gli appalti sotto soglia, «l'oggetto della convenzione non si esaurisce nella mera fornitura di beni e servizi, ma è qualificato dal perseguimento di una peculiare finalità di carattere sociale, consistente nel reinserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Occorre, pertanto, che il profilo del reinserimento lavorativo, unitamente al successivo monitoraggio dello stesso in termini quantitativi e qualitativi, sia posto al centro della convenzione e, a monte, della determina a contrarre adottata dalla stazione appaltante ex art. 11, comma 2, del Codice dei contratti».
Sempre dal punto di vista dell'oggetto contrattuale l'organo di vigilanza rileva come l'ambito di operatività delle convenzioni riguardi in linea generale la fornitura di beni e servizi strumentali agli enti affidanti; non è ammissibile il ricorso alle convenzioni per l'esecuzione di lavori pubblici o per la gestione di servizi pubblici locali a rilevanza economica.
Sotto il profilo temporale, le amministrazioni dovranno definire «adeguatamente la durata delle convenzioni, affinché non sia di fatto preclusa ad altre cooperative la possibilità di presentare domanda di convenzionamento, nonché verificare che gli obiettivi stabiliti siano effettivamente perseguiti ed attuati».
Sul fronte delle modalità di affidamento l'Autorità, richiamandosi all'orientamento della giurisprudenza amministrativa (Tar Lazio Roma, sez. III-quater, 09.12.2008, n. 11093; n. 3767 del 26.04.2012), «secondo cui non può ammettersi che l'utilizzo dello strumento convenzionale si traduca in una deroga completa al generale obbligo di confronto concorrenziale», suggerisce alle stazioni appaltanti di procedere all'individuazione delle forniture di beni e servizi che possono essere oggetto di convenzioni ex art. 5 e, conseguentemente, alla pubblicazione di un avviso pubblico volto a comunicare la volontà di ricorrere per tali appalti alle cooperative sociali in questione per la finalità di reinserimento lavorativo di «persone svantaggiate»; in caso di più soggetti interessati consiglia all'ente di promuovere una procedura competitiva di tipo negoziato specificando nella lettera di invito «gli obiettivi di inserimento sociale e lavorativo che intende perseguire mediante la stipula della convenzione e i criteri in base ai quali verranno comparate le diverse soluzioni tecniche presentate da parte delle cooperative».
L'organo di vigilanza precisa, poi, che la deroga al Codice dei contratti è relativa soltanto alle procedure di aggiudicazione restando, quindi, applicabili la disciplina in materia di requisiti di partecipazione, comunicazioni all'Autorità, specifiche tecniche per l'esecuzione delle prestazioni e tutte le altre disposizioni normative previste per gli appalti sotto soglia.
Si sofferma anche sui controlli da compiere in sede di esecuzione delle prestazioni volti a verificare la permanenza delle condizioni necessarie per la stipula delle convenzioni e il perseguimento della finalità di reinserimento lavorativo (articolo ItaliaOggi del 07.09.2012).

EDILIZIA PRIVATAPmi, arriva a fine mese il visto unico ambientale. La banca dati per gli appalti attiva entro l'anno.
Attuazione delle semplificazioni. È il dossier più corposo nel fascicolo del ministero della Pa che sta ancora limando la griglia dei provvedimenti da portare al Cdm di oggi pomeriggio. Uno dei primi regolamenti in agenda è l'autorizzazione unica ambientale per le Pmi. Il nuovo visto (da adottare insieme ai ministeri dell'Ambiente e dello Sviluppo) eviterà le sovrapposizioni di passaggi tra comuni, province e altre strutture pubbliche, con un'unica autorizzazione per acque reflue, emissioni inquinanti e impatto acustico, da parte dello sportello unico per le imprese.
Doveva essere approvato entro il 10 agosto, in attuazione del Dl Semplifica Italia. Arriverà entro fine mese. Così come la direttiva che sancisce l'obbligo di pubblicare la modulistica di tutte le autorizzazioni amministrative, con l'indicazione del responsabile del procedimento. Atteso entro settembre anche il decreto sullo scambio di pratiche per via telematica da parte delle pubbliche amministrazioni (in questo caso palazzo Vidoni ha un ruolo di concerto con il Viminale) che garantirà tempi più rapidi nella trascrizione degli atti di stato civile, nella cancellazione e iscrizione alle liste elettorali e nei cambi di residenza.
Nell'agenda del ministero guidato da Filippo Patroni Griffi è fissato a ottobre il via libera ai decreti di semplificazione in materia di autorizzazioni per l'esercizio delle attività economiche e di controlli sulle imprese. Entro fine anno sarà invece avviata la banca dati sugli appalti. Mentre, sul fronte della spending review, entro il 31 ottobre sarà approvata la direttiva sul riordino delle province. A seguire (entro il 2012) il trasferimento delle risorse e delle funzioni dalla province soppresse.
Non ci sono però solo i regolamenti attuativi di leggi già entrate in vigore. Sono in cantiere anche nuove misure, da realizzare soprattutto insieme con il ministero dello Sviluppo. A partire dal provvedimento finalizzato alla nascita della Isrl (dove la "i" sta per innovazione): una società semplificata, che potrà adottare uno statuto standard e costituirsi online con una comunicazione direttamente alla Camera di commercio. E dalla creazione di un "Desk investitori esteri" presso uffici dell'Ice nelle principali piazze internazionali. Insieme ai Beni culturali si lavora invece alla semplificazione delle procedure per i via libera paesaggistici.
Mentre nell'ambito del processo collegato all'Agenda digitale, appannaggio dello Sviluppo economico, i tecnici di palazzo Vidoni lavorano al lancio della nuova carta di identità elettronica: documento unificato in cui far confluire carta d'identità, carta nazionale dei servizi, compreso il codice fiscale, e tessera sanitaria. Una card che entrerà in vigore non appena saranno sciolti i nodi sulla copertura finanziaria e sull'eventuale contributo da chiedere ai cittadini (articolo Il Sole 24 Ore del 05.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATANon disturbano le farmacie con insegne vivaci e bizzarre.
Le insegne luminose delle farmacie possono anche essere di colore vivace e bizzarro ma quando sono posizionate vicino ai segnali non devono creare interferenze. In ogni caso vanno sempre rispettate le distanze minime previste dal regolamento e il comune può imporre agli esercenti il rispetto di particolari prescrizioni finalizzate a elevare la sicurezza della circolazione.

Lo ha evidenziato il Ministero dei trasporti con il parere 27.08.2012 n. 4761 di prot..
Un comune ha richiesto chiarimenti circa il corretto posizionamento di insegne luminose sulla strada statale, in prossimità di impianti semaforici, stante la particolare tecnologia a led che rende molto brillanti le nuove insegne farmaceutiche. A parere del ministero oltre all'art. 23 del codice della strada occorre prestare particolare attenzione al regolamento comunale e agli artt. 50 e 51 del regolamento stradale. In particolare l'art. 23 del codice specifica che qualsiasi insegna non deve arrecare disturbo alla circolazione ovvero deve essere evitata qualsiasi interferenza con la guida.
Stante l'obbligatorietà dell'insegna farmaceutica da un lato e la necessità di salvaguardare la sicurezza della circolazione stradale dall'altro il comune ha richiesto istruzioni di dettaglio. L'art. 50 del regolamento del codice stradale, specifica la nota centrale, prevede che dentro ai centri abitati trovi applicazione il locale regolamento anche in riferimento all'apposizione delle insegne farmaceutiche.
In buona sostanza è nella piena facoltà del comune adottare provvedimenti che limitino l'intensità e la direzionalità dei fasci luminosi emessi dall'impianto pubblicitario. In pratica per garantire la sicurezza della circolazione il primo cittadino può sempre imporre ulteriori restrizioni all'esercente anche in considerazione della resa cromatica degli impianti. Ma prima di tutto andrà verificata la corrispondenza delle installazioni con le previsioni del codice stradale e in particolare con le distanze minime previste dall'art. 51 del regolamento stradale.
Queste distanze, prosegue il parere ministeriale, potranno essere derogate solo nel caso in cui l'insegna di esercizio sia collocata parallelamente al senso di marcia e in aderenza a un fabbricato esistente. In buona sostanza se l'insegna è perpendicolare al traffico la sua posizione è strettamente vincolata alle distanze (articolo ItaliaOggi del 04.09.2012).

VARIDpr in Gazzetta. Si parte il 15/09. Al via il restyling dei pass invalidi.
Dal 15 settembre gli interessati al rilascio o al rinnovo del nuovo contrassegno invalidi europeo possono rivolgersi al comune che però ha tre anni di tempo per regolarizzare tutta la modulistica e la segnaletica stradale in circolazione. Di certo però i vecchi tagliandi arancioni in scadenza dovranno essere sostituiti in fretta mentre per adeguare i segnali e gli stalli di sosta è comprensibile che gli enti impiegheranno più tempo.

Sono queste le conseguenze immediate con ricadute anche sui bilanci degli enti derivanti dall'avvenuta pubblicazione sulla G.U. n. 203 del 31.08.2012 del dpr 151/2012 «regolamento recente modifiche al decreto del presidente della repubblica 16.12.1992, n. 495, concernente il regolamento di esecuzione e attuazione del nuovo codice della strada, in materia di strutture, contrassegno e segnaletica per facilitare la mobilità delle persone invalide» (si veda ItaliaOggi del 01/09/2012).
Con un semplice colpo di penna che modifica quasi integralmente l'art. 381 del regolamento stradale l'Italia entra in Europa anche per quanto riguarda i permessi invalidi, con un ritardo clamoroso di tanti anni.
Anni complicati per gli utenti titolari del pasticciato contrassegno arancione a causa dell'avvento delle regole sulla privacy che invece di favorire hanno finito per penalizzare le persone disabili.
Torna, finalmente, il simbolo della carrozzella su sfondo azzurro, con un nuovo modulo standard europeo che sul retro ospiterà la fotografia dell'interessato e tutti i suoi dati. Questa autorizzazione dovrà essere sempre apposta in originale nella parte anteriore del veicolo per non incorrere in sanzioni.
Non cambiano sostanzialmente le istruttorie per accedere al titolo ma muta aspetto oltre al contrassegno anche la segnaletica. Innanzitutto per quanto riguarda la sostituzione del vecchio contrassegno invalidi con il nuovo «contrassegno di parcheggio per disabili» europeo, l'art. 3 del dpr 151 prevede un termine massimo di tre anni, salvo che i comuni ritengano di accelerare. Alla progressiva scadenza dei titoli però i comuni dovranno garantire il rinnovo dei tagliandi con il nuovo modello. Almeno nelle intenzioni del legislatore quindi per la sostituzione massiva dei tagliandi in circolazione il comune ha a disposizione un lasso di tempo lungo ma in caso di rinnovo singolo sembra che sia opportuno procedere con il rilascio dei nuovi permessi già dal 15.09.2012, data di entrata in vigore della novella.
Per quanto riguarda la segnaletica stradale i comuni potranno prevedere la gratuità della sosta per gli invalidi nei parcheggi a pagamento, qualora risultino già occupati o indisponibili gli stalli a loro riservati. Inoltre, i medesimi enti locali potranno stabilire, anche nelle aree a pagamento gestite in concessione, un numero di posti destinati alla sosta gratuita degli invalidi muniti di contrassegno superiore al limite minimo di un posto ogni cinquanta o frazione di cinquanta posti disponibili, previsto dal dpr 503 del 24.07.1996.
Mentre queste disposizioni però sono innovative e quindi andranno evidenziate con la nuova segnaletica resta sul tappeto il problema dell'adeguamento della segnaletica ai nuovi simboli grafici. Anche per questa sistemazione i comuni hanno a disposizione un periodo transitorio di tre anni ma, specifica il dpr, se nel frattempo verrà sostituito qualche segnale le nuove installazioni dovranno già essere a norma di legge (articolo ItaliaOggi del 04.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - VARIParere Autovelox, box liberi nelle città.
I diffusi armadietti porta autovelox possono essere posizionati anche in centro abitato per svolgere attività preventiva e all'occorrenza ospitare i severi controllori elettronici della velocità con la presenza dei vigili.

Lo ha ribadito il Ministero dei trasporti con il parere 27.07.2012 n. 4295 di prot..
Molti comuni hanno disseminato sul territorio gli armadietti colorati porta autovelox con evidenti finalità dissuasive. Questa pratica però non risulta molto gradita a tutti e per questo motivo una prefettura ha richiesto chiarimenti al ministero.
I manufatti porta autovelox, specifica la nota, «non sono inquadrabili in alcuna delle categorie previste dal nuovo codice della strada e dal connesso regolamento di esecuzione e di attuazione e dunque per essi non risulta concessa alcuna approvazione ai sensi dell'art. 45, comma 6, del codice e dell'art. 193, comma 3, del regolamento».
Neppure la nuova direttiva in corso di approvazione se ne occuperà, prosegue il ministero, trattandosi di manufatti non classificabili né come impianti né come segnaletica. L'unico impiego consentito è quindi quello di ospitare i vigili elettronici in sede fissa o saltuaria (articolo ItaliaOggi del 04.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sospensione feriale agli sgoccioli. Termini processuali ancora congelati fino al 17 settembre. Come cambia l'agenda per gli atti della giustizia civile, tributaria e amministrativa.
Ancora due settimane di stop per i termini processuali, in stand by fino al 17 settembre prossimo (il 16 è domenica). La sospensione feriale dei termini (articolo 1, legge 742/1969) opera dal 1° agosto al 15 settembre e interessa tutti gli atti relativi a processi civili, amministrativi e tributari. Durante la pausa i termini processuali restano sospesi e il conto dei giorni entro i quali le parti in causa possono procedere al deposito di atti e documenti, previsti dai singoli riti, riparte, appunto, dal 17 settembre. Se poi i suddetti termini dovessero iniziare nel periodo di sospensione, gli stessi vengono differiti direttamente alla fine del periodo di sospensione.
In particolare, la pausa determina un allungamento delle scadenze entro le quali le parti possono procedere al deposito di atti e documenti. I termini così congelati riprendono a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Se l'inizio del decorso dei termini processuali cade durante il periodo di sospensione feriale, i termini iniziano a decorrere alla fine del periodo di sospensione.
Così, con riferimento al 2012, se il termine iniziale di decorrenza processuale cade prima del 01.08.2012: si ha la sospensione feriale dei termini processuali dal 1° agosto al 15.09.2012, con ripresa della decorrenza dei termini dal 16 settembre compreso anche se il 15 cade di sabato e il 16 di domenica (periodo di sospensione di 46 giorni); se invece il termine iniziale di decorrenza processuale cade all'interno del periodo 1° agosto - 15.09.2012: il decorso dei termini parte dal 16 settembre, anche se il 15 cade di sabato e il 16 di domenica (periodo di sospensione di 46 giorni), salvo che il 16 rappresenti l'ultimo giorno per il compimento di un atto processuale; in quest'ultimo caso, infatti, il termine per il compimento dell'atto slitta dal 16 settembre al 17.09.2012 (periodo di sospensione di 47 giorni).
Nell'ordinamento tributario, la sospensione interessa, in primis, le scadenze relative alla presentazione del ricorso contro gli atti impositivi, sia introduttivo sia costitutivo, in tutti i gradi di giudizio, dal primo alla Cassazione, ma anche, per esempio, i depositi di documenti e/o memorie illustrative.
Ne deriva, per esempio, che nel caso in cui la notifica dell'atto di accertamento sia intervenuta prima del periodo di sospensione feriale, ossia prima del 01.08.2012, il computo dei 60 giorni utili per la proposizione del ricorso si ottiene sommando il periodo decorso anteriormente al 1° agosto a quello successivo al 15.09.2012.
Nel caso, invece, in cui la notifica dell'atto di accertamento sia intervenuta tra il 01.08.2012 e il 15.09.2012, ossia durante il periodo feriale, il computo del termine di 60 giorni inizierà dal 16.09.2012, salvo che il 16 rappresenti l'ultimo giorno per il compimento di un atto processuale; in quest'ultimo caso, infatti, il termine per il compimento dell'atto slitta dal 16 settembre al 17.09.2012 (il periodo di sospensione diventa di 47 giorni). Particolare attenzione deve essere posta alla gestione degli strumenti deflattivi del contenzioso; in generale i termini previsti per la definizione con adesione godono della sospensione feriale. Così si cumulano i giorni previsti per il perfezionamento dell'adesione con quelli relativi alla sospensione feriale.
In generale lo stop si applica a tutti quegli atti avverso i quali le parti possono proporre ricorso (o resistere) entro un certo termine; in determinate circostanze la sospensione interessa anche i termini per il pagamento degli importi indicati negli atti impositivi; ciò avviene quando gli stessi atti fanno riferimento, per il versamento, al termine per la proposizione del ricorso. È il caso dei nuovi accertamenti esecutivi (articolo 29, dl 78/2010) per i quali si prevede che l'avviso contenga anche l'intimazione ad adempiere «entro il termine di presentazione del ricorso, all'obbligo di pagamento degli importi negli stessi indicati, ovvero, in caso di tempestiva proposizione del ricorso e a titolo provvisorio, degli importi stabiliti dall'articolo 15 del dpr 29.09.1973, n. 602».
Al di là dei casi appena visti, la sospensione feriale non riguarda gli altri adempimenti previsti dalla disciplina tributaria, primi fra tutti i termini di versamento delle imposte. E la sospensione non si applica per i procedimenti cautelari, relativi alla concessione di ipoteca o sequestro conservativo (articolo ItaliaOggi Sette del 03.09.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, in autunno si cambia. Nuove regole su Sistri, sottoprodotti e sostanze pericolose. Con tre provvedimenti il legislatore di agosto ha riformulato le principali norme ambientali.
Conferma dell'attuale sospensione del Sistri, ma con parallelo rinnovo delle regole operative in vista del suo futuro funzionamento e «querelle» sul pagamento del contributo per l'anno 2012. Queste, insieme alla rivisitazione delle norme su sottoprodotti, rifiuti agricoli, export di sostanze pericolose e recupero dei vapori di benzina nei distributori di carburanti, le novità ambientali che caratterizzeranno l'autunno di imprese e operatori del settore.
A veicolare le numerose novità tre provvedimenti: la legge 134/2012 di conversione del cd. «dl crescita» (in tema di sospensione Sistri, sottoprodotti, rifiuti agricoli, export di «Cov»), il dm Minambiente 141/2012 (di riformulazione delle regole Sistri), il dlgs 125/2012 (sul recupero dei vapori di benzina).
Sistri. La legge 134/2012 (Supplemento ordinario n. 171 alla G.U. 11.08.2012 n. 187) di conversione del dl 83/2012 ha confermato la sospensione del sistema di tracciamento telematico dei rifiuti così come prevista dall'originaria formulazione del decreto d'urgenza, ossia fino al nuovo termine iniziale di operatività che sarà stabilito dal Minambiente con proprio decreto all'esito delle verifiche amministrative e funzionali del sistema (verifiche affidate allo stesso dicastero dal precedente dl 138/2011) e comunque non oltre il 30.06.2013.
La stessa legge 134/2012 ha confermato la sospensione dell'obbligo di pagamento del contributo Sistri per l'anno 2012 prevista dal dl 83/2012. Ma il dm ambiente 25.05.2012, n. 141 recante modifiche al Tu Sistri (G.U. 23.08.2012 n. 196) ne ha invece previsto il suo ripristino, mediante una disposizione che fissa quale termine ultimo per il pagamento quello del prossimo 30.11.2012. Disposizione che, allo stato attuale, appare priva di un fondamento di legittimità, per essere veicolata da un provvedimento (il decreto ministeriale in parola) in contrasto con l'opposta e citata disposizione recata invece da fonte di diritto gerarchicamente superiore (la legge 134/2012).
Obblighi e responsabilità operatori Sistri. Il nuovo e citato dm ambiente 141/2012 opera la rivisitazione di alcuni punti nodali del dm ambiente 18.02.2011, n. 52 (c.d. Testo unico Sistri) relativi a procedure di iscrizione al sistema, responsabilità dei produttori dei rifiuti, adempimenti procedurali nella gestione dei medesimi.
In relazione all'obbligo di iscrizione viene introdotta la facoltà per gli enti titolari dell'autorizzazione di impianti pubblici di trattamento di rifiuti di delegare, in attesa della voltura dell'autorizzazione, iscrizione e procedure Sistri a terzi soggetti in possesso dei requisiti per la gestione impianti in conto terzi, ai quali è affidata la gestione dell'impianto, dandone comunicazione al Sistri. In relazione, invece, alla responsabilità dei produttori di rifiuti, il nuovo dm 141/2012 prevede un ulteriore onere a loro carico per evitare la diretta responsabilità in caso di mala gestione dei rifiuti operata a valle.
I produttori di rifiuti operanti in regime telematico Sistri che consegneranno a terzi i rifiuti per la loro gestione, nel caso in cui non riceveranno dal cervellone Sistri la (già) prevista email che conferma la ricezione dei rifiuti da parte dell'impianto di destinazione, dovranno infatti, per essere esentati da ogni responsabilità, darne immediata comunicazione al Sistri e alla provincia territorialmente competente.
Il nuovo dm di riformulazione del T.u. Sistri ritocca infine, e per l'ennesima volta, le regole procedurali relativa all'interazione tra operatori e cervellone informatico dello stato in relazione alla gestione di rifiuti pericolosi, sanitari, rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche.
Nuovi sottoprodotti. Per effetto della citata legge 134/2012 di conversione del «dl crescita» esordisce nel novero dei sottoprodotti (ossia delle materie non sottoposte alle regole sui rifiuti ex dlgs 152/2006) il digestato ottenuto da effluenti di allevamento o residui vegetali in impianti aziendali e utilizzato per fini agronomici secondo, però, i parametri che saranno individuati da un futuro Minambiente.
Gestione rifiuti agricoli. Non solo il trasporto verso una cooperativa agricola, ma dal 12.08.2012 (data di entrata in vigore della legge di conversione del dl crescita) anche quello verso il consorzio agrario effettuato dall'imprenditore agricolo socio e finalizzato al raggiungimento del deposito temporaneo non è più considerato tecnicamente un «trasporto di rifiuti».
La legge 134/2012 allarga, infatti, il novero delle ipotesi (già) previste dal dlgs 152/2006 per le quali non è giuridicamente «trasporto di rifiuti» (con il conseguente venir meno degli obblighi di tenuta del formulario di trasporto e del tracciamento telematico Sistri, ove previsto) la movimentazione dei rifiuti agricoli.
Export extra Ue di «Cov». È diventata definitiva dal 12.08.2012 la deroga al divieto di vendita a paesi extra Ue di pitture, vernici e prodotti per carrozzeria con limiti di composti organici volatili (c.d. «Cov») superiori a quelli previsti nell'allegato II del dlgs 27.03.2006, n. 161. Mediante la diretta modifica del decreto legislativo in parola, la legge 134/2012 ha infatti eliminato ogni termine finale alla deroga in parola, rendendo lecita l'esportazione verso Paesi diversi da quelli Ue pitture, vernici e prodotti per carrozzeria con concentrazioni di sostanze pericolose superiori ai limiti citati.
Recupero vapori benzina. Scattato, invece, il 21.08.2012 per i grandi impianti di distribuzione di benzina l'obbligo di dotarsi dei nuovi sistemi di recupero dei vapori dei carburanti emessi in atmosfera durante il rifornimento dei veicoli.
L'adeguamento ai nuovi sistemi di cd. «Fase II» (che consentono un recupero dell'85% degli inquinanti) è imposto attraverso la modifica del dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale») dal nuovo dlgs 30.07.2012 n. 125 (G.U. 06.08.2012 n. 182) sia agli impianti autorizzati dopo 01/01/2012 (c.d. impianti «nuovi») che a quelli preesistenti ma ristrutturati dopo tale data che hanno un flusso anno di erogazione di carburante superiore a 500 metri cubi annui (100 se localizzati in prossimità di edifici residenziali o lavorativi).
L'adeguamento ai sistemi di «Fase II» sarà obbligatorio (entro però il più lontano termine finale del 31/12/2018) anche per i vecchi impianti con flusso superiore a 3000 metri cubi annui. Per tutti gli altri e diversi impianti di distribuzione è invece sufficiente un allineamento dei sistemi di recupero esistenti ai nuovi requisiti di efficienza stabiliti dallo stesso dlgs 125/2012 (articolo ItaliaOggi Sette del 03.09.2012).

VARI: La telefonata viaggia via internet. I vantaggi: niente canone e costi al minuto molto ridotti. Crescono gli utenti che ricorrono a Google, Messagenet e Skype per chiamare verso fissi e cellulari.
Telefonare a basso costo sfruttando la connessione a internet. Sono in costante aumento gli utenti che per chiamare o ricevere telefonate verso fissi e cellulari ricorrono a piattaforme come Skype, Google o Messagenet. Costi al minuto decisamente inferiori rispetto agli operatori tradizionali e l'assenza del canone rendono, infatti, il Voip (Voice over internet protocol) molto vantaggioso in numerose situazioni come, per esempio, la necessità di effettuare lunghe telefonate di lavoro o chiamate all'estero.
Vediamo le offerte degli operatori.
Chiamate Voip in aumento. Secondo una ricerca di TeleGeography, osservatorio di ricerca specializzato nel mercato delle telecomunicazioni, nel 2011 il traffico delle chiamate internazionali effettuate attraverso il servizio Skype to Skype è aumentato del 48% rispetto all'anno precedente, contro il 4% registrato dagli operatori telefonici tradizionali. Un fenomeno che, secondo gli analisti, è destinato a prendere sempre più piede e che nell'immediato futuro potrebbe soppiantare definitivamente le chiamate telefoniche tradizionali.
Per questo, gli operatori si stanno muovendo nel tentativo di limitare i danni: entro fine anno dovrebbe, infatti, essere lanciata Joyn, una nuova piattaforma per chiamate via internet e messaggistica istantanea, sponsorizzata dalle maggiori compagnie telefoniche europee, tra cui Vodafone e Deutsche telekom.
Le offerte degli operatori. Uno dei maggiori programmi per parlare via internet è Skype che può essere scaricato gratuitamente. La compagnia offre diversi pacchetti tariffari: a consumo in cui il prezzo per una chiamata verso fissi e cellulari parte da 2,2 centesimi di euro al minuto oppure con abbonamento mensile che permette di effettuare chiamate illimitate a partire da 1,02 euro al mese.
Le chiamate vengono arrotondate al minuto successivo ed è previsto un costo aggiuntivo legato allo scatto alla risposta. Skype propone, inoltre, i pacchetti «Senza Limiti Europa», che prevede chiamate illimitate verso i fissi di 20 paesi europei (articolo ItaliaOggi Sette del 03.09.2012).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Le forniture. Spetta al responsabile della spesa il monitoraggio sugli appalti.
Contratti da aggiornare dopo i limiti agli acquisti.

I decreti sulla spending review comportano per i responsabili di servizio degli enti locali un percorso con alcuni passaggi preliminari obbligatori per la corretta formalizzazione degli acquisti di beni e servizi.
Il soggetto che ha i poteri di spesa deve anzitutto verificare che il bene o il servizio da acquisire non rientri tra queste categorie merceologiche: energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile. Perché se vi rientra l'amministrazione deve approvvigionarsi attraverso le convenzioni o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip e dalle centrali di committenza regionali di riferimento.
L'ente può comunque esperire proprie procedure di acquisto utilizzando i mercati elettronici di Consip o delle centrali regionali.
Il responsabile di servizio può sviluppare anche una procedura di gara «in proprio», secondo modalità tradizionali o ricorrendo ad altre centrali di committenza pubbliche, ma l'affidamento dovrà avvenire a prezzi inferiori a quelli delle convenzioni di Consip e delle centrali regionali. E i contratti dovranno contenere una clausola risolutiva che scatta se sopravvengono convenzioni centralizzate con prezzi più convenienti.
Per tutte le altre tipologie di beni e servizi, il responsabile di servizio di un ente locale può sviluppare un'autonoma procedura di acquisto (sia con gara sia in economia), ma deve utilizzare i parametri di qualità e prezzo delle convenzioni Consip come basi d'asta e di riferimento, in prospettiva migliorativa.
In base al comma 13 dell'articolo 1 del Dl 95/2012 il responsabile di servizio può recedere da un appalto per beni o servizi con contratto in essere, se sopravvengono convenzioni Consip o delle centrali regionali con prezzi più vantaggiosi (tenendo conto di quanto già eseguito e di quanto da eseguire) e se l'appaltatore non vuole adeguarsi a questi prezzi.
La clausola di recesso (che si inserisce automaticamente nei contratti in corso in base all'articolo 1339 del Codice civile) deve essere specificata in tutti i contratti di appalto e ogni patto contrario è nullo.
Il responsabile delle procedure di acquisto deve ricorrere invece al mercato elettronico della Pa (Mepa), sia di Consip che delle altre centrali o di altre amministrazioni, per beni o servizi di valore inferiore alla soglia comunitaria, in base a quanto previsto dall'articolo 1, comma 450 della legge 296/2006.
Se l'amministrazione ha strutturato un proprio mercato elettronico questo diventa lo strumento prioritario di acquisto per beni e servizi sotto la soglia comunitaria.
Lo sviluppo di procedure di gara sottosoglia o l'affidamento mediante procedure in economia sono possibili solo per i beni e i servizi non acquisibili mediante il Mepa (articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATARisulta carente di motivazione il diniego di concessione [o autorizzazione edilizia] fondato su un generico contrasto dell’opera con leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all’interessato da un lato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla [realizzazione dell’opera], dall’altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato.
... per l’annullamento del provvedimento negativo del 09.10.1998, prot. n. 4903, con il quale il Sindaco di Castelseprio non ha autorizzato la posa di una struttura rimovibile aperta in ferro all’interno dello stabilimento industriale della ricorrente, respingendo in tal modo l’istanza di autorizzazione edilizia presentata in data 28.05.1998, prot. n. 2606.
...
Il provvedimento impugnato non richiama, a sostegno di quanto affermato nello stesso, alcuna normativa in materia edilizia, né indica in modo specifico una prescrizione contenuta negli strumenti urbanistici o edilizi che impedirebbe la realizzazione del manufatto, secondo quanto richiesto dalla ricorrente.
Ciò si pone in contrasto con quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale risulta “carente di motivazione il diniego di concessione [o autorizzazione edilizia] fondato su un generico contrasto dell’opera con leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all’interessato da un lato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla [realizzazione dell’opera], dall’altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato” (TAR Lombardia, Milano, IV, 17.01.2012, n. 153; TAR Liguria, I, 11.07.2011, n. 1086).
Inoltre risultano del tutto apodittiche e immotivate le affermazioni in ordine alla temporaneità e rimovibilità dell’opera, visto che dal progetto emerge con evidenza che si tratta di una copertura mobile da utilizzare al fine di far fronte alle variabili condizioni meteorologiche ed è indicata con chiarezza la tipologia costruttiva dello stesso (si veda il progetto allegato alla domanda di autorizzazione, unitamente alla restante documentazione prodotta: all. 2, 3, 4 e 6 al ricorso).
Infine, appare contraddittoria e illogica la determinazione comunale che, in prima battuta, ritiene inammissibile la realizzazione del manufatto (l’incoerenza del progetto e l’estraneità al contesto locale della soluzione tipo-morfologico) e, poi, sembra adombrare una possibile positiva soluzione di riesame, attraverso la sola revisione della tipologia di copertura, da parametrare su quelle previste per il centro storico, pur dovendosi realizzare il manufatto in una zona industriale e in aperta campagna (TAR Lombardia-Milano, Se. IV, sentenza 07.09.2012 n. 2259 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVILa comunicazione [di avvio del procedimento] è superflua –con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell’azione amministrativa– quando l’interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono comunque all’apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti.
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L’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, comma 3, stabilisce che “chiunque violi i doveri di cui ai commi 1 e 2 [ovvero abbandoni di rifiuti o compia attività simili] è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente tali accertamenti sono necessari e non possono essere omessi.
Allorquando tali accertamenti non siano effettuati l’ordine di rimozione risulta illegittimo per mancanza di responsabilità imputabile del proprietario del bene su cui i rifiuti sono stati abbandonati.

Va premesso che nessuna violazione della normativa sul procedimento è stata compita dal Comune, atteso che la ricorrente era stata già avvisata in ordine alle possibili conseguenze di una sua inerzia nell’attività di rimozione e di smaltimento dei rifiuti abbandonati sulla sua proprietà, come emerge dalle premesse del provvedimento impugnato. Pur nella ristrettezza dei tempi procedimentali, comunque giustificata dalla tipologia di intervento da effettuare, la parte privata ha potuto interloquire con l’Amministrazione e prospettare la sua posizione.
Difatti secondo una recente giurisprudenza, condivisa da questo Collegio, “la comunicazione [di avvio del procedimento] è superflua –con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell’azione amministrativa– quando l’interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono comunque all’apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti” (Consiglio di Stato, IV, 15.12.2011, n. 6618).
Tuttavia, proprio in ragione dei contatti intercorsi con l’odierna ricorrente, il Comune avrebbe dovuto provvedere a porre in essere una istruttoria effettiva e approfondita, attraverso la quale verificare se l’abbandono dei rifiuti nella proprietà della ricorrente fosse alla stessa imputabile a qualche titolo, oppure non vi fosse alcuna responsabilità colpevole della proprietaria nell’accumulo incontrollato dei rifiuti.
Tale indagine è assolutamente mancata e quindi il Comune ha provveduto ad ordinare alla ricorrente la rimozione dei rifiuti soltanto perché proprietaria del sito in cui si è verificato l’abbandono.
La determinazione comunale non appare legittima proprio sulla base della norma richiamata nelle premesse dell’ordinanza impugnata, ovvero l’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, che al comma 3 stabilisce che “chiunque violi i doveri di cui ai commi 1 e 2 [ovvero abbandoni di rifiuti o compia attività simili] è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo” (Consiglio di Stato, V, 25.06.2010, n. 4073).
Secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente tali accertamenti sono necessari e non possono essere omessi (TAR Puglia, Lecce, I, 13.04.2012, 642; TAR Lombardia, Milano, IV, 07.06.2011, n. 1408).
Appare opportuno precisare, altresì, che ben sarebbe stato possibile che, in seguito alle predette indagini, fosse stata accertata una responsabilità dolosa o colposa, anche di tipo omissivo, in capo al proprietario, come adombrato dal Comune resistente nelle sue difese: nel caso di specie, però tale accertamento non è stato affatto effettuato e quindi l’ordine di rimozione risulta illegittimo per mancanza di responsabilità imputabile del proprietario del bene su cui i rifiuti sono stati abbandonati (Consiglio di Stato, V, 16.07.2010, n. 4614) (TAR Lombardia-Milano, Se. IV, sentenza 07.09.2012 n. 2254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittimo, per difetto di motivazione, il diniego di un accertamento di conformità che non indichi i concreti elementi ostativi all’accoglimento della domanda; l’Amministrazione, infatti, è tenuta a illustrare nel provvedimento i presupposti di fatto e le motivazioni giuridiche sulle quali si fonda l’esercizio del potere, in relazione alle risultanze dell’istruttoria, sia al fine di rendere edotti i destinatari dell’attività amministrativa del percorso seguito per giungere alla predetta decisione, sia per consentire al giudice, eventualmente investito della questione, di sindacarne lo svolgimento e l’esito finale.
Il ricorso è fondato.
Il diniego di concessione edilizia non è stato accolto semplicemente: “perché l’intervento non è regolamentare”, formula apodittica che non indica le norme violate né dà conto della presunte irregolarità rispetto alla disciplina edilizia, in sostanza, eludendo l’obbligo di motivazione.
Nella specie, secondo giurisprudenza consolidata, è illegittimo, per difetto di motivazione, il diniego di un accertamento di conformità che non indichi i concreti elementi ostativi all’accoglimento della domanda; l’Amministrazione, infatti, è tenuta a illustrare nel provvedimento i presupposti di fatto e le motivazioni giuridiche sulle quali si fonda l’esercizio del potere, in relazione alle risultanze dell’istruttoria, sia al fine di rendere edotti i destinatari dell’attività amministrativa del percorso seguito per giungere alla predetta decisione, sia per consentire al giudice, eventualmente investito della questione, di sindacarne lo svolgimento e l’esito finale (TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 25.11.2011, n. 1132) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.09.2012 n. 1485 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn sede edilizia la nozione di pertinenza va definita sia in relazione alla necessità e oggettività del rapporto pertinenziale sia alla consistenza dell’opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l’assetto del territorio.
In particolare, la realizzazione di una tettoia ovvero di una veranda aperta è soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire quando essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all’immobile cui accede, incide sull’assetto edilizio preesistente.
La pertinenza urbanistica, sottratta al regime della concessione edilizia, ha, infatti, caratteristiche diverse da quella contemplata dal codice civile, sostanziandosi nella destinazione strumentale alle esigenze dell’immobile principale, risultante, sotto il profilo funzionale, da elementi oggettivi, e, in particolare, dalla ridotta dimensione sia in senso assoluto che in relazione a quella al cui servizio è complementare oltre che dall’ubicazione, dal valore economico rispetto alla cosa principale e dall’assenza del c.d. carico urbanistico.
Il manufatto che genera una rilevante alterazione del territorio per dimensioni e struttura, pertanto, non può costituire pertinenza ai fini urbanistici a prescindere dal rilievo per cui, su area vincolata, la demolizione si impone ogni qualvolta l’intervento non sia stato preceduto da idoneo titolo proveniente dall’autorità preposta al vincolo.

Al riguardo il Collegio ritiene opportuno precisare che:
- in sede edilizia la nozione di pertinenza va definita sia in relazione alla necessità e oggettività del rapporto pertinenziale sia alla consistenza dell’opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l’assetto del territorio (TAR Campania, Napoli, sez. II, 21.05.2009, n. 2829);
- in particolare, la realizzazione di una tettoia ovvero di una veranda aperta è soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire quando essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all’immobile cui accede, incide sull’assetto edilizio preesistente (TAR Campania, Napoli, sez. VII, 12.12.2007, n. 16226);
- la pertinenza urbanistica, sottratta al regime della concessione edilizia, ha, infatti, caratteristiche diverse da quella contemplata dal codice civile, sostanziandosi nella destinazione strumentale alle esigenze dell’immobile principale, risultante, sotto il profilo funzionale, da elementi oggettivi, e, in particolare, dalla ridotta dimensione sia in senso assoluto che in relazione a quella al cui servizio è complementare oltre che dall’ubicazione, dal valore economico rispetto alla cosa principale e dall’assenza del c.d. carico urbanistico (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 24.10.2007, n. 3644; Cons. di Stato, sez. V, 13.06.2006, n. 3490);
- il manufatto che genera una rilevante alterazione del territorio per dimensioni e struttura, pertanto, non può costituire pertinenza ai fini urbanistici a prescindere dal rilievo per cui, su area vincolata, la demolizione si impone ogni qualvolta l’intervento non sia stato preceduto da idoneo titolo proveniente dall’autorità preposta al vincolo (TAR Lazio, Roma, sez. I, 10.04.2012, n. 3265).
Invero, i manufatti in questione hanno caratteristiche costruttive, dimensionali e funzionali tali da indurre univocamente a ritenere che:
- non sono opere minori: anche se legate da un rapporto di pertinenzialità con l’edificio principale, danno vita ad un organismo diverso per caratteristiche plano-volumetriche da quello oggetto della concessione, modificando la sagoma e il contorno del fabbricato con aumento della superficie utile;
- ben si annoverano tra quelle che alterano visibilmente e notevolmente lo stato dei luoghi, mutando in maniera permanente e significativa l’assetto urbanistico-edilizio del territorio;
- come tali sono senz’altro abbisognevoli del preventivo rilascio del permesso di costruire.
Essendo, in tal caso prevista, in assenza del necessario titolo abilitativo, l’irrogazione della sanzione di tipo demolitorio-ripristinatorio (art. 31 del d.P.R. n. 380/2001) l’ingiunzione alla demolizione delle opere risultate abusive, gravata, deve essere considerata legittima (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.09.2012 n. 1484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria comporta l’esecuzione di interventi direttamente riconducibili alla competenza funzionale dell’Amministrazione comunale che ha l’obbligo di provvedere alla loro completa definizione nel triennio dalla concessione del titolo edilizio, salvo che l’onere sia assunto, tramite specifico impegno, direttamente dal privato, cosa non avvenuta nel caso all’esame.
Se, infatti, a norma dell’art. 12 T.U. n. 380/2001, “il permesso di costruire è comunque subordinato all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte del Comune dell’attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero all’impegno degli interessati di procedere all’attuazione delle medesime contemporaneamente alla realizzazione dell’intervento oggetto del permesso”, il Comune non può disattendere la richiesta formale di allacciamento all’acquedotto o alla rete fognaria o di distribuzione del gas, anche se nella richiesta di concessione ne è indicato genericamente l’allacciamento. Infatti, speculare alla suddetta prescrizione è l’obbligo di pagamento di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione (art. 16 T.U. cit.) e il comma 7 del precitato art. 16 contempla, tra gli interventi assoggettati agli oneri di urbanizzazione primaria, proprio la rete idrica, quella fognaria nonché quella di distribuzione del gas.
Tali interventi sono, pertanto, primariamente riconducibili al pubblico potere, così come è pianamente desumibile dalla formulazione della norma e dalla stessa funzione di necessaria definizione e realizzazione del tessuto cardine del territorio su cui vanno a inserirsi gli interventi privati (strade residenziali, spazi di sosta e parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato). Ciò comporta, dunque, il prioritario impegno pubblico -in sede di rilascio della concessione– all’attuazione delle relative opere nel triennio.
Deve, tuttavia, effettivamente rilevarsi anche la possibilità di un impegno, da parte del privato, alla realizzazione delle opere medesime in sede di attuazione dell’intervento oggetto del permesso.
L’art. 16, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (che ha riprodotto l’art. 11, comma 1, l. n. 10 del 1977) consente, però, al privato di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria), soltanto se la proposta sia accettata dal Comune secondo le modalità e le garanzie dal medesimo dettate e previste in una convenzione o in un atto unilaterale d’obbligo.

Il ricorso è fondato.
La realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria comporta l’esecuzione di interventi direttamente riconducibili alla competenza funzionale dell’Amministrazione comunale che ha l’obbligo di provvedere alla loro completa definizione nel triennio dalla concessione del titolo edilizio, salvo che l’onere sia assunto, tramite specifico impegno, direttamente dal privato, cosa non avvenuta nel caso all’esame.
Se, infatti, a norma dell’art. 12 T.U. n. 380/2001, “il permesso di costruire è comunque subordinato all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte del Comune dell’attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero all’impegno degli interessati di procedere all’attuazione delle medesime contemporaneamente alla realizzazione dell’intervento oggetto del permesso”, il Comune non può disattendere la richiesta formale di allacciamento all’acquedotto o alla rete fognaria o di distribuzione del gas, anche se nella richiesta di concessione ne è indicato genericamente l’allacciamento. Infatti, speculare alla suddetta prescrizione è l’obbligo di pagamento di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione (art. 16 T.U. cit.) e il comma 7 del precitato art. 16 contempla, tra gli interventi assoggettati agli oneri di urbanizzazione primaria, proprio la rete idrica, quella fognaria nonché quella di distribuzione del gas.
Tali interventi sono, pertanto, primariamente riconducibili al pubblico potere, così come è pianamente desumibile dalla formulazione della norma e dalla stessa funzione di necessaria definizione e realizzazione del tessuto cardine del territorio su cui vanno a inserirsi gli interventi privati (strade residenziali, spazi di sosta e parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato). Ciò comporta, dunque, il prioritario impegno pubblico -in sede di rilascio della concessione– all’attuazione delle relative opere nel triennio.
Deve, tuttavia, effettivamente rilevarsi anche la possibilità di un impegno, da parte del privato, alla realizzazione delle opere medesime in sede di attuazione dell’intervento oggetto del permesso (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 10.11.2011, n. 1938; Consiglio Stato, sez. IV, 26.11.2009, n. 7432).
L’art. 16, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (che ha riprodotto l’art. 11, comma 1, l. n. 10 del 1977) consente, però, al privato di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria), soltanto se la proposta sia accettata dal Comune secondo le modalità e le garanzie dal medesimo dettate e previste in una convenzione o in un atto unilaterale d’obbligo (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 02.02.2012, n. 279) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.09.2012 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa legittimità del provvedimento abilitativo assume necessariamente a riferimento la normativa vigente al momento della sua adozione.
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L’art. 32, l. 28.02.1985 n. 47, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla l. 23.12.1996 n. 662 (diversamente dalla normativa attuale introdotta a seguito della modifica attuata dall’art. 32, comma 43, d.l. 30.09.2003 n. 269, conv. in l. 24.11.2003 n. 326) ricollega in generale all’inerzia dell’autorità preposta alla gestione del vincolo il significato di parere favorevole e, per gli immobili vincolati a norma della l. n. 1089 del 1939, come nel caso di specie, di silenzio rifiuto, senza, peraltro, operare alcuna distinzione in ordine all’epoca di realizzazione dell’abuso (trattandosi di condono, gli edifici devono essere, in entrambi i casi, necessariamente preesistenti, non venendo in rilievo il caso di nuove opere).
In particolare, nel caso di immobili sottoposti a vincolo archeologico (cose d’interesse artistico e storico), l’inerzia non vale come parere sfavorevole ma come mero inadempimento dell’obbligo di provvedere, a fronte del quale l’istante non ha onere di proporre il ricorso contro il silenzio rifiuto ma una mera facoltà, gravando in ogni caso sull’Amministrazione comunale l’onere di istruire la pratica, richiedendo gli atti di assenso allo scopo necessari per giungere comunque alla definizione del procedimento.
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La sanabilità degli abusi commessi in zona vincolata con provvedimento anteriore alla realizzazione delle opere, deve escludersi “a priori” ove il vincolo comporti inedificabilità assoluta: nel caso dell’applicazione dell’art. 32, sono, infatti, “fatte salve le fattispecie previste dall’articolo 33” della medesima legge, disciplinante, appunto, i vincoli assoluti.

Per quanto attiene alla ricostruzione sistematica della normativa, si osserva quanto segue.
A) la legittimità del provvedimento abilitativo assume necessariamente a riferimento la normativa vigente al momento della sua adozione (TAR Toscana, Firenze, sez. III, 25.10.2011, n. 1550);
B) l’art. 32, l. 28.02.1985 n. 47, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla l. 23.12.1996 n. 662 (diversamente dalla normativa attuale introdotta a seguito della modifica attuata dall’art. 32, comma 43, d.l. 30.09.2003 n. 269, conv. in l. 24.11.2003 n. 326) ricollega in generale all’inerzia dell’autorità preposta alla gestione del vincolo il significato di parere favorevole e, per gli immobili vincolati a norma della l. n. 1089 del 1939, come nel caso di specie, di silenzio rifiuto, senza, peraltro, operare alcuna distinzione in ordine all’epoca di realizzazione dell’abuso (trattandosi di condono, gli edifici devono essere, in entrambi i casi, necessariamente preesistenti, non venendo in rilievo il caso di nuove opere).
In particolare, nel caso di immobili sottoposti a vincolo archeologico (cose d’interesse artistico e storico), l’inerzia non vale come parere sfavorevole ma come mero inadempimento dell’obbligo di provvedere, a fronte del quale l’istante non ha onere di proporre il ricorso contro il silenzio rifiuto ma una mera facoltà, gravando in ogni caso sull’Amministrazione comunale l’onere di istruire la pratica, richiedendo gli atti di assenso allo scopo necessari per giungere comunque alla definizione del procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 03.12.2009, n. 7566; TAR Lazio, Latina, sez. I, 19.12.2008, n. 1864);
C) la sanabilità degli abusi commessi in zona vincolata con provvedimento anteriore alla realizzazione delle opere, deve escludersi “a priori” ove il vincolo comporti inedificabilità assoluta: nel caso dell’applicazione dell’art. 32, sono, infatti, “fatte salve le fattispecie previste dall’articolo 33” della medesima legge, disciplinante, appunto, i vincoli assoluti (TAR Puglia, Bari, sez. III, 06.02.2009, n. 218) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.09.2012 n. 1477 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICon riferimento al responsabile tecnico, tale figura non è assimilabile, per tipologia di compiti e per i poteri ad esso attribuiti, alla figura del direttore tecnico -peraltro tipica negli appalti di lavori pubblici-, il quale è, invece, espressamente menzionato nell’art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006, quale soggetto tenuto alla dichiarazione di moralità. Nella fattispecie, è fuori dubbio che il responsabile tecnico risulta privo di quel significativo ruolo decisionale e gestionale che possa farlo rientrare -in assenza di più restrittive clausole di gara- tra i soggetti tenuti all’obbligo di dichiarazione sui requisiti di moralità.
Con riguardo al procuratore o legale rappresentante, oltre all’insormontabile dato letterale, un’interpretazione estensiva sarebbe opinabile in presenza di una radicale diversità della situazione del titolare dell’impresa individuale/amministratore, cui spettano compiti gestionali e decisionali di indirizzi e scelte imprenditoriali, e quella del procuratore, il quale, benché possa essere munito di poteri di rappresentanza, è soggetto dotato di limitati poteri rappresentativi e gestionali, ma non decisionali (nel senso che i poteri di gestione sono pur sempre circoscritti dalle direttive fornite da titolari dell’impresa/amministratori). In altri termini le manifestazioni di volontà del procuratore possono produrre effetti nella sfera giuridica dell’impresa individuale/società, ma ciò non significa che egli abbia un ruolo nella determinazione delle scelte imprenditoriali, lasciate al titolare dell’impresa/amministratore.
Più in generale, ritiene il Collegio che requisiti soggettivi di partecipazione alla gara non possono essere interpretati in modo estensivo o analogico, diretto, cioè, a evidenziare significati impliciti, poiché le imprese devono essere messe in condizione di conoscere con certezza quali sono gli adempimenti occorrenti a soddisfare le prescrizioni previste per legge, pena la lesione della trasparenza delle regole di gara e, per conseguenza, della “par condicio competitorum” e dell’esigenza della più ampia partecipazione. Ne consegue che le norme di legge e di bando in ordine alle dichiarazioni cui è tenuta l’impresa partecipante alla gara devono essere interpretate dando esclusiva prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, nel rispetto del principio di tipicità e tassatività delle ipotesi di esclusione che, di per sé, costituiscono fattispecie di restrizione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione, oltre che dal Trattato comunitario.
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L’esclusione di un concorrente da una gara di appalto per inadempimento delle prescrizioni formali di gara è doverosa soltanto quando tali prescrizioni formali risultano indicate, nel bando o nella lettera di invito o anche nel capitolato speciale di appalto, in modo del tutto chiaro e la relativa violazione risulti sanzionata in modo altrettanto chiaro ed esplicito a pena di esclusione; non, in applicazione del principio del “favor partecipationis”, quando le stesse prescrizioni formali siano state formulate in modo del tutto impreciso ed equivoco e comunque senza la previsione esplicita della sanzione della automatica esclusione dalla gara, in caso di violazione.
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Non può identificarsi un obbligo di inclusione nell’intestazione della cauzione provvisoria riferito alle imprese ausiliarie discendente dall’art. 49, d.lgs. n. 163 del 2006, posto che tale norma, dopo aver contemplato un regime di responsabilità solidale tra l’impresa avvalente e quella ausiliaria, dispone che il contratto di appalto è comunque eseguito dall’impresa avvalente, a nome della quale è rilasciato il certificato di esecuzione dei lavori.
Se lo stesso legislatore individua dunque nell’impresa avvalente l’unico soggetto titolare del contratto di appalto, risulta allora del tutto illogico affermare che l’onere cauzionale deve gravare (anche) su di un soggetto ulteriore e diverso, in ordine al quale rileva solo il rapporto interno con l’avvalente medesimo, ferma restando la predetta responsabilità solidale “ex lege” dell’ausiliario nei confronti dell’Amministrazione aggiudicatrice.
Conseguentemente, in mancanza di una specifica previsione di esclusione nel caso in cui la polizza fideiussoria presentata da un concorrente non preveda tra i soggetti garantiti anche l’impresa indicata come ausiliaria nella domanda di partecipazione e non esistendo alcuna norma di legge che imponga l’onere in questione, deve ritenersi legittimo l’operato dell'Amministrazione che non ha escluso dalla gara la concorrente.
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Aderendo all’orientamento giurisprudenziale che fa leva sulla portata letterale dell’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 occorre osservare che, laddove si è intesa estendere la portata del comma 1, lett. b), della norma, è stato necessario un intervento legislativo, come è appunto quello operato con il d.l. 13.05.2011, n. 70 convertito in 12.07.2011, n. 106 che ha introdotto la specificazione.
Ora, comminando l’esclusione per l’assenza di tali dichiarazioni, tale norma non può essere estesa ai soggetti che in essa non vi sono ricompresi senza violare il principio di tassatività delle cause di esclusione, principio che, peraltro, ha trovato una sua esplicita previsione normativa con l’introduzione, all’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, del comma 1-bis.

L’art. 38, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, nell’individuare i soggetti tenuti a rendere la dichiarazione, fa riferimento soltanto al titolare, se si tratta di impresa individuale, e, con riferimento ad altro tipo di società, agli amministratori muniti di potere di rappresentanza, ossia, ai soggetti che siano titolari di ampi e generali poteri di amministrazione, nonché, per entrambi i casi, al direttore tecnico, senza estendere tale obbligo anche ai procuratori o legali rappresentanti e ai responsabili tecnici.
La clausola è insuscettibile di applicazione analogica a situazioni diverse.
Con riferimento al responsabile tecnico, tale figura non è assimilabile, per tipologia di compiti e per i poteri ad esso attribuiti, alla figura del direttore tecnico -peraltro tipica negli appalti di lavori pubblici-, il quale è, invece, espressamente menzionato nell’art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006, quale soggetto tenuto alla dichiarazione di moralità. Nella fattispecie, è fuori dubbio che il responsabile tecnico risulta privo di quel significativo ruolo decisionale e gestionale che possa farlo rientrare -in assenza di più restrittive clausole di gara- tra i soggetti tenuti all’obbligo di dichiarazione sui requisiti di moralità (TAR Campania, Napoli, sez. I, 18.03.2011, n. 1498; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 10.02.2011, n. 296).
Con riguardo al procuratore o legale rappresentante, oltre all’insormontabile dato letterale, un’interpretazione estensiva sarebbe opinabile in presenza di una radicale diversità della situazione del titolare dell’impresa individuale/amministratore, cui spettano compiti gestionali e decisionali di indirizzi e scelte imprenditoriali, e quella del procuratore, il quale, benché possa essere munito di poteri di rappresentanza, è soggetto dotato di limitati poteri rappresentativi e gestionali, ma non decisionali (nel senso che i poteri di gestione sono pur sempre circoscritti dalle direttive fornite da titolari dell’impresa/amministratori). In altri termini le manifestazioni di volontà del procuratore possono produrre effetti nella sfera giuridica dell’impresa individuale/società, ma ciò non significa che egli abbia un ruolo nella determinazione delle scelte imprenditoriali, lasciate al titolare dell’impresa/amministratore (Cons. di Stato, sez. V, 23.05.2011, n. 3069; TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 07.04.2011, n. 527).
Più in generale, ritiene il Collegio che requisiti soggettivi di partecipazione alla gara non possono essere interpretati in modo estensivo o analogico, diretto, cioè, a evidenziare significati impliciti, poiché le imprese devono essere messe in condizione di conoscere con certezza quali sono gli adempimenti occorrenti a soddisfare le prescrizioni previste per legge, pena la lesione della trasparenza delle regole di gara e, per conseguenza, della “par condicio competitorum” e dell’esigenza della più ampia partecipazione. Ne consegue che le norme di legge e di bando in ordine alle dichiarazioni cui è tenuta l’impresa partecipante alla gara devono essere interpretate dando esclusiva prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, nel rispetto del principio di tipicità e tassatività delle ipotesi di esclusione che, di per sé, costituiscono fattispecie di restrizione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione, oltre che dal Trattato comunitario (nello stesso senso, TAR Lecce, sez. II, 16.08.2011, n. 1496).
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Non ultima è la considerazione che l’esclusione di un concorrente da una gara di appalto per inadempimento delle prescrizioni formali di gara è doverosa soltanto quando tali prescrizioni formali risultano indicate, nel bando o nella lettera di invito o anche nel capitolato speciale di appalto, in modo del tutto chiaro e la relativa violazione risulti sanzionata in modo altrettanto chiaro ed esplicito a pena di esclusione; non, in applicazione del principio del “favor partecipationis”, quando le stesse prescrizioni formali siano state formulate in modo del tutto impreciso ed equivoco e comunque senza la previsione esplicita della sanzione della automatica esclusione dalla gara, in caso di violazione (Consiglio di Stato, sez. V, 11.01.2011, n. 78).
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In tema di gara d’appalto, va rilevato che non può identificarsi un obbligo di inclusione nell’intestazione della cauzione provvisoria riferito alle imprese ausiliarie discendente dall’art. 49, d.lgs. n. 163 del 2006, posto che tale norma, dopo aver contemplato un regime di responsabilità solidale tra l’impresa avvalente e quella ausiliaria, dispone che il contratto di appalto è comunque eseguito dall’impresa avvalente, a nome della quale è rilasciato il certificato di esecuzione dei lavori.
Se lo stesso legislatore individua dunque nell’impresa avvalente l’unico soggetto titolare del contratto di appalto, risulta allora del tutto illogico affermare che l’onere cauzionale deve gravare (anche) su di un soggetto ulteriore e diverso, in ordine al quale rileva solo il rapporto interno con l’avvalente medesimo, ferma restando la predetta responsabilità solidale “ex lege” dell’ausiliario nei confronti dell’Amministrazione aggiudicatrice (TAR Puglia, Lecce, sez. II, 26.10.2011, n. 1876, idem sez. III, 21.04.2011, n. 723; TAR Veneto, Venezia, sez. I, 10.01.2011, n. 12).
Conseguentemente, in mancanza di una specifica previsione di esclusione nel caso in cui la polizza fideiussoria presentata da un concorrente non preveda tra i soggetti garantiti anche l’impresa indicata come ausiliaria nella domanda di partecipazione e non esistendo alcuna norma di legge che imponga l’onere in questione, deve ritenersi legittimo l’operato dell'Amministrazione che non ha escluso dalla gara la concorrente (TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.03.2012, n. 2230).
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Aderendo all’orientamento giurisprudenziale che fa leva sulla portata letterale dell’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 occorre, infatti, osservare che, laddove si è intesa estendere la portata del comma 1, lett. b), della norma, è stato necessario un intervento legislativo, come è appunto quello operato con il d.l. 13.05.2011, n. 70 convertito in 12.07.2011, n. 106 che ha introdotto la specificazione.
Ora, comminando l’esclusione per l’assenza di tali dichiarazioni, tale norma non può essere estesa ai soggetti che in essa non vi sono ricompresi senza violare il principio di tassatività delle cause di esclusione, principio che, peraltro, ha trovato una sua esplicita previsione normativa con l’introduzione, all’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, del comma 1-bis (TAR Lazio, Roma, sez. III, 27.06.2012, n. 5860; TAR Campania, Napoli, sez. II, 17.02.2012, n. 847)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.09.2012 n. 1472 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIIn tema di affidamento di un appalto di servizio, gli elementi rivelatori del possesso della capacità tecnica contemplati dall’art. 42, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, non assumono carattere tassativo, non essendo impedito alla P.A. di individuare altri parametri di riferimento, purché ciò avvenga entro i limiti della logicità e della proporzionalità e sempre che questi non rappresentino un evidente limitazione alla partecipazione alla gara.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, in tema di affidamento di un appalto di servizio, gli elementi rivelatori del possesso della capacità tecnica contemplati dall’art. 42, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, non assumono carattere tassativo, non essendo impedito alla P.A. di individuare altri parametri di riferimento, purché ciò avvenga entro i limiti della logicità e della proporzionalità e sempre che questi non rappresentino un evidente limitazione alla partecipazione alla gara (TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 18.03.2011, n. 504; TAR Lazio, Roma, sez. II, 07.10.2010, n. 32717) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.09.2012 n. 1472 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTAZIONELa regola ex art. 90, comma 8, dlgs 163/2006 è espressione del principio generale di trasparenza ed imparzialità, la cui applicazione è necessaria per garantire parità di trattamento, che ha per suo indefettibile presupposto il fatto che i concorrenti a una procedura di evidenza pubblica debbano rivestire la medesima posizione.
Il legislatore, vietando a coloro che direttamente o indirettamente (agli affidatari degli incarichi di progettazione e ai loro dipendenti e collaboratori) abbiano partecipato alla progettazione di concorrere nelle gare per l’affidamento dell’esecuzione dei lavori progettati, ha voluto assicurare la massima autonomia e l’assoluta separazione tra attività di progettazione dei lavori e le attività esecutive degli stessi e, quindi, evitare che il redattore del progetto possa essere in modo diretto o indiretto anche l’esecutore dei lavori.
In tal modo, non si tratta, quindi, di ricercare ipotesi tipiche, normativamente individuate dal legislatore, al fine di verificare se gli elementi consentano di ricondurre la posizione a tali ipotesi, ma di valutare se vi sia stata una differente posizione di partenza nella partecipazione alla procedura per l’affidamento dell’incarico di progettazione in esame, che abbia dato luogo a un possibile indebito vantaggio. La regola generale della incompatibilità garantisce la genuinità della gara, e il suo rispetto prescinde dal fatto che realmente si sia dato un vantaggio per un concorrente a motivo di una qualche sua contiguità con l’Amministrazione appaltante. In tal senso, quel che rileva è la situazione dei partecipanti alla gara, il cui esame deve evidenziare, in modo oggettivo, una disomogeneità di partenza per la particolare posizione in cui qualche concorrente viene a trovarsi.
Ovviamente, tale ricerca deve essere condotta con attenzione e rigore, dovendosi essa concludere negativamente nel caso in cui difettino indizi seri, precisi e concordanti sulla circostanza che il partecipante alla gara, o il soggetto a questo collegato, abbia rivestito un ruolo determinante nell’indirizzo delle scelte dell’Amministrazione o ne abbia ricevuto un tale flusso di informazioni riservate da falsare la concorrenza.
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Anche se la norma dell’art. 90, comma 8, si riferisce al rapporto tra appalti di lavori e preventiva progettazione, non si può non ritenere applicabile il principio generale del divieto di partecipazione di chi abbia una posizione di vantaggio relativamente agli appalti di servizi.

Il Collegio ritiene opportuno, preliminarmente precisare quanto segue.
- l’art. 90, comma 8, del Codice degli appalti, prevede: “Gli affidatari di incarichi di progettazione non possono partecipare agli appalti o alle concessioni di lavori pubblici, nonché agli eventuali subappalti o cottimi, per i quali abbiano svolto la suddetta attività di progettazione; ai medesimi appalti, concessioni di lavori pubblici, subappalti e cottimi non può partecipare un soggetto controllato, controllante o collegato all’affidatario di incarichi di progettazione. Le situazioni di controllo e di collegamento si determinano con riferimento a quanto previsto dall’articolo 2359 del codice civile. I divieti di cui al presente comma sono estesi ai dipendenti dell’affidatario dell’incarico di progettazione, ai suoi collaboratori nello svolgimento dell’incarico e ai loro dipendenti, nonché agli affidatari di attività di supporto alla progettazione e ai loro dipendenti”;
- la regola è espressione del principio generale di trasparenza ed imparzialità, la cui applicazione è necessaria per garantire parità di trattamento, che ha per suo indefettibile presupposto il fatto che i concorrenti a una procedura di evidenza pubblica debbano rivestire la medesima posizione;
- il legislatore, vietando a coloro che direttamente o indirettamente (agli affidatari degli incarichi di progettazione e ai loro dipendenti e collaboratori) abbiano partecipato alla progettazione di concorrere nelle gare per l’affidamento dell’esecuzione dei lavori progettati, ha voluto assicurare la massima autonomia e l’assoluta separazione tra attività di progettazione dei lavori e le attività esecutive degli stessi e, quindi, evitare che il redattore del progetto possa essere in modo diretto o indiretto anche l’esecutore dei lavori (Cons. Stato, sez. VI, 07.11.2003 n. 7130);
- in tal modo, non si tratta, quindi, di ricercare ipotesi tipiche, normativamente individuate dal legislatore, al fine di verificare se gli elementi consentano di ricondurre la posizione a tali ipotesi, ma di valutare se vi sia stata una differente posizione di partenza nella partecipazione alla procedura per l’affidamento dell’incarico di progettazione in esame, che abbia dato luogo a un possibile indebito vantaggio. La regola generale della incompatibilità garantisce la genuinità della gara, e il suo rispetto prescinde dal fatto che realmente si sia dato un vantaggio per un concorrente a motivo di una qualche sua contiguità con l’Amministrazione appaltante. In tal senso, quel che rileva è la situazione dei partecipanti alla gara, il cui esame deve evidenziare, in modo oggettivo, una disomogeneità di partenza per la particolare posizione in cui qualche concorrente viene a trovarsi;
- ovviamente, tale ricerca deve essere condotta con attenzione e rigore, dovendosi essa concludere negativamente nel caso in cui difettino indizi seri, precisi e concordanti sulla circostanza che il partecipante alla gara, o il soggetto a questo collegato, abbia rivestito un ruolo determinante nell’indirizzo delle scelte dell’Amministrazione o ne abbia ricevuto un tale flusso di informazioni riservate da falsare la concorrenza (Cons. Stato, sez. V, 15.01.2008 n. 36);
- né, d’altro canto il principio di massima partecipazione alle gare può essere assolutizzato come valore in sé, in quanto, se è senza dubbio auspicabile la più ampia partecipazione dei concorrenti alle gare (in quanto ciò -garantendo una scelta più ampia- soddisfa il principio di buon andamento), è altrettanto vero che il detto principio deve ricevere una lettura “relativizzata”, nel senso che è auspicabile la più ampia partecipazione nel rispetto del prevalente principio della tutela della concorrenza, realizzato attraverso la tutela della “par condicio” dei concorrenti;
- alla luce di quanto esposto, anche se la norma dell’art. 90, comma 8, si riferisce al rapporto tra appalti di lavori e preventiva progettazione, non si può non ritenere applicabile il principio generale del divieto di partecipazione di chi abbia una posizione di vantaggio relativamente agli appalti di servizi, oggetto della presente controversia (Cons. di St., sez. IV, 23.04.2012, n. 2402; Idem, 03.05.2011, n. 2650; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 15.06.2012, n. 714; Cons. di St., sez. V, 04.03.2008 n. 889)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.09.2012 n. 1472 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOLa professionalità del dipendente in prova va valutata non solo prendendo in esame la qualità e la quantità del lavoro svolto, ma anche l’affidabilità dimostrata dal punto di vista caratteriale e nei rapporti sia con il restante personale che con i terzi.
In altri termini, il periodo di prova non è diretto esclusivamente ad accertare le capacità manuali dell’aspirante dipendente, ma anche le sue qualità attitudinali e comportamentali.
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In sede di giudizio di superamento del periodo o meno del periodo di prova, l’Amministrazione gode di ampia discrezionalità, la quale può esprimersi nella valutazione complessiva dell’attività del dipendente ai fini della prosecuzione del rapporto d’impiego, senza che sia necessaria una ampia e specifica motivazione, anche in caso di giudizio negativo.

Ed invero, sul piano generale, va osservato come la professionalità del dipendente in prova vada valutata non solo prendendo in esame la qualità e la quantità del lavoro svolto, ma anche l’affidabilità dimostrata dal punto di vista caratteriale e nei rapporti sia con il restante personale che con i terzi.
In altri termini, il periodo di prova non è diretto esclusivamente ad accertare le capacità manuali dell’aspirante dipendente, ma anche le sue qualità attitudinali e comportamentali.
Così, come esattamente precisato dal primo giudice, il provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro per l’esito negativo del periodo di prova, “si considera sufficientemente motivato qualora sia emesso in base ad un giudizio riassuntivo della qualità del servizio prestato,della persona e dell’attitudine del dipendente, in relazione alla natura del servizio senza alcuna menzione di fatti specifici.”
In questo senso, del resto, si è espressa più volte la giurisprudenza di questo Consiglio precisando che “in sede di giudizio di superamento del periodo o meno del periodo di prova, l’Amministrazione gode di ampia discrezionalità, la quale può esprimersi nella valutazione complessiva dell’attività del dipendente ai fini della prosecuzione del rapporto d’impiego, senza che sia necessaria una ampia e specifica motivazione, anche in caso di giudizio negativo” (Sez. VI, 17.08.1999, n. 1064 ; 07.03.1984, n. 128).
Tanto premesso in linea di principio, si appalesa quindi inconducente dedurre che alcuni fatti, ostativi all’assunzione, non si sarebbero verificati.
Indipendentemente dalla veridicità o meno dell’assunto, infatti, quel che rileva ed assume carattere dirimente, come correttamente osservato dal Tar, è la circostanza per cui “… se si ha riguardo al fatto che nella fattispecie l’Amministrazione, nonostante l’utilizzo dell’intero periodo di prova e del periodo in cui il dipendente ha prestato servizio a seguito del provvedimento cautelare…non è riuscita a formulare un giudizio positivo in ordine alle capacità lavorativo professionali del dipendente, deve ritenersi pienamente legittimo che la stessa Amministrazione nel motivare la risoluzione del rapporto, esprima le proprie ragioni in forme anche non compiutamente descrittive dei singoli episodi ovvero delle singole occasioni nelle quali il dipendente non ha dato buona prova della sua concreta ed effettiva idoneità al servizio“ (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.09.2012 n. 4723 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOSe in linea generale, nei concorsi a posti di pubblico impiego, il termine per la impugnazione degli atti di concorso decorre dalla data di conoscenza del relativo esito, che si fa coincidere con il provvedimento di approvazione della graduatoria, detta regola subisce un adattamento in tema di impugnativa dei giudizi negativi delle prove orali o pratiche allorquando il bando ovvero le presupposte fonti normative di rango primario (art. 6, commi 4 e 5 del T.U. degli impiegati civili dello Stato; art. 6 del d.P.R. n. 487/1994) prevedano una forma di pubblicità obbligatoria, che, oltre a garantire la par condicio fra i candidati e la trasparenza dell’azione amministrativa, incida sulla decorrenza del termine perentorio per impugnare, davanti al giudice amministrativo, il giudizio negativo formulato dalla commissione esaminatrice.
In tali ipotesi, il giudizio (negativo) costituisce l’atto conclusivo e lesivo per l’interessato, il quale ha l’onere di impugnarlo con la conseguenza che il termine decorre dalla data della seduta d’esame con affissione dei risultati.

Il collegio rileva che, secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, se in linea generale, nei concorsi a posti di pubblico impiego, il termine per la impugnazione degli atti di concorso decorre dalla data di conoscenza del relativo esito, che si fa coincidere con il provvedimento di approvazione della graduatoria, detta regola subisce un adattamento in tema di impugnativa dei giudizi negativi delle prove orali o pratiche allorquando il bando ovvero le presupposte fonti normative di rango primario (art. 6, commi 4 e 5 del T.U. degli impiegati civili dello Stato; art. 6 del d.P.R. n. 487/1994) prevedano una forma di pubblicità obbligatoria, che, oltre a garantire la par condicio fra i candidati e la trasparenza dell’azione amministrativa, incida sulla decorrenza del termine perentorio per impugnare, davanti al giudice amministrativo, il giudizio negativo formulato dalla commissione esaminatrice (TAR Liguria, Genova, Sez. II, 17.10.2008 n. 1811).
In tali ipotesi, il giudizio (negativo) costituisce l’atto conclusivo e lesivo per l’interessato, il quale ha l’onere di impugnarlo con la conseguenza che il termine decorre dalla data della seduta d’esame con affissione dei risultati (Consiglio di Stato, Sez. V, 04.03.2008 n. 862; Consiglio di Stato, Sez. V, 11.10.2005 n. 5507; Consiglio di Stato, Sez. VI, 08.05.2001 n. 2572) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 06.09.2012 n. 1470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 36 del DPR 380/2001 prevede, al comma 3, che sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.
Il decorso del termine previsto dalla norma equivale a provvedimento tacito di rifiuto che dev’essere impugnato nei termini decorrenti dalla formazione del silenzio.
Poiché si tratta di un’ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, si viene infatti a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso.
In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato soltanto alla proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni.

L’art. 36 del DPR 380/2001 prevede, al comma 3, che sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.
La giurisprudenza ha chiarito che il decorso del termine previsto dalla norma equivale a provvedimento tacito di rifiuto che dev’essere impugnato nei termini decorrenti dalla formazione del silenzio (TAR Campania, Napoli, sez. II, 06.02.2012, n. 580; Tar Campania, Napoli, sez. II, 04.02.2005 n. 816; id., 13.07.2004 n. 10128).
Poiché si tratta di un’ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, si viene infatti a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso.
In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato soltanto alla proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 06.09.2012 n. 381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’onere della prova della data di ultimazione dell’abuso incombe sul soggetto interessato al conseguimento del condono, perché mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può fornire qualche documentazione da cui si desuma che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali ecc..
Per pacifica giurisprudenza, l’onere della prova della data di ultimazione dell’abuso incombe sul soggetto interessato al conseguimento del condono, <<perché mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può fornire qualche documentazione da cui si desuma che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali ecc.>> (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 02.02.2011, n. 752; Consiglio Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8298; Consiglio Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 45; TAR Lombardia, Milano, II, 24.02.2012 n. 617) (TAR Lombardia-Milano, Se. II, sentenza 05.09.2012 n. 2238 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio non condivide l’impostazione minoritaria sposata dai fautori della cd. sanatoria giurisprudenziale: tale regola pretoria ha l'effetto di accogliere una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al secondo.
Tuttavia, l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.). Pertanto, non è ipotizzabile un'antinomia tra efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità.

Il Collegio non condivide l’impostazione minoritaria sposata dai fautori della cd. sanatoria giurisprudenziale: tale regola pretoria, come recentemente rilevato dal Consiglio di Stato (Sez. V, 06.07.2012, n. 3961) <<ha l'effetto di accogliere una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al secondo>>.
Tuttavia, sempre secondo il Supremo Consesso, <<l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.). Pertanto, non è ipotizzabile un'antinomia tra efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità>> (TAR Lombardia-Milano, Se. II, sentenza 05.09.2012 n. 2234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: La lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)” sicché “restano fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare).
Ad abundantiam, poi, si può solo accennare alla circostanza che la suindicata attività di valutazione della <<prospettata disarmonia>> rimessa al Consiglio comunale non sembra neppure riconducibile tra le competenze consiliari, ai sensi dell’art. 42, co. II, lett. b), del d.lgs. n. 267/2000.
Ciò, poiché, come già statuito dal Consiglio di Stato (cfr. la sentenza della IV sez. del 28.05.2009 n. 3333) la lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)” sicché “restano fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare)” (TAR Lombardia-Milano, Se. II, sentenza 05.09.2012 n. 2233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa giunta ed il consiglio comunale non possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con il piano regolatore.
Infatti, se un'area è stata da questo destinata all'edificazione, nel corso del procedimento di approvazione del piano attuativo non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada considerata in concreto edificabile 'per ragioni ambientali e paesaggistiche, e cioè sulla base di valutazioni diametralmente opposte a quelle già poste a base dello strumento primario che ha previsto l'edificabilità sul piano urbanistico. Ove emergano le relative ragioni, può essere attivato il procedimento per la modifica del piano regolatore, ma -sul piano urbanistico- non può essere respinto il progetto di lottizzazione conforme allo strumento primario.
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Nel rispetto delle diverse finalità della pianificazione urbanistica, la valutazione della congruità del piano di lottizzazione deve quindi porsi in collegamento attuativo e nel rispetto funzionale delle previsioni dello strumento urbanistico di valenza generale.
Tali ragioni hanno quindi spinto la Sezione ad affermare che il compito spettante alla giunta ed al consiglio comunale siano limitati all'accertamento della conformità del progetto alle previsioni dello strumento urbanistico primario, imponendo peraltro, giusta il canone ordinario di correttezza dell'azione amministrativa, che le relative determinazioni in merito all'eventuale non conformità del progetto al piano regolatore si fondino su una puntuale motivazione, tale da permettere l'emersione di interessi pubblici effettivamente sussistenti e la conseguente tutela dell'interessato in sede di giustizia amministrativa.

... per l'annullamento
● quanto al ricorso introduttivo:
- della nota prot. n. 22949/10 p.g. del 4.5.2010, pervenuta alla ricorrente con posta ordinaria in data 06.05.2010, con la quale il Direttore dell'area pianificazione e valorizzazione del territorio del Comune di Como ha trasmesso e fatto proprio "un deciso e definitivo parere negativo", espresso dalla Commissione comunale del paesaggio nella seduta dell’08.04.2010 - verbale n. 7 - prot. n. 12001/08, concernente il Piano di Recupero;
- nonché, per il risarcimento del danno in forma specifica o, in subordine, per equivalente, con riserva di quantificazione in corso di causa;
● quanto ai motivi aggiunti depositati il 26.01.2012:
- della deliberazione della Giunta comunale di Como n. 252 del 30.09.2011 con cui, pur richiamandosi la proposta di deliberazione ad essa allegata e corredata dai prescritti pareri (tecnico e di legittimità), è stato disposto di rimettere la predetta proposta al Consiglio comunale, affinché esso si esprima <<sulla prospettata disarmonia tra la relazione di accompagnamento al p.r.g. e le n.t.a. del medesimo, avuto riguardo alla disciplina in generale delle zone A>>;
- nonché, per la condanna del Comune di Como al risarcimento del danno in forma specifica e, in ogni caso, al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale patito e patiendo.
...
Orbene, tanto premesso, ritiene il Collegio che i suesposti motivi aggiunti siano fondati, poiché la Giunta nel decidere di non adottare la proposta deliberazione, come sopra specificata, ha ecceduto i limiti del potere ad essa conferito.
In tal senso, va chiarito come la <<prospettata disarmonia>> non sia di per sé idonea a rivelare alcuna ragione di attuale contrasto del P.A. con la pianificazione urbanistica comunale vigente, che solo avrebbe potuto giustificare il parere sfavorevole dei competenti organi comunali e, da lì, la non adozione del piano stesso, in tempo utile ai fini dell’applicazione del regime urbanistico attuale, ai sensi dell’art. 26 cit. (cfr. a proposito dei limiti decisionali che regolamentano l’approvazione dei piani attuativi, nella specie sub specie di piano di lottizzazione, ex plurimis: Consiglio di Stato, sez. IV, 06.10.2011, n. 5485, secondo cui: <<la giunta ed il consiglio comunale non possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con il piano regolatore. Infatti, se un'area è stata da questo destinata all'edificazione, nel corso del procedimento di approvazione del piano attuativo non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada considerata in concreto edificabile 'per ragioni ambientali e paesaggistiche, e cioè sulla base di valutazioni diametralmente opposte a quelle già poste a base dello strumento primario che ha previsto l'edificabilità sul piano urbanistico. Ove emergano le relative ragioni, può essere attivato il procedimento per la modifica del piano regolatore, ma -sul piano urbanistico- non può essere respinto il progetto di lottizzazione conforme allo strumento primario>>; in terminis, cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 20.07.2011, n. 4395 e, ancor prima, id., 16.09.2008 n. 4368).
In tal senso, reputa il Collegio che una tale attività valutativa non potrebbe comunque approdare ad un’attività manipolativa in chiave additiva delle ridette NTA, al fine di far esprimere ad esse una limitazione degli interventi ammissibili in zona A3, con precipuo riguardo a quelli di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, che, allo stato, come chiaramente emerge dalla nota del 22.09.2011 e dal successivo parere tecnico del 23.09.2011 del Direttore del competente ufficio comunale – esse non esprimono (cfr., ancora, Consiglio di Stato, sez. IV, 06.10.2011, n. 5485, per cui: <<Nel rispetto delle diverse finalità della pianificazione urbanistica, la valutazione della congruità del piano di lottizzazione deve quindi porsi in collegamento attuativo e nel rispetto funzionale delle previsioni dello strumento urbanistico di valenza generale. Tali ragioni hanno quindi spinto la Sezione ad affermare che il compito spettante alla giunta ed al consiglio comunale siano limitati all'accertamento della conformità del progetto alle previsioni dello strumento urbanistico primario, imponendo peraltro, giusta il canone ordinario di correttezza dell'azione amministrativa, che le relative determinazioni in merito all'eventuale non conformità del progetto al piano regolatore si fondino su una puntuale motivazione, tale da permettere l'emersione di interessi pubblici effettivamente sussistenti e la conseguente tutela dell'interessato in sede di giustizia amministrativa>> (analogamente, da ultimo, TAR, Bari Puglia, sez. III, 04.05.2012, n. 923).
Per tale ragione il Collegio aveva ritenuto, in sede cautelare, di dovere ordinare all’amministrazione un riesame su tale aspetto, non ritenendo la <<prospettata disarmonia>>, un argomento idoneo a giustificare l’arresto dell’iter di adozione/approvazione del succitato piano attuativo.
Ebbene, anche ad un più approfondito esame della questione, il Collegio non ritiene di poter mutare il proprio avviso, non essendo emerse ragioni giuridiche idonee ad avvalorare la tesi secondo cui, la rimessione alla sede consiliare della valutazione della <<prospettata disarmonia>> potesse essere considerato alla stregua di un elemento inerente la fase istruttoria dell’iter procedimentale in esame.
Si tratta, invece, di una valutazione che, stando a quanto sin qui emerso, non avrebbe potuto mutare il parere di legittimità favorevole, apposto sulla proposta di deliberazione de qua.
Né, come già detto, tale intervento poteva essere altrimenti precluso, atteso che, come chiaramente emerge dall’attestazione del Ministero dei Beni culturali (all. sub n. 4 di parte ricorrente) l’immobile sito in Via Petrarca n. 1/3 –ex Villa Feloy non è sottoposto a tutela come bene culturale poiché, come si legge nella relativa scheda (all. sub n.5), <<presenta caratteri piuttosto diffusi nel contesto di appartenenza, di fatto insufficienti ad affermarne l’interesse culturale>>.
Ad abundantiam, poi, si può solo accennare alla circostanza che la suindicata attività di valutazione della <<prospettata disarmonia>> rimessa al Consiglio comunale non sembra neppure riconducibile tra le competenze consiliari, ai sensi dell’art. 42, co. II, lett. b), del d.lgs. n. 267/2000.
Ciò, poiché, come già statuito dal Consiglio di Stato (cfr. la sentenza della IV sez. del 28.05.2009 n. 3333) la lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce “non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti e deroghe)” sicché “restano fuori dalla previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare)”.
Per le suesposte considerazioni i motivi aggiunti in epigrafe specificati devono essere accolti, con conseguente annullamento della deliberazione n. 252 del 30.11.2011 con essi impugnata (TAR Lombardia-Milano, Se. II, sentenza 05.09.2012 n. 2233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli interventi di manutenzione straordinaria non possano tollerare modifiche dei parametri urbanistici, essendo essi caratterizzati da un duplice limite:
- uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell'edificio;
- l'altro di ordine strutturale, consistente nel divieto di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione.
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La ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e, in caso di demolizione (anche parziale), la successiva ricostruzione dell'edificio deve riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma e volumi; diversamente opinando, infatti, sarebbe sufficiente la preesistenza di un edificio per definire ristrutturazione qualsiasi nuova realizzazione eseguita in luogo o sul luogo di quella preesistente.
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Il legame con l'edificio preesistente, quanto a sagoma -intendendosi con tale concetto "la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale", ovvero il contorno che viene ad assumere l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti- e a volumetria, costituisce, quindi, per unanime giurisprudenza, il criterio distintivo degli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente dalle nuove costruzioni.
Le identità di volume e sagoma del nuovo edificio rispetto a quello originario giustificano, inoltre, il differente regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, l'intervento non è, difatti, subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito.

Per costante giurisprudenza, gli interventi di manutenzione straordinaria, ex art. 31, lett. b), cit., non possano tollerare modifiche dei parametri urbanistici, essendo essi caratterizzati da un duplice limite:
- uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell'edificio;
- l'altro di ordine strutturale, consistente nel divieto di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 644 del 23-04-1991).
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Secondo unanime giurisprudenza, la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e, in caso di demolizione (anche parziale), la successiva ricostruzione dell'edificio deve riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma e volumi; diversamente opinando, infatti, sarebbe sufficiente la preesistenza di un edificio per definire ristrutturazione qualsiasi nuova realizzazione eseguita in luogo o sul luogo di quella preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2008, n. 1177; 08.10.2007, n. 5214; 16.03.2007, n. 1276; 22.05.2006, n. 3006; Cass., sez. III, 26.10.2007; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 25.05.2012, n. 1441, secondo cui: <<Il legame con l'edificio preesistente, quanto a sagoma -intendendosi con tale concetto "la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale", ovvero il contorno che viene ad assumere l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti (cfr. Cass. sez. III, 23.04.2004, n. 19034)- e a volumetria, costituisce, quindi, per unanime giurisprudenza, il criterio distintivo degli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente dalle nuove costruzioni.
Le identità di volume e sagoma del nuovo edificio rispetto a quello originario giustificano, inoltre, il differente regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, l'intervento non è, difatti, subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.11.1996, n. 1359; Cons. Stato, sez. V, 28.03.1998, n. 369; Cass. civ., sez. II, 12.06.2001, n. 7909; Tar Calabria, Reggio Calabria, 24.01.2001, n. 36; TAR Puglia, Bari, sez. III, 22.07.2004, n. 3210)
>>
(TAR Lombardia-Milano, Se. II, sentenza 05.09.2012 n. 2232 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl Collegio non può che condividere le doglianze dell’esponente, specialmente laddove questi stigmatizza l’eccesso di potere insito nell’operato dell’amministrazione che, dopo avere reiterato per decenni, sul terreno di proprietà dell’istante, un vincolo preordinato all’esproprio, a seguito della pronuncia in s.g. che ha annullato lo strumento urbanistico per difetto di motivazione (cfr. riferimenti nella parte in fatto), ha mutato la natura del vincolo, facendo asseritamente ricorso all’esercizio del potere confermativo, così eludendo l’obbligo di specifica motivazione su di essa incombente.
In verità, il carattere espropriativo o meno di un vincolo di piano si desume non già, astrattamente, dalla qualificazione che il P.R.G. (o il P.G.T.) dà della destinazione impressa ai suoli, ma dalla concreta disciplina urbanistica per essi stabilita, quale ricavabile dalle prescrizioni delle N.T.A. della pianificazione in atto.
Più specificamente, si è avuto modo di affermare che il carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi di natura e struttura dei vincoli stessi, ricorrendo tale carattere ove essi siano inquadrabili nella zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui i beni ricadono ed in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, per lo più spaziale, con un’opera pubblica.
Di contro, ove il vincolo incide su beni determinati, in funzione non già, di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un’opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione.

Ebbene, stando alla surriferita disciplina, il Collegio non può che condividere le doglianze dell’esponente, specialmente laddove questi stigmatizza l’eccesso di potere insito nell’operato dell’amministrazione che, dopo avere reiterato per decenni, sul terreno di proprietà dell’istante, un vincolo preordinato all’esproprio, a seguito della pronuncia in s.g. che ha annullato lo strumento urbanistico per difetto di motivazione (cfr. riferimenti nella parte in fatto), ha mutato la natura del vincolo, facendo asseritamente ricorso all’esercizio del potere confermativo, così eludendo l’obbligo di specifica motivazione su di essa incombente.
In verità, come la giurisprudenza ha chiarito più volte, il carattere espropriativo o meno di un vincolo di piano si desume non già, astrattamente, dalla qualificazione che il P.R.G. (o il P.G.T.) dà della destinazione impressa ai suoli, ma dalla concreta disciplina urbanistica per essi stabilita, quale ricavabile dalle prescrizioni delle N.T.A. della pianificazione in atto (cfr., da ultimo, Cons. Stato n. 4321 del 30.07.2012).
Più specificamente, si è avuto modo di affermare che il carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi di natura e struttura dei vincoli stessi, ricorrendo tale carattere ove essi siano inquadrabili nella zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui i beni ricadono ed in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, per lo più spaziale, con un’opera pubblica.
Di contro, ove il vincolo incide su beni determinati, in funzione non già, di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un’opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2011, n. 3797; id. 23.07.2009, n. 4662; id., 23.09.2008, n. 4606).
Ebbene, nel caso di specie, stando alla disciplina di piano poc’anzi tratteggiata, non emergono affatto nella zonizzazione che ha riguardato l’area dell’esponente le condizioni che consentono di ravvisare la presenza di un vincolo conformativo, specie tenuto conto che l’area predetta –come riconosciuto nella memoria di parte resistente dell’11.06.2012- <<rappresenta uno degli ultimi polmoni di verde della zona edificata>> mentre <<solo poche aree poste a ridosso del torrente Terrò risultano libere da edificazione>>.
Appare, a tale stregua, contraddittorio affermare che si sia in presenza di un vincolo conformativo, in relazione ad una singola area, inserita in un più ampio contesto avente caratteristiche analoghe, per il quale, tuttavia, non si è proceduto ad apporre analogo vincolo: non si vede, infatti, come si possa affermare che il suddetto vincolo si adegui alle caratteristiche intrinseche dell’area, tenuto conto che le restanti aree poste “a ridosso del torrente” risultano di fatto edificate (così, sempre la memoria dell’amministrazione).
A ben vedere, qui si delinea una tipologia di vincolo che, sulla base della disciplina in concreto ricavabile dalla surriferita normativa di piano, appare più riconducibile a quella dei vincoli preordinati all’espropriazione che a quella dei vincoli conformativi, con tutte le relative conseguenze in termini di difetto di motivazione, come lamentato da parte ricorrente.
Tale vulnus, giova incidentalmente rilevare, non sarebbe comunque superabile attraverso il semplice mutamento di denominazione del vincolo.
In particolare, nella fattispecie concreta qui esaminata sarebbe stato comunque necessario, da parte dell’amministrazione, fornire una specifica motivazione delle ragioni che l’hanno indotta a siffatto ripensamento, tenuto conto della precedente destinazione urbanistica dell’area e del precedente giudicato di annullamento su di essa ottenuto da parte ricorrente.
Altrimenti residua, come poi accaduto, un’evidente contraddittorietà dell’operato comunale, almeno sotto un duplice profilo:
- da un lato, per avere variato la destinazione urbanistica in precedenza impressa all’area in questione, passando da un azzonamento “F2 standard comunali per attrezzature, servizi e impianti di interesse generale... per la realizzazione di strutture per Residenze Sanitarie Assistenziali” (cfr. certificato di destinazione urbanistica datato 30.01.2009 agli atti, all. n. 3 parte ricorrente), ad uno (“IA -aree di interesse paesaggistico e ecologico– ambientale”), quale quello qui contestato, che non ammette sull’area alcuna edificazione (cfr. art. 18, co. 2 cit. NTA del Piano dei Servizi);
- dall’altro, poiché al cospetto di un vincolo conformativo, quale sarebbe secondo la difesa resistente quello qui apposto, non si giustifica il ricorso da parte dell’amministrazione al meccanismo della perequazione urbanistica (cfr. art. 14 delle cit. NTA), come in concreto qui utilizzato.
Sul punto, va chiarito, infatti, come –in conformità a quanto già in precedenza rilevato da questo Tribunale– non possano ricevere un indice edificatorio, neppure virtuale, aree che non siano assoggettabili a trasformazione urbanistica per natura o per le loro intrinseche caratteristiche (cfr. TAR Lombardia, Milano, IV, 16.04.2012 n. 1123) (TAR Lombardia-Milano, Se. II, sentenza 05.09.2012 n. 2230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte pianificatorie effettuate dalla p.a. costituiscano apprezzamento di merito -o, comunque, espressione di ampia potestà discrezionale- sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità.
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L’art. 338, r.d. n. 1265/1934 prevede, al comma 1, che “i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”.
La prima parte della disposizione impone la collocazione dei cimiteri ad una distanza di 200 metri dal centro abitato; tale fascia di rispetto può essere ridotta, non oltre il limite minimo di 50 metri, allorché ricorrano le condizioni previste al comma 4.
La seconda parte della disposizione pone, invece, un vincolo di inedificabilità entro la fascia di 200 metri dal perimetro del cimitero.
Quest’ultima disposizione, che disciplina l’edificazione nella fascia di rispetto, non si rivolge al pianificatore allorché è chiamato a decidere la collocazione di un nuovo cimitero.
La scelta in ordine alla collocazione di un nuovo cimitero è, invero, soggetta unicamente alle previsioni di cui alla prima parte dell’art. 338, c.1 e c. 4, e cioè al rispetto della distanza dal centro abitato prevista dalla legge, oltre che ai limiti cui soggiace ogni potere discrezionale, ed entro i quali è sindacabile dal giudice amministrativo, della manifesta illogicità, irrazionalità o errore sui fatti.

La giurisprudenza è costante nel ritenere che le scelte pianificatorie effettuate dalla p.a. costituiscano apprezzamento di merito -o, comunque, espressione di ampia potestà discrezionale- sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità (Cons. Stato, Sez. IV, 21.05.2007, n. 2571).
La decisione di collocare il cimitero a nord del centro abitato, in una zona che precedenti strumenti urbanistici qualificavano come avente valenza sovracomunale, non può ritenersi, di per sé, manifestamente illogicità, ben potendo l’amministrazione mutare, nel corso degli anni, le proprie scelte.
Né la collocazione del cimitero a nord del centro abitato si pone in contrasto con le osservazioni formulate dalla Provincia di Milano in sede di valutazione di compatibilità del documento di piano con il piano territoriale di coordinamento provinciale: la Provincia si è difatti limitata a dettare delle prescrizioni con riferimento ad alcuni ambiti di trasformazione, tra cui l’ambito IC2 (Corridoio ambientale ovest – nuovo cimitero), ma non ha affatto affermato l’incompatibilità della previsione del cimitero con le disposizioni del suo piano.
Né dalle osservazioni espresse dalla Provincia con riferimento all’ambito in questione –che, peraltro, come si osserverà al punto 10, sono state recepite dal Comune- possono poi dedursi elementi di manifesta illogicità della decisione del Comune.
Non può, poi, ritenersi illogica la previsione di una fascia di rispetto di 50 metri, anziché di 200 metri: la fascia è stata ridotta solo lungo due lati, quello sud e quello est; in ogni caso la riduzione della fascia, entro il limite dei 50 metri, è una facoltà che è espressamente prevista dall’art. 338, c. 4, r.d. n. 1265/1934.
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L’art. 338, r.d. n. 1265/1934 prevede, al comma 1, che “i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”.
La prima parte della disposizione impone la collocazione dei cimiteri ad una distanza di 200 metri dal centro abitato; tale fascia di rispetto può essere ridotta, non oltre il limite minimo di 50 metri, allorché ricorrano le condizioni previste al comma 4.
La seconda parte della disposizione pone, invece, un vincolo di inedificabilità entro la fascia di 200 metri dal perimetro del cimitero.
A differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, quest’ultima disposizione, che disciplina l’edificazione nella fascia di rispetto, non si rivolge al pianificatore allorché è chiamato a decidere la collocazione di un nuovo cimitero.
La scelta in ordine alla collocazione di un nuovo cimitero è, invero, soggetta unicamente alle previsioni di cui alla prima parte dell’art. 338, c.1 e c. 4, e cioè al rispetto della distanza dal centro abitato prevista dalla legge, oltre che ai limiti cui soggiace ogni potere discrezionale, ed entro i quali è sindacabile dal giudice amministrativo, della manifesta illogicità, irrazionalità o errore sui fatti.
Pertanto, nel caso di specie, anche ove fosse veritiero quanto affermato dal ricorrente circa la presenza, nell’ambito della fascia di rispetto, di “fabbricati sparsi” (parte di un fabbricato, a nord, e alcuni edifici, a sud) non potrebbe, per ciò solo, affermarsi l’illegittimità delle deliberazioni impugnate.
Né è pertinente la giurisprudenza invocata dal ricorrente, trattandosi di pronunce che hanno ad oggetto non la legittimità delle scelte pianificatorie del Comune di collocazione di nuovi impianti cimiteriali ma la differente questione della legittimità di nuove edificazioni all’interno della fascia di rispetto.
Ugualmente, la presenza di parcheggi e di strade non costituisce di per sé motivo di illegittimità degli atti impugnati.
Quanto alla previsione di una nuova viabilità e parcheggi, essa è espressamente ammessa all’interno della fascia di rispetto dall’art. 8, c. 3, del regolamento regionale in materia di attività funebri e cimiteriali
(TAR Lombardia-Milano, Se. II, sentenza 05.09.2012 n. 2223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe osservazioni dei privati ai progetti di strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo alla formazione di detti strumenti e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano, così come è avvenuto nel caso in esame.
Le scelte discrezionali dell'amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano, dunque, di apposita motivazione, oltre a quella che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti nell'impostazione del piano stesso, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
Le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono state ravvisate dalla giurisprudenza:
a) nel superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato – convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di concessione edilizia;
c) nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

Per giurisprudenza costante, le osservazioni dei privati ai progetti di strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo alla formazione di detti strumenti e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008, nr. 3358), così come è avvenuto nel caso in esame.
Le scelte discrezionali dell'amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano, dunque, di apposita motivazione, oltre a quella che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti nell'impostazione del piano stesso (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 24/1999; Sez. IV, n. 2639/2000; n. 245/2000; n. 1943/1999; n. 887/1995), salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni (Cons. Stato, Sez. VI., n. 173/2002; Sez. IV, n. 6917/2002; Sez. IV, n. 2899/2002).
Le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono state ravvisate dalla giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 24/1999 cit.; Sez. IV, 2369/2000):
a) nel superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato – convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di concessione edilizia (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 24/1999);
c) nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 594/1999)
(TAR Lombardia-Milano, Se. II, sentenza 05.09.2012 n. 2223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZILa giurisprudenza è ferma nel ritenere il carattere di norma imperativa proprio della disposizione di cui all’art. 6 legge 24.12.1993, n. 537, come modificato dall’art. 44 della legge n. 724 del 1994 contenente una disciplina speciale in materia di revisione prezzi, che, conseguentemente, si impone nelle pattuizioni di cui è parte l’Amministrazione, modificando ed integrando la volontà negoziale eventualmente contrastante.
La previsione normativa di cui al citato art. 6 della legge n. 537 del 1993 è confluita nel corpo dell’art. 115 dlgs n. 163/2006 secondo cui “1. Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all’articolo 7, comma 4, lettera c), e comma 5.”.
Recentemente, è stato sottolineato che “La disciplina dettata in materia di revisione prezzi negli appalti di servizi o forniture ad esecuzione periodica o continuativa, di cui all’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti), ha carattere imperativo ed un’eventuale clausola contrattuale difforme rispetto alla disciplina normativamente prevista, deve ritenersi nulla.”.
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Scopo primario della disposizione ex art. 6, comma 4, legge 537/1993, come modificato dall’art. 44 legge 724/1994, confermata dall’art. 115 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, è chiaramente quello di tutelare l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni o servizi da parte degli appaltatori delle amministrazioni pubbliche non subiscano col tempo una diminuzione qualitativa a causa degli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione, incidenti sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell’offerta, con conseguente incapacità del fornitore di far fronte compiutamente alle stesse prestazioni.
Il riferimento normativo alla clausola revisionale, avente carattere di norma imperativa cui si applicano gli artt. 1339 e 1419 cod. civ., non attribuisce alle parti ampi margini di libertà negoziale, ma impone di tradurre sul piano contrattuale l’obbligo legale, definendo anche i criteri e gli essenziali momenti procedimentali per il corretto adeguamento del corrispettivo. Tanto premesso, non è conforme alla predetta previsione legislativa la clausola del contratto di appalto di servizi che prevede la cadenza biennale della revisione e pone a carico dell’appaltatore le variazioni dei prezzi per il secondo anno contrattuale e quelle ricadenti entro la pattuita alea contrattuale del 10%.”.
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In tema di obbligazioni di valuta (nella specie: corrispettivo derivante dall’esecuzione di un contratto di appalto) il fenomeno inflattivo non consente un automatico adeguamento dell’ammontare del debito, né costituisce di per sé un danno risarcibile, ma può implicare -in applicazione dell’art. 1224, comma 2, c.c.- solo il riconoscimento in favore del creditore, oltre che degli interessi, del maggior danno che sia derivato dall’impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l’inflazione produce a carico di tutti i possessori di danaro, posto che gli interessi moratori accordati al creditore dall’art. 1224, comma 1, c.c. hanno funzione risarcitoria, rappresentando il ristoro, in misura forfettariamente predeterminata, della mancata disponibilità della somma dovuta, rimanendo comunque esclusa la possibilità del cumulo tra rivalutazione monetaria e interessi compensativi.

La domanda relativa alla revisione prezzi per il contratto rep. 849/2004 è fondata.
Come è noto, la giurisprudenza è ferma nel ritenere il carattere di norma imperativa proprio della disposizione di cui all’art. 6 legge 24.12.1993, n. 537, come modificato dall’art. 44 della legge n. 724 del 1994 contenente una disciplina speciale in materia di revisione prezzi, che, conseguentemente, si impone nelle pattuizioni di cui è parte l’Amministrazione, modificando ed integrando la volontà negoziale eventualmente contrastante (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20.08.2008, n. 3994).
La previsione normativa di cui al citato art. 6 della legge n. 537 del 1993 è confluita nel corpo dell’art. 115 dlgs n. 163/2006 secondo cui “1. Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all’articolo 7, comma 4, lettera c), e comma 5.”.
Recentemente Cons. Stato, Sez. III, 01.02.2012, n. 504 ha sottolineato che “La disciplina dettata in materia di revisione prezzi negli appalti di servizi o forniture ad esecuzione periodica o continuativa, di cui all’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti), ha carattere imperativo ed un’eventuale clausola contrattuale difforme rispetto alla disciplina normativamente prevista, deve ritenersi nulla.”.
Ne consegue che il contratto rep. 849/2004 deve essere, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1339 (in tema di “Inserzione automatica di clausole”) e 1419 (in tema di “Nullità parziale”) del codice civile, depurato dalla previsione della franchigia del 10% di cui al menzionato art. 16.
Sul punto afferma Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2009, n. 6709: “Scopo primario della disposizione ex art. 6, comma 4, legge 537/1993, come modificato dall’art. 44 legge 724/1994, confermata dall’art. 115 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, è chiaramente quello di tutelare l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni o servizi da parte degli appaltatori delle amministrazioni pubbliche non subiscano col tempo una diminuzione qualitativa a causa degli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione, incidenti sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell’offerta, con conseguente incapacità del fornitore di far fronte compiutamente alle stesse prestazioni. Il riferimento normativo alla clausola revisionale, avente carattere di norma imperativa cui si applicano gli artt. 1339 e 1419 cod. civ., non attribuisce alle parti ampi margini di libertà negoziale, ma impone di tradurre sul piano contrattuale l’obbligo legale, definendo anche i criteri e gli essenziali momenti procedimentali per il corretto adeguamento del corrispettivo. Tanto premesso, non è conforme alla predetta previsione legislativa la clausola del contratto di appalto di servizi che prevede la cadenza biennale della revisione e pone a carico dell’appaltatore le variazioni dei prezzi per il secondo anno contrattuale e quelle ricadenti entro la pattuita alea contrattuale del 10%.”.
In quest’ottica, è evidente la non conformità alla previsione legislativa della clausola contrattuale (art. 16 del contratto rep. 849/2004) volta a porre a carico dell’appaltatore le variazioni dei prezzi ricadenti entro la pattuita alea contrattuale del 10%.
Quanto al parametro dell’adeguamento, è noto che l’art. 6 della legge n. 537 del 1993, oltre ad affermare il diritto dell’appaltatore alla revisione, detta anche il criterio e il procedimento in base al quale pervenire alla determinazione oggettiva del “miglior prezzo contrattuale”, demandando all’ISTAT la relativa indagine semestrale sui dati risultanti dal complesso delle aggiudicazioni dei beni e servizi.
Tuttavia, poiché la disciplina legale non è mai stata attuata, nella parte in cui prevede l’elaborazione da parte dell’ISTAT di particolari indici concernenti il miglior prezzo di mercato desunto dal complesso delle aggiudicazioni di appalti di beni e servizi, la lacuna può e deve essere colmata mediante il ricorso all’indice FOI (in tal senso cfr. Cons. Stato, Sez. V, 09.06.2008, n. 2786).
L’utilizzo di quest’ultimo parametro, ovviamente, non esonera la stazione appaltante dal dovere di istruire il procedimento, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto al fine di esprimere la propria determinazione discrezionale, ma segna il limite massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali che devono essere provate dall’impresa, non può spingersi nella determinazione del compenso revisionale.
Data la natura di debito di valuta propria del compenso revisionale, lo stesso, è soggetto alla corresponsione di interessi per ritardato pagamento, ricadendo la fattispecie oggetto del presente giudizio nell’ambito di applicazione del decreto legislativo 09.10.2002, n. 231 di “Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni” (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. I, 02.12.2009, n. 2997).
Il Comune di Lucera deve, pertanto, essere condannato al pagamento del compenso revisionale relativamente al contratto rep. 849/2004 come sopra determinato, dal dì del dovuto sino all’effettivo soddisfo, maggiorato degli interessi di mora ex dlgs n. 231/2002.
Non può, invece, essere accordata la rivalutazione monetaria, in assenza di idonea prova sul punto, non avendo il Consorzio ricorrente dimostrato in modo adeguato che un pagamento tempestivo l’avrebbe posto nelle condizioni di evitare o ridurre gli effetti economici depauperativi tipicamente derivanti dall’inflazione (cfr. Cass. civ., Sez. II, 04.05.2011, n. 9796: “In tema di obbligazioni di valuta (nella specie: corrispettivo derivante dall’esecuzione di un contratto di appalto) il fenomeno inflattivo non consente un automatico adeguamento dell’ammontare del debito, né costituisce di per sé un danno risarcibile, ma può implicare -in applicazione dell’art. 1224, comma 2, c.c.- solo il riconoscimento in favore del creditore, oltre che degli interessi, del maggior danno che sia derivato dall’impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l’inflazione produce a carico di tutti i possessori di danaro, posto che gli interessi moratori accordati al creditore dall’art. 1224, comma 1, c.c. hanno funzione risarcitoria, rappresentando il ristoro, in misura forfettariamente predeterminata, della mancata disponibilità della somma dovuta, rimanendo comunque esclusa la possibilità del cumulo tra rivalutazione monetaria e interessi compensativi.”; cfr., altresì, Cass. civ., Sez. I, 09.03.2012, n. 3738; Cass. civ., Sez. I, 23.09.2011, n. 19437; Cass. civ., Sez. I, 10.06.2011, n. 12736; Cass. civ., Sez. Un., 19.04.2011, n. 8925 in tema di indennità di espropriazione: “Poiché l’indennità di espropriazione costituisce obbligazione di valuta, il riconoscimento della rivalutazione monetaria è subordinato alla prova del maggior danno.”).
Infatti, seppure il Consorzio istante produce, a tal fine, un contratto di appalto per il servizio di trasporto scolastico stipulato con il Comune di Montecatini Terme in data 28.12.2010 e n. 5 contratti di leasing (per l’acquisto di scuolabus da adibire al trasporto scolastico nel suddetto Comune), non ha depositato alcun documento relativo alla propria situazione economica patrimoniale risalente all’epoca dei menzionati contratti, atto a dimostrare che il ricorso al leasing sarebbe stato evitato con il tempestivo pagamento delle somme dovute a titolo di revisione con riferimento alla convenzione rep. 849/2004.
Sarà l’Amministrazione comunale, in applicazione dei criteri indicati, a dover provvedere alla determinazione delle somme dovute al Consorzio ricorrente a titolo di compenso revisionale per il contratto rep. 849/2004 secondo la previsione di cui all’art. 34, comma 4, prima parte cod. proc. amm.; solo in caso di mancato accordo si provvederà alla liquidazione in via giudiziale secondo quanto stabilito dallo stesso art. 34, comma 4, seconda parte cod. proc. amm.
Il Comune di Lucera è, pertanto, condannato al pagamento della somma individuata a titolo di compenso revisionale relativamente al contratto rep. 849/2004, oltre interessi ex dlgs n. 231/2002, secondo le modalità ed i criteri sopra descritti, previo accordo con il ricorrente da conseguirsi nel termine di giorni 90 (novanta) dalla comunicazione e/o notificazione della presente sentenza (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 05.09.2012 n. 1634 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa semplice intitolazione di una strada nell'elenco delle strade comunali (o vicinali) non risulta dirimente al fine di accertare la sua natura pubblica, attesa la natura non costitutiva dell'adempimento (l. n. 1188/1927), per cui detta inclusione non è di per sé sufficiente a comprovare la natura pubblica di una strada.
Né, ancora, per tale finalità è sufficiente l'individuazione della strada nell'inventario del Comune redatto ai sensi dell'(ormai abrogato, ma vigente ratione temporis) art. 72 d.lgs. 25.02.1995, n. 77, poi trasposto nell'art. 230 d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (entrambi efficaci nel territorio regionale siciliano per effetto del rinvio "dinamico" di cui all'art. 1 della l.r. 11.12.1991, n. 48).

Come si legge nella sentenza TAR Sicilia Palermo Sez. III, 06-12-2011, n. 2275, infatti, “La semplice intitolazione di una strada nell'elenco delle strade comunali (o vicinali) non risulta dirimente al fine di accertare la sua natura pubblica, attesa la natura non costitutiva dell'adempimento (l. n. 1188/1927), per cui detta inclusione non è di per sé sufficiente a comprovare la natura pubblica di una strada; né, ancora, per tale finalità è sufficiente l'individuazione -cosa che qui non è peraltro neppure provata– della strada nell'inventario del Comune redatto ai sensi dell'(ormai abrogato, ma vigente ratione temporis) art. 72 d.lgs. 25.02.1995, n. 77, poi trasposto nell'art. 230 d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (entrambi efficaci nel territorio regionale siciliano per effetto del rinvio "dinamico" di cui all'art. 1 della l.r. 11.12.1991, n. 48)” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.09.2012 n. 1494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICirca le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo (artt. 7, 8 e 10 della legge 07.08.1990, n. 241), esse non debbano essere applicate meccanicamente e formalisticamente nel senso che sia necessario annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, ma debbono essere interpretate nel senso che non sono annullabili i procedimenti che hanno comunque raggiunto lo scopo cui la comunicazione di avvio tende, in quanto, in caso contrario, si farebbe luogo ad una inutile ripetizione del procedimento, con aggravio sia per l'Amministrazione sia per l'interessato.
Poiché infatti l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7 della citata legge n. 241 del 1990 è strumentale ad esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere -in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento l'omissione di tale formalità non vizia il procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia comunque intervenuta, da ritenere in tal modo già raggiunto in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione.

Al riguardo il Collegio, condividendo la giurisprudenza amministrativa formatasi sulle norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo (artt. 7, 8 e 10 della legge 07.08.1990, n. 241), ritiene che esse non debbano essere applicate meccanicamente e formalisticamente nel senso che sia necessario annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, ma debbano essere interpretate nel senso che non sono annullabili i procedimenti che hanno comunque raggiunto lo scopo cui la comunicazione di avvio tende, in quanto, in caso contrario, si farebbe luogo ad una inutile ripetizione del procedimento, con aggravio sia per l'Amministrazione sia per l'interessato (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV, n. 2630 del 03.05.2011 e n. 3224 del 21.05.2010).
Poiché infatti l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7 della citata legge n. 241 del 1990 è strumentale ad esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere -in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento l'omissione di tale formalità non vizia il procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia comunque intervenuta, da ritenere in tal modo già raggiunto in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV, n. 2286 del 18.04.2012) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 30.08.2012 n. 1624 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn ordine alla natura giuridica del silenzio maturato sulla richiesta di cui all'art. 36 cit., benché sia stato avanzato in giurisprudenza un indirizzo per lo più minoritario secondo cui la configurabilità nella specie di un diniego tacito con valore significativo contrasterebbe con i principi di trasparenza, chiarezza e leale collaborazione tra amministrazione e privato, questo Collegio ritiene di aderire all'orientamento ormai prevalente in giurisprudenza che attribuisce alla fattispecie di silenzio in esame una valenza provvedimentale con significato legale tipico di diniego.
Nelle pronunce citate il Consiglio di Stato ha affermato che, anche nella formulazione di cui all'art. 36 d.p.r. n. 380/2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, con la conseguenza che si viene a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso. In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può, infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni.
Quanto al sindacato esperibile in sede di impugnazione, va evidenziato che tale provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione, e quindi non può essere impugnato per tale vizio ma per ragioni diverse.
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Il silenzio sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica postula indubbiamente l'esercizio di un'attività amministrativa essenzialmente vincolata, trattandosi di un meccanismo predisposto per sanare opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il prescritto titolo edilizio ma sostanzialmente conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione sia al momento della presentazione della domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa per lo più priva di apprezzabili margini di discrezionalità in quanto riferita ad un assetto di interessi già prefigurato dalle previsioni dello strumento urbanistico generale.

Va premesso, in ordine alla natura giuridica del silenzio maturato sulla richiesta di cui all'art. 36 cit., che, benché sia stato avanzato in giurisprudenza un indirizzo per lo più minoritario secondo cui la configurabilità nella specie di un diniego tacito con valore significativo contrasterebbe con i principi di trasparenza, chiarezza e leale collaborazione tra amministrazione e privato (Tar Lazio Roma sez. III-bis n. 8/2008), questo Collegio ritiene di aderire all'orientamento ormai prevalente in giurisprudenza che attribuisce alla fattispecie di silenzio in esame una valenza provvedimentale con significato legale tipico di diniego (cfr C.d.S. sez. IV 03.03.2006 n. 1037; C.d.S. sez. IV 03.02.2006 n. 401; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 13.12.2011, n. 5797; Tar Piemonte, Torino 08.03.2006 n. 1173; Tar Campania, Salerno, sez. II 13.01.2005 n. 18).
Nelle pronunce citate il Consiglio di Stato ha affermato che, anche nella formulazione di cui all'art. 36 d.p.r. n. 380/2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, con la conseguenza che si viene a determinare una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso. In virtù della previsione legale di implicito diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può, infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni.
Quanto al sindacato esperibile in sede di impugnazione, va evidenziato che tale provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione, e quindi non può essere impugnato per tale vizio ma per ragioni diverse (cfr. Cons. Stato, V, 06.09.1999, n. 1015; C.d.S. sez. V, 11.02.2003 n. 401; C.G.A.R.S. 21.03.2001, n. 142).
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Nella specie, il silenzio sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica postula indubbiamente l'esercizio di un'attività amministrativa essenzialmente vincolata, trattandosi di un meccanismo predisposto per sanare opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il prescritto titolo edilizio ma sostanzialmente conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione sia al momento della presentazione della domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa per lo più priva di apprezzabili margini di discrezionalità in quanto riferita ad un assetto di interessi già prefigurato dalle previsioni dello strumento urbanistico generale (cfr Tar Campania Napoli sez. VI, 05.05.2005 n. 5484)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 30.08.2012 n. 1614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ingiunzione di demolizione di un'opera abusivamente realizzata perde efficacia qualora l'interessato abbia attivato il procedimento per ottenere la concessione edilizia in sanatoria dell'opera stessa. Ciò in quanto il riesame del carattere abusivo dell'opera, al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di diniego (o anche di rigetto implicito, nei casi previsti di silenzio-rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento sanzionatorio originariamente adottato dall'Amministrazione.
Pertanto, in caso di mancato accoglimento, l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio "si sposta" dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato a quello del nuovo provvedimento, esplicito o implicito, di rigetto dell'istanza di sanatoria.

RITENUTO di dovere aderire alla giurisprudenza prevalente, costantemente seguita da questo Tribunale, e dalla quale il Collegio, che la condivide, non ravvisa ragioni per discostarsene nel caso in esame, secondo la quale l'ingiunzione di demolizione di un'opera abusivamente realizzata perde efficacia qualora l'interessato abbia attivato il procedimento per ottenere la concessione edilizia in sanatoria dell'opera stessa. Ciò in quanto il riesame del carattere abusivo dell'opera, al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di diniego (o anche di rigetto implicito, nei casi previsti di silenzio-rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento sanzionatorio originariamente adottato dall'Amministrazione.
Pertanto, in caso di mancato accoglimento, l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio "si sposta" dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato a quello del nuovo provvedimento, esplicito o implicito, di rigetto dell'istanza di sanatoria (ex multis, v. Cons. St., VI, 26.03.2010, n. 1750; TAR Sicilia, Palermo, III, 29.09.2010, n. 11113; 04.09.2008, n. 1102; TAR Lazio, Roma, 27.11.2008, n. 166; TAR Sicilia, 24.07.2006, n. 1750; 16.03.2004, n. 499; id., 10.05.2001, n. 1242; id., 06.07.2001, n. 1929; TAR Lazio, Roma, II, 02.11.2010, n. 33107; 04.05.2007, n. 3873; TAR Liguria, II, 14.12.2000, n. 1310; TAR Toscana, III, 18.12.2001, n. 2024; TAR Puglia, II, 11.01.2002, n. 154; TAR Campania, Napoli, IV, 06.11.2007, n. 10675; VI, 03.05.2007, n. 4659; III, 02.03.2004, n. 2579; IV, 18.03.2005, n. 1835) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 29.08.2012 n. 1814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon può legittimamente formarsi il silenzio-assenso sulla domanda di condono edilizio relativamente ad opere che, come nel caso in esame, siano state realizzate in contrasto con vincoli d’inedificabilità assoluta.
RITENUTO che tutte le doglianze proposte sono destituite di base, poiché:
- quanto al primo motivo, la violazione delle norme sulla competenza, in quanto disposizioni sul procedimento, non comporta l'annullamento dell'atto vincolato allorquando, come nel caso di specie, trattandosi di atto sanzionatorio dovuto, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 e ss.mm.ii: il vizio denunciato, pertanto, non può essere invalidante (Cons. Stato, VI, 06.11.2006, n. 6521; idem, 15.11.2005, n. 6350; TAR Lazio, Latina, 17.01.2007, n. 39; idem, 23.11.2006, n. 1748);
- quanto al secondo motivo, appare dirimente la circostanza che -a parte la questione di fatto, che resta controversa, del compimento delle strutture essenziali entro il 31.12.1976- in ogni caso, nessuna prova o inizio della stessa è stata fornita dal ricorrente a proposito della data di avvio dei lavori prima dell'entrata in vigore della legge regionale 12.06.1976, n. 78 (16.06.1976) come stabilito dall’art. 23, comma 11, secondo periodo, della legge regionale n. 37 del 1985, che così recita: “restano altresì escluse dalla concessione o autorizzazione in sanatoria le costruzioni eseguite in violazione dell' art. 15, lett. a, della legge regionale 12.06.1976, n. 78, ad eccezione di quelle iniziate prima dell' entrata in vigore della medesima legge e le cui strutture essenziali siano state portate a compimento entro il 31.12.1976”: perciò l’immobile abusivo in questione non poteva che restare escluso dalla concessione in sanatoria. Ne consegue che sulla domanda di sanatoria oggetto di lite non si è formato alcun silenzio-assenso ai sensi dell’art. 26 della l.r. n. 37/1985.
Come ha avuto occasione di affermare questo Tribunale in fattispecie analoghe alla presente (fra le tante, sez. III, 30.07.2009 n. 1392; sez. III, 14.12.2005, n. 1593; sez. I, 10.12.2001, n. 180), non può legittimamente formarsi il silenzio-assenso sulla domanda di condono edilizio relativamente ad opere che, come nel caso in esame, siano state realizzate in contrasto con vincoli d’inedificabilità assoluta (cfr., altresì, C.G.A., 28.01.2002, n. 39) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 29.08.2012 n. 1813 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della classificazione di un’opera prefabbricata, occorre stabilire se il manufatto in questione possa ritenersi costruzione o edificazione a fini urbanistici. Al riguardo, si rientra nella fattispecie delle modificazioni durevoli dello stato dei luoghi, che, come chiarito dalla giurisprudenza, sono prodotte anche da strutture meramente appoggiate sul suolo, anche con ruote, qualora dette strutture siano per loro natura destinate ad uso naturalmente prolungato nel tempo che, quindi, non può realmente definirsi precario, cioè temporaneo o occasionale.
Quanto alle strutture prefabbricate, a prescindere dal sistema di ancoraggio al suolo, dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data dal costruttore, esse vanno considerate vere e proprie costruzioni, ove siano destinate a durare nel tempo: l’opera, infatti, deve essere valutata alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza della sua riconducibilità alla nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia, qualora, anche se non necessariamente infissa nel suolo e pur semplicemente aderente a questo, alteri lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, a prescindere dalla tecnica e dai materiali impiegati per la sua realizzazione.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale dal quale questo Tribunale non ravvisa ragioni di discostarsi nel caso di specie, ai fini della classificazione di un’opera prefabbricata, occorre stabilire se il manufatto in questione possa ritenersi costruzione o edificazione a fini urbanistici. Al riguardo, si rientra nella fattispecie delle modificazioni durevoli dello stato dei luoghi, che, come chiarito dalla giurisprudenza, sono prodotte anche da strutture meramente appoggiate sul suolo, anche con ruote, qualora dette strutture siano per loro natura destinate ad uso naturalmente prolungato nel tempo che, quindi, non può realmente definirsi precario, cioè temporaneo o occasionale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.12.1999, n. 2125; Tar Sicilia, Catania, I, 29.11.2007, n. 1921).
Quanto alle strutture prefabbricate, a prescindere dal sistema di ancoraggio al suolo, dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data dal costruttore, esse vanno considerate vere e proprie costruzioni, ove siano destinate a durare nel tempo: l’opera, infatti, deve essere valutata alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza della sua riconducibilità alla nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre la concessione edilizia, qualora, anche se non necessariamente infissa nel suolo e pur semplicemente aderente a questo, alteri lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, a prescindere dalla tecnica e dai materiali impiegati per la sua realizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.04.1990, n. 317; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01.06.2007, n. 479).
Nel caso di specie, del tutto irrilevante, pertanto, ai fini della configurazione del requisito della precarietà, è la circostanza affermata dell’uso effettivo che sarebbe limitato al solo periodo estivo, non venendo meno la destinazione, continuata nel tempo, al fine abitativo. Ne consegue, ai fini urbanistici, che la struttura prefabbricata oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata deve essere qualificata alla stregua di una costruzione necessitante di titolo edilizio.
Del pari infondato, poi, appare il richiamo alla conformità urbanistica dell’insediamento turistico nel quale ricade il manufatto abusivo, poiché tale conformità non presuppone l’alternatività tra il posizionamento nelle apposite piazzole di roulotte (unica fattispecie consentita) ovvero della edificazione di strutture edilizie, seppur asseritamente prefabbricate, necessitante di specifico titolo concessorio, peraltro, non rilasciabile in zona sottoposta a vincolo d’inedificabilità assoluta (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 29.08.2012 n. 1812 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: A termini dell’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, le valutazioni in ordine alla gravità delle condanne riportate dai concorrenti e alla loro incidenza sulla moralità professionale spettano alla stazione appaltante e non al concorrente medesimo, il quale è pertanto tenuto ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo operare a monte alcun filtro e non essendogli consentito di omettere la dichiarazione di alcune di esse sulla base di una selezione compiuta secondo criteri personali, e ciò indipendentemente dall’inserimento del relativo obbligo in una specifica clausola del bando e/o del disciplinare di gara.
L’omissione, o la non veridicità, della dichiarazione in ordine alle fattispecie penali potenzialmente incidenti sulla moralità professionale, ossia quella relativa alle sentenze di condanna passate in giudicato, ai decreti penali di condanna divenuti irrevocabili ed alle sentenze di applicazione della pena su richiesta, rileva infatti non solo in quanto non consente alla stazione appaltante una completa valutazione dell’affidabilità del concorrente, ma anche, e soprattutto, in quanto interrompe il nesso fiduciario che necessariamente deve presiedere ai rapporti tra pubblica amministrazione e soggetto aggiudicatario del servizio.
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Perché operi la causa estintiva del reato, anche di quella prevista dall’art. 460, comma 5, c.p.p., è necessario che essa sia dichiarata dal giudice penale con pronuncia di accertamento costitutivo, con la conseguenza che sino a quando non sia reso il formale provvedimento giudiziario non può farsi riferimento al concetto di “reato estinto”.

- le prefate doglianze non si prestano ad essere condivise per le ragioni di seguito esposte:
     aa) a termini dell’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, le valutazioni in ordine alla gravità delle condanne riportate dai concorrenti e alla loro incidenza sulla moralità professionale spettano alla stazione appaltante e non al concorrente medesimo, il quale è pertanto tenuto ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo operare a monte alcun filtro e non essendogli consentito di omettere la dichiarazione di alcune di esse sulla base di una selezione compiuta secondo criteri personali, e ciò indipendentemente dall’inserimento del relativo obbligo in una specifica clausola del bando e/o del disciplinare di gara (obbligo, peraltro, nel caso specifico espressamente contemplato al punto 13.1 del disciplinare di gara della procedura aperta).
L’omissione, o la non veridicità, della dichiarazione in ordine alle fattispecie penali potenzialmente incidenti sulla moralità professionale, ossia quella relativa alle sentenze di condanna passate in giudicato, ai decreti penali di condanna divenuti irrevocabili ed alle sentenze di applicazione della pena su richiesta, rileva infatti non solo in quanto non consente alla stazione appaltante una completa valutazione dell’affidabilità del concorrente, ma anche, e soprattutto, in quanto interrompe il nesso fiduciario che necessariamente deve presiedere ai rapporti tra pubblica amministrazione e soggetto aggiudicatario del servizio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 03.02.2011 n. 782);
     bb) perché operi la causa estintiva del reato, anche di quella prevista dall’art. 460, comma 5, c.p.p., è necessario che essa sia dichiarata dal giudice penale con pronuncia di accertamento costitutivo, con la conseguenza che sino a quando non sia reso il formale provvedimento giudiziario non può farsi riferimento al concetto di “reato estinto” (giurisprudenza consolidata: cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 24.03.2011 n. 1800; Consiglio di Stato, Sez. VI, 21.12.2010 n. 9324 e 05.07.2010 n. 4243).
La società ricorrente non poteva giovarsi dell’intervenuta estinzione omettendo la dichiarazione sul decreto penale di condanna in occasione della partecipazione alle procedure selettive in questione, dal momento che tale estinzione è divenuta operativa solo il 23.11.2011, a seguito dell’emissione del relativo provvedimento del G.I.P., addirittura dopo la data di emanazione della determinazione dirigenziale di esclusione dalla procedura aperta (18.11.2011), e comunque successivamente alla data di indizione della procedura negoziata (16.11.2011). Né l’esegesi dell’art. 460, comma 5, c.p.p. autorizza a ritenere che la pronuncia estintiva del reato possa avere efficacia retroattiva, non cogliendosi né nella lettera di tale disposizione né nella sua collocazione sistematica un serio appiglio in tal senso. Tuttavia, nella inconcessa ipotesi dell’efficacia retroattiva della pronuncia estintiva, si rileva che tale pronuncia comunque non poteva essere opposta alla stazione appaltante.
Soccorrono, al riguardo, le condivisibili osservazioni formulate dal massimo giudice amministrativo in un caso analogo a quello di specie: “E tale (asseritamente intervenuto) effetto estintivo, ovviamente, deve essere riscontrato con riguardo al momento in cui l’Amministrazione rese la statuizione impugnata, a nulla rilevando l’eventuale sopravvenire del medesimo. E’ costante orientamento giurisprudenziale, infatti, quello per cui la legittimità di un provvedimento amministrativo deve essere apprezzata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio tempus regit actum, con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi. Come non è possibile validare ex post un’azione amministrativa che, al momento in cui fu adottata, si appalesava illegittima, egualmente non potrebbe discendere un giudizio di illegittimità del medesimo fondato su una sopravvenienza" (ex multis, Consiglio Stato, sez. IV, 15.09.2006, n. 5381 e di recente Consiglio Stato, sez. VI, 03/09/2009, n. 5195) (così Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 9324/2010 cit.);
- anche tali censure non riescono a sortire esito fausto, dal momento che comunque l’impianto complessivo del provvedimento di esclusione risulta validamente sorretto dall’accertamento della non veridicità della dichiarazione in merito alle condanne riportate.
Soccorre, al riguardo, il condiviso principio secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010 n. 4243; Consiglio di Stato, Sez. V, 27.09.2004 n. 6301);
- infine, con un quarto ed ultimo gruppo di censure, parte ricorrente si duole dell’intera procedura negoziata espletata dall’amministrazione comunale e del finale atto di aggiudicazione, sostenendo che la scelta di tale procedura sarebbe avvenuta in assenza delle condizioni e dei presupposti previsti dall’art. 57 del d.lgs. n. 163/2006;
- una volta consolidatasi l’esclusione anche dalla procedura negoziata e non contestando in radice la ricorrente la decisione della stazione appaltante di indire la procedura, ma soltanto il sistema di selezione prescelto, le censure in parola devono essere dichiarate inammissibili per carenza di legittimazione attiva, atteso che la definitiva esclusione o l’accertamento della illegittimità della partecipazione alla gara impedisce di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare gli esiti della procedura selettiva (cfr Consiglio di Stato, A.P., 07.04.2011 n. 4) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 28.08.2012 n. 3733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La legittimità di un provvedimento amministrativo deve essere apprezzata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio tempus regit actum, con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi.
Come non è possibile validare ex post un’azione amministrativa che, al momento in cui fu adottata, si appalesava illegittima, egualmente non potrebbe discendere un giudizio di illegittimità del medesimo fondato su una sopravvenienza.
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Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento
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Soccorrono, al riguardo, le condivisibili osservazioni formulate dal massimo giudice amministrativo in un caso analogo a quello di specie: “E tale (asseritamente intervenuto) effetto estintivo, ovviamente, deve essere riscontrato con riguardo al momento in cui l’Amministrazione rese la statuizione impugnata, a nulla rilevando l’eventuale sopravvenire del medesimo. E’ costante orientamento giurisprudenziale, infatti, quello per cui la legittimità di un provvedimento amministrativo deve essere apprezzata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio tempus regit actum, con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi. Come non è possibile validare ex post un’azione amministrativa che, al momento in cui fu adottata, si appalesava illegittima, egualmente non potrebbe discendere un giudizio di illegittimità del medesimo fondato su una sopravvenienza" (ex multis, Consiglio Stato, sez. IV, 15.09.2006, n. 5381 e di recente Consiglio Stato, sez. VI, 03/09/2009, n. 5195) (così Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 9324/2010 cit.);
- anche tali censure non riescono a sortire esito fausto, dal momento che comunque l’impianto complessivo del provvedimento di esclusione risulta validamente sorretto dall’accertamento della non veridicità della dichiarazione in merito alle condanne riportate.
Soccorre, al riguardo, il condiviso principio secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010 n. 4243; Consiglio di Stato, Sez. V, 27.09.2004 n. 6301) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 28.08.2012 n. 3733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIATanto la disciplina di cui al d.lgs. n. 22/1997 (in particolare, l’art. 17, comma 2), quanto quella introdotta dal d.lgs. n. 152/2006 (ed in particolare, gli artt. 240 e segg.), si ispirano al principio secondo cui l’obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, è a carico unicamente di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa a titolo di dolo o colpa: l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può essere invece addossato al proprietario incolpevole, ove manchi ogni sua responsabilità.
L’Amministrazione non può, perciò, imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento. L’enunciato è conforme al principio “chi inquina, paga”, cui si ispira la normativa comunitaria (cfr. art. 174, ex art. 130/R, del Trattato CE), la quale impone al soggetto che fa correre un rischio di inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
Tale impostazione, sancita dal d.lgs. n. 22/1997, risulta, come detto, confermata e specificata dagli artt. 240 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 (cd. Codice Ambiente), dai quali si desume l’addossamento dell’obbligo di effettuare gli interventi di recupero ambientale, anche di carattere emergenziale, al responsabile dell’inquinamento, che potrebbe benissimo non coincidere con il proprietario ovvero il gestore dell’area interessata.
Va precisato, in argomento, che il principio “chi inquina, paga” vale, altresì, per le misure di messa in sicurezza d’emergenza, alle quali si riferiscono le Conferenze di Servizi per cui è causa, secondo la definizione che delle misure stesse è fornita dall’art. 240, comma 1, lett. m), del d.lgs. n. 152 cit. (ogni intervento immediato od a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza di cui alla lett. t) in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito ed a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente). Infatti, anche l’adozione delle misure di messa in sicurezza d’emergenza è addossata dalla normativa in discorso al soggetto responsabile dell’inquinamento (cfr. art. 242 del d.lgs. n. 152 cit.).
Si deve sottolineare che a carico del proprietario dell’area inquinata, che non sia altresì qualificabile come responsabile dell’inquinamento, non incombe alcun obbligo di porre in essere gli interventi in parola, ma solo la facoltà di eseguirli per mantenere l’area interessata libera da pesi. Dal combinato disposto degli artt. 244, 250 e 253 del Codice ambiente si ricava infatti che, nell’ipotesi di mancata esecuzione degli interventi ambientali in esame da parte del responsabile dell’inquinamento, ovvero di mancata individuazione dello stesso –e sempreché non provvedano né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati– le opere di recupero ambientale sono eseguite dalla P.A. competente, che potrà rivalersi sul soggetto responsabile nei limiti del valore dell’area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetti dei medesimi interventi.

La sentenza 1397/2010, relativa ad una determinazione ministeriale sostanzialmente identica a quella impugnata in questa sede, ricostruisce i principi che devono trovare attuazione in questa materia; in merito è illuminante riportare un ampio stralcio della sua motivazione: “Come questa Sezione ha più volte avuto modo di affermare (cfr., ex multis, TAR Toscana, Sez. II, 17.04.2009, n. 665; id., 06.05.2009, n. 762), tanto la disciplina di cui al d.lgs. n. 22/1997 (in particolare, l’art. 17, comma 2), quanto quella introdotta dal d.lgs. n. 152/2006 (ed in particolare, gli artt. 240 e segg.), si ispirano al principio secondo cui l’obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, è a carico unicamente di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa a titolo di dolo o colpa: l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può essere invece addossato al proprietario incolpevole, ove manchi ogni sua responsabilità (cfr., nello stesso senso, TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 26.07.2007, n. 1254).
L’Amministrazione non può, perciò, imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento (così, nel vigore della precedente disciplina, TAR Veneto, Sez. II, 02.02.2002, n. 320). L’enunciato è conforme al principio “chi inquina, paga”, cui si ispira la normativa comunitaria (cfr. art. 174, ex art. 130/R, del Trattato CE), la quale impone al soggetto che fa correre un rischio di inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
Tale impostazione, sancita dal d.lgs. n. 22/1997, risulta, come detto, confermata e specificata dagli artt. 240 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 (cd. Codice Ambiente), dai quali si desume l’addossamento dell’obbligo di effettuare gli interventi di recupero ambientale, anche di carattere emergenziale, al responsabile dell’inquinamento, che potrebbe benissimo non coincidere con il proprietario ovvero il gestore dell’area interessata (TAR Toscana, Sez. II, n. 665/2009, cit.).
Va precisato, in argomento, che il principio “chi inquina, paga” vale, altresì, per le misure di messa in sicurezza d’emergenza, alle quali si riferiscono le Conferenze di Servizi per cui è causa, secondo la definizione che delle misure stesse è fornita dall’art. 240, comma 1, lett. m), del d.lgs. n. 152 cit. (ogni intervento immediato od a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza di cui alla lett. t) in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito ed a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente). Infatti, anche l’adozione delle misure di messa in sicurezza d’emergenza è addossata dalla normativa in discorso al soggetto responsabile dell’inquinamento (cfr. art. 242 del d.lgs. n. 152 cit.).
Si deve sottolineare che a carico del proprietario dell’area inquinata, che non sia altresì qualificabile come responsabile dell’inquinamento, non incombe alcun obbligo di porre in essere gli interventi in parola, ma solo la facoltà di eseguirli per mantenere l’area interessata libera da pesi. Dal combinato disposto degli artt. 244, 250 e 253 del Codice ambiente si ricava infatti che, nell’ipotesi di mancata esecuzione degli interventi ambientali in esame da parte del responsabile dell’inquinamento, ovvero di mancata individuazione dello stesso –e sempreché non provvedano né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati– le opere di recupero ambientale sono eseguite dalla P.A. competente, che potrà rivalersi sul soggetto responsabile nei limiti del valore dell’area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetti dei medesimi interventi (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 10.07.2007, n. 5355; TAR Toscana, Sez. II, 17.09.2009, n. 1448).
Facendo applicazione dell’ora visto principio al caso di specie, emerge con tutta evidenza come in questo la P.A. non abbia proceduto ad alcuna verifica della sussistenza, in capo alla ricorrente, del requisito della responsabilità colpevole. Invero, in nessuna delle Conferenze di Servizi contestate si rinviene alcun approfondimento istruttorio finalizzato ad accertare un responsabilità colpevole della Imerys Minerali S.p.A nelle situazioni di inquinamento della falda e dei suoli per l’area di titolarità della stessa. Questa conclusione resta ferma anche analizzando i verbali della Conferenza di Servizi decisoria del 09.11.2004 (anteriore a quelle cui si riferiscono il ricorso ed i motivi aggiunti) e, soprattutto, della Conferenza di Servizi istruttoria del 26.06.2007, che contiene una descrizione analitica della situazione pregressa e di quella attuale del sito interessato, senza far emergere nessun elemento di responsabilità colpevole a carico della ricorrente.
Ciò, quando al contrario le particolari vicende attinenti ai passaggi di proprietà per una parte di tale sito (permuta con il C.E.RM.E.C.), la condotta del medesimo consorzio e, per altro verso, le tipologie di produzioni realizzate nel terreno in discorso e nelle zone circostanti, avrebbero imposto un siffatto approfondimento, anche alla luce dell’ingente onerosità delle misure prescritte all’odierna ricorrente. È evidente, invece, che in tutte le Conferenze di Servizi considerate la Imerys Minerali S.p.A. viene in rilievo esclusivamente nella sua veste di proprietaria del terreno interessato ed in tale sua qualità viene evocata quale destinataria delle prescrizioni assunte con dette Conferenze.
Così facendo, però, la P.A. utilizza illegittimamente –come si è sopra visto– il criterio dominicale, in luogo di quello della responsabilità colpevole, ai fini dell’individuazione del soggetto destinatario delle prescrizioni volte al risanamento del terreno contaminato
(TAR Toscana, Sez. II, sentenza 28.08.2012 n. 1491 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl potere extra ordinem previsto dall’art. 50 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, per l’emissione di ordinanze contingibili ed urgenti presuppone, da un lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento.
La giurisprudenza ha rimeditato e ridimensionato la tesi della necessaria imprevedibilità della situazione di pericolo, giungendo ad affermare l’irrilevanza del fatto che la situazione di pericolo preesista da tempo.
Pur tuttavia si prospetta maggioritario l’orientamento secondo il quale indefettibile presupposto del legittimo potere di ordinanza è l’esistenza di una situazione di pericolo eccezionale ed imprevedibile ed incontrastato è poi l’indirizzo che predica la necessaria residualità del potere di ordinanza, ossia il dato normativo che alla situazione di pericolo o di emergenza non possa farsi fronte mediante l’esercizio di poteri e l’adozione degli strumenti ordinari e tipici previsti dall’ordinamento.
Si è infatti in tal senso precisato che “il potere di ordinanza del Sindaco in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia locale, presuppone l'esistenza di una situazione eccezionale, che richiede un intervento immediato e urgente, non fronteggiabile attraverso l'utilizzo degli strumenti ordinari di cui può disporre normalmente l'autorità amministrativa”. Ancor più incisivamente si è affermato che presupposto dell’adozione di un’ordinanza contingibile ed urgente “è l’esistenza di una situazione imprevedibile ed eccezionale la quale inoltre non possa essere fronteggiata con altri rimedi apprestati dall’ordinamento.
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E' assolutamente prevalente in giurisprudenza l’orientamento che individua nella provvisorietà della misura e nella necessità che essa non produca uno stabile assetto di interessi, un altro degli indefettibili presupposti del potere del Sindaco di adottare ordinanze contingibili ed urgenti.
Anche il Consiglio di Stato ha precisato che “il potere esercitabile dal Sindaco ai sensi del’art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 presuppone una situazione di pericolo (…) che non possa essere affrontata con nessun altro tipo di provvedimento, e tale da risolvere una situazione comunque temporanea”, concludendo che tra i limiti che circondano il potere di ordinanza contingibile ed urgente esiste “oltre il limite del rispetto dei principi generali dell’ordinamento, l’urgenza e la provvisorietà” oltre che “la natura residuale dei provvedimenti in questione”.
La giurisprudenza di prime cure assolutamente prevalente segue tale indirizzo, avendo affermato che “le ordinanze in questione, per definizione, presentano il carattere della provvisorietà, intesa nel duplice senso di imposizione di misure non definitive e di efficacia temporalmente limitata”.
Ribadendo il presupposto della provvisorietà della misura ingiunta si è più di recente concluso che “non si ammette che l’ordinanza in oggetto venga emanata per fronteggiare esigenze prevedibili e permanenti ovvero per regolare stabilmente una situazione od assetto di interessi permanente".
Segnala il Collegio che anche questo Tribunale ha da tempo predicato la necessità del presupposto della provvisorietà, in ossequio al quale le ordinanze contingibili ed urgenti non possono essere adottate per fronteggiare esigenze prevedibili e permanenti ovvero per regolare stabilmente una situazione od assetto di interessi permanente.

In punto di diritto va rammentato che la giurisprudenza ha più volte chiarito che “il potere extra ordinem previsto dall’art. 50 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, per l’emissione di ordinanze contingibili ed urgenti presuppone, da un lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento" (TAR Veneto, Sez. III, 04.08.2009 n. 2274)
Non sfugge peraltro al Collegio che la giurisprudenza ha rimeditato e ridimensionato la tesi della necessaria imprevedibilità della situazione di pericolo, giungendo ad affermare l’irrilevanza del fatto che la situazione di pericolo preesista da tempo (TAR Puglia–Lecce, Sez. I, 14.12.2011, n. 2085; Consiglio di Stato Sez. IV, 25.09.2006, n. 5639).
Pur tuttavia si prospetta maggioritario l’orientamento secondo il quale indefettibile presupposto del legittimo potere di ordinanza è l’esistenza di una situazione di pericolo eccezionale ed imprevedibile ed incontrastato è poi l’indirizzo che predica la necessaria residualità del potere di ordinanza, ossia il dato normativo che alla situazione di pericolo o di emergenza non possa farsi fronte mediante l’esercizio di poteri e l’adozione degli strumenti ordinari e tipici previsti dall’ordinamento.
Si è infatti in tal senso precisato che “il potere di ordinanza del Sindaco in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia locale, presuppone l'esistenza di una situazione eccezionale, che richiede un intervento immediato e urgente, non fronteggiabile attraverso l'utilizzo degli strumenti ordinari di cui può disporre normalmente l'autorità amministrativa” (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, 31.07.2008, n. 3124). Ancor più incisivamente si è affermato che presupposto dell’adozione di un’ordinanza contingibile ed urgente “è l’esistenza di una situazione imprevedibile ed eccezionale (TAR Lazio-Latina, 20.11.2006, n. 1732) la quale inoltre non possa essere fronteggiata con altri rimedi apprestati dall’ordinamento” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.03.2006, n. 1537; TAR Marche, 04.02.2003 n. 26; TAR Emilia Romagna–Parma, 10.01.2003, n. 1, nonché, più di recente, TAR Puglia–Lecce, Sez. III, 11.04.2009, n. 711; Consiglio di Stato, Sez. V, 16.02.2010, n. 868).
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Sul punto segnala il Collegio come sia assolutamente prevalente in giurisprudenza l’orientamento che individua nella provvisorietà della misura e nella necessità che essa non produca uno stabile assetto di interessi, un altro degli indefettibili presupposti del potere del Sindaco di adottare ordinanze contingibili ed urgenti.
Anche il Consiglio di Stato, invero, superando un precedente di segno contrario (Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.10.2003, n. 6168) ha precisato che “il potere esercitabile dal Sindaco ai sensi del’art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 presuppone una situazione di pericolo (…) che non possa essere affrontata con nessun altro tipo di provvedimento, e tale da risolvere una situazione comunque temporanea”, concludendo che tra i limiti che circondano il potere di ordinanza contingibile ed urgente esiste “oltre il limite del rispetto dei principi generali dell’ordinamento, l’urgenza e la provvisorietà” oltre che “la natura residuale dei provvedimenti in questione” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.03.2006, n. 1537).
La giurisprudenza di prime cure assolutamente prevalente segue tale indirizzo, avendo affermato che “le ordinanze in questione, per definizione, presentano il carattere della provvisorietà, intesa nel duplice senso di imposizione di misure non definitive e di efficacia temporalmente limitata” (TAR Veneto, Sez. III, 27.12.2007, n. 4107; in tal senso anche TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II, 20.01.2009, n. 47).
Ribadendo il presupposto della provvisorietà della misura ingiunta si è più di recente concluso che “non si ammette che l’ordinanza in oggetto venga emanata per fronteggiare esigenze prevedibili e permanenti ovvero per regolare stabilmente una situazione od assetto di interessi permanente" (TAR Campania–Napoli, Sez. V, 29.12.2010, n. 28169).
Segnala il Collegio che anche questo Tribunale ha da tempo predicato la necessità del presupposto della provvisorietà, in ossequio al quale le ordinanze contingibili ed urgenti non possono essere adottate per fronteggiare esigenze prevedibili e permanenti ovvero per regolare stabilmente una situazione od assetto di interessi permanente: TAR Toscana, Sez. II, 15.03.2002, n. 494, sulle orme di Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.02.2001, n. 580
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.08.2012 n. 1484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sospensione della funzione amministrativa può ammettersi solo ove una norma ad hoc la consenta e che, quanto alla sospensione delle istanze di concessione edilizia, la sospensione può essere legittimata solo a salvaguardia e tutela di contrastanti ed ostative disposizioni di uno strumento urbanistico previamente adottato.
Ai sensi dell’articolo unico della L. n. 03.11.1952, n. 192 il potere di sospendere l’esame delle istanze di concessione edilizia “si concreta appunto nella sospensione dell’obbligo di provvedere nel periodo intercorrente tra l’adozione e l’approvazione del piano regolatore".
Nell’ottica della tassatività delle misure di salvaguardia, "un potere atipico di sospensione appare contrastante con i fondamentali principi di continuità della funzione amministrativa e non è previsto, tra l’altro, neanche dalle norme in materia edilizia (tranne le ipotesi delle misure di salvaguardia in pendenza dell’approvazione dei piani regolatori, di cui all’articolo unico, l. n. 1902 del 1952 e le ipotesi specifiche di cui all’art. 12, t.u. Edilizia n. 380 del 2001); ciò impedisce che possa farsi ricorso (…) ad un’attività sospensiva sine die della funzione amministrativa”.
Già da tempo la giurisprudenza ha precisato che la sospensione della funzione amministrativa può ammettersi solo ove una norma ad hoc la consenta e che, quanto alla sospensione delle istanze di concessione edilizia, la sospensione può essere legittimata solo a salvaguardia e tutela di contrastanti ed ostative disposizioni di uno strumento urbanistico previamente adottato.
Il Consiglio di Stato anni addietro ebbe infatti a precisare che ai sensi dell’articolo unico della L. n. 03.11.1952, n. 192 il potere di sospendere l’esame delle istanze di concessione edilizia “si concreta appunto nella sospensione dell’obbligo di provvedere nel periodo intercorrente tra l’adozione e l’approvazione del piano regolatore (Consiglio di Stato, Sez. V, 3112.1998, n. 1993)”.
Si è più di recente affermato, nell’ottica della tassatività delle misure di salvaguardia, che “un potere atipico di sospensione appare contrastante con i fondamentali principi di continuità della funzione amministrativa e non è previsto, tra l’altro, neanche dalle norme in materia edilizia (tranne le ipotesi delle misure di salvaguardia in pendenza dell’approvazione dei piani regolatori, di cui all’articolo unico, l. n. 1902 del 1952 e le ipotesi specifiche di cui all’art. 12, t.u. Edilizia n. 380 del 2001); ciò impedisce che possa farsi ricorso (…) ad un’attività sospensiva sine die della funzione amministrativa (TAR Campania–Napoli, Sez. II, 14.11.2006, n. 9486)”.
Orbene, nel caso all’esame la nota impugnata non fornisce alcun supporto normativo–fattuale a sostegno della disposta sospensione della pratica edilizia avviata con l’istanza della ricorrente, facendo un generico richiamo alla definizione del piano attuativo del Piano della Costa.
Ma, osserva il Collegio, anche ove fossero stati indicati gli estremi di adozione del predetto piano attuativo, la misura di salvaguardia non avrebbe potuto comunque essere applicata poiché l’articolo unico della L. n. 1902/1952, riprodotto all’art. 12 del D.P.R. 06.12.2001 n. 380, è da riferire agli strumenti urbanistici generali, ossia ai piani regolatori generali (in tal senso, Consiglio di Stato Ad. plen., 07.04.2008, n. 2; TAR Campania–Napoli, Sez. II, 21.02.2003, n. 1045) e non anche a piani attuativi, tra cui un, peraltro non meglio precisato, Piano della Costa
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.08.2012 n. 1484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha di recente precisato la natura di norma cogente che va ascritta al’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, che costituisce fonte primaria alla quale gli strumenti urbanistici locali debbono conformarsi e che ha attitudine sostitutiva di eventuali norme locali difformi.
Si è infatti precisato che “Sono inderogabili le prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 (che prevede la necessità per le costruzioni di rispettare una distanza di 10 metri tra pareti finestrate); tali prescrizioni non possono essere disattese dalle normative urbanistiche locali ed i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate dalla citata norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto.”
Conseguendone anche che “Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 è una fonte sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi comunali, e contiene norme inderogabili, di ordine pubblico; in caso di contrasto dei regolamenti edilizi comunali con le prescrizioni del citata decreto, il giudice deve disapplicare i regolamenti contrastanti, applicando, in via di sostituzione, la fonte statale imperativa.

Orbene, l’art. 51 delle NTA al regolamento urbanistico del resistente Comune, stabilisce a chiare note che “la distanza tra fabbricati (muniti di pareti finestrate, n.d.s.) non deve essere inferiore a quella prescritta dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444”.
Non è chi non veda dunque, che si è al cospetto di un rinvio integrale alla disposizione sulle distanze legali tra pareti finestrate recata dal richiamato art. 9 del D.M. n. 1444/1968, il quale si applica in toto alla fattispecie la vaglio della Sezione.
Va all’uopo rammentato che la giurisprudenza ha di recente precisato la natura di norma cogente che va ascritta al’art. 9 del D..M. n. 1444/1968, che costituisce fonte primaria alla quale gli strumenti urbanistici locali debbono conformarsi e che ha attitudine sostitutiva di eventuali norme locali difformi.
Si è infatti precisato che “Sono inderogabili le prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 (che prevede la necessità per le costruzioni di rispettare una distanza di 10 metri tra pareti finestrate); tali prescrizioni non possono essere disattese dalle normative urbanistiche locali ed i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate dalla citata norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto.”
Conseguendone anche che “Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 è una fonte sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi comunali, e contiene norme inderogabili, di ordine pubblico; in caso di contrasto dei regolamenti edilizi comunali con le prescrizioni del citata decreto, il giudice deve disapplicare i regolamenti contrastanti, applicando, in via di sostituzione, la fonte statale imperativa“ (TAR Piemonte, Sez. I, 10.10.2008 n. 2565, in termini già Cass. civile, Sez. II, 03.03.2008, n. 5741). Nel senso che gli strumenti urbanistici non possono infrangere le previsioni di cui al D.M. n. 1444/1968, cfr. già TAR Liguria, Sez. I, 07.03.2008, n. 379 (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.08.2012 n. 1483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha da sempre circoscritto i confini dell’applicazione dell’art. 38, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 alle sole ipotesi in cui il permesso di costruire sia stato annullato per vizi formali o procedurali, ritenendola inapplicabile ove invece l’annullamento del medesimo venga pronunciato per l’acclarata sussistenza di un vizio sostanziale.
In caso di annullamento giurisdizionale di concessione edilizia illegittimamente rilasciata il Comune, sul quale incombe l’obbligo di ripristinare l’ordine violato, deve valutare se ingiungere la demolizione dell’edificio già realizzato o applicare una sanzione pecuniaria, a seconda che l’illegittimità della costruzione già eseguita sia conseguente a vizi di carattere sostanziale, per inosservanza di prescrizioni urbanistiche, ovvero a vizi formali dell’iter procedimentale.
La regola immanente all’art. 38, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 è rappresentata dall’operatività della sanzione reale, che, in quanto effetto primario e naturale derivante dall’annullamento del permesso di costruire (…) non richiede all’amministrazione un particolare impegno motivazionale (…) La sanzione alternativa pecuniaria, ex art. 38, comma 1, D.P.R. n. 380 del 2001, deve intendersi riferita alle sole costruzioni assentite mediante titoli abilitativi edilizi annullati per vizi formali e non anche sostanziali”; ulteriormente precisandosi che “inoltre l’applicabilità della sanzione alternativa pecuniaria è stata prevista dalla citata disposizione avendo riguardo all’ipotesi in cui soltanto una parte di un fabbricato risulti abusivamente realizzata e risulti, nel contempo, accertato che la sua demolizione esporrebbe a serio rischio statico la residua parte legittima del fabbricato.

Ad avviso del Collegio la censura è fondata, stante, da un lato, l’interpretazione che dell’art. 38 del T.U. sull’edilizia e della precedente norma di cui all’art. 11 della L. n. 47/1985 ha accreditato la giurisprudenza amministrativa e, dall’altro, l’impossibilità di interpretare l’art. 138 della L. Reg. Toscana n. 1/2005 applicato con il provvedimento impugnato, in frontale contrasto con l’art.38 del D.P.R. 06.12.2001, n. 388.
Orbene, dispone l’art. 38 del D.P.R. 06.12.2001, n. 380, nel disciplinare le conseguenze dell’annullamento del permesso a costruire, che “in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la riduzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione amministrativa pari al valore venale delle opere o di loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio (…) 2. L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’art. 36”. Per poter applicare la sanzione pecuniaria sanante, dunque, deve risultare impossibile la rimozione dei vizi delle procedure o (una volta accertato che gli stessi non siano rimuovibili) la riduzione in pristino stato.
Analoga disposizione era contenuta nell’art. 11 della L. n. 47/1985, riproposta del T.U. sull’edilizia con la riportata norma dell’art. 38.
Sul punto rammenta il Collegio che la giurisprudenza, pacificamente, ha da sempre circoscritto i confini dell’applicazione della norma de qua alle sole ipotesi in cui il permesso di costruire sia stato annullato per vizi formali o procedurali, ritenendola inapplicabile ove invece l’annullamento del medesimo venga pronunciato per l’acclarata sussistenza di un vizio sostanziale (Consiglio di Stato, Sez. V, 22.05.2006, n. 2960; ID, 26.05.2003, n. 2849).
Il Giudice d’appello ha al riguardo chiarito che “in caso di annullamento giurisdizionale di concessione edilizia illegittimamente rilasciata il Comune, sul quale incombe l’obbligo di ripristinare l’ordine violato, deve valutare se ingiungere la demolizione dell’edificio già realizzato o applicare una sanzione pecuniaria, a seconda che l’illegittimità della costruzione già eseguita sia conseguente a vizi di carattere sostanziale, per inosservanza di prescrizioni urbanistiche, ovvero a vizi formali dell’iter procedimentale (Consiglio di Stato, Sez. IV, 29.07.2008, n. 3772)”.
Più di recente si è ribadito che “La regola immanente all’art. 38, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 è rappresentata dall’operatività della sanzione reale, che, in quanto effetto primario e naturale derivante dall’annullamento del permesso di costruire (…) non richiede all’amministrazione un particolare impegno motivazionale (…) La sanzione alternativa pecuniaria, ex art. 38, comma 1, D.P.R. n. 380 del 2001, deve intendersi riferita alle sole costruzioni assentite mediante titoli abilitativi edilizi annullati per vizi formali e non anche sostanziali”; ulteriormente precisandosi che “inoltre l’applicabilità della sanzione alternativa pecuniaria è stata prevista dalla citata disposizione avendo riguardo all’ipotesi in cui soltanto una parte di un fabbricato risulti abusivamente realizzata e risulti, nel contempo, accertato che la sua demolizione esporrebbe a serio rischio statico la residua parte legittima del fabbricato” (TAR Liguria, Sez. I, 05.02.2011, n. 235; TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.08.2012 n. 1479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANonostante l'art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 preveda la possibilità di ristrutturazioni che comportino modifiche di volume (cosiddetta ristrutturazione pesante), ciò non significa che qualsiasi ampliamento di edifici preesistenti debba essere automaticamente ascritto alla fattispecie della ristrutturazione: la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che, qualora si ammettesse la possibilità di un apprezzabile aumento volumetrico dell’edificio ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001, verrebbe meno la linea di distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione.
Pertanto costituiscono ristrutturazione edilizia unicamente gli ampliamenti di modesta entità.

Nonostante l'art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 preveda la possibilità di ristrutturazioni che comportino modifiche di volume (cosiddetta ristrutturazione pesante), ciò non significa che qualsiasi ampliamento di edifici preesistenti debba essere automaticamente ascritto alla fattispecie della ristrutturazione: la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che, qualora si ammettesse la possibilità di un apprezzabile aumento volumetrico dell’edificio ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001, verrebbe meno la linea di distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione (Cass. pen., III, 26.10.2006, n. 47046).
Pertanto costituiscono ristrutturazione edilizia unicamente gli ampliamenti di modesta entità (Cass. pen., III, 27.01.2012, n. 19440) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.08.2012 n. 1470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer quanto sia indubbiamente nella facoltà dell’ente comunale la possibilità di regolamentare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti di telefonia -tenendo comunque presente che l’art. 86, comma 3, del d.lgs. 01.08.2003 n. 259, stabilendo che le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria, postula la compatibilità delle stesse con qualsiasi destinazione urbanistica, onde le eventuali discipline locali d’individuazione di specifiche aree ritenute idonee per l’insediamento delle strutture in argomento devono essere coerenti con le finalità e con gli obiettivi della legge statale e non devono essere tali da ostacolare l’insediamento e il funzionamento delle infrastrutture stesse- non è però ammesso far dipendere la realizzazione di detti impianti da un futuro intervento pianificatorio del Comune, negando nel frattempo ogni installazione.
Il divieto di rilascio di autorizzazioni alla installazione di antenne radio base in attesa della approvazione del Piano Strutturale Comunale “si traduce in una immotivata ed illegittima compressione ad nutum delle posizioni rivestite da parte ricorrente, laddove se è vero che ai Comuni spetta adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione delle popolazioni ai CEM, tuttavia il Comune non può inibire totalmente l’attività di installazione di antenne sul territorio, atteso che tali impianti sono divenuti opere di urbanizzazione primaria, compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica ai sensi dell’art. 86 del D.Lgs. n. 259 del 2003”.
E' parimenti illegittima la sospensione della procedura per l’esame di istanze quali quella qui in esame, in attesa di un futuro piano di localizzazione degli impianti di telefonia: tale sospensione, infatti “finisce per risolversi in un illegittimo arresto sine die, in contrasto con le esigenze di speditezza proprie di tale settore, che oggi hanno trovato testuale riscontro nell’art. 87, d.lgs. n. 259 del 2003, a partire dal quale è ormai generalmente affermata, in sede giurisprudenziale, l'illegittimità dei provvedimenti comunali di sospensione dell'esame delle domande di autorizzazione all'installazione di stazioni radio base in attesa dell'approvazione di un apposito regolamento”.

Con il provvedimento impugnato, il Comune resistente, pur precisando di aver adottato un regolamento per l’installazione, monitoraggio e localizzazione degli impianti di telefonia mobile, specifica che esso dovrà essere recepito dal regolamento urbanistico, parte integrante del redigendo P.S.C. Aggiunge l’Amministrazione comunale che “con il redigendo P.S.C. si provvederà ad individuare le aree del territorio dove saranno possibili eventuali installazioni di stazioni radio base per telefonia mobile e/o cellulare”.
In buona sostanza, il Comune, pur disponendo di un regolamento per l’installazione degli impianti di telefonia, rinvia alla futura redazione del P.S.C. l’individuazione delle aree a ciò deputate, rigettando, nel frattempo, ogni istanza diretta ad ottenere l’autorizzazione all’installazione degli apparati in questione.
Tale motivazione non è idonea a supportare legittimamente il diniego impugnato.
Per quanto sia indubbiamente nella facoltà dell’ente comunale la possibilità di regolamentare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti di telefonia -tenendo comunque presente che l’art. 86, comma 3, del d.lgs. 01.08.2003 n. 259, stabilendo che le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria, postula la compatibilità delle stesse con qualsiasi destinazione urbanistica, onde le eventuali discipline locali d’individuazione di specifiche aree ritenute idonee per l’insediamento delle strutture in argomento devono essere coerenti con le finalità e con gli obiettivi della legge statale e non devono essere tali da ostacolare l’insediamento e il funzionamento delle infrastrutture stesse- non è però ammesso far dipendere la realizzazione di detti impianti da un futuro intervento pianificatorio del Comune, negando nel frattempo ogni installazione.
Come questo Tribunale ha già avuto modo di evidenziare, infatti, il divieto di rilascio di autorizzazioni alla installazione di antenne radio base in attesa della approvazione del Piano Strutturale Comunale “si traduce in una immotivata ed illegittima compressione ad nutum delle posizioni rivestite da parte ricorrente, laddove se è vero che ai Comuni spetta adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione delle popolazioni ai CEM, tuttavia il Comune non può inibire totalmente l’attività di installazione di antenne sul territorio, atteso che tali impianti sono divenuti opere di urbanizzazione primaria, compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica ai sensi dell’art. 86 del D.Lgs. n. 259 del 2003” (sez. II, 06.03.2008, n. 269).
Questo Tribunale, peraltro, ha avuto modo di chiarire anche che è parimenti illegittima la sospensione della procedura per l’esame di istanze quali quella qui in esame, in attesa di un futuro piano di localizzazione degli impianti di telefonia: tale sospensione, infatti “finisce per risolversi in un illegittimo arresto sine die, in contrasto con le esigenze di speditezza proprie di tale settore, che oggi hanno trovato testuale riscontro nell’art. 87, d.lgs. n. 259 del 2003, a partire dal quale è ormai generalmente affermata, in sede giurisprudenziale, l'illegittimità dei provvedimenti comunali di sospensione dell'esame delle domande di autorizzazione all'installazione di stazioni radio base in attesa dell'approvazione di un apposito regolamento” (sez. II, 07.04.2010, n. 407; cfr. anche TAR Campobasso, sez. I, 23.05.2009, n. 249) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 25.08.2012 n. 893 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPur volendo prescindere dalla considerazione, consolidata in giurisprudenza, secondo la quale in ragione del loro contenuto rigidamente vincolato, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l’ordine di demolizione della costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d’avvio del relativo procedimento, si rileva che il destinatario dell’ordine di demolizione non può limitarsi in sede di impugnativa a dedurre la mera violazione dell’art. 7, della legge n. 241 del 1990, -nel caso in esame, sotto il profilo dell’esiguità del termine intercorso tra comunicazione ed ordine di demolizione-, ma ha, quanto meno, l’obbligo di evidenziare nel ricorso, al fine di contrastare la presunzione sul carattere abusivo dell’opera, quei fatti e quelle circostanze che avrebbe rappresentato all’Amministrazione ove fosse stato messo nelle condizioni di partecipare al procedimento, così da prospettare una considerazione più completa di tutti gli elementi presenti nella vicenda edificatoria.
La dedotta violazione della normativa in tema di avviso avvio procedimento, di cui al primo motivo di ricorso, relativamente all’esiguità del lasso di tempo intercorso tra comunicazione di avvio procedimento e ordinanza di demolizione, è insussistente.
Infatti, pur volendo prescindere dalla considerazione, consolidata in giurisprudenza, secondo la quale in ragione del loro contenuto rigidamente vincolato, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l’ordine di demolizione della costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d’avvio del relativo procedimento (Consiglio di Stato, sez. IV, 26.09.2008, n.4659), si rileva che il destinatario dell’ordine di demolizione non può limitarsi in sede di impugnativa a dedurre la mera violazione dell’art. 7, della legge n. 241 del 1990, -nel caso in esame, sotto il profilo dell’esiguità del termine intercorso tra comunicazione ed ordine di demolizione-, ma ha, quanto meno, l’obbligo di evidenziare nel ricorso, al fine di contrastare la presunzione sul carattere abusivo dell’opera, quei fatti e quelle circostanze che avrebbe rappresentato all’Amministrazione ove fosse stato messo nelle condizioni di partecipare al procedimento, così da prospettare una considerazione più completa di tutti gli elementi presenti nella vicenda edificatoria.
Nel caso in esame, al contrario, il ricorrente si limita ad asserire di non aver potuto, in considerazione del lasso di tempo troppo esiguo intercorso tra comunicazione di avvio procedimento ed ordinanza di demolizione, partecipare al procedimento in maniera idonea e compiuta, con inibizione di ogni contributo personale alla emanazione del provvedimento finale
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 25.08.2012 n. 883 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOgni intervento edilizio che determini una variazione planivolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale viene realizzato, non rientra tra le opere minori soggette a D.I.A., ma è soggetto al preventivo rilascio di apposito permesso di costruire, con la conseguenza che, in caso di assenza di titolo edificatorio, l’ordine di demolizione ingiunto dall’Amministrazione comunale è legittimo, costituendo la sanzione applicabile, in forza di quanto disposto dall’art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001.
Come noto, infatti, ogni intervento edilizio che determini una variazione planivolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale viene realizzato, non rientra tra le opere minori soggette a D.I.A., ma è soggetto al preventivo rilascio di apposito permesso di costruire, con la conseguenza che, in caso di assenza di titolo edificatorio, l’ordine di demolizione ingiunto dall’Amministrazione comunale è legittimo, costituendo la sanzione applicabile, in forza di quanto disposto dall’art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001 (ex multis TAR Campania, Napoli, sez. IV, 16.12.2011, n. 5912; TAR Marche, sez. I, 13.01.2012, n. 39; TAR Molise, sez. I, 21.10.2011, n. 624; TAR Campania, Napoli, sez. III, 18.01.2011, n. 281; TAR Lazio, Roma sez. I, 01.09.2010, n. 32098) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 25.08.2012 n. 883 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILe c.d. informazioni prefettizie possono essere ricondotte a tre differenti tipi:
► quelle “ricognitive” di cause di per sé interdittive di cui all'art. 4, comma 4, del d.lgs. 08.08.1994, n. 490 (art. 10, comma 7, lett. a) e b), del citato d.P.R. n. 252/1998);
► quelle relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e la cui efficacia interdittiva discende da una valutazione del prefetto (art. 10, comma 7, lett. c) d.P.R. n. 252/1998);
► quelle “supplementari” (o atipiche), la cui efficacia interdittiva scaturisce da una valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria dell’informativa prevista dall’art. 1-septies, del decreto legge 06.09.1982, n. 629, convertito dalla legge 12.10.1982, n. 726, ed aggiunto dall’art. 2 della legge 15.11.1988, n. 486.
Il legislatore, attraverso la normativa cosiddetta “antimafia”, ha inteso garantire un ruolo di massima anticipazione all’azione di prevenzione in ordine ai pericoli di inquinamento mafioso, con la conseguenza che l’emissione di una comunicazione prefettizia ostativa prescinde dal concreto accertamento di responsabilità penali, essendo sufficiente che vi siano degli elementi indiziari in grado di generare un ragionevole convincimento sulla sussistenza di un “condizionamento mafioso”.
A tali principi consegue che il Prefetto, all’atto della valutazione in ordine alla sussistenza dell’infiltrazione mafiosa e della conseguente adozione della informativa ostativa, non è tenuto al raggiungimento della piena prova della intervenuta infiltrazione, essendo questo un quid pluris non richiesto, ma deve solo sufficientemente dimostrare la sussistenza di elementi sintomatici ed indiziari dai quali è deducibile il tentativo di ingerenza. Relativamente a detta valutazione, l’Autorità Prefettizia gode di ampia ed autonoma discrezionalità, come tale sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità e/o irrazionalità. Tale valutazione deve, peraltro, essere sufficientemente motivata in ordine alla sussistenza degli elementi dai quali possa ragionevolmente desumersi il tentativo di infiltrazione mafiosa.
In definitiva, l’informativa prefettizia costituisce uno strumento, con funzione spiccatamente cautelare e preventiva, teso a contrastare la criminalità organizzata, che deve pur sempre fondarsi su elementi di fatto che inducano a ritenere esistente il pericolo di infiltrazioni mafiose, pur prescindendo dall’accertamento di responsabilità penali.

Come noto, per giurisprudenza consolidata, le c.d. informazioni prefettizie possono essere ricondotte a tre differenti tipi:
quelle “ricognitive” di cause di per sé interdittive di cui all'art. 4, comma 4, del d.lgs. 08.08.1994, n. 490 (art. 10, comma 7, lett. a) e b), del citato d.P.R. n. 252/1998);
quelle relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e la cui efficacia interdittiva discende da una valutazione del prefetto (art. 10, comma 7, lett. c) d.P.R. n. 252/1998);
quelle “supplementari” (o atipiche), la cui efficacia interdittiva scaturisce da una valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria dell’informativa prevista dall’art. 1-septies, del decreto legge 06.09.1982, n. 629, convertito dalla legge 12.10.1982, n. 726, ed aggiunto dall’art. 2 della legge 15.11.1988, n. 486.
In linea generale, si rileva che il legislatore, attraverso la normativa cosiddetta “antimafia”, ha inteso garantire un ruolo di massima anticipazione all’azione di prevenzione in ordine ai pericoli di inquinamento mafioso, con la conseguenza che l’emissione di una comunicazione prefettizia ostativa prescinde dal concreto accertamento di responsabilità penali, essendo sufficiente che vi siano degli elementi indiziari in grado di generare un ragionevole convincimento sulla sussistenza di un “condizionamento mafioso” (a titolo esemplificativo, in ordine a tali consolidati principi, si ricorda Consiglio di Stato, sez. III, 19.01.2012, n. 245, id, sez. VI, 15.06.2011, n. 3647; id, 08.06.2009, n. 3491; id, 19.06.2009, n. 4132; id 14.04.2009, n. 2276; id 27.01.2009, n. 510; id, sez. V, 26.11.2008, n., 5846; id, sez. VI, 19.08.2008, n. 3958; id, sez. V, 27.05.2008, n. 2512; id, sez. IV, 16.03.2004, n. 2783).
A tali principi consegue che il Prefetto, all’atto della valutazione in ordine alla sussistenza dell’infiltrazione mafiosa e della conseguente adozione della informativa ostativa, non è tenuto al raggiungimento della piena prova della intervenuta infiltrazione, essendo questo un quid pluris non richiesto, ma deve solo sufficientemente dimostrare la sussistenza di elementi sintomatici ed indiziari dai quali è deducibile il tentativo di ingerenza (cit. sez. VI, 08.06.2009, n. 3491). Relativamente a detta valutazione, l’Autorità Prefettizia gode di ampia ed autonoma discrezionalità, come tale sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità e/o irrazionalità. Tale valutazione deve, peraltro, essere sufficientemente motivata in ordine alla sussistenza degli elementi dai quali possa ragionevolmente desumersi il tentativo di infiltrazione mafiosa (Consiglio di Stato, sez. IV, 02.10.2006, n. 5753).
In definitiva, l’informativa prefettizia costituisce uno strumento, con funzione spiccatamente cautelare e preventiva, teso a contrastare la criminalità organizzata, che deve pur sempre fondarsi su elementi di fatto che inducano a ritenere esistente il pericolo di infiltrazioni mafiose, pur prescindendo dall’accertamento di responsabilità penali (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 25.08.2012 n. 874 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Vietato il parcheggio nel vialetto. Ai condomini deve essere garantito un agevole accesso ai box. Per la Cassazione è irrilevante che il regolamento non contenga indicazioni in materia.
Vietato parcheggiare l'auto nel vialetto condominiale che conduce ai box, se ciò rende più difficile agli altri condomini raggiungere i posti auto destinati ai propri veicoli. Ed è irrilevante, a questo proposito, che il regolamento non contenga un tale divieto, poiché esso discende direttamente dalla legge, essendo ogni condomino obbligato a servirsi delle parti comuni in modo da non intralciare eccessivamente il pari utilizzo da parte degli altri comproprietari.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 24.08.2012 n. 14633.
Il caso concreto. Alcuni condomini residenti nella provincia di Parma avevano citato i vicini davanti al giudice di pace perché questi abitualmente utilizzavano lo stradello condominiale che dava accesso ai garage anche per la sosta delle auto, invece di limitarsi al solo transito, creando intralcio a causa della conseguente restrizione degli spazi di manovra per l'entrata e l'uscita dai box.
Con una prima pronuncia del 2003 il giudice di pace aveva respinto il ricorso in questione, accogliendo la tesi dei condomini convenuti in giudizio, i quali sostenevano che ormai da anni il vialetto in questione veniva utilizzato indifferentemente sia per la sosta sia per il transito, essendo abbastanza largo da consentire l'accesso ai garage anche in presenza di auto in sosta.
La sentenza in questione era stata però ribaltata in appello dal tribunale che, invece, nel 2006, aveva stabilito che il viale condominiale non doveva essere utilizzato né per il parcheggio né per la sosta delle autovetture, ma soltanto per il transito, in modo da non privare tutti i condomini della possibilità di utilizzare pienamente lo spazio comune. La decisione di secondo grado era stata quindi impugnata in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. La sentenza resa dal tribunale di Parma in sede di appello è stata quindi confermata dalla seconda sezione civile della Cassazione, con sentenza n. 14633 del 24 agosto scorso, la quale ha ritenuto del tutto corretto il richiamo operato dai giudici di merito all'art. 1102 del codice civile, il quale disciplina l'utilizzo dei beni comuni in condominio, stabilendo il principio per il quale tutti i comproprietari possono servirsene liberamente, con il solo limite di evitare comportamenti che ledano il pari diritto degli altri condomini di farne uso.
Nella specie, infatti, l'esame obiettivo del luogo aveva fatto emergere che la sosta delle auto nel viale di accesso ai garage rendeva oggettivamente meno agevole l'ingresso nelle singole proprietà esclusive, essendo indispensabile posizionare le auto a filo per evitare danni nell'affiancamento delle stesse.
Di conseguenza la condotta dei condomini che parcheggiavano le proprie auto sui vialetto in questione, per quanto astrattamente legittimo, di fatto rendeva più disagevole agli altri comproprietari il pari utilizzo del medesimo bene comune quale via di accesso ai box di proprietà esclusiva. La Suprema corte ha anche avuto modo di chiarire che, in casi del genere, la mancanza di un divieto espresso nel regolamento condominiale non permette di per sé qualsiasi utilizzo dei beni comuni, dovendosi sempre fare riferimento, per la disciplina del caso concreto, al criterio legale di cui al predetto art. 1102 c.c. (articolo ItaliaOggi Sette del 03.09.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATASecondo jus receptum, il potere esercitato in base all'art. 54 dlgs 267/2000 presuppone una situazione di pericolo effettivo –da indicare espressamente- avente i caratteri della temporaneità, che non può essere affrontata con nessun altro tipo di provvedimento.
Invero, tale provvedimento atipico, di natura eccezionale, previsto per fronteggiare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini, non può essere utilizzato ai fini della cura di esigenze prevedibili e ordinarie e va giustificato dalla sussistenza di situazioni eccezionali ed impreviste, incompatibili con i tempi occorrenti per l’espletamento degli ordinari procedimenti e con l’utilizzo dei provvedimenti tipizzati previsti dall'ordinamento giuridico.
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Non compete all'ente locale la valutazione in ordine alla lesività o meno dell'esposizione ai campi elettromagnetici della popolazione, poiché i limiti dì esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità, i criteri e le modalità sono stati fissati dallo Stato, nell’esercizio delle proprie potestà, facendo salve le competenze delle Autorità Indipendenti.
Né il potere regolamentare dei Comuni di fissare, ai sensi dell'art. 8 ultimo comma della legge n. 36 del 2001, criteri localizzativi per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici può mai trasmodare nel potere di sospendere gli effetti dei titoli abilitativi già formati, ai sensi degli artt. 86 e 87 del Codice delle comunicazioni elettroniche.

Possono essere esaminati congiuntamente il primo motivo del ricorso principale ed il motivo aggiunto, con cui parte ricorrente deduce, in sostanza, che, nel caso di specie, difetterebbero i presupposti per l'adozione di una ordinanza contingibile ed urgente, ai sensi dell’art. 54 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, poiché l'installazione della stazioni radio base in questione potrebbe determinare pericolo di inquinamento elettromagnetico nonché rischi di gravi tensioni sociali nella comunità.
La distinzione tra “indirizzo politico” e “gestione amministrativa”, a presidio dei canoni costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione (art. 97 Cost.), è stata sancita per la prima volta nell’ordinamento degli enti locali con l'art. 51, comma 2°, della legge 08.06.1990 n.142, a mente del quale: "spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione di atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, che la legge o lo statuto non riservino espressamente agli organi di governo".
Il principio è stato poi recepito dall'art. 3 del D.Lgs. 03.02.1993 n. 29, che lo ha esteso a tutte le pubbliche amministrazioni, affermando che "gli organi di governo definiscono gli obiettivi e i programmi da attuare e verificano la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive generali impartite" e che, ai dirigenti, responsabili della gestione e dei relativi risultati, spetta, in generale, "la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l'adozione di tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo".
La successiva legge 15.05.1997 n. 127 (cosiddetta “Bassanini bis”) ha provveduto ad elencare una serie di provvedimenti, la cui adozione è esplicitamente riservata ai dirigenti, introducendo, nel contempo, una disciplina che rende applicabile il principio anche nei comuni di minori dimensioni demografiche, privi della dirigenza: del resto, tutte le amministrazioni (ivi compresi gli enti locali) sono destinatarie dell'obbligo, espressamente sancito dal D.Lgs. 31.03.1998 n. 80 (art. 17, che inserisce nel D.lgs. 29/1993 l'art. 27-bis) di adeguare i propri ordinamenti al principio di separazione "nell'esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare [...] tenendo conto delle relative peculiarità".
Tutte queste disposizioni risultano ora trasposte nel D.Lgs. 18.08.2000 n. 267 (c.d. “Testo unico degli Enti Locali”) e nel D.Lgs. 30/03/2001 n. 165 (c.d. “Testo Unico sul Pubblico Impiego”) ed hanno, successivamente, subito alcune limitazioni .
L'art. 54, comma 2, del D.Lgs. 18.11.2000 n. 267 prevede che: "Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico, provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini; per l'esecuzione dei relativi ordini può richiedere al prefetto, ove occorra, l'assistenza della forza pubblica".
Secondo jus receptum, il potere esercitato in base alla disposizione in questione presuppone una situazione di pericolo effettivo –da indicare espressamente- avente i caratteri della temporaneità, che non può essere affrontata con nessun altro tipo di provvedimento.
Invero, tale provvedimento atipico, di natura eccezionale, previsto per fronteggiare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini, non può essere utilizzato ai fini della cura di esigenze prevedibili e ordinarie e va giustificato dalla sussistenza di situazioni eccezionali ed impreviste, incompatibili con i tempi occorrenti per l’espletamento degli ordinari procedimenti e con l’utilizzo dei provvedimenti tipizzati previsti dall'ordinamento giuridico.
Nella specie, il provvedimento impugnato risulta giustificato, sostanzialmente, dal rischio di inquinamento elettromagnetico, che ha determinato elementi di criticità sociale nonché dalla finalità di evitare e prevenire situazioni di forte tensione sociale con implicazioni di ordine pubblico.
Trattasi, a ben vedere, di situazioni suscettibili di poter essere fronteggiate con l'esercizio dei poteri attribuiti in via ordinaria in materia di regolamentazione dell'uso del territorio agli enti locali, con la conseguenza che, nella specie, deve ritenersi carente il presupposto normativo fondamentale per l'applicazione dell'art. 54 del TUEELL.
Inoltre, sul piano del periculum in mora, in materia di impianti di telefonia, mancano ancora certezze scientifiche (come peraltro riconosciuto nello stesso provvedimento impugnato) e vige il principio di precauzione, in base al quale sono stati fissati, con il D.M. 10.09.1998, n. 381, dei limiti di esposizione, al cui mancato rispetto il Comune non fa esaustivo riferimento.
Invero, alla salvaguardia della salute pubblica si è provveduto a livello nazionale con il Regolamento recante norme per la determinazione dei tetti di radiofrequenza, di cui al D.M. 10.09.1998 n. 381.
Non compete, dunque, all'ente locale la valutazione in ordine alla lesività o meno dell'esposizione ai campi elettromagnetici della popolazione, poiché i limiti dì esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità, i criteri e le modalità sono stati fissati dallo Stato, nell’esercizio delle proprie potestà, facendo salve le competenze delle Autorità Indipendenti (conf.: Cons. Stato Sez. IV, 03.06.2002, n. 3095 e TAR Friuli Venezia Giulia, 23.08.2002 n. 613).
Né il potere regolamentare dei Comuni di fissare, ai sensi dell'art. 8 ultimo comma della legge n. 36 del 2001, criteri localizzativi per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici può mai trasmodare nel potere di sospendere gli effetti dei titoli abilitativi già formati, ai sensi degli artt. 86 e 87 del Codice delle comunicazioni elettroniche.
Ed invero, la precitata potestà regolamentare dei Comuni deve tradursi in regole ragionevoli, motivate e certe, poste a presidio di interessi di rilievo pubblico, ma non può tradursi in un generalizzato divieto di installazione in zone urbanistiche identificate.
Siffatta previsione, verrebbe, infatti, a costituire una inammissibile misura di carattere generale, sostanzialmente cautelativa rispetto alle emissioni derivanti dagli impianti di telefonia mobile, in violazione dell'art. 4 della ridetta legge n. 36 del 2001, che riserva alla competenza dello Stato la determinazione, con criteri unitari, dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità, in base a parametri da applicarsi su tutto il territorio dello Stato.
Conseguentemente, nel caso di specie, l’impugnata ordinanza sindacale non resisterebbe alla censura svolta neanche nel caso in cui alla medesima dovesse riconoscersi natura di ordinanza contingibile ed urgente, sia perché evidenzierebbe l’esorbitanza della misura sospensiva rispetto allo scopo perseguito, alla luce della non inerenza alla sfera comunale di compiti afferenti la tutela della salute, sia perché la pendenza dell'iter approvativo del regolamento comunale non potrebbe giustificare la sterilizzazione del titolo edilizio già formato, avuto riguardo alla natura urgente e indifferibile delle opere riguardanti gli impianti di telefonia mobile nonché alla loro assimilazione ope legis alle opere di urbanizzazione primaria (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 21.08.2012 n. 864 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn sede di valutazione comparativa delle offerte tecniche presentate nelle gare d’appalto le valutazioni tecniche, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell’esito della valutazione, sfuggono al sindacato intrinseco del giudice amministrativo, se non vengono in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o circa la loro applicazione.
Le valutazioni della Commissione di gara in ordine all’(in)idoneità tecnica delle offerte dei vari partecipanti alla gara costituiscono, invero, espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale a carattere complesso, alle quali non possono essere contrapposte le valutazioni di parte circa la (in)sussistenza delle prescritte qualità, trattandosi di questioni afferenti al merito delle suddette valutazioni tecnico-discrezionali, non sindacabili se non sotto il profilo dei criteri
.

Sul punto ha sottolineato Cons. Stato, Sez. V, 08.03.2011, n. 1464 che “In sede di valutazione comparativa delle offerte tecniche presentate nelle gare d’appalto le valutazioni tecniche, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell’esito della valutazione, sfuggono al sindacato intrinseco del giudice amministrativo, se non vengono in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o circa la loro applicazione. Le valutazioni della Commissione di gara in ordine all’(in)idoneità tecnica delle offerte dei vari partecipanti alla gara costituiscono, invero, espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale a carattere complesso, alle quali non possono essere contrapposte le valutazioni di parte circa la (in)sussistenza delle prescritte qualità, trattandosi di questioni afferenti al merito delle suddette valutazioni tecnico-discrezionali, non sindacabili se non sotto il profilo dei criteri.”.
In termini analoghi si è espresso questo TAR (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. I, 11.05.2011, n. 693) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 20.08.2012 n. 1583 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAVa riconosciuta la natura sostanzialmente espropriativa dei vincoli urbanistici tutte le volte in cui la destinazione dell’area permetta la realizzazione di opere destinate esclusivamente alla fruizione soggettivamente pubblica, nel senso di essere riferita unicamente all’ente esponenziale della collettività territoriale, con sottrazione dal libero mercato, come ad esempio, nel caso di parcheggi pubblici, strade e spazi pubblici, spazi pubblici attrezzati, parco urbano e attrezzature pubbliche per l’istruzione o sanitarie.
Se a causa della decadenza dei vincoli de quibus, un terreno sia rimasto privo di regolamentazione, non vi è dubbio che il proprietario possa presentare un’istanza volta a ottenere l’attribuzione di una nuova destinazione urbanistica e che l’amministrazione sia tenuta a esaminarla, anche nel caso in cui la richiesta medesima non sia ritenuta suscettibile di accoglimento, con l’obbligo di motivare congruamente tale decisione.
Tuttavia, la decadenza dei vincoli espropriativi precedentemente in vigore non comporta necessariamente che l’area debba conseguire la destinazione urbanistica edificatoria, essendo, in ogni caso, rimesse al potere discrezionale dell’Amministrazione comunale la verifica e la scelta della destinazione, in coerenza con la più generale disciplina del territorio, meglio idonea e adeguata in relazione all’interesse pubblico al corretto e armonico suo utilizzo.
L’obbligo gravante sul Comune, in caso di decadenza di vincolo espropriativo, va assolto mediante l’adozione di una variante specifica o di variante generale, ossia attraverso gli unici strumenti che consentono alle amministrazioni comunali di verificare la persistente compatibilità delle destinazioni già impresse ad aree situate nelle zone più diverse del territorio comunale rispetto ai principi informatori della vigente disciplina di piano regolatore e alle nuove esigenze di pubblico interesse. Il potere di conformazione urbanistica, peraltro, è attribuito dalla legge all’organo consiliare, di talché il semplice avvio del procedimento di revisione del piano regolatore generale non costituisce adempimento da parte del Comune dell’obbligo di attribuire la riqualificazione urbanistica alla zona rimasta priva di specifica disciplina a seguito di decadenza del vincolo di destinazione su di essa gravante. L’adempimento non elusivo di tale obbligo può essere dato, infatti, soltanto dallo specifico ed effettivo completamento del Piano regolatore generale per quella zona, mediante adozione di un provvedimento espresso (e cioè di una variante) da parte del competente organo consiliare.

RITENUTO:
- che, secondo l’orientamento già espresso da questa Sezione in fattispecie analoghe a quella per la quale è causa (v. sentenze n. 312 dell’08.02.2012; n. 6465 del 07.05.2010, n. 5716 del 22.04.2010, n. 3689 del 25.03.2010), vada riconosciuta la natura sostanzialmente espropriativa dei vincoli urbanistici tutte le volte in cui la destinazione dell’area permetta la realizzazione di opere destinate esclusivamente alla fruizione soggettivamente pubblica, nel senso di essere riferita unicamente all’ente esponenziale della collettività territoriale, con sottrazione dal libero mercato, come ad esempio, nel caso di parcheggi pubblici, strade e spazi pubblici, spazi pubblici attrezzati, parco urbano e attrezzature pubbliche per l’istruzione o sanitarie (v. C.G.A., 27.02.2012, n. 212; 25.01.2011, n. 95; 19.12.2008, n. 1113; Cons. Stato, IV, 28.02.2005, n. 693; Corte Cost. 12.05.1999, n. 179);
- che nel caso di specie, sulla scorta dei parametri giurisprudenziali appena sopra richiamati, la natura espropriativa del vincolo urbanistico va riconosciuta al terreno contraddistinto con la particella 2490, in quanto ricadente in “zona IC1- Chiese e centri religiosi” e, in parte, in “Sede stradale”, mentre non può essere riconosciuta al terreno contraddistinto con la particella 715, poiché la destinazione impressa “Parcheggi”, piuttosto che quella di parcheggio “pubblico”, non esclude il concreto sfruttamento dell’area da parte dei privati mediante l’attivazione di un parcheggio privato, produttivo di reddito;
- che alla luce delle risultanze documentali acquisite (cfr. certificato di destinazione urbanistica), i vincoli espropriativi riconducibili al piano regolatore generale, sono ormai decaduti;
- che, pertanto, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza e condiviso dal Collegio, se a causa della decadenza dei vincoli de quibus, un terreno sia rimasto privo di regolamentazione, non vi è dubbio che il proprietario possa presentare un’istanza volta a ottenere l’attribuzione di una nuova destinazione urbanistica e che l’amministrazione sia tenuta a esaminarla, anche nel caso in cui la richiesta medesima non sia ritenuta suscettibile di accoglimento, con l’obbligo di motivare congruamente tale decisione;
- che, tuttavia, la decadenza dei vincoli espropriativi precedentemente in vigore non comporta necessariamente che l’area debba conseguire la destinazione urbanistica edificatoria, essendo, in ogni caso, rimesse al potere discrezionale dell’Amministrazione comunale la verifica e la scelta della destinazione, in coerenza con la più generale disciplina del territorio, meglio idonea e adeguata in relazione all’interesse pubblico al corretto e armonico suo utilizzo (Cons. Stato, IV, 08.06.2007, n. 3025);
- che l’obbligo gravante sul Comune, in caso di decadenza di vincolo espropriativo, va assolto mediante l’adozione di una variante specifica o di variante generale, ossia attraverso gli unici strumenti che consentono alle amministrazioni comunali di verificare la persistente compatibilità delle destinazioni già impresse ad aree situate nelle zone più diverse del territorio comunale rispetto ai principi informatori della vigente disciplina di piano regolatore e alle nuove esigenze di pubblico interesse (in termini Cons. Stato, IV, 31.05.2007, n. 2885). Il potere di conformazione urbanistica, peraltro, è attribuito dalla legge all’organo consiliare, di talché il semplice avvio del procedimento di revisione del piano regolatore generale non costituisce adempimento da parte del Comune dell’obbligo di attribuire la riqualificazione urbanistica alla zona rimasta priva di specifica disciplina a seguito di decadenza del vincolo di destinazione su di essa gravante (così, Cons. Stato,V, n. 5675 del 2003, IV, nn. 385 del 2005 e 7131 del 2006). L’adempimento non elusivo di tale obbligo può essere dato, infatti, soltanto dallo specifico ed effettivo completamento del Piano regolatore generale per quella zona, mediante adozione di un provvedimento espresso (e cioè di una variante) da parte del competente organo consiliare;
RITENUTO:
- alla luce dei principi e delle considerazioni esposti, che sussiste, perciò, l’obbligo del Comune di Palermo, già in forza del principio sancito in linea generale dall’art. 2 della legge 241/1990 e s.m.i., di definire il procedimento avviato con la suddetta istanza di ridefinizione della situazione urbanistica del terreno contraddistinto con la p.lla 2490 a seguito dell’avvenuta scadenza dei vincoli espropriativi di P.R.G. (in tal senso, TAR Sicilia, Palermo, III, 25.06.2009, n. 1167 e 06.10.2009, n. 1565);
- di conseguenza, che vada dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Palermo sulla predetta istanza, con correlata declaratoria dell’obbligo del medesimo ente di adottare, con provvedimento consiliare, una determinazione esplicita e conclusiva sull’istanza di che trattasi limitatamente al terreno contraddistinto con la p.lla 2490: al quale fine -tenuto conto della materia cui ha riguardo la controversia, e dell’ampia discrezionalità del Comune in tema di disciplina urbanistica del proprio territorio-, appare congruo assegnare, per l’adempimento, il termine di giorni novanta dalla comunicazione in via amministrativa o dalla notificazione a cura di parte, se anteriore, della presente sentenza (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 10.08.2012 n. 1800 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl termine per la prescrizione della pretesa relativa agli oneri concessori connessi al condono edilizio non decorre dalla data di presentazione della domanda di condono, ma dalla data del rilascio della relativa sanatoria o dalla formazione del silenzio assenso per il decorso dei 24 mesi dalla data nella quale viene depositata la documentazione completa a corredo della domanda di concessione.
Il termine per la prescrizione della pretesa relativa agli oneri concessori connessi al condono edilizio non decorre dalla data di presentazione della domanda di condono, ma dalla data del rilascio della relativa sanatoria o dalla formazione del silenzio assenso per il decorso dei 24 mesi dalla data nella quale viene depositata la documentazione completa a corredo della domanda di concessione (giurisprudenza costante; ex multis TAR Cagliari Sardegna sez. II n. 2600/2010 - TAR Salerno Campania sez. II n. 8224/2010) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 09.08.2012 n. 308 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAAncorché sia incontestato che in materia urbanistica vige il principio per cui, di norma, non sussistono controinteressati rispetto all'impugnazione degli strumenti di programmazione, tuttavia tale principio subisce un’eccezione laddove sia fatta oggetto di impugnazione una variante al piano regolatore che abbia un oggetto del tutto specifico e circoscritto, nonché nei casi in cui, pur essendo impugnato uno strumento urbanistico, vi sia l'evidenza di posizioni specifiche di soggetti interessati al mantenimento dell'atto che determinano la loro qualità di controinteressati.
Il Collegio ritiene che, ancorché sia incontestato che in materia urbanistica vige il principio per cui, di norma, non sussistono controinteressati rispetto all'impugnazione degli strumenti di programmazione, tuttavia tale principio subisca un’eccezione laddove sia fatta oggetto di impugnazione una variante al piano regolatore che abbia un oggetto del tutto specifico e circoscritto, nonché nei casi in cui, pur essendo impugnato uno strumento urbanistico, vi sia l'evidenza di posizioni specifiche di soggetti interessati al mantenimento dell'atto che determinano la loro qualità di controinteressati (TAR Toscana, sez. III, 19.07.2000, n. 1713, TAR Torino Piemonte sez. I, 22.10.2010, n. 3734) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 09.08.2012 n. 306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIMentre l'atto meramente confermativo si limita a richiamare il precedente provvedimento e non ha perciò alcuna valenza costitutiva, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse del ricorso proposto avverso di esso e non contro il provvedimento originario, l'atto di conferma è autonomamente impugnabile, in quanto da un lato presuppone un completo riesame della fattispecie e dall'altro si sostituisce, pur avendo identico dispositivo, all'atto confermato.
La conferma, scaturita da una nuova indagine sulle condizioni di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie oggetto di valutazione, ben può essere sottoposta al sindacato giurisdizionale, anche nell'ipotesi di accertata inoppugnabilità del primo provvedimento.

E’ nota infatti la distinzione, enucleata da costante giurisprudenza, secondo cui “mentre l'atto meramente confermativo si limita a richiamare il precedente provvedimento e non ha perciò alcuna valenza costitutiva, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse del ricorso proposto avverso di esso e non contro il provvedimento originario, l'atto di conferma è autonomamente impugnabile, in quanto da un lato presuppone un completo riesame della fattispecie e dall'altro si sostituisce, pur avendo identico dispositivo, all'atto confermato” (cfr. TAR Napoli, Sez. VII, n. 5829 del 15.12.2011).
Si giunge così ad affermare che “la conferma, scaturita da una nuova indagine sulle condizioni di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie oggetto di valutazione, ben può essere sottoposta al sindacato giurisdizionale, anche nell'ipotesi di accertata inoppugnabilità del primo provvedimento” (Cons. Stato, Sez. IV, n. 813 del 07.02.2011) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 09.08.2012 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALISANZIONI AMMINISTRATIVE - GIUDIZIO DI OPPOSIZIONE AI SENSI DELLA LEGGE N. 689 DEL 1981 AVVERSO ORDINANZA INGIUNZIONE EMESSA DA UN COMUNE - RAPPRESENTANZA PROCESSUALE DELL'ENTE LOCALE - NECESSITA', O MENO, DELLA AUTORIZZAZIONE DELLA GIUNTA COMUNALE - QUESTIONE RIMESSA ALLE SEZIONI UNITE.
La Sezione Seconda civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della risoluzione della questione, ritenuta di massima di particolare importanza, concernente la necessità, o meno, anche per i giudizi di cui all’art. 23 della legge n. 689 del 1981 dell’autorizzazione della giunta comunale al Sindaco, ove previsto dallo Statuto dell’ente (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza interlocutoria 07.08.2012 n. 14219 - tratto da www.cortedicassazione.it)

EDILIZIA PRIVATALa conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli artt. 24, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 e 35, comma 20, l. n. 47/1985; del resto, risponde ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione è preordinata la disciplina urbanistico-edilizia”.
Se pure non si condividesse questo orientamento, ritenendosi preferibile la giurisprudenza secondo cui deve prescindersi dalla conformità dell’opera alla disciplina urbanistica e deve tenersi conto, al fine del rilascio del certificato di agibilità da parte del Comune, dei soli elementi del progetto di intervento edilizio incidenti sui profili igienico sanitari, deve ritenersi la necessità del certificato di agibilità per ogni uso di un immobile che comporti la frequentazione da parte delle persone, attese le finalità di evitare danni alle persone che si intrattengono nei locali privi di agibilità che, non essendo stati sottoposti a specifico controllo, potrebbero non presentare le dovute caratteristiche in termini di sicurezza, igienicità, salubrità, aerazione.

Quanto, poi, all’ordinanza n. 7, con cui si vietava al ricorrente lo svolgimento della propria attività lavorativa nei locali in parola, in quanto privi del certificato di agibilità, il Tribunale osserva come <<la recente giurisprudenza del Consiglio di Stato [abbia] avuto modo di osservare che “la conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli artt. 24, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 e 35, comma 20, l. n. 47/1985; del resto, risponde ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione è preordinata la disciplina urbanistico-edilizia” (cfr. Consiglio Stato, V, 30.04.2009, n. 2760).
Se pure non si condividesse questo orientamento, ritenendosi preferibile la giurisprudenza secondo cui deve prescindersi dalla conformità dell’opera alla disciplina urbanistica e deve tenersi conto, al fine del rilascio del certificato di agibilità da parte del Comune, dei soli elementi del progetto di intervento edilizio incidenti sui profili igienico sanitari (cfr. Consiglio Stato, V, 04.02.2004, n. 365), deve ritenersi la necessità del certificato di agibilità per ogni uso di un immobile che comporti la frequentazione da parte delle persone, attese le finalità di evitare danni alle persone che si intrattengono nei locali privi di agibilità che, non essendo stati sottoposti a specifico controllo, potrebbero non presentare le dovute caratteristiche in termini di sicurezza, igienicità, salubrità, aerazione
>> (Tar Calabria Catanzaro, II, 22.11.2011, n. 1398).
L’ordinanza n. 7 in questione, dunque, relativa a locali appunto ‘aperti’ alla pubblica frequentazione, costituiva una diretta conseguenza del riscontro dell’abusività delle opere in oggetto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 01.08.2012 n. 1447 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIA) quanto alla concessione di servizi:
- lo schema della gara informale di cui all’art. 30, comma 3, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 costituisce un modulo procedimentale caratterizzato da amplissima discrezionalità dell’Amministrazione nella fissazione delle regole selettive, con conseguente non soggezione alle regole interne e comunitarie dell’evidenza pubblica, ferma restando la sola necessità del rispetto dei principi di logicità, trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione tra i concorrenti, garantita attraverso idonea pubblicità delle procedure selettive e valutazione comparativa di più offerte;
- la procedura si caratterizza per una maggiore speditezza e semplificazione procedimentale;
- il grado di pubblicità della selezione deve necessariamente essere commisurato all’entità della concessione in relazione alla sua rilevanza economica e, dunque, adeguato alla specifica situazione concreta.
B) quanto all’affidamento diretto:
- elementari e indefettibili canoni di legalità impongono alla Pubblica Amministrazione, quando si determini a ricercare sul libero mercato, regolato dal diritto privato, le forniture di cui ha bisogno per il suo funzionamento (siano esse forniture di servizi di beni, di lavori, oppure di mano d’opera e di collaborazione professionale), di agire in modo imparziale e trasparente, predefinendo criteri di selezione e assicurando un minimo di pubblicità della propria intenzione negoziale e un minimo di concorso dei soggetti in astratto interessati e titolati a conseguire l’incarico (o, comunque, a stipulare il contratto);
- tale regola comporta che sia sempre garantito un minimo confronto concorrenziale tra almeno tre o cinque offerte.

Conseguentemente, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente:
A) quanto alla concessione di servizi:
- lo schema della gara informale di cui all’art. 30, comma 3, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 costituisce un modulo procedimentale caratterizzato da amplissima discrezionalità dell’Amministrazione nella fissazione delle regole selettive, con conseguente non soggezione alle regole interne e comunitarie dell’evidenza pubblica, ferma restando la sola necessità del rispetto dei principi di logicità, trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione tra i concorrenti, garantita attraverso idonea pubblicità delle procedure selettive e valutazione comparativa di più offerte;
- la procedura si caratterizza per una maggiore speditezza e semplificazione procedimentale;
- il grado di pubblicità della selezione deve necessariamente essere commisurato all’entità della concessione in relazione alla sua rilevanza economica e, dunque, adeguato alla specifica situazione concreta (TAR Lombardia, Milano, sez. I, 25.03.2011, n. 810; TAR Umbria, Perugia, sez. I, 13.01.2011, n. 1; TAR Molise, Campobasso, sez. I, 02.07.2008, n. 677; TAR Puglia, Bari, sez. I, 21.11.2007, n. 2768; TAR Sicilia, Catania, sez. III, 26.06.2007, n. 1102).
B) quanto all’affidamento diretto:
- elementari e indefettibili canoni di legalità impongono alla Pubblica Amministrazione, quando si determini a ricercare sul libero mercato, regolato dal diritto privato, le forniture di cui ha bisogno per il suo funzionamento (siano esse forniture di servizi di beni, di lavori, oppure di mano d’opera e di collaborazione professionale), di agire in modo imparziale e trasparente, predefinendo criteri di selezione e assicurando un minimo di pubblicità della propria intenzione negoziale e un minimo di concorso dei soggetti in astratto interessati e titolati a conseguire l’incarico (o, comunque, a stipulare il contratto);
- tale regola comporta che sia sempre garantito un minimo confronto concorrenziale tra almeno tre o cinque offerte (TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 19.04.2011, n. 372 TAR Campania, Napoli, sez. V, 24.01.2008, n. 382) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 01.08.2012 n. 1444 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINon lede il principio di pubblicità l’ulteriore esame del contenuto dei singoli documenti, avvenuto in sessione riservata, trattandosi di attività istruttoria che si riconduce all'ampia potestà di autotutela dell'Amministrazione ove riscontri vizi di legittimità in precedenti propri provvedimenti.
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L'obbligo di corredare l'offerta con la cauzione provvisoria è posto direttamente da una disposizione di legge (art. 75 d.lgs. 163/2006) di natura cogente e auto applicativa.
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La garanzia del due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, di cui deve essere corredata l’offerta a norma dell’art. 75 D.Lgs. n. 163/2006, assolve allo scopo di garantirne la serietà e di costituire una liquidazione preventiva e forfettaria del danno nel caso in cui la stipula del contratto non avvenga per recesso o per difetto dei requisiti del concorrente.
Perciò la cauzione provvisoria costituisce parte integrante della offerta e non elemento di corredo della stessa che la stazione appaltante possa liberamente richiedere, salvo vanificare il disposto dell’art. 48 D.Lgs. n. 163/2006 circa il potere-dovere delle stazioni appaltanti di escutere la cauzione provvisoria previa la esclusione dalla gara e la segnalazione all'Autorità di Vigilanza, a carico dell’offerente che non abbia comprovato il possesso dei requisiti richiesti nel bando di gara ovvero non confermato le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell'offerta.
La cauzione provvisoria è nettamente distinta da quella definitiva che l'esecutore del contratto è obbligato a costituire in misura pari al dieci per cento (10%) dell'importo contrattuale e con le modalità dell’art. 113 D.Lgs. n. 163/2006, al momento dell’aggiudicazione che adempie alla funzione di garantire l'obbligo di stipulare il relativo contratto e la corretta esecuzione delle opere.
In relazione alla funzione di vera e propria clausola penale, determinando la liquidazione preventiva e forfetaria del danno subito dall'amministrazione, in conseguenza dell'accertato inadempimento dell'obbligo di stipulare il contratto, la prestazione della cauzione provvisoria deve essere necessariamente contemplata dalla lex specialis, perché diretta a coprire la mancata sottoscrizione del contratto per fatto proprio dell'aggiudicatario, predeterminando la conseguenza dell'inadempimento con la liquidazione forfetaria del danno e prescindendo dall'esatta portata quantitativa del nocumento patito dall’amministrazione appaltante.

Consiglio Stato, sez. VI, 06/06/2011, n. 3357 che il Collegio condivide e fa proprio, ha ritenuto che non lede il principio di pubblicità l’ulteriore esame del contenuto dei singoli documenti, avvenuto in sessione riservata, trattandosi di attività istruttoria che si riconduce all'ampia potestà di autotutela dell'Amministrazione ove riscontri vizi di legittimità in precedenti propri provvedimenti.
Infine, a prescindere dalla questione relativa al possesso della certificazione di qualità che comunque era prevista a pena di esclusione dal bando di gara (terzo motivo del ricorso), rileva il Collegio che era ugualmente prevista a pena di esclusione, dal bando di gara, la presentazione di una cauzione provvisoria «nella misura e nei modi previsti dai commi 1, 2, 2- bis, 2-ter dall’art 30 del “testo coordinato”, pari al 2% (due per cento) dell’importo complessivo dell’appalto» (4 motivo del ricorso).
Ebbene nella fattispecie in esame l’insufficienza dell’importo della cauzione provvisoria risulta “per tabulas”.
Invero, l’ATI sopra indicata ha presentato una cauzione d’importo pari al 2% dell’importo complessivo dell’appalto, che tuttavia si presenta nell’importo garantito inferiore (pari a €. 23.854,00) rispetto a quello che si evince dalla seguente operazione matematica: 1.196.699,11 x 2% = 23.933,98.
A tale proposito TAR Lazio Roma, sez. II, 14/03/2011, n. 2310 che il Collegio condivide e fa propria, così recita: <<deve ritenersi che la concreta operatività del beneficio postuli (oltre alla ovvia dimostrazione documentale circa il possesso di tale requisito) che vi sia una manifestazione di volontà da parte dell'impresa di volersi avvalere della riduzione, la cui mancanza non può non integrare una causa di esclusione dalla selezione (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 09.03.2010, n. 1331 e sez. I, 28.06.2005 n. 8841).>>
E ancora: TAR Campania, Napoli, Prima Sezione, n. 10315 del 13.12.2007 ha statuito che l'obbligo di corredare l'offerta con la cauzione provvisoria è posto direttamente da una disposizione di legge (art. 75 d.lgs. 163/2006) di natura cogente e auto applicativa.
Inoltre rileva il Collegio che secondo la costante giurisprudenza, la garanzia del due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, di cui deve essere corredata l’offerta a norma dell’art. 75 D.Lgs. n. 163/2006, assolve allo scopo di garantirne la serietà e di costituire una liquidazione preventiva e forfettaria del danno nel caso in cui la stipula del contratto non avvenga per recesso o per difetto dei requisiti del concorrente (Cons. Stato, V, n. 1388/2011 e VI, 30.09.2004, n. 6347; Cons. Stato, V, 28.06.2004, n. 4789).
Perciò la cauzione provvisoria costituisce parte integrante della offerta e non elemento di corredo della stessa che la stazione appaltante possa liberamente richiedere (Cons. Stato, IV, 15.11.2004, n. 7380), salvo vanificare il disposto dell’art. 48 D.Lgs. n. 163/2006 circa il potere-dovere delle stazioni appaltanti di escutere la cauzione provvisoria previa la esclusione dalla gara e la segnalazione all'Autorità di Vigilanza, a carico dell’offerente che non abbia comprovato il possesso dei requisiti richiesti nel bando di gara ovvero non confermato le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell'offerta.
Rileva ancora il Collegio che la cauzione provvisoria è nettamente distinta da quella definitiva che l'esecutore del contratto è obbligato a costituire in misura pari al dieci per cento (10%) dell'importo contrattuale e con le modalità dell’art. 113 D.Lgs. n. 163/2006, al momento dell’aggiudicazione che adempie alla funzione di garantire l'obbligo di stipulare il relativo contratto e la corretta esecuzione delle opere (Cons. Stato, IV, 08.10.2007, n. 5222).
In relazione alla funzione di vera e propria clausola penale, determinando la liquidazione preventiva e forfetaria del danno subito dall'amministrazione, in conseguenza dell'accertato inadempimento dell'obbligo di stipulare il contratto, la prestazione della cauzione provvisoria deve essere necessariamente contemplata dalla lex specialis, perché diretta a coprire la mancata sottoscrizione del contratto per fatto proprio dell'aggiudicatario, predeterminando la conseguenza dell'inadempimento con la liquidazione forfetaria del danno e prescindendo dall'esatta portata quantitativa del nocumento patito dall’amministrazione appaltante (Cons. Stato, V, 11.12.2007, n. 6362; Cons. Stato, IV, 30.01.2006, n. 288) (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 23.07.2012 n. 1905 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinamento conosce anche il diverso istituto della cd. sanatoria giurisprudenziale, di matrice appunto pretoria, che, nel tentativo di mitigare la rigorosa applicazione del dettato del cit. art. 13, ha ritenuto sanabili anche gli interventi edilizi abusivi conformi solo alla normativa urbanistica sopravvenuta.
Di detta giurisprudenza, ancorché minoritaria, la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi nell'esigenza di non imporre la demolizione di un'opera che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il privato autore dell'abuso non si condivide l’assunto di tipo concettuale sulla qual essa si basa.
Sotto il primo profilo, si deve evidenziare, infatti, che tale regola giurisprudenziale ha l'effetto di accogliere una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al secondo.
Tuttavia, secondo il Collegio, l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.).
Pertanto, non è ipotizzabile un’antinomia tra efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità.

Peraltro, occorre ricordare che l’ordinamento conosce anche il diverso istituto della cd. sanatoria giurisprudenziale, di matrice appunto pretoria, che, nel tentativo di mitigare la rigorosa applicazione del dettato del cit. art. 13, ha ritenuto sanabili anche gli interventi edilizi abusivi conformi solo alla normativa urbanistica sopravvenuta.
Di detta giurisprudenza, ancorché minoritaria, la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi nell'esigenza di non imporre la demolizione di un'opera che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il privato autore dell'abuso non solo non si condivide l’assunto di tipo concettuale sulla qual essa si basa, ma si rileva che essa non è neppure applicabile nel caso di specie.
Sotto il primo profilo, si deve evidenziare, infatti, che tale regola giurisprudenziale ha l'effetto di accogliere una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al secondo.
Tuttavia, secondo il Collegio, l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.).
Pertanto, non è ipotizzabile un’antinomia tra efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità.
Nella materia oggetto del contendere, il punto di equilibrio fra efficienza e legalità è stato individuato dal legislatore nel consentire la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò costituisce applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le norme che disciplinano il procedimento da osservare nell'attività edificatoria, e ciò in applicazione dei principi di efficienza e buon andamento, che sarebbero violati ove agli aspetti solo formali si desse un peso preponderante rispetto a quelli del rispetto sostanziale delle norme generali e locali in materia di uso del territorio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.07.2012 n. 3961 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti, in caso di fusione solo manager specchiati
Palazzo Spada chiude l'operazione «appalti puliti», almeno per ora. L'adunanza plenaria torna sui requisiti di moralità necessari agli amministratori di società che partecipano a bandi pubblici chiarendo che, in caso di fusione o incorporazione societaria, chi prende parte alla gara deve garantire anche per i manager e per i supertecnici che si sono avvicendati al vertice dall'azienda anche nei tre anni precedenti oppure dimostrare la soluzione di continuità con la gestione precedente.

È quanto emerge con la sentenza 07.06.2012 n. 21, pubblicata dal massimo organo del Consiglio di stato che fa giustizia anche delle oscillazioni della giurisprudenza: vista l'incertezza creatasi prima delle pronunce dell'Adunanza plenaria, l'esclusione in epoca anteriore scatta solo se prevista ad hoc dal bando, diversamente si dovrà provare che gli amministratori hanno pregiudizi penali (in precedenza si è occupata della questione la sentenza 10/2012).
Concorrente smentito
Il codice degli appalti parla chiaro: non può svolgere lavori pubblici chi ha riportato condanne per reati gravi contro lo stato o l'Unione europea, dalla frode alla corruzione, dalla partecipazione a un'organizzazione criminale. E il divieto riguarda i vertici societari, variamente determinati a seconda del tipo di compagine.
A ritoccare il requisito di cui all'articolo 38, comma 2, del dlgs 163/06 è stato il dl 70/2011, ma ora l'Adunanza plenaria chiarisce che, prima e dopo l'entrata in vigore della novella, deve ritenersi sempre necessaria la presentazione di una dichiarazione sostitutiva completa, pena l'esclusione dall'appalto: la garanzia di moralità deve essere riferita anche agli amministratori delle società che partecipano a un procedimento di incorporazione o di fusione entro il triennio antecedente la pubblicazione del bando di gara. L'obiettivo è evitare che nelle scatole cinesi societarie si nascondano operatori economici che hanno già avuto problemi con la giustizia.
Palazzo Spada, tuttavia, accoglie il ricorso dell'azienda che il concorrente tentava di bloccare (peraltro nell'appalto per il servizio di vigilanza relativo a un ufficio giudiziario). E nel farlo i giudici indicano il criterio valido per gli appalti passati, quando la giurisprudenza era incerta: esclusione sì, ma solo se l'onere di documentazione era esplicitato dal bando, altrimenti bisogna provare che i manager sono pregiudicati (articolo ItaliaOggi del 04.09.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: Ammissibilità dell’impugnazione da parte della ditta classificatasi in posizione non immediatamente successiva a quella dell’aggiudicataria, nel caso di ricorso avverso il bando di gara che, ove accolto, comporterebbe la riedizione della gara.
Illegittimità della clausola che prevede l’apertura dei plichi contenenti l’offerta tecnica in seduta riservata.

E’ ammissibile il ricorso avverso l’aggiudicazione di una gara di appalto proposto da una ditta non classificatasi in posizione immediatamente successiva a quella dell’aggiudicataria (nella specie si trattava di una ditta classificatasi al 7° posto in graduatoria), allorché il ricorso sia non solo diretto all’annullamento dell’aggiudicazione in favore della prima classificata, ma sia prevalentemente indirizzato ad ottenere l’annullamento di tutte le operazioni, nonché della clausola della lex specialis e, pertanto, la ripetizione della procedura. In tal caso, infatti, non può essere negata la sussistenza di una posizione qualificata della ricorrente alla rinnovazione della gara tesa ad ottenere il conseguente vantaggio di poter partecipare alla procedura rinnovata per far valere la propria chance di risultare aggiudicataria.
L’onere di impugnare direttamente il bando di gara sussiste solo allorquando il bando contenga clausole impeditive dell'ammissione dell'interessato alla selezione. Di conseguenza, le clausole del bando o della lettera di invito che onerano l'interessato ad una immediata impugnazione sono quelle che prescrivono requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara, in riferimento sia a requisiti soggettivi che a situazioni di fatto, la carenza dei quali determina immediatamente l'effetto escludente, configurandosi il successivo atto di esclusione come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già prodotta (1).
In base ad una corretta interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno in materia di trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti, deve ritenersi che il principio della pubblicità delle operazioni di gara debba essere osservato anche con riferimento all’apertura della buste contenenti l’offerta tecnica, dovendo anche tale operazione essere assistita dalle medesime garanzie poste a tutela degli interessi pubblici e privati richiamati (2). E’ pertanto illegittima la clausola del bando di gara, la quale prevede che la apertura dei plichi contenenti l’offerta tecnica avvenga in seduta riservata.
Nelle gare di appalto, la "verifica della integrità dei plichi" non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinata a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato (3).
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(1) Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 1 del 2003
(2) Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 13 del 2011
(3) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.09.2010, n. 6939; 10.11.2010, n. 8006; 04.03.2008, n. 901; sez. VI, 22.04.2008, n. 1856; sez. V, 03.12.2008, n. 5943; sez. IV, 11.10.2007, n. 5354; sez. V, 18.03.2004, n. 1427
(TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 01.06.2012 n. 5000 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Strumenti urbanistici generali. La destinazione urbanistica a verde privato rientra tra le ipotesi di qualificazione delle zone territoriali omogenee.
La destinazione urbanistica di un’area a "verde privato" operata dalle previsioni del vigente strumento urbanistico primario non assume la natura di vincolo ablatorio o assimilabile, ma rientra nell’ambito della normale conformazione della proprietà privata, espressione del potere di pianificazione del territorio comunale; infatti, la destinazione a verde privato di un’area rientra tra le ipotesi di qualificazione delle zone territoriali omogenee di cui lo strumento urbanistico primario si compone e, anche se pone preclusione all’edificazione implicando l’esclusione della possibilità di realizzare qualsiasi opera edilizia incidente sulla destinazione a verde (1), rimane comunque espressione delle funzioni di ripartizione in zone del territorio, senza determinare vincoli tali da escludere potenzialmente il diritto di proprietà nella sua interezza (2).
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(1) Cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 05.10.1995 n. 781.
(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.07.1985 n. 290.
Ha osservato, in particolare, la sentenza in rassegna che la destinazione urbanistica a verde privato non sostanzia alcun vincolo correlato al regime di decadenza conseguente all’inutile decorso del termine quinquennale all’epoca contemplato dall’art. 2 della L. 19.11.1968 n. 1187 (e, ora, dall’art. 9 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 327 come modificato dall’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 352) e che altrimenti implicherebbe -per l’appunto- l’obbligo del Comune di procedere alla riqualificazione urbanistica delle aree stesse dopo la scadenza del vincolo (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 14.12.1993 n. 1068).
Da ciò consegue, quindi, non solo che nessuna decadenza si è nella specie verificata per quanto segnatamente attiene alla destinazione a verde privato imposta all’area in questione, ma anche che dalla destinazione stessa non discende alcun obbligo di indennizzo per il privato, non potendosi pertanto dare accesso a qualsivoglia censura tesa a far valere l’illegittimità della previsione di destinazione sotto il profilo della mancanza di un ristoro economico al riguardo
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.05.2012 n. 2919 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Provvedimento di decadenza del Permesso di costruire.
La decadenza del titolo edilizio -come si evince peraltro dalla normativa (v. l’art. 4 della L. 10 del 1977, nella specie applicabile ratione temporis; v. oggi l’art. 15, comma 2, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380)- consegue dal mero decorso del tempo correlato all’inattività dell’interessato e non necessita a tal fine un esplicito provvedimento amministrativo, costitutivo o dichiarativo.
La pronuncia di decadenza del titolo edilizio è espressione di un potere strettamente vincolato; ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell’inerzia del titolare, ovvero della sopravvenienza di una nuova e diversa strumentazione edilizia, e assume pertanto decorrenza ex tunc. Inoltre il termine di durata del titolo edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha rilasciato il titolo edilizio e che accerti l’impossibilità del rispetto del termine ab origine fissato, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis, ovvero l’insorgenza di una causa di forza maggiore (1).
Nel caso di impugnativa in s.g. del provvedimento di decadenza di un permesso di costruire per mancato inizio dei lavori entro il termine annuale, secondo il generale principio di distribuzione dell’onere della prova di cui al combinato disposto dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 cod. proc. civ. –ora espressamente recepito dall’art. 64, comma 1, cod. proc. amm. ma reputato immanente nell’ordinamento processuale amministrativo, se non altro per quanto attiene alle ipotesi che come per il caso di specie pertengono alla giurisdizione esclusiva, anche in epoca antecedente all’entrata in vigore del nuovo codice di rito (2)– spetta al ricorrente dedurre che le opere asseritamente realizzate prima della scadenza del termine annuale fissato per l’avvio dei lavori erano comunque idonee a dimostrare una sua seria e concreta volontà di utilizzare il titolo edilizio a lei rilasciato.
Ai fini della sussistenza dei presupposti per la decadenza dal permesso di costruire, l’effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò all' evidente scopo di evitare che il termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione (3).
L’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza del permesso di costruire può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà di realizzare il manufatto, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione (4); o, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione (5), con la conseguenza che la declaratoria di decadenza del permesso di costruire per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo se sono stati perlomeno eseguiti lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge (6) o se lo sbancamento realizzato si estenda su di un’area di vaste dimensioni (7).
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(1) Cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4423 e 18.06.2008 n. 3030
(2) Cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 07.10.2009 n. 6118
(3) Cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 16.11.1998 n. 1615.
(4) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1993 n. 1165.
(5) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2000 n. 5242.
(6) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.10.1992 n. 1006.
(7) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13.05.1996 n. 535
(massima tratta www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.05.2012 n. 2915 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: OPERE IN CEMENTO ARMATO E RESPONSABILITA` DEL COSTRUTTORE.
Il reato di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, D.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto reato omissivo proprio, è configurabile in capo al costruttore, essendo imposto dalla legge, in via esclusiva a carico di quest’ultimo, l’obbligo di denuncia.

La Corte di Cassazione si pronuncia, con la sentenza in esame, sulla disciplina relativa alla realizzazione delle opere in conglomerato cementizio armato, individuando nel costruttore il soggetto responsabile del reato di omessa denuncia.
La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario e committente di alcuni interventi edilizi, ritenuto responsabile per avere eseguito un manufatto abusivo in zona sismica in violazione di norme sul conglomerato cementizio armato e di avere dato inizio ai lavori senza la preventiva denuncia dei lavori allo Sportello unico dell’edilizia. A seguito della pronuncia di condanna, questi proponeva ricorso per cassazione denunciando violazione di legge relativamente alla condanna per il reato relativo al conglomerato cementizio, in base al rilievo che l’obbligo della denuncia delle opere incomberebbe solo sul costruttore e non sul proprietario/committente.
La tesi è stata condivisa dalla Cassazione che ha ritenuto l’affermazione di responsabilità per tale reato non è sorretta da alcuna motivazione, con conseguente annullamento della sentenza. A fondamento della decisione, peraltro, la Corte mostra di aderire a quell’orientamento giurisprudenziale che qualifica il reato di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (D.P.R. 06.06.2001, n. 380, artt. 65 e 72), come reato omissivo proprio, in quanto tale configurabile solo in capo al costruttore, essendo imposto dalla legge, in via esclusiva a carico di quest’ultimo, l’obbligo di denuncia, con esclusione della responsabilità del proprietario/committente (v., ex multis, da ultimo: Cass. pen., sez. III, 07.05.2010, n. 17539, in Ced Cass., n. 247168). Trattasi, tuttavia, di un orientamento non del tutto pacifico in giurisprudenza.
Ed infatti, sul punto, altra giurisprudenza ritiene diversamente che il committente di lavori edilizi concorre, in qualità di ‘‘extraneus’’, nella contravvenzione di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, D.P.R. 06.06.2001, n. 380), pur trattandosi di reato omissivo proprio del costruttore (Cass. pen., sez. III, 31.05.2011, n. 21775, in Ced Cass., n. 250377) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.05.2012 n. 18104- tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2012).

EDILIZIA PRIVATAPRECARIETA` E TEMPORANEITA` DELL’INTERVENTO EDILIZIO.
In materia edilizia, ai fini del riscontro del connotato della precarietà e della relativa esclusione della modifica dell’assetto del territorio, non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l’agevole rimovibilità, ma le esigenze temporanee alle quali l’opera eventualmente assolva.
Questione ricorrente quella affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame, relativa al tema dei rapporti intercorrenti tra precarietà dell’opera edilizia e la sua temporaneità. La vicenda processuale segue ad una sentenza di condanna, confermata in grado d’Appello, per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), e per il reato di cui agli artt. 83, 93, 94 e 95, stesso D.P.R., in relazione all’installazione su un piano di cemento armato di un prefabbricato in legno di circa metri 8 per 6, con antistante portico, senza permesso di costruire e senza le prescritte autorizzazioni, trattandosi di zona sismica.
Proponeva ricorso per Cassazione l’imputato che, per quanto qui di interesse, rilevava l’erronea applicazione della norma incriminatrice, perchè -a suo dire- la propria condotta non avrebbe integrato le fattispecie previste e punite dalla norma. Sosteneva, in particolare, la difesa che l’opera prefabbricata in legno realizzata non rientrasse nella nozione di ‘‘costruzione’’, non avendo i caratteri di struttura stabilmente ancorata al suolo. Si sarebbe trattato, infatti, di un prefabbricato amovibile, che non poggia al suolo in modo stabile, ma legato ad esso con viti di ferro: cioè , di un’opera chiaramente smontabile. Tale circostanza sarebbe emersa anche nel dibattimento di primo grado, in cui il teste che aveva proceduto all’accertamento del reato non aveva saputo riferire se l’opera fosse o meno ancorata al suolo.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che hanno dichiarato inammissibile il ricorso.
In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto ineccepibile il ragionamento logico-giuridico condotto dai giudici di merito, risultando dagli atti che la polizia giudiziaria che aveva accertato l’illecito aveva, in sede di audizione testimoniale, riferito che la struttura era prefabbricata e installata stabilmente alla piattaforma di cemento e che, toccandola, non si muoveva: si trattava, comunque, di una struttura abitabile e di dimensioni considerevoli. Correttamente, dunque, per la Cassazione, i giudici di merito hanno richiamato il principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità , secondo cui la temporaneità dell’opera deve desumersi da elementi obiettivi e non dalle caratteristiche del manufatto o dall’intenzione soggettiva del costruttore, perché , ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, lett. e) ed art. 55, si considerano opere edilizie anche l’istallazione di manufatti leggeri prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere come roulottes, camper, case mobili, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, depositi, magazzini (cfr., ex plurimis: Cass. pen., sez. III, 27.05.2009, n. 22054, in Ced Cass., n. 243710; Id., sez. III, 13.06.2006, n. 20189, in Ced Cass., n. 234325 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.05.2012 n. 18087 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2012).

EDILIZIA PRIVATA: MANCATA ESTENSIONE DELLA SANATORIA EDILIZIA AI REATI PAESAGGISTICI.
La concessione rilasciata a seguito di accertamento di conformità (art. 36 D.P.R. 06.06.2001, n. 380) estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che riguarda l’assetto del territorio sotto il profilo edilizio (v. anche Corte cost., ord. 21.07.2000, n. 327).
Tema molto delicato, affrontato dalla Cassazione con la sentenza in commento, è quello dell’ambito applicativo della cd. sanatoria edilizia, prevista dall’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, e della sua possibile estensione -agli effetti dell’estinzione del reato- a reati diversi da quelli edilizi stricto sensu intesi. La vicenda processuale vedeva contestati agli imputati tre diverse reati:
a) reato p. e p. dall’art. 110 c.p., D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. c) per avere, in concorso fra loro, eseguito in assenza o comunque in totale difformità del permesso di costruire, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, ex art. 142, lett. g), alcuni interventi edilizi;
b) reato p. e p. dall’art. 110 c.p., D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181 in rel. L. 28.02.1985, n. 47, art. 20, lett. c) per avere, in concorso fra loro, eseguito, in assenza della prescritta autorizzazione dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, le opere di cui al capo a) della imputazione in zona paesaggisticamente vincolata;
c) reato p. e p. dagli artt. 110 e 734 c.p. per avere, in concorso fra loro, distrutto o alterato le bellezze naturali di luoghi soggetti alla speciale protezione della Autorità con le opere di cui al capo precedente. In particolare, il tribunale ha ritenuto essere i reati ascritti, estinti per intervenuto permesso di costruire in sanatoria.
Contro la sentenza di proscioglimento proponeva ricorso il PM, osservando come il rilascio del permesso di costruire in sanatoria estingue unicamente i reati previsti dalle norme urbanistiche, ma non anche quelli previsti da altre disposizioni di legge e, in ogni caso, a tutela di altri interessi, come nel caso concreto, di beni paesaggistici.
La tesi ha avuto facile seguito nella valutazione dei giudici di legittimità. Pacifico, infatti, è l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il rilascio in sanatoria del permesso di costruire determina l’estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti e, quindi, si riferisce esclusivamente alle contravvenzioni concernenti la materia che disciplina l’assetto del territorio sotto il profilo edilizio, ossia alle violazioni della stessa legge, in cui sono contemplate le ipotesi tipiche suscettibili di sanatoria (opere eseguite in assenza di concessione o in totale difformità o con variazioni essenziali, ecc.).
Ne deriva che la causa estintiva non è applicabile a altri reati che hanno una oggettività giuridica diversa rispetto a quella della mera tutela urbanistica del territorio, ossia:
a) quelli relativi a violazioni di disposizioni dettate in materia di costruzioni in zona sismica;
b) quelli relativi a violazioni di disposizioni dettate in materia di opere in conglomerato cementizio;
c) quelli relativi a violazioni di disposizioni dettate in materia di tutela delle zone di particolare interesse ambientale (v., tra le tante: sez. III, 10.10.2007, n. 37318, in Ced Cass., n. 237561) (commento tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2012 - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.05.2012 n. 17825 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: IMPIANTI FOTOVOLTAICI E NECESSITA` DI TITOLO ABILITATIVO.
L’esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22, commi 1 e 2, D.P.R. 06.06.2001 n. 380, allorché non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, comporta l’applicazione della sanzione penale prevista dall’art. 44 lett. a), del citato D.P.R. n. 380, atteso che soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA, ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall’art. 37 dello stesso decreto n. 380 del 2001 (fattispecie relativa alla realizzazione mediante DIA di un impianto fotovoltaico eseguito in base alla legislazione regionale della Puglia successivamente dichiarata incostituzionale, in quanto ne legittimava la realizzazione senza il rispetto del limite di potenza prevista dalla legislazione statale per il regime semplificato).
Di particolare interesse la questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame, relativa alla esecuzione di una particolare tipologia di interventi sul territorio costituiti dai cc.dd. pannelli fotovoltaici. I fatti possono così essere sinteticamente riassunti.
Militari della Guardia di Finanza e della stazione carabinieri di una località pugliese procedevano al sequestro delle opere realizzate presso l’impianto fotovoltaico costituito da n. 4.080 pannelli fotovoltaici, due cabine inverter ed una cabina ENEL, tutto riconducibile ad una società di cui l’indagato era il legale rappresentante. Nel verbale di sequestro si esponeva che:
a) la società era titolare di una DIA per la realizzazione di una struttura erogante una potenza di picco pari a 999,04 kw;
b) le opere in fase di realizzazione erano del tutto difformi da quelle di cui alla DIA, ed in particolare dalla planimetria riportata sulla tav. 3 del progetto;
c) l’area oggetto di intervento ricadeva in zona classificata dal PDTT come ‘‘e’’ agricola in ambito territoriale esteso;
d) il Comune aveva rilasciato l’autorizzazione paesaggistica;
e) non era stato allegato alla DIA alcun titolo di proprietà del terreno da parte della società , risultando solo un contratto preliminare in merito alla realizzazione, l’esercizio, la gestione e la manutenzione di una centralina di energia fotovoltaica;
f) le opere non rispettavano il requisito di cui alla L.R. n. 31 del 2008, art. 3, comma 1, lett. b), peraltro successiva all’inoltro della DIA e successivamente dichiarata incostituzionale.
Contro l’ordinanza del tribunale del riesame di rigetto della richiesta di dissequestro, proponeva ricorso per cassazione l’indagato censurando l’interpretazione che il tribunale ha dato alla L.R. Puglia n. 1 del 2008, art. 27: la possibilità della DIA, a suo dire, sussisteva ogni qual volta gli impianti in questione fossero localizzati in zone classificate agricole dai piani urbanistici. Tale interpretazione risultava confermata dalla successiva L.R. Puglia n. 31 del 2008, art. 3, che ribadiva espressamente la possibilità di ricorrere ad una semplice DIA per la realizzazione di impianti fotovoltaici sul suolo agricolo.
Il ricorrente deduceva, inoltre, anche che la DIA per la costruzione dell’impianto oggetto di sequestro si era perfezionata in realtà sotto la vigenza della L.R. n. 31 del 2008; infine, censurava l’ordinanza impugnata sotto il profilo che la difformità delle opere eseguite rispetto alla DIA non costituisce un illecito penale, ma comporta solo l’applicazione della sanzione amministrativa.
La tesi, suggestiva ed articolata, non ha però fatto breccia nella valutazione dei giudici della Cassazione. Ed invero, la Corte, dopo aver operato una puntuale minuziosa analisi dell’evoluzione legislativa, statale regionale, sul tema della necessità o meno di titoli abilitativi per la realizzazione di impianti fotovoltaici, ha osservato che, dapprima, con la sentenza n. 119 del 2010 della Corte costituzionale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della L.R. Puglia 21.10.2008, n. 31, art. 2, commi 1, 2 e 3 e art. 3, commi 1 e 2; successivamente, con la sentenza n. 366 del 2010, e` stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della L.R. Puglia 19.02.2008, n. 1, art. 27, comma 1, lett. b). Risulta quindi travolta da tali pronunce la disciplina specifica posta dall’art. 27 e dall’art. 3 citati che facoltizzava la realizzazione di impianti fotovoltaici di potenza fino ad un megawatt sulla base di una semplice DIA anche in zone a destinazione agricola secondo gli strumenti urbanistici vigenti.
Pertanto, anche se la DIA della società di cui l’indagato era il legale rappresentante sembra essersi perfezionata prima delle richiamate dichiarazioni di incostituzionalità, comunque la realizzazione dell’impianto, ove anche in ipotesi originariamente legittima in forza della DIA, non poteva considerarsi tale perché affetta da illegittimità sopravvenuta a seguito della dichiarazione di incostituzionalità prima della L. n. 31 del 2008, art. 3 e poi della L. n. 1 del 2008, art. 27, che rendeva ab origine inidonea la DIA a legittimare la realizzazione di impianti fotovoltaici senza il rispetto del limite di potenza prevista dalla legislazione statale per il regime semplificato.
Ne discende, dunque, l’applicazione del principio secondo cui l’esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22, commi 1 e 2, D.P.R. 06.06.2001 n. 380, allorché non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, comporta l’applicazione della sanzione penale prevista dall’art. 44 lett. a), del citato D.P.R. n. 380, atteso che soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA, ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall’art. 37 dello stesso decreto n. 380 del 2001 (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 05.03.2009, n. 9894, in Ced Cass., n. 243099; Id., sez. III, 20.12.2006, n. 41619, in Ced Cass., n. 235413) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2012 n. 17433 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2012).

EDILIZIA PRIVATA: REALIZZAZIONE DI UN TETTO PIU` ALTO E DIFFORMITA` PARZIALE.
La sostituzione del tetto può rientrare tra gli interventi di manutenzione straordinaria (art. 3, comma 1, lett. b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto tali non soggetti a permesso di costruire, purché non venga modificata la quota d’imposta o alterato lo stato dei luoghi ne´ planimetricamente né quantitativamente rispetto alle superfici ed ai volumi preesistenti.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte nella sentenza in esame riguarda la realizzazione di interventi edilizi qualificabili come difformità parziali anziché come variazioni essenziali al progetto approvato.
La vicenda processuale vedeva imputati di alcune violazioni urbanistiche ed edilizie i comproprietari-committenti di un immobile, cui era stato contestato di avere, in assenza del prescritto permesso di costruire, eseguito o comunque, fatto eseguire, in sopraelevazione del predetto immobile già preesistente una serie di opere edilizie:
a) un fabbricato al secondo piano di mq. 160 circa (realizzato in totale difformità all’autorizzazione relativa ad un tetto di copertura a falda unica con sottotetto non abitabile) costituito da pilastri in cemento armato e legno a sostegno della copertura, ad una falda, costituita da travi di legno, tavolato e sovrastanti coppi (altezza massima sul lato ovest pari a mt. 5, altezza minima di prospetto di mt. 0,80 circa);
b) una parete perimetrale ovest in mattoni laterizi forati;
c) un vano di mq. 20 realizzato sulla porzione nordovest del suddetto secondo piano, costituito da pareti in mattoni forati aventi altezza di mt. 2,00 circa.
In sede di ricorso per Cassazione i due imputati avevano censurato la sentenza impugnata per l’asserita genericità della sua motivazione e comunque per la sua contraddittorietà. In particolare, secondo la difesa, i giudici di merito non avrebbero tenuto conto che il regolamento comunale prevedeva come limite, ovvero come quota massima, di altezza quella di fatto realizzata che pertanto non poteva considerarsi in violazione di legge. In ogni caso non si poteva parlare di difformità totale perché l’immobile per cui è causa rimaneva, comunque, un sottotetto così come in progetto, di talché nessuna violazione di legge era stata commessa essendo essi ricorrenti in possesso di autorizzazione comunale.
La tesi, ben argomentata, non è stata però sufficiente a mutare l’orientamento della Cassazione sul punto. Ed infatti, i giudici di legittimità hanno sottolineato che la realizzazione di un tetto ad una altezza di colmo superiore a quella prevista nel progetto approvato non può ritenersi una variante in corso d’opera, anche se la modifica sia conforme agli strumenti urbanistici, ma costituisce, invece, una difformità parziale.
Sul punto, hanno ribadito che la sostituzione del tetto può rientrare tra gli interventi di manutenzione straordinaria (D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 3, comma 1, lett. b), in quanto tali non soggetti a permesso di costruire, purché non venga modificata la quota d’imposta o alterato lo stato dei luoghi né planimetricamente né quantitativamente rispetto alle superfici ed ai volumi preesistenti (v., tra le tante, da ultimo: Cass. pen., sez. III, 11.06.2010, n. 22229, in Ced Cass., n. 247637; Id., sez. III, 25.01.2006, n. 2935, in Ced Cass., n. 233295) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2012 n. 17411 - tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Opera pertinenziale al servizio di edifici già esistenti - recinzione - è soggetta non a concessione edilizia, bensì ad autorizzazione gratuita - è soggetta non a concessione edilizia, bensì ad autorizzazione gratuita - il potere sanzionatorio in materia edilizia.
La giurisprudenza è univoca e costante nell’affermare che, ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 9 del 1982, ogni opera pertinenziale al servizio di edifici già esistenti, tra le quali rientra anche una recinzione, nella misura in cui se ne accerti l’effettiva funzione pertinenziale nei riguardi di un fabbricato già esistente, è soggetta non a concessione edilizia, bensì ad autorizzazione gratuita.
Pertanto, poiché nel provvedimento si fa riferimento ad una mera recinzione -e non già ad una opera più complessa, quale una recinzione composta da muro di sostegno con sovrastante rete metallica, che costituendo una vera e propria costruzione idonea a modificare l’assetto urbanistico-edilizio del territorio, avrebbe comportato il previo rilascio del titolo concessorio- si appalesa illegittimo il provvedimento con il quale il Sindaco ha ordinato la demolizione della recinzione dell’edificio, in base al presupposto che si trattasse di opera soggetta a concessione.
Né il provvedimento potrebbe essere giustificato dalla rilevata circostanza che la recinzione di cui trattasi graverebbe su tratto di strada mulattiera, perché al fine di rimuovere tale situazione il sindaco non avrebbe dovuto esercitare il potere sanzionatorio in materia edilizia, ma, tempestivamente, a suo tempo (allorché lo stato di fatto preesistente, come sembra emergere dalle planimetrie allegate alla perizia tecnica, alla quale si è in precedenza accennato, era stato pregiudicato non dalla recinzione, ma dallo stesso edificio, che aveva invaso con il piano seminterrato l’angolo sud/est della strada mulattiera, impedendone il transito), avrebbe dovuto ordinare la rimessa in pristino della strada ritenuta di uso pubblico, ai sensi degli artt. 378, L. 20.3.1865 n. 2248, all. F e 15, d.l.lgt. 01.09.1918 n. 1446 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.10.2002 n. 5610 - massima tratta da www.ambientediritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 03.09.2012

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UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Mutui e ristrutturazioni - Come massimizzare i benefici per la casa (articolo ItaliaOggi Sette del 27.08.2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 29.08.2012 n. 201 "Disposizioni relative alle modalità di presentazione delle istanze concernenti i procedimenti di prevenzione incendi e alla documentazione da allegare, ai sensi dell’articolo 2, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 01.08.2011, n. 151" (Ministero dell'Interno, decreto 07.08.2012).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: limiti retributivi - art. 23-ter d.l. n. 201, convertito in l. n. 214 del 2011 - d.P.C.m. 23.03.2012 (G.U. 16.04.2012 n. 89) (circolare 03.08.2012 n. 8/2012).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Diritti dei consiglieri comunali e provinciali - Art. 43, comma 2, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (Prefettura di Bergamo, nota 22.06.2010 n. 73 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

LAVORI PUBBLICI: G. Rispoli, RESPONSABILITÀ DA MANUTENZIONE STRADALE DELLA P.A.: RIFLESSIONI SULLA PIÙ RECENTE EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE (link a www.rivistagiuridica.aci.it).

LAVORI PUBBLICI: S. Ruscica, LA RESPONSABILITÀ DEL GESTORE DI STRADE APERTE AL PUBBLICO PER IL CASO DI ATTRAVERSAMENTO DI ANIMALI SELVATICI (link a www.rivistagiuridica.aci.it).

ENTI LOCALI: A. Carnabuci, Toponomastica e segnaletica di localizzazione del territorio (link a www.rivistagiuridica.aci.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Pierobon, QUALE LA “RAGIONEVOLEZZA” DELLE SANZIONI PENALI ? (IL TRASPORTO DI RIFIUTI PERICOLOSI SENZA FORMULARIO) (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, I PRINCIPI FONDAMENTALI CONTENUTI NEL TESTO UNICO DELL’EDILIZIA E LE PRONUNCE DI INCOSTITUZIONALITA (commento della sentenza n. 2147/2012 del TAR Lombardia-Milano) (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: S. Maglia e V. Balossi, D.P.R. n. 227/2011: novità per l’assimilazione di acque reflue industriali? (link a www.ipsoa.it).

QUESITI & PARERI

LAVORI PUBBLICI: Liquidazione del saldo finale.
Domanda
Il Responsabile del Procedimento può procedere ugualmente alla liquidazione del saldo finale, qualora, in sede di verifica di conformità o di regolare esecuzione al termine di un appalto di servizi di durata pluriennale, emerga che la ditta non ha effettuato tutte le prestazioni previste dal contratto?
Risposta
La L. 07-08-1990, n. 241, agli artt. 4, 5 e 6, ha introdotto e disciplinato la figura del Responsabile del Procedimento amministrativo, disciplinando le sue funzioni nel procedimento stesso e in relazione al provvedimento amministrativo finale.
La figura del Responsabile del Procedimento risponde al principio della trasparenza e dell'efficienza dell'azione amministrativa, grazie al fatto che, con la sua presenza, consente a ciascun interessato di avere un referente nell'Amministrazione, a cui rivolgersi in relazione ai propri interessi coinvolti.
Il Responsabile, dunque, garantisce la finalità prevista dall'art. 97 Cost. (relativa al buon andamento dell'azione amministrativa ed alla determinazione delle sfere di competenza degli uffici) e quella dell'art. 28 Cost. (in materia di responsabilità diretta dei dipendenti pubblici per gli atti compiuti in violazione dei diritti).
I compiti del Responsabile consistono, essenzialmente, nella comunicazione di avvio del procedimento, nella cura dell'istruttoria, nel provvedere alle comunicazioni e le notificazioni e nell'indire Conferenze di Servizi; può richiedere documenti, pareri o valutazioni tecniche, valutare le condizioni di ammissibilità e i presupposti per l'adozione del provvedimento finale.
Nel caso in cui il provvedimento finale sia difforme dalla proposta avanzata dal Responsabile, esso deve essere specificatamente motivato. Deve, cioè, essere indicato il motivo dell'adozione di una soluzione provvedimentale diversa da quella proposta dal Responsabile del Procedimento amministrativo.
Dunque, in relazione alla domanda specifica, bisogna ricordare che il Responsabile del Procedimento risponde, sia civilmente ex art. 22, D.P.R. 10-01-1957, n. 3 ove abbia cagionato ad altri un danno ingiusto con dolo o colpa grave (ed al riguardo potrà essere chiamato dinanzi alla Corte dei Conti, in via di rivalsa, a rispondere del danno erariale indiretto subito dall'Amministrazione) sia amministrativamente per responsabilità contabile per danno erariale diretto. Il Responsabile del Procedimento potrà rispondere anche penalmente ex art. 328 cod. pen. per omissione d'atti d'ufficio ove non provveda a compiere un atto del suo ufficio entro trenta giorni dalla data della richiesta di chi vi abbia interesse né esponga le ragioni del ritardo.
Dunque, bisognerà, prima di non provvedere al pagamento della liquidazione del Responsabile, valutare l'effettiva responsabilità dello stesso, ove manchino le motivazioni per la difformità delle prestazioni poste in essere (30.08.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

NEWS

VARIInvalidi, contrassegno europeo. Permessi già rilasciati validi per tre anni, poi nuovo modello. Lo prevede un dpr pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Segnaletica stradale da modificare.
Via libera al nuovo contrassegno invalidi europeo e alla conseguente necessaria modifica della segnaletica stradale.
Lo prevede il dpr n. 151 del 30.07.2012 pubblicato sulla gazzetta ufficiale n. 203 del 31.08.2012.
Il contrassegno per invalidi comunitario è già stato adottato da tempo da molti stati dell'Unione europea. Con la riforma stradale del 2010 sono stati eliminati gli ostacoli normativi all'adozione anche in Italia del nuovo tagliando. Ora, con il dpr n. 151/2012 (che entrerà in vigore il 15 settembre), viene finalmente disposta la modifica dell'art. 381 del regolamento stradale e l'Italia darà attuazione alla raccomandazione del consiglio dell'Unione n. 98/376/Ce del 04.06.1998.
Per un periodo transitorio di tre anni i permessi già rilasciati resteranno validi ma in sede di rinnovo dovrà essere rilasciato il nuovo modello. I comuni potranno però fissare tempi inferiori. Sempre entro 3 anni la segnaletica stradale orizzontale e verticale riguardante la mobilità delle persone disabili dovrà essere adatta recependo la rappresentazione grafica e cromatica del nuovo contrassegno.
Sul modello, di colore azzurro chiaro (con il simbolo bianco della sedia a rotelle su fondo azzurro scuro), saranno trascritti e apposti la data di scadenza, il numero di serie e il nome e il timbro dell'autorità nazionale che rilascia il contrassegno e nella parte retrostante, non visibile, il nominativo e la fotografia del soggetto autorizzato. Il nuovo contrassegno di parcheggio per disabili sarà rilasciato a chi abbia capacita di deambulazione sensibilmente ridotta o (e questa è una delle novità) impedita. Dovrà essere esposto in originale nella parte anteriore del veicolo in modo che sia chiaramente visibile per i controlli.
Scaduto il periodo di validità del contrassegno a tempo determinato potrà esserne emesso uno nuovo previa ulteriore certificazione medica rilasciata dall'ufficio medico legale dell'azienda sanitaria locale di appartenenza con la quale si attesti che le condizioni della persona invalida danno diritto all'ulteriore rilascio. Per quanto concerne l'assegnazione a titolo gratuito di uno spazio di sosta nei casi di particolare invalidità, nelle zone ad alta densità di traffico, non occorre più che il titolare del contrassegno sia abilitato alla guida e disponga di un autoveicolo, ma è necessario che l'interessato dimostri di non avere la disponibilità di uno spazio di sosta privato accessibile e fruibile.
I comuni potranno prevedere la gratuità della sosta per gli invalidi nei parcheggi a pagamento, qualora risultino già occupati o indisponibili gli stalli a loro riservati. Inoltre, i comuni potranno stabilire, anche nelle aree a pagamento gestite in concessione, un numero di posti destinati alla sosta gratuita degli invalidi muniti di contrassegno superiore al limite minimo di un posto ogni cinquanta o frazione di cinquanta posti disponibili, previsto dal decreto del presidente della repubblica n. 503 del 24 luglio 1996 (articolo ItaliaOggi dell'01.09.2012).

CONDOMINIOResto apostrofare condòmini con epiteti poco edificanti.
Apostrofare qualcuno con epiteti poco edificanti durante una riunione condominiale può configurare ipotesi di reato (nello specifico il delitto di cui all'art. 594 c.p.): è quanto emerso nella sentenza n. 33221/2012 della Corte di Cassazione.
La V Sez. penale ha, infatti, confermato il ragionamento del giudice di merito, secondo il quale «l'espressione “architetto del c_.” era stata pronunciata all'indirizzo della persona offesa [_] in un atteggiamento gratuitamente astioso e senza che vi fosse stato alcun previo tentativo di relazionarsi con la controparte in modo da preservarne la dignità».
È vero –afferma il collegio giudicante– che l'espressione “che c_.” è entrata nell'uso comune e non ha rilevanza penale «quando è proferita in posizione di parità rispetto all'interlocutore»; ciò non toglie, però, che il linguaggio ingiurioso con il quale l'imputato si era rivolto alla persona offesa (etichettandolo, nell'ordine, “architetto del c_", “mafioso” ed “evasore fiscale”) veniva esternato durante una seduta condominiale nella quale il malcapitato, in rappresentanza del proprio genitore, aveva «soltanto» insistito per effettuare dei lavori condominiali.
A nulla sono valse le deduzioni del difensore: nullità del processo di primo grado e degli atti successivi, stante la ripetuta assenza dell'imputato; vizio di motivazione sul mancato proscioglimento, essendo state valutate come elemento di prova di responsabilità anche le dichiarazioni della persona offesa; mancata applicazione della causa di non punibilità prevista ex art. 599 c.p..
Per i giudici di legittimità, in realtà, «la presenza di una situazione patologica cronica legata all'età dell'imputato [_] non costituisce legittima causa né della sospensione del procedimento per incapacità dell'imputato, né di rinvio del dibattimento per legittimo impedimento a comparire di quest'ultimo». In merito, poi, all'inidoneità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa a «costituire prova di responsabilità», hanno precisato che quest'ultima «anche costituita parte civile, partecipa al processo, di regola, in qualità di testimone e, in tale veste, è tenuta a prestare giuramento sicché le sue dichiarazioni sono idonee ad essere valutate come elemento di prova anche a prescindere dalla ricerca e dalla sussistenza di elementi di prova». Con queste motivazioni hanno, quindi, dichiarato inammissibile il ricorso (articolo ItaliaOggi del 31.08.2012).

ENTI LOCALIUnioni, tempi stretti per le regioni. Per modificare le soglie demografiche c'è tempo fino al 30/09. Per le aggregazioni dei comuni fino a 1.000 abitanti il termine scade già il 7 settembre.
Tempi stretti per le regioni che intendono ridefinire le soglie demografiche minime per le gestioni associate obbligatorie dei piccoli comuni. In base a quanto previsto dal dl sulla spending review, infatti, la partita dovrà chiudersi entro la fine di settembre. Ma per le unioni «speciali», riservate ai municipi fino a 1.000 abitanti, il termine scade addirittura fra una settimana.
Come noto, l'art. 19 del dl 95/2012 ha profondamente modificato la disciplina sull'obbligo di gestione in forma associata delle funzioni da parte dei comuni di minori dimensioni (fino a 5.000 abitanti, che scendono a 3.000 per quelli appartenenti o appartenuti a comunità montane).
In base alle nuove norme, per quanto concerne le funzioni fondamentali (il cui elenco è stato ridefinito ed ampliato dal comma 1) l'obbligo riguarda tutti i municipi senza più la rigida distinzione fra quelli sopra e quelli sotto i 1.000 abitanti.
I primi (1.001-5.000 abitanti) dovranno scegliere fra l'unione «classica» ex art. 32 del Tuel (anch'esso parzialmente novellato) e la convenzione (art. 30 del Tuel), che però dovrà avere durata almeno triennale e conseguire «significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione» certificati dal Viminale (in mancanza dovrà essere sciolta ed i comuni interessati dovranno confluire in una unione).
Per i secondi (fino a 1.000 abitanti), oltre alle precedenti, rimane aperta anche la strada dell'unione ex art. 16 del dl 138/2011, che di fatto rappresenta una sorta di «fusione a freddo» obbligando chi ne fa parte a mettere insieme tutte le funzioni (non solo quelle fondamentali) e soprattutto il bilancio. Tuttavia, non si tratta più (come in precedenza) di un obbligo, ma di una mera facoltà.
Per chi opta per i primi due modelli (unione «classica» e convenzione), la soglia demografica minima è fissata a 10.000 abitanti, salvo diverso limite individuato dalla regione «entro i tre mesi antecedenti il primo termine di esercizio associato obbligatorio delle funzioni fondamentali» (art. 19, comma 31).
Poiché quest'ultimo è fissato dal successivo comma 31-ter all'01.01.2013 (per almeno 3 delle 9 funzioni fondamentali da associare, mentre per le altre 6 l'obbligo scatterà un anno dopo), la dead line per le regioni che vorranno (è una facoltà e non un obbligo) alzare o abbassare la soglia è fissata al 30 settembre.
Per i mini-comuni che, invece, opteranno per l'unione «speciale», il minimo scende a 5.000 abitanti, che diventano 3.000 per quelli montani. Tale limite (che peraltro non pare così perentorio, dato che il nuovo art. 16, comma 4, del dl 138 prevede che esso valga solo «di norma»), può essere rivisto dalle regioni entro 2 mesi dalla data di entrata in vigore del dl 95 (7 luglio), ovvero entro il 7 settembre (art. 19, comma 5).
I governatori interessati ad avversi di tale prerogativa dovranno, quindi, affrettarsi a decidere. Va detto, peraltro, che saranno ben pochi i comuni che sceglieranno la seconda strada, giacché essa comporterà, oltre allo svuotamento della loro autonomia, anche l'assoggettamento (dal 2014) al Patto di stabilità interno.
Più importante la scadenza di fine mese, che riguarda una platea ben più vasta di municipi e che potrebbe interessare anche quelle regioni (come, ad esempio, la Lombardia e l'Abruzzo) che hanno già ridefinito le soglie sulla base della disciplina previgente: il nuovo quadro normativo, in effetti, potrebbe anche suggerire di rivedere le scelte fatte in precedenza.
Dopo che le regioni avranno (eventualmente) ridefinito le soglie (oltre che determinato la dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica ed il termine per l'esercizio in forma associata delle funzioni relative alle materie di propria competenza), la palla passerà ai comuni, i quali (se già fanno parte di un'unione) dovranno optare per una delle soluzioni organizzative illustrate in precedenza a seconda della fascia demografica di appartenenza (art. 19, comma 4). Quelli che sceglieranno l'unione «speciale», inoltre, dovranno, entro il 07.01.2013, formulare una proposta di aggregazione alle regione di appartenenza.
Stavolta il legislatore sembra fare sul serio: per chi non rispetterà il timing imposto potranno scattare i poteri statali sostitutivi (articolo ItaliaOggi del 31.08.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni, pagelle a due velocità. Criteri vincolanti solo per gli enti privi di sistemi di verifica.  La spending review ha un impatto limitato per le amministrazioni in regola con la valutazione.
I criteri per la valutazione della performance previsti dall'articolo 5, comma 11 e seguenti, della legge 135/2012 (spending review) sono da considerare vincolanti solo per le amministrazioni prive di un sistema di verifica dei risultati aventi caratteristiche analoghe a quelle disposte dalla legge. Le altre amministrazioni dovranno adeguare i sistemi vigenti ai principi desumibili.
Nonostante l'articolo 5, comma 11, della legge 135/2012 sia formulato con tenore prescrittivi, è evidente la sua funzione suppletiva e sostitutiva nei confronti delle amministrazioni inadempienti, che, nonostante le già preesistenti disposizioni normative e contrattuali, non si siano ancora dotate di un funzionate sistema di valutazione.
D'altra parte, la previsione contenuta nella spending review è destinata anche a decadere, perché operante solo «nelle more dei rinnovi contrattuali» nazionali collettivi e in attesa dell'applicazione del sistema delle fasce di valutazione previsto dall'articolo 19 della legge 150/2009.
Per altro, le indicazioni contenute nell'articolo 5, comma 11, non appaiono particolarmente innovative, per gli enti già in regola coi sistemi di valutazione.
Infatti, per quanto riguarda i dirigenti si lega la valutazione «al raggiungimento degli obiettivi individuali e relativi all'unità organizzativa di diretta responsabilità, nonché al contributo assicurato alla performance complessiva dell'amministrazione» e anche «ai comportamenti organizzativi posti in essere e alla capacità di valutazione differenziata dei propri collaboratori, tenuto conto delle diverse performance degli stessi». I criteri fissati dalla spending review sono in tutto e per tutto sovrapponibili a quelli stabiliti dall'articolo 9, comma 1, lettere da a) a d) del dlgs 150/2009, che legano la valutazione dei dirigenti.
La misurazione e la valutazione della performance individuale dei dirigenti e del personale responsabile di una unità organizzativa in posizione di autonomia e responsabilità è collegata «agli indicatori di performance relativi all'ambito organizzativo di diretta responsabilità», al «raggiungimento di specifici obiettivi individuali», alla «qualità del contributo assicurato alla performance generale della struttura, alle competenze professionali e manageriali dimostrate» e, infine «alla capacità di valutazione dei propri collaboratori, dimostrata tramite una significativa differenziazione dei giudizi».
Non è innovativa nemmeno l'indicazione secondo la quale gli obiettivi dei dirigenti debbano essere «predeterminati all'atto del conferimento dell'incarico» in modo che siano «specifici, misurabili, ripetibili, ragionevolmente realizzabili e collegati a precise scadenze temporali». Identica previsione è contenuta nel combinato disposto dell'articolo 19, comma 2, del dlgs 165/2001 e nelle disposizioni dei contratti nazionali collettivi dei diversi comparti.
Non diversa è la questione relativa alla misurazione e valutazione della performance individuale del personale non dirigenziale. La legge 135/2011 conferma che la valutazione è di competenza dei dirigenti, affermando che essa va messa in relazione «al raggiungimento di specifici obiettivi di gruppo o individuali» nonché «al contributo assicurato alla performance dell'unità organizzativa di appartenenza e ai comportamenti organizzativi dimostrati». Si tratta, quasi letteralmente, degli stessi parametri previsti dall'articolo 9, comma 2, lettere a) e b), del dlgs 150/2009.
La previsione realmente innovativa dell'articolo 5 della legge 135/2001 resta il comma 11-quinquies, che prova a introdurre una differenziazione nei premi per il risultato. Infatti, si prevede di assegnare ai dirigenti e al personale non dirigenziale più meritevoli, in misura comunque non inferiore al 10% della totalità dei dipendenti oggetto della valutazione «un trattamento accessorio maggiorato. La maggiorazione, per un importo compreso tra il 10 e il 30% del trattamento accessorio medio per categoria di dipendenti, trova il suo finanziamento nel dividendo di efficienza», previsto dall'articolo 16, commi 4 e 5, del dl 138/2011, convertito in legge 148/2011.
Dunque, il tentativo di introdurre un sistema per «fasce» o, comunque, una premialità maggiore per una limitata parte dei dipendenti, passa necessariamente attraverso le misure di ulteriore risparmio oltre a quelle imposte dalle leggi, che consentono di investirle per il 50% nel sistema di valutazione. Solo presso quei pochissimi enti che si siano avventurati in tagli e risparmi aggiuntivi a quelli draconiani imposti dalla stessa legge 135/2012, dunque, potrebbe dipanare pienamente i suoi concreti effetti innovativi l'articolo 5, comma 11 e seguenti, che, in caso contrario, resta solo una norma tesa ad obbligare gli enti inadempienti a dotarsi di un sistema di valutazione (articolo ItaliaOggi del 31.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONei contratti decentrati relazioni su qualità dei servizi e performance.
La legittimità rispetto alle indicazioni dettate dai contratti nazionali e la prospettazione delle conseguenze che si vogliono raggiungere in termini di qualità dei servizi sulla base delle scelte contenute nel piano delle performance: sono questi gli elementi che devono essere inseriti nelle relazioni illustrative e tecnico-finanziarie da allegare ai contratti collettivi decentrati integrativi e da pubblicare sul sito internet, nella pagina dedicata alla trasparenza. Una particolare attenzione nella compilazione di queste documenti deve inoltre essere dedicata alla costituzione e ripartizione fondo per la contrattazione decentrata.
La circolare della ragioneria generale dello stato n. 25, redatta d'intesa con il dipartimento della funzione pubblica, riassume gli elementi essenziali che devono essere contenuti in tale documento. Siamo in presenza, occorre subito premetterlo, di un vincolo diretto a tutte le p.a. e che si applica ai contratti decentrati che sono stati stipulati, anche solo come pre-intesa, a partire dalla fine dello scorso mese di luglio, cioè dalla pubblicazione delle circolare.
Le relazioni devono essere redatte dagli uffici dell'ente, la soluzione migliore è senza dubbio che i dirigenti del personale preparino quella illustrativa e i dirigenti del settore finanziario quella tecnico-finanziaria. Tali documenti devono essere attestati dal collegio dei revisori dei conti prima della pubblicazione: ovviamente questo organismo può richiedere tutte le integrazioni e modificazioni che ritiene opportuno e ha il potere/dovere di segnalare le eventuali anomalie che riscontra. Le informazioni sono per molti aspetti sovrapponibili tra le due relazioni, in particolare per le parti riguardanti la costituzione del fondo e la sua ripartizione.
È evidente l'attenzione che si è voluto così dedicare a questo aspetto: esso viene monitorato sia per dimostrare che la composizione è avvenuta in modo da rispettare le regole dettate dai contratti nazionali e, quindi, così da evitare l'inserimento di risorse in modo aggiuntivo, sia per dare conto della sua ripartizione e del volume delle risorse considerate. Attraverso l'illustrazione dell'utilizzazione del fondo si persegue un duplice obiettivo, da un lato dimostrare il rispetto delle regole dettate dai contratti nazionali e dall'altro spiegare ai cittadini le finalità che si vogliono perseguire in termini di miglioramento della qualità dei servizi.
È questo un elemento del tutto innovativo: fino a oggi i dipendenti e i dirigenti delle p.a. si sono infatti mossi sulla base di una logica autoreferenziale. La pubblicazione sul sito internet di queste informazioni apre invece la porta a una forma di controllo diffuso, mirata a verificare l'effettivo impatto dei contratti sulla qualità dei servizi. Per cui lo stanziamento di risorse per il turno dovrà essere spiegato con l'esigenza di garantire che un dato servizio possa essere erogato per un orario più lungo, senza interruzioni e in modo da comprendere anche le giornate festive.
L'erogazione della reperibilità serve così alla remunerazione dell'impegno aggiuntivo richiesto ai lavoratori per garantire la possibilità di interventi immediati nei casi un cui ve ne fosse la necessità. E, in modo ancora più significativo, l'erogazione delle incentivazioni per la produttività dovrà essere accompagnata dalla indicazione degli obiettivi assegnati e del loro grado di raggiungimento (articolo ItaliaOggi del 31.08.2012).

PUBBLICO IMPIEGOVigili, sì al cumulo dei compensi nei festivi infrasettimanali.
L'operatore di polizia municipale che presta servizio in turno ha diritto a un riconoscimento aggiuntivo in caso di prestazione effettuata in un giorno festivo infrasettimanale, al di fuori del normale orario di lavoro. Nessuna disposizione di legge vieta infatti la cumulabilità dei compensi previsti dagli articoli 22 e 24 del contratto.

Lo ha chiarito il Sindacato autonomo della polizia locale (Siapol) con una nota datata agosto 2012.
La questione del turno festivo infrasettimanale dei vigili è controversa e gli orientamenti comunali non univoci. In caso di organizzazione in turni, infatti, secondo un consolidato orientamento l'agente di pm non potrebbe percepire alcun emolumento ulteriore rispetto all'indennità di turnazione. Ma in caso di prestazione lavorativa effettuata in turno in un giorno festivo infrasettimanale la questione è ancora più complessa.
Alcuni comuni valutano infatti tale attività non come una prestazione ordinaria ma come una diversa fattispecie che dà luogo alla possibilità per il lavoratore di fruire, al pari di ogni altro dipendente, del riposo compensativo corrispondente alla festività non goduta o del trattamento alternativo, ossia il compenso per lavoro straordinario festivo. Altri enti, invece, riconoscono in questa ipotesi la possibilità di fruire del riposo compensativo e della maggiorazione prevista dall'art. 24 del Ccnl 2000.
Diverse amministrazioni, infine, considerano il servizio svolto in un turno ricadente in una festività infrasettimanale alla stessa stregua di quello svolto in una qualsiasi domenica in cui sia previsto il turno e quindi riconoscendo una piccola maggiorazione oraria ma senza l'applicazione del riposo compensativo e dello straordinario. Per cercare di fare chiarezza sulla delicata materia il Siapol ha diramato in questi giorni un'interessante circolare. Innanzitutto i due istituti, ovvero turno e riposo compensativo, si riferiscono a due fattispecie diverse, disciplinate rispettivamente dagli artt. 22 e 24 del Ccnl, e nessuna disposizione normativa ne vieta la cumulabilità.
Secondo la Cassazione, specifica il sindacato, nel caso di lavoro in turni la mancata fruizione del riposo compensativo determina automaticamente l'applicazione della maggiorazione prevista dall'art. 24 del contratto. In buona sostanza tutto si gioca su un fraintendimento di base. Nel caso di festività infrasettimanale il debito orario di tutti i dipendenti comunali viene ridotto di una giornata. Questa regola deve valere anche per i vigili che sono inseriti in turni di servizio programmati.
Per il personale in divisa che lavora nella giornata festiva infrasettimanale andrà quindi previsto un giorno di riposo compensativo da aggiungere al riposo settimanale. Spetterà al lavoratore rinunciare eventualmente al riposo per usufruire di un compenso straordinario. Fermo restando che anche il lavoratore che decide di effettuare il recupero compensativo ha diritto comunque a una maggiorazione per lavoro festivo (articolo ItaliaOggi del 31.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli con odg diversi. Argomenti differenti per le due convocazioni. Il numero legale può mancare in corso di seduta dopo aver esaminato alcuni punti.
È regolare lo svolgimento di una seduta consiliare, il cui ordine del giorno includeva argomenti di prima e di seconda convocazione se, a seguito di accertata mancanza del numero legale, i lavori venivano fatti proseguire per la trattazione dei soli argomenti di seconda convocazione?

L'art. 38, comma 2, del Tuel n. 267/2000 demanda la disciplina del funzionamento del consiglio comunale al regolamento consiliare che, nell'ambito dei principi stabiliti dallo statuto, stabilisce anche le modalità per la convocazione e per la presentazione e la discussione delle proposte. Lo stesso comma 2 del citato art. 38 prevede che il regolamento indichi il numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, prescrivendo come unico limite la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente.
Nella fattispecie, il regolamento consiliare del comune disciplina le sedute di prima e seconda convocazione prevedendo, per la validità della seduta di prima convocazione, la presenza di almeno la metà dei consiglieri assegnati al comune e stabilendo che, qualora in corso di seduta si accerti che il numero dei consiglieri sia inferiore a quello necessario, il presidente dichiara deserta la stessa «per gli argomenti a quel momento rimasti da trattare».
La norma regolamentare richiede inoltre, per la validità della seduta di seconda convocazione, che intervengano almeno un terzo dei membri del consiglio e prevede che «la seduta che segue ad una prima iniziatasi col numero legale dei presenti ed interrotta nel suo corso per essere venuto meno il numero minimo dei consiglieri, è pure di seconda convocazione per gli affari rimasti da trattare nella prima».
Le richiamate disposizioni regolamentari, in particolare per quel che concerne il numero minimo di consiglieri presenti alle sedute, sono coerenti con le previsioni di legge.
Sulla problematica sollevata il Tar Campania, seppur con una risalente sentenza del 12.12.1985, n. 397, ha ritenuto che «perché possa parlarsi di seduta di seconda convocazione, non è necessario che la mancanza del numero legale si sia verificata a inizio di seduta ma può anche constatarsi in corso di seduta. In tali casi occorrerà tener presente che non si avrà seduta di seconda convocazione per quegli oggetti che siano stati rinviati oppure discussi ma non deliberati, mentre si avrà seduta di seconda convocazione per quei punti dell'ordine del giorno che non è stato possibile trattare a causa della sopravvenuta mancanza del numero legale».
Pertanto, si ritiene che la procedura adottata dall'ente sia conforme alle previsioni regolamentari (articolo ItaliaOggi del 31.08.2012).

VARI: Autovelox, bacchettati i comuni con troppi box.
Negli armadietti posizionati a bordo delle strade possono essere posizionati solo misuratori di velocità omologati e compatibili con i manufatti di contenimento. Ma senza il decreto del prefetto serve sempre la presenza della pattuglia per accendere l'autovelox e fermare i trasgressori che sfrecciano davanti ai vigili.
Lo ha chiarito la prefettura di Bergamo con la circolare 26.04.2012 n. 733 di prot., solo ora resa nota.
La questione dei box porta autovelox sta diventando molto comune nei tratti stradali urbani. I sindaci hanno infatti preso alla lettera le ultime modifiche del codice stradale e disseminato le loro strade di armadietti che effettivamente inducono i conducenti a moderare la velocità almeno in prossimità dei misuratori.
L'uso effettivo dell'autovelox però nella generalità dei casi deve avvenire con la presenza costante della pattuglia che a parere dell'ufficio territoriale del governo di Bergamo deve essere composta da almeno due operatori di polizia stradale “che devono procedere alla contestazione immediata delle violazioni”.
A dire il vero questo obbligo di fatto risulta ampiamente superato dalla previsione normativa che ammette tra le cause della mancata contestazione l'impiego di strumenti di controllo in grado di immortalare il trasgressore troppo tardi, a veicolo già transitato.
E anche la cassazione si è decisamente allineata a questa indicazione lasciando intendere che la contestazione immediata delle infrazioni per eccesso di velocità ormai appartiene al passato. La prefettura evidenzia anche che all'interno di questi manufatti devono “essere collocati esclusivamente misuratori di velocità omologati e compatibili, sulla base delle caratteristiche tecniche descritte nel manuale d'uso, con il particolare tipo di box di contenimento” (articolo ItaliaOggi del 30.08.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Passi carrabili, deroghe limitate. Distanze inferiori ai 12 metri solo per gli accessi ante 1993.  Parere del ministero delle infrastrutture e trasporti sui margini d'intervento dei comuni.
Per i passi carrabili i Comuni possono stabilire distanze inferiori ai dodici metri dalle intersezioni solo per gli accessi già esistenti prima del 1993. E non per tutti gli accessi vige l'obbligo di posizionare il segnale con il divieto di sosta.

Lo ha precisato il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con un parere del 20.03.2012, da poco reso noto.
Il nuovo codice della strada e il regolamento di esecuzione e attuazione, entrati in vigore l'01.01.1993, hanno previsto per la realizzazione e l'apertura dei passi carrabili regole differenti rispetto a quelle contenute nel vecchio testo unico sulla circolazione stradale del 1959. L'art. 46, comma 2, del regolamento stabilisce per la realizzazione dei passi carrabili una distanza di almeno dodici metri dalle intersezioni.
Però, il successivo comma 6 prevede che i Comuni hanno la facoltà di autorizzare distanze inferiori per i passi carrabili già esistenti prima del 1993, qualora sia tecnicamente impossibile procedere all'adeguamento imposto dall'art. 22, comma 2, del codice della strada. Al riguardo, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con il parere del 20.03.2012, fa alcune importanti precisazioni.
La prescrizione relativa alla distanza dall'intersezione ha carattere generale, senza specifiche relative al tipo di strada, alla densità di traffico e alla geometria del passo carrabile. La distanza deve essere calcolata a partire dall'area di intersezione fino al margine più vicino del manufatto che costituisce il passo carrabile e non dalla mezzeria o da latri punti del manufatto stesso.
Fra i passi carrabili preesistenti rientrano anche le aperture con regolare autorizzazione edilizia; ma non tutti gli accessi sono anche passi carrabili. Secondo il Ministero, infatti, sono da considerare passi carrabili quelli definiti dall'art. 44, comma 4, del decreto legislativo n. 507 del 15.11.1993, cioè i manufatti costituiti generalmente da listoni di pietra od altro materiale o da appositi intervalli lasciati nei marciapiedi o, comunque, da una modifica del piano stradale intesa a facilitare l'accesso dei veicoli alla proprietà privata.
Invece, vanno annoverati fra gli accessi carrabili i varchi che, pur assolvendo alla stessa funzione dei passi carrabili, sono posti al livello della strada e sono realizzati senza un'opera visibile che renda concreta l'occupazione e certa la superficie sottratta all'uso pubblico. E solo per i passi carrabili vige l'obbligo di apporre il segnale con il divieto di sosta.
Altro chiarimento infine con riferimento specifico ai passi carrabili realizzati dopo l'01.01.1993; infatti, il Ministero evidenzia che la distanza dalle intersezioni non è derogabile con regolamento comunale, fatti salvi i casi previsti dall'art. 22, comma 9, del codice della strada, in sostanza nel caso di modifiche stradali intervenute per costruzione di opere di pubblica utilità e realizzazione di nuove intersezioni (articolo ItaliaOggi del 30.08.2012).

VARI:  Autovelox ok se visibili e segnalati.
Gli strumenti autovelox presidiati dalla polizia municipale possono essere utilizzati su qualunque tratto stradale anche senza necessità di contestazione immediata. Purché gli impianti siano ben visibili, preventivamente segnalati e gli agenti operino nell'ambito del territorio di competenza.

Lo ha ribadito il Ministero dei trasporti con il parere n. 734/2012.
Un comune ha richiesto chiarimenti sulle modalità operative da adottare per l'espletamento dei servizi di controllo elettronico della velocità. Qualora presidiati dagli organi di polizia stradale, specifica la nota centrale, «i dispositivi misuratori di velocità debitamente approvati possono essere installati e impiegati su strade di qualunque tipo nell'ambito del territorio comunale di competenza, senza ulteriori formalità».
Come specificato anche dalla più recente giurisprudenza (Corte di cassazione, sez. II civ., sentenza n. 484/2012) il dl 121/2002, convertito nella legge 168/2002, non pone una generalizzata esclusione dell'uso delle apparecchiature elettroniche di rilevamento al di fuori delle strade prese in considerazione «ma lascia, per contro, in vigore, relativamente alle strade diverse da esse, le disposizioni che consentono tale utilizzazione ma con l'obbligo della contestazione immediata, salve le eccezioni espressamente previste dall'art. 201, comma 1-bis, cod. strada».
In pratica la polizia municipale può tranquillamente installare gli strumenti autovelox dove ritiene opportuno e attivarli sotto il suo controllo, anche senza fermo del veicolo, semplicemente evidenziando nel verbale una delle ragioni che renda ammissibile la contestazione differita dell'infrazione. Tra queste giustificazioni spicca quella dell'impiego di uno strumento elettronico che permetta l'accertamento solo contestualmente al passaggio del trasgressore.
Circa la capacità di intervento dei vigili urbani su una strada statale fuori centro abitato non c'è nessun dubbio. La polizia municipale ha competenza estesa a tutte le strade del territorio comunale con la sola eccezione delle autostrade. Per questo motivo valgono gli accertamenti svolti dai vigili in materia di circolazione stradale fuori e dentro al centro abitato. Ma attenzione alla segnalazione e alla visibilità dell'autovelox. Conclude infatti il ministero evidenziando la necessità della massima trasparenza (articolo ItaliaOggi del 28.08.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIAUn rebus normativo sul Sistri. Alla fine, contributo sospeso.
Il decreto con le semplificazioni alle procedure Sistri (25.05.2012, n. 141, Gazzetta Ufficiale 196 del 23.08.2012) stabilisce che «per l'anno 2012 il pagamento del contributo deve essere effettuato entro il 30 novembre» (si veda ItaliaOggi del 25/08/2012). Ma nel leggere il decreto (firmato dal ministro dell'ambiente a maggio) bisogna tener conto di quanto del dl 83/2012, convertito nella legge 134/2012, che dispone la sospensione del termine di operatività del Sistri e dei conseguenti adempimenti per le imprese.
L'art. 52, comma 1, della legge n. 134 prevede, infatti, che il termine di entrata in operatività del Sistri è sospeso (...) non oltre il 30.06.2013, unitamente a ogni adempimento informatico relativo. Il successivo comma 2 dispone, che «con decreto del ministro dell'ambiente è fissato il nuovo termine per l'entrata in operatività del Sistri e, sino a tale termine (...) è altresì sospeso il pagamento dei contributi dovuti dagli utenti per l'anno 2012».
In base al dl, la sospensione del Sistri va a braccetto con la sospensione del pagamento del contributo.
Ma perché il decreto ministeriale del 25.05.2011 introduce inutilmente il termine del 30 novembre? La ragione è in un comunicato stampa del 20 aprile del ministero dell'ambiente che annuncia che lo stesso «sta procedendo a una revisione del sistema Sistri in modo da semplificare e rendere più efficienti le procedure» e «nell'ambito di questo lavoro (_) è stato concordato un differimento al 30.11.2012 del termine per il pagamento dei contributi per l'anno in corso, che scadeva il 30 aprile prossimo».
Il termine del 30 novembre è stato, quindi, inserito nel dm del 25 maggio. Per effetto però dell'art. 52, comma 2 della legge n. 134, l'entrata in operatività del Sistri sarà affidata a un nuovo decreto ministeriale, che rimuoverà anche la sospensione del pagamento del contributo. A meno che non intervenga in materia una nuova legge che possa superare quanto disposto dall'art. 52, comma 2 citato (articolo ItaliaOggi del 28.08.2012).

VARI: Fotovoltaico, bonus con distinguo. Incentivi differenziati per kWh ceduti o autoconsumati. Ai blocchi di partenza la tariffa relativa al quinto conto energia: serve la preiscrizione ai registri.
Nuova tariffa incentivante per gli impianti fotovoltaici allacciati con differenze a seconda che l'energia prodotta venga autoconsumata o ceduta in rete, necessaria preiscrizione in appositi registri a eccezione di impianti con potenza inferiore a 12 kW, quelli oltre i 12 kW ma non oltre i 20 kW seppur con una riduzione dell'incentivo del 20% o quelli fino a 50 kW laddove sostituiscano tetti in amianto.
Tariffe migliorative, infine, per impianti con determinate caratteristiche innovative e premi aggiuntivi sulla tariffa incentivante per impianti con moduli e gruppi di conversione prodotti in paesi Ue o che abbiano sostituito tetti in eternit o amianto.

Sono le principali novità del quinto conto energia così come da decreto ministeriale del 5 luglio entrate, in vigore dal 27.08.2012.
Resta l'incognita delle risorse messe a disposizione dal governo (6,7 miliardi di euro di incentivi) che potrebbero terminare molto prima dei cinque semestri previsti dal decreto: la corsa contro il tempo è appena iniziata.
La nuova tariffa: omincomprensiva o premiale. A partire dalla data odierna, il meccanismo della tariffa incentivante subirà forti cambia-menti rispetto al passato. Il decreto ministeriale del 5 luglio infatti ha diviso la stessa in due grandi blocchi: la omnicomprensiva e la premiale. Mentre nel primo caso trattasi di una tariffa comprensiva della rivendita dell'energia prodotta a un prezzo fisso oltre che della tariffa incentivante, nel secondo si fa riferimento a un premio per l'energia prodotta consumata dall'utente alla quale si dovrà evidentemente sommare il risparmio per il mancato acquisto della stessa (si veda la tabella in pagina).
Da ciò deriva un chiaro vantaggio per tutti coloro che intendano consumare l'energia prodotta vale a dire per i piccoli impianti domestici o per quelli sopra i fabbricati di imprese industriali il cui fine ultimo non è certo quello di rivendere energia quanto di consumarla. Tenendo a mente che acquistare energia ha un costo medio che si aggira intorno ai 20 centesimi per KWh e che l'incentivo di un impianto di 5 kW è pari a 11,4 centesimi, si avrebbe un beneficio totale di 31,4 centesimi, somma quest'ultima ben maggiore rispetto ai 19,6 centesimi previsti dalla tariffa omnicomprensiva.
Va da sé dunque che, per impianti non eccessivamente grandi il periodo di payback dell'impianto sarà molto più basso nel primo piuttosto che nel secondo caso: la realizzazione di un grande impianto fotovoltaico invece, seppur vanterà una tariffa incentivante più bassa, godrà di un prezzo di realizzazione per kW molto più conveniente il che renderebbe l'investimento ugualmente attraente o, addirittura, di maggior appeal.
L'iscrizione in appositi registri. L'altra importante novità del quinto conto energia riguarda la preiscrizione in appositi registri per l'installazione di nuovi impianti fotovoltaici. Anche sotto tale aspetto, il nuovo conto energia sembrerebbe agevolare fortemente gli impianti di piccola taglia a discapito di quelli più grandi: al fine dell'ottenimento degli incentivi infatti, la prescrizione non sarà obbligatoria solamente per coloro che intendano allacciare un impianto con potenza minore di 12 kW, per coloro il cui impianto abbia una potenza maggiore di 12 kW ma non superiore a 20 kW e che, allo stesso tempo, rinuncino al 20% degli incentivi previsti e in ultimo, per coloro i cui impianti raggiungano una potenza fino a 50 kW ma che vadano a sostituire tetti in amianto.
Coloro invece che dovranno effettuare la suddetta preiscrizione, si troveranno di fronte a delle importanti limitazioni. Il decreto evidenzia infatti un limite quantitativo ed uno temporale: quello quantitativo prevede che il primo registro avrà un limite di costo di 140 milioni di euro, il secondo di 120 milioni ed i successivi di 80 milioni sino al limite di costo del quinto conto energia (700 milioni). Il limite temporale invece fa riferimento al fatto che ciascun registro potrà essere aperto non prima di sei mesi dall'apertura del precedente.
Sulla base di tali limitazioni, diventerà dunque fondamentale conoscere i criteri di priorità con cui accedere alle graduatorie. Nell'ordine, impianti su edifici con classe energetica D o superiore in sostituzione di coperture in eternit o amianto, impianti su edifici con classe energetica D o superiore, impianti su edifici in sostituzione di coperture in eternit o amianto, impianti che utilizzino componentistica Ue/See, impianti realizzati in siti contaminati, impianti realizzati su terreni del demanio militare, impianti realizzati in discariche esaurite, in cave dismesse, su miniere esaurite, impianti con potenza sino a 200 kW asserviti ad attività produttive, impianti realizzati nell'ordine su edifici, su serre, su pergole, su tettoie, su pensiline e su barriere acustiche (articolo ItaliaOggi Sette del 27.08.2012 - tratto da www.corteconti.it).

SICUREZZA LAVORO: La cartella sanitaria è d'obbligo. Rischia l'arresto il medico che non inserisce e aggiorna i dati. Lo prevede il T.u. sicurezza per i lavoratori esposti a rischio. Prima scadenza il 30.06.2013.
Rischia l'arresto il medico competente che non istituisce, aggiorna e custodisce la cartella sanitaria e di rischio con riferimento ai singoli lavoratori. È entrato in vigore il 25 agosto il decreto 09.07.2012 che individua i contenuti della cartella sanitaria e le modalità di trasmissione annuale al servizio sanitario da parte dei medici competenti, come previsto dall'articolo 40 del Tu sicurezza (dlgs n. 81/2008).
Per un anno, tuttavia, vigerà un periodo transitorio che sposta la scadenza del termine della prima trasmissione dei dati (relativi al 2012) dal 31 marzo (termine ordinario) al 30 giugno 2013, e sospende la sanzione a carico dei medici inadempienti (da 1.000 a 4 mila euro).
Il medico competente. Il T.u. sicurezza definisce «medico competente» il medico in possesso di uno di titoli e requisiti, formativi e professionali indicati dallo stesso T.u., nominato dal datore di lavoro per effettuare la sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti previsti dalla disciplina della sicurezza sul lavoro; nonché per collaborare (sempre con il datore di lavoro) ai fini della valutazione dei rischi.
In primo luogo, dunque, il medico competente è tenuto a collaborare con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione alla valutazione dei rischi, anche ai fini della programmazione, se necessario, della sorveglianza sanitaria, alla predisposizione della attuazione delle misure per la tutela della salute ed integrità psico-fisica dei lavoratori, all'attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza, e all'organizzazione del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e peculiari modalità organizzative del lavoro.
La sorveglianza sanitaria. Il medico competente, inoltre, deve programmare ed effettuare la sorveglianza sanitaria in azienda, attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati. A tal fine, deve istituire, aggiornare e custodire, sotto la propria responsabilità, una cartella sanitaria e di rischio per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria.
Tale cartella è conservata con salvaguardia del segreto professionale e, salvo il tempo strettamente necessario per l'esecuzione della sorveglianza sanitaria e la trascrizione dei relativi risultati, presso il luogo di custodia concordato al momento della nomina del medico competente. Alla cessazione dell'incarico professionale, è tenuto a consegnare al datore di lavoro la documentazione sanitaria in suo possesso, nel rispetto delle disposizioni sulla privacy (dlgs n. 196/2003), e con salvaguardia del segreto professionale.
Mentre alla cessazione del rapporto di lavoro deve consegnare al lavoratore copia della cartella sanitaria e di rischio, e deve fornirgli le informazioni necessarie relative alla conservazione della medesima. L'originale della cartella di rischio e sanitaria va conservata, nel rispetto della privacy, da parte del datore di lavoro, per almeno dieci anni, salvo il diverso termine previsto da altre disposizioni del T.u. ... (articolo ItaliaOggi Sette del 27.08.2012).

GIURISPRUDENZA

URBANISTICAIl vincolo conformativo viene tenuto distinto da quello espropriativo sulla base delle seguenti caratteristiche, non necessariamente cumulative:
a) investe una generalità di beni e di soggetti indipendentemente dal successivo instaurarsi di procedure espropriative;
b) destina parti del territorio comunale ad usi pubblici operando nell'ambito della mera zonizzazione;
c) consente la realizzazione dell’intervento di interesse pubblico a cura dei privati senza necessità di previa espropriazione.
Facendo applicazione in concreto di questi criteri si potrebbero qualificare come soltanto conformative tutte le zonizzazioni relative a servizi che costituiscono standard urbanistico quando manchi la contestuale localizzazione di un’opera pubblica specifica o quando sia attribuita ai privati la possibilità di realizzare l’intervento in alternativa all’ente pubblico.
Il vincolo conformativo è in buona sostanza funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale: mentre esso definisce per zone, in via astratta e generale, le possibilità edificatorie connesse al diritto dominicale, il vincolo espropriativo incide su beni determinati in funzione della localizzazione puntuale di un’opera pubblica ed ha portata e contenuto direttamente ablatori.
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La mancata previsione dell'indennizzo per la reiterazione di un vincolo espropriativo non costituisce causa di illegittimità dello strumento urbanistico salva la possibilità di una pronuncia che accerti la natura espropriativa del vincolo, mentre la concreta quantificazione dell’indennizzo è poi rimessa al giudice ordinario ai sensi dell'art. 39, comma 4, e dell’art. 53, comma 2, del D.P.R. 327/2001.

Sul punto la giurisprudenza di questo Tribunale (cfr. sentenza sez. I – 08/07/2009 n. 1460) ha sottolineato che “il vincolo conformativo viene tenuto distinto da quello espropriativo sulla base delle seguenti caratteristiche, non necessariamente cumulative: a) investe una generalità di beni e di soggetti indipendentemente dal successivo instaurarsi di procedure espropriative (v. Cass. civ. Sez. I 27.02.2004 n. 3966); b) destina parti del territorio comunale ad usi pubblici operando nell'ambito della mera zonizzazione (v. Cass. civ. SU 25.11.2008 n. 28051); c) consente la realizzazione dell’intervento di interesse pubblico a cura dei privati senza necessità di previa espropriazione (v. C.Cost. 20.05.1999 n. 179; CS Sez. IV 10.07.2007 n. 3880). Facendo applicazione in concreto di questi criteri si potrebbero qualificare come soltanto conformative tutte le zonizzazioni relative a servizi che costituiscono standard urbanistico quando manchi la contestuale localizzazione di un’opera pubblica specifica o quando sia attribuita ai privati la possibilità di realizzare l’intervento in alternativa all’ente pubblico”.
Il vincolo conformativo è in buona sostanza funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale (Consiglio di Stato, sez. IV – 19/01/2012 n. 243): mentre esso definisce per zone, in via astratta e generale, le possibilità edificatorie connesse al diritto dominicale, il vincolo espropriativo incide su beni determinati in funzione della localizzazione puntuale di un’opera pubblica ed ha portata e contenuto direttamente ablatori (TAR Liguria, sez. I – 17/11/2011 n. 1579).
Tuttavia con la sopra citata pronuncia n. 1460/2009 questo Tribunale ha manifestato attenzione (cfr. par. 14) alle esigenze di tutela della proprietà, già valorizzate dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, presso la quale è costante il giudizio negativo verso le forme indirette di espropriazione, con particolare riguardo all’accessione invertita, di cui viene censurato sia lo scopo di ratifica di un comportamento illegale sia l’effetto di riduzione della sicurezza giuridica, mentre considerazioni analoghe sotto quest’ultimo profilo sono svolte a proposito dei vincoli espropriativi contenuti negli atti di pianificazione urbanistica.
La Corte ha censurato la situazione di incertezza in cui sono posti i titolari del diritto di proprietà nonché i disagi derivanti dal divieto di costruire e dalla diminuzione delle opportunità di vendita, in particolare quando non sia dimostrato un possibile uso alternativo del bene (v. CEDU Sez. I 15.07.2004 n. 36815/97, Scordino, punti 71, 94-99). Secondo la Corte, verificandosi queste condizioni, l’equilibrio deve essere ristabilito mediante un indennizzo, e la necessità di un indennizzo svela la natura sostanzialmente espropriativa del vincolo. La pronuncia di questo Tribunale ha altresì ritenuto ininfluente (cfr. par. 15) la possibilità per il proprietario di eseguire l’intervento in luogo dell’amministrazione, tranne quando egli vanti delle qualità particolari collegate alle destinazioni urbanistiche ammesse o disponga di un’organizzazione e di mezzi economici che gli consentano di eseguire effettivamente, e in modo vantaggioso, il suddetto intervento.
In proposito va osservato che la mancata previsione dell'indennizzo per la reiterazione di un vincolo espropriativo non costituisce causa di illegittimità dello strumento urbanistico (Consiglio di Stato, sez. IV – 06/05/2010 n. 2627) salva la possibilità di una pronuncia che accerti la natura espropriativa del vincolo, mentre la concreta quantificazione dell’indennizzo è poi rimessa al giudice ordinario ai sensi dell'art. 39, comma 4, e dell’art. 53, comma 2, del D.P.R. 327/2001.
Alla luce della disposizione da ultimo citata ad identica conclusione –circa la carenza di giurisdizione di questo Tribunale– si perviene per la determinazione dell’indennità di esproprio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 31.08.2012 n. 1483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROCassazione sulla mancata visita. Sicurezza, risponde il responsabile.
Se c'è un responsabile della sicurezza il datore di lavoro non risponde per la mancata visita medica ai dipendenti.

Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione che, con la sentenza 30.08.2012 n. 33521, ha annullato con rinvio la condanna a carico di un imprenditore sorpreso dall'ispettorato con alcuni dipendenti che non avevano fatto la visita per il lavoro notturno.
Il caso ad Ancona. Un 61enne era stato accusato per non aver fatto visitare due dipendenti addetti al lavoro notturno. Quindi era scattata la sanzione. Il tribunale e la Corte d'appello avevano confermato la responsabilità penale dell'uomo. Verdetto completamente ribaltato dalla Suprema corte cui l'imprenditore si è rivolto sostenendo che in azienda era presente un responsabile della sicurezza, regolarmente nominato, che avrebbe dovuto provvedere al rispetto delle norme antinfortunistiche.
La tesi è stata accolta dalla sezione feriale della Suprema corte di cassazione. Ad avviso degli Ermellini, infatti, «laddove ci sia un responsabile della sicurezza, è quest'ultimo che deve attivarsi per il rispetto delle norme antinfortunistiche. Quindi è rilevante accertare se in azienda vi sia stato, o no, un responsabile della sicurezza, fermo restando comunque che il datore di lavoro ha un generale obbligo di vigilare in ordine al corretto espletamento da parte di quest'ultimo delle attività a lui delegate e concernenti l'adozione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro».
Ora la causa tornerà ad altra sezione della Corte d'appello di Perugia che, nel decidere dovrà uniformarsi al principio di diritto sancito in sede di legittimità (articolo ItaliaOggi del 31.08.2012).

EDILIZIA PRIVATAL’intervento di sostituzione della “precaria e fatiscente tettoia di protezione del terrazzo pertinenziale con materiali più idonei” costituisce senza dubbio alcuno “nuova costruzione”, tale da necessitare di previo rilascio di titolo abilitativo.
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Interventi edilizi come nel caso di specie (la realizzazione di un solaio di copertura in cemento armato, poggiato su immobile abusivo già oggetto di condono, in sostituzione di precedente copertura in lamiera ed avente una copertura di mq 76 con altezza di cm 30) innovano il preesistente immobile in quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali utilizzati, come tale non riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a tali significative modificazioni si impone di conseguenza la verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa concessione edilizia.

Con il provvedimento indicato in epigrafe il commissario prefettizio del Comune di Vico Equense rilevava la presenza di opere abusive all’interno del terreno di proprietà del ricorrente, sito in località Montechiaro alla via Casini, consistenti, in particolare, nella realizzazione di un solaio di copertura in cemento armato, poggiato su immobile abusivo già oggetto di condono, in sostituzione di precedente copertura in lamiera ed avente una copertura di mq 76 con altezza di cm 30.
Veniva dunque ordinata la demolizione di tali opere.
Il provvedimento suddetto veniva impugnato per violazione dell’art. 7 della legge n. 47 del 1985 e degli artt. 31 e 38 della legge n. 457 del 1978, non essendovi stata alcuna modificazione dei luoghi mediante creazione di nuove superfici oppure incrementi di volume.
Si costituiva in giudizio l’amministrazione comunale intimata per chiedere il rigetto del gravame.
Alla pubblica udienza del 07.06.2012 la causa veniva infine trattenuta in decisione.
Tutto ciò premesso, e ritenuto che si tratta di sostituzione di un tetto in lamiera mediante una copertura in cemento armato, si richiama per tutte la recente decisione di questo TAR (sez. III, 12.03.2012, n. 1246) nella quale si è affermato che l’intervento di sostituzione della “precaria e fatiscente tettoia di protezione del terrazzo pertinenziale con materiali più idonei” costituisce senza dubbio alcuno “nuova costruzione”, tale da necessitare di previo rilascio di titolo abilitativo.
Interventi come quelli di specie, secondo la giurisprudenza, innovano infatti il preesistente immobile in quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali utilizzati, come tale non riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a tali significative modificazioni si impone di conseguenza la verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa concessione edilizia (cfr. TAR Toscana, sez. III, 26.02.2010, n. 516; Cons. Stato, sez. VI, 09.09.2005, n. 4668) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 30.08.2012 n. 3739 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZINelle gare per l'affidamento dei contratti pubblici un'offerta non può ritenersi senz'altro anomala ed essere assoggettata ad esclusione, per il solo fatto che il costo del lavoro è stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi. L'esclusione deve infatti essere comminata solo se la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata.
I dati risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono parametri assoluti e inderogabili ma, precipuamente nella sezione relativa alle ore medie annue non lavorate, sono indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta e pertanto suscettibili di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali svolte dall'offerente, la cui congruità deve essere ragionevolmente valutata dalla stazione appaltante.

Con riferimento invece all’incongruità dell’offerta in relazione al costo del lavoro esposto, occorre innanzitutto richiamare, ai fini del decidere, il consolidato principio giurisprudenziale, ribadito di recente dal TAR Toscana, sez. I, sent. n 351/2012, “secondo cui nelle gare per l'affidamento dei contratti pubblici un'offerta non può ritenersi senz'altro anomala ed essere assoggettata ad esclusione, per il solo fatto che il costo del lavoro è stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi. L'esclusione deve infatti essere comminata solo se la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata” (così anche TAR Piemonte I, 26.02.2011 n. 214).
Occorre ricordare altresì che “è stato anche affermato che i dati risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono parametri assoluti e inderogabili ma, precipuamente nella sezione relativa alle ore medie annue non lavorate, sono indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta e pertanto suscettibili di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali svolte dall'offerente, la cui congruità deve essere ragionevolmente valutata dalla stazione appaltante” (TAR Campania Napoli VIII, 02.07.2010 n. 16568) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 30.08.2012 n. 2200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’installazione di una antenna, visibile dai luoghi circostanti, comporta alterazione del territorio avente rilievo ambientale ed estetico, sicché, ai sensi dell’art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10, essa è soggetta al rilascio di concessione edilizia.
Tale principio giurisprudenziale è stato recepito dal T.U. n. 380 del 06.06.2001, il quale, all’art. 3, assoggetta a permesso di costruire (è questa la nuova denominazione della concessione edilizia) “l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione”, in quanto “interventi di nuova costruzione”.
Anche il nuovo Codice delle Comunicazioni ha previsto specifici procedimenti di autorizzazione per le infrastrutture di comunicazione.
Ciò premesso, appare evidente come la modestia dell’impianto installato (antenna di altezza pari a circa 4 metri) escluda la necessità di una concessione edilizia, poiché non comporta una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio tale da alterare stabilmente lo stato di luoghi.

... per l'annullamento dell’ordinanza n. 197 del 23.08.2001 a firma del Responsabile U.O. Edilizia privata del comune di Bollate di demolizione di una stazione radio base per telefonia cellulare in Bollate, e di ogni altro atto presupposto, tra cui gli artt. 12 e 20 del vigente regolamento edilizio ed il provvedimento ignoto di archiviazione della pratica edilizia in data 03.07.2001.
...
In particolare, appare evidente come la modestia dell’impianto installato (antenna di altezza pari a circa 4 metri) escluda la necessità di una concessione edilizia, poiché non comporta una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio tale da alterare stabilmente lo stato di luoghi.
Invero, “deve essere richiamato il costante orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’installazione di una antenna, visibile dai luoghi circostanti, comporta alterazione del territorio avente rilievo ambientale ed estetico, sicché, ai sensi dell’art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10, essa è soggetta al rilascio di concessione edilizia (per tutte, C.S., sez. V, 06.04.1998, n. 415). Tale principio giurisprudenziale è stato recepito dal T.U. n. 380 del 06.06.2001, il quale, all’art. 3, assoggetta a permesso di costruire (è questa la nuova denominazione della concessione edilizia) “l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione”, in quanto “interventi di nuova costruzione”. Anche il nuovo Codice delle Comunicazioni ha previsto specifici procedimenti di autorizzazione per le infrastrutture di comunicazione (artt. 87 e 88 del D.lgs. 01.08.2003, n. 259)” (così, Cons. di Stato, sez. IV, n. 3193/2004).
Siccome nel caso di specie il manufatto di cui si discute non può essere paragonato ad un traliccio o ad una torre, ma più appropriatamente ad una mera antenna, esso, per dimensioni e volume, appare sottratto al regime autorizzatorio evidenziato dal comune nel suo provvedimento.
Di conseguente, l’atto impugnato va annullato; sussistono peraltro gravi ragioni, in relazione alle oscillazioni interpretative che hanno caratterizzato in giurisprudenza la materia de qua, per compensare le spese del giudizio tra le parti (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 30.08.2012 n. 2198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICILa realizzazione di un’opera pubblica su fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di per sé in grado di determinare il trasferimento della proprietà del bene a favore della Amministrazione: deve infatti ritenersi ormai superato l’orientamento che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica ed alla irreversibile trasformazione del fondo che ad essa conseguiva effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi che la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a titolo d’acquisto.
Il diritto di proprietà, d’altro canto, non può essere fatto oggetto di atti abdicativi, e quindi anche la richiesta di risarcimento formulata dal privato, finalizzata ad ottenere il mero controvalore del fondo compromesso dalla realizzazione dell’opera pubblica, ancorché interpretata quale manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente occupato dall’opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale atto di acquisizione del fondo riconducibile ad un negozio giuridico, ad decreto espropriativo adottato all’esito di un rinnovato procedimento di pubblica utilità ovvero, se del caso, ad un provvedimento ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001 può precludere la restituzione del bene: di guisa che in assenza di un tale atto è obbligo primario della Amministrazione quello di restituire il fondo illegittimamente appreso. Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di questo ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un risarcimento commisurato alla perdita della proprietà o della disponibilità fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e per il risarcimento del danno conseguente al mancato godimento del bene durante il periodo di occupazione illegittima.

E’ ormai consolidato in giurisprudenza il principio per cui la realizzazione di un’opera pubblica su fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di per sé in grado di determinare il trasferimento della proprietà del bene a favore della Amministrazione: deve infatti ritenersi ormai superato l’orientamento che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica ed alla irreversibile trasformazione del fondo che ad essa conseguiva effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi che la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a titolo d’acquisto (TAR Puglia-Bari sez. III n. 2131/2008; TAR Puglia-Bari sez. I n. 3402/2010, confermata da C.d.S. sez. IV n. 4590/2011; C.d.S. sez. IV n. 4970/2011; C.d.S. sez. IV n. 3331/2011).
Il diritto di proprietà, d’altro canto, non può essere fatto oggetto di atti abdicativi (TAR Puglia-Bari sez. III n. 2131/2008, par. 6.1.2), e quindi anche la richiesta di risarcimento formulata dal privato, finalizzata ad ottenere il mero controvalore del fondo compromesso dalla realizzazione dell’opera pubblica, ancorché interpretata quale manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente occupato dall’opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale atto di acquisizione del fondo riconducibile ad un negozio giuridico, ad decreto espropriativo adottato all’esito di un rinnovato procedimento di pubblica utilità ovvero, se del caso, ad un provvedimento ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001 può precludere la restituzione del bene: di guisa che in assenza di un tale atto è obbligo primario della Amministrazione quello di restituire il fondo illegittimamente appreso (C.d.S. n. 4970/2011). Correlativamente, mantenendo il privato la proprietà di questo ultimo, egli non ha alcun titolo per chiedere un risarcimento commisurato alla perdita della proprietà o della disponibilità fondo, potendo invece agire per la restituzione di esso e per il risarcimento del danno conseguente al mancato godimento del bene durante il periodo di occupazione illegittima (TAR Puglia-Bari sez. II n. 2131/2008) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 30.08.2012 n. 985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon è il mero decorso del tempo dalla realizzazione di un’opera abusiva a determinare la illegittimità del relativo ordine di demolizione: vero è, piuttosto, che tale illegittimità deriva dalla lesione dell’affidamento che l’interessato abbia riposto sulla legittimità dell’opera (invece) abusiva e pertanto postula che l’interessato alleghi e dia dimostrazione degli elementi che avevano determinato l’insorgere di tale affidamento.
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Ai fini della emissione della ingiunzione di demolizione il legislatore non ha mai richiesto la preventiva adozione dell’ordinanza di sospensione lavori (che ha senso quando l’abuso sia rilevato ad opere non ultimate) né la perdurante efficacia della stessa: l’ordinanza di sospensione dei lavori non è, insomma, presupposto necessario della ingiunzione di demolizione.

La mancata dimostrazione relativa all’epoca di realizzazione del manufatto implica anche l’infondatezza della terza censura, a mezzo della quale si lamenta che l’ordine di demolizione è intervenuto a molti anni di distanza dalla realizzazione della costruzione abusiva.
Al proposito va comunque rammentato che non è il mero decorso del tempo dalla realizzazione di un’opera abusiva a determinare la illegittimità del relativo ordine di demolizione: vero è, piuttosto, che tale illegittimità deriva dalla lesione dell’affidamento che l’interessato abbia riposto sulla legittimità dell’opera (invece) abusiva e pertanto postula che l’interessato alleghi e dia dimostrazione degli elementi che avevano determinato l’insorgere di tale affidamento, ciò che nella specie la ricorrente non ha fatto.
Non essendovi certezza in ordine all’epoca di realizzazione del manufatto allo stato non è possibile stabilire quale strumento urbanistico fosse eventualmente in vigore al momento in cui l’abuso veniva consumato e quale destinazione urbanistica fosse stata impressa al sito: da qui l’infondatezza della quarta censura.
Priva di pregio è infine anche la quinta censura: ai fini della emissione della ingiunzione di demolizione il legislatore non ha mai richiesto la preventiva adozione dell’ordinanza di sospensione lavori (che ha senso quando l’abuso sia rilevato ad opere non ultimate) né la perdurante efficacia della stessa: l’ordinanza di sospensione dei lavori non è, insomma, presupposto necessario della ingiunzione di demolizione (TAR Napoli, sentenza n. 19290/2008) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 30.08.2012 n. 984 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIIl bando è lo strumento tramite il quale le amministrazioni aggiudicatrici possono affidare la realizzazione di lavori pubblici o di lavori di pubblica utilità ponendo a base di gara uno studio di fattibilità: è infatti finalizzato alla presentazione di offerte con utilizzo di risorse totalmente o parzialmente a carico dei soggetti proponenti.
È questa la caratteristica che distingue la finanza di progetto dall'affidamento mediante concessione ai sensi dell'articolo 143, D.Lgs. n. 163/2006 rispetto al quale essa è alternativa. Anche l’affidamento in concessione ha, di regola, ad oggetto la progettazione definitiva e/o esecutiva e l'esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità e di lavori strutturalmente e direttamente collegati nonché la loro gestione funzionale ed economica ma, diversamente dalla finanzia di progetto, il loro finanziamento è totalmente a carico dell’ente pubblico.
Allo stesso modo in cui la progettazione e gestione delle opere pubbliche o di pubblica utilità è oggetto di concessione di servizi, lo studio di fattibilità costituisce oggetto del project financing in quanto condiziona la scelta del promotore nell’ambito della gara nella quale è effettuata la valutazione comparativa delle diverse proposte sulla scorta dei criteri selettivi e requisiti prestabiliti.
È in esito alla gara con a base lo studio di fattibilità che il promotore diviene senz'altro aggiudicatario, previe eventuali modifiche progettuali o si apre la successiva negoziazione, nella quale al promotore è riconosciuto il diritto di prelazione o, in alternativa, il diritto al rimborso forfetario delle spese sostenute per la presentazione della proposta nella misura del 2,5% del valore dell'investimento.
Nella finanza di progetto, lo studio di fattibilità dell'opera pubblica o di pubblica utilità esplicita i contenuti e le previsioni degli atti di programmazione, costituendo il limite oltre il quale non può spingersi la facoltà propositiva del privato.
È pertanto inscindibilmente connesso al bando finalizzato alla presentazione di offerte rispetto al quale non esprime alcuna efficacia provvedimentale autonoma come necessario affinché lo stesso possa essere autonomamente impugnato.

Nella sistematica dell’art. 153, D.Lgs. 12.04.2006, n. 153 il bando è lo strumento tramite il quale le amministrazioni aggiudicatrici possono affidare la realizzazione di lavori pubblici o di lavori di pubblica utilità ponendo a base di gara uno studio di fattibilità: è infatti finalizzato alla presentazione di offerte con utilizzo di risorse totalmente o parzialmente a carico dei soggetti proponenti.
È questa la caratteristica che distingue la finanza di progetto dall'affidamento mediante concessione ai sensi dell'articolo 143, D.Lgs. n. 163/2006 rispetto al quale essa è alternativa. Anche l’affidamento in concessione ha, di regola, ad oggetto la progettazione definitiva e/o esecutiva e l'esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità e di lavori strutturalmente e direttamente collegati nonché la loro gestione funzionale ed economica ma, diversamente dalla finanzia di progetto, il loro finanziamento è totalmente a carico dell’ente pubblico.
Allo stesso modo in cui la progettazione e gestione delle opere pubbliche o di pubblica utilità è oggetto di concessione di servizi (Cons. St., sez. IV, 09.05.2001, n. 2600), lo studio di fattibilità costituisce oggetto del project financing in quanto condiziona la scelta del promotore nell’ambito della gara nella quale è effettuata la valutazione comparativa delle diverse proposte sulla scorta dei criteri selettivi e requisiti prestabiliti. È in esito alla gara con a base lo studio di fattibilità che il promotore diviene senz'altro aggiudicatario, previe eventuali modifiche progettuali o si apre la successiva negoziazione, nella quale al promotore è riconosciuto il diritto di prelazione o, in alternativa, il diritto al rimborso forfetario delle spese sostenute per la presentazione della proposta nella misura del 2,5% del valore dell'investimento (Cons. St. ad. plen., 28.01.2012, n. 1).
Nella finanza di progetto, lo studio di fattibilità dell'opera pubblica o di pubblica utilità esplicita i contenuti e le previsioni degli atti di programmazione, costituendo il limite oltre il quale non può spingersi la facoltà propositiva del privato (TAR Sicilia Palermo, sez. III, 07.07.2009, n. 1207).
È pertanto inscindibilmente connesso al bando finalizzato alla presentazione di offerte rispetto al quale non esprime alcuna efficacia provvedimentale autonoma come necessario affinché lo stesso possa essere autonomamente impugnato (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 30.08.2012 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini edilizi si intende per pergolato un manufatto avente natura ornamentale realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
Mentre il pergolato costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore ed è destinato a creare ombra, la tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed aumenta l’abitabilità dell’immobile.

Circa la nozione di pergolato, va rilevato che (cfr. Cons. St. Sez. IV 29.09.2011 n. 5409) “ai fini edilizi si intende per pergolato un manufatto avente natura ornamentale realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni”.
Al riguardo è stato altresì osservato (cfr. Cass. pen Sez. III 19.05.2008 n. 19973) che mentre il pergolato costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore ed è destinato a creare ombra, la tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed aumenta l’abitabilità dell’immobile (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.08.2012 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICITerminata la prima fase della finanza di progetto con l’effettuazione della procedura ad evidenza pubblica ed accertata dalla stazione appaltante l’assenza di altre imprese interessate alla realizzazione del progetto, deve escludersi che possa formalizzarsi un vero e proprio obbligo di affidare la concessione al promotore, dal momento che la residua fase negoziale non è stata ancora espletata e non è maturato il perfezionamento del reciproco consenso sugli esatti contenuti del contratto di concessione.
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La posizione del promotore, che si assume oltre che il rischio economico anche quello amministrativo, è esposta alla legittima opera revisionale dell’amministrazione, in un contesto che la giurisprudenza ormai consolidata configura di ampia discrezionalità, caratterizzata da incisive e sostanziali valutazioni di merito sulla fattibilità delle proposte che sono strettamente connesse a scelte interne dell'Amministrazione procedente, la quale -essa sola- può valutare i vari aspetti economici e tecnici della proposta presentata.
Pertanto, in considerazione dello stato di avanzamento della procedura di project financing e delle ragioni di ripensamento della convenienza economica e progettuale dell’intervento, il promotore non vanta alcuna posizione qualificata, come peraltro confermato dall’orientamento secondo cui “in presenza di una revoca legittima della procedura di realizzazione e concessione dell'opera pubblica per mezzo del project financing, il soggetto promotore, rispetto a tutti gli atti emanati successivamente dall'amministrazione per realizzare e gestire medesimo intervento per mezzo della costituzione di una società mista, è portatore di un interesse di mero fatto.

Premesso che:
- con deliberazione di Giunta Municipale n. 63 del 20.03.2008, il Comune di Nola approvava la proposta di project financing avanzata dalla società ricorrente inerente alla realizzazione e gestione dell’intervento denominato “Cittadella del Tempo Libero”, statuendo che il progetto costituente tale proposta dovesse essere posto a gara con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa;
- a seguito del cambiamento della disciplina urbanistica di riferimento e dell’inutile esperimento della procedura aperta per l’individuazione delle due migliori offerte da convogliare, insieme a quella del promotore, nella successiva procedura negoziata, l’amministrazione comunale, con determina dirigenziale n. 35 dell'01.12.2008 (rimasta inoppugnata), stabiliva “di non poter procedere alle ulteriori fasi della procedura, che resta subordinata al conseguimento della compatibilità urbanistica del fondo, oggetto di intervento, che allo stato ricade in zona omogenea “E” agricola.”;
- con il gravame in trattazione, parte ricorrente insta essenzialmente per la condanna del Comune di Nola al risarcimento dei danni da responsabilità precontrattuale conseguenti all’arresto procedimentale disposto con la citata determina dirigenziale, ritenendo il comportamento dell’amministrazione contrario ai canoni di buona fede nelle trattative negoziali di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. ed assumendo l’automaticità dell’assegnazione in suo favore della concessione, una volta infruttuosamente espletata la procedura aperta;
Considerato che:
- tale ultimo assunto non può essere condiviso;
- infatti, terminata la prima fase della finanza di progetto con l’effettuazione della procedura ad evidenza pubblica ed accertata dalla stazione appaltante l’assenza di altre imprese interessate alla realizzazione del progetto, deve escludersi che possa formalizzarsi un vero e proprio obbligo di affidare la concessione al promotore, dal momento che la residua fase negoziale non è stata ancora espletata e non è maturato il perfezionamento del reciproco consenso sugli esatti contenuti del contratto di concessione (cfr. TAR Abruzzo L’Aquila, 17.05.2011 n. 265);
- quanto alla pretesa risarcitoria, ai fini della valutazione dell’amministrazione sotto il profilo privatistico della correttezza negoziale, vale rimarcare che non vi è stato alcun consolidamento della posizione precontrattuale del promotore, il quale ha presentato il progetto (assumendosi il rischio che non venisse giudicato conforme all’interesse pubblico), ha completato la prima fase del procedimento di project financing (conseguendo la dichiarazione di pubblico interesse e l’approvazione del progetto), ma ha subito il ripensamento dell’amministrazione locale in una fase ancora prodromica, in cui l’intero procedimento amministrativo non si era affatto concluso (dovendosi dare corso alla procedura negoziata per l’individuazione del concessionario), e ben prima del sorgere di alcun vincolo sull’affidamento della concessione;
- si applicano al riguardo le condivisibili osservazioni rese dalla Sezione in un caso analogo, che di seguito si riportano: “La posizione del promotore, che si assume oltre che il rischio economico anche quello amministrativo, è esposta alla legittima opera revisionale dell’amministrazione, in un contesto che la giurisprudenza ormai consolidata configura di ampia discrezionalità, caratterizzata da incisive e sostanziali valutazioni di merito sulla fattibilità delle proposte che sono strettamente connesse a scelte interne dell'Amministrazione procedente, la quale -essa sola- può valutare i vari aspetti economici e tecnici della proposta presentata (cfr. sul punto, ad es., TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 13.11.2006 n. 2193).
Pertanto, in considerazione dello stato di avanzamento della procedura di project financing e delle ragioni di ripensamento della convenienza economica e progettuale dell’intervento, il promotore non vanta alcuna posizione qualificata, come peraltro confermato dall’orientamento secondo cui “in presenza di una revoca legittima della procedura di realizzazione e concessione dell'opera pubblica per mezzo del project financing, il soggetto promotore, rispetto a tutti gli atti emanati successivamente dall'amministrazione per realizzare e gestire medesimo intervento per mezzo della costituzione di una società mista, è portatore di un interesse di mero fatto” (Consiglio di Stato, sez. VI, 10.05.2007, n. 2246)
.” (così TAR Campania Napoli, Sez. I, 17.12.2009 n. 8849) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 28.08.2012 n. 3735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIALa giurisprudenza prevalente, formatasi in tema di localizzazione di discariche o comunque di localizzazione di impianti per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti, è infatti orientata nel senso di ritenere che l’associazione ambientale locale sia priva di legittimazione attiva, in quanto carente del riconoscimento ministeriale previsto dall’art. 13 della legge 08.07.1986, n. 349.
Più precisamente, si afferma che la speciale legittimazione delle associazioni a protezione ambientale a ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986 riguardi l’associazione ambientalistica nazionale formalmente riconosciuta e non le sue strutture territoriali, le quali non possono ritenersi munite di autonoma legittimazione processuale neppure per l’impugnazione di un provvedimento ad efficacia territorialmente limitata.
In altri termini, o l’articolazione costituisce un soggetto a sé stante, ed in tale caso rientra nella sfera di previsione dell’art. 18 già citato, oppure rappresenta un’articolazione territoriale dell’associazione, ed in quanto tale il presidente del club o comitato locale non ha la rappresentanza dell’associazione nazionale, la sola legittimata ex lege, né il potere di promuovere la lite per suo conto ed in suo nome.
Secondo un siffatto orientamento, dunque, il carattere nazionale od ultra regionale dell’associazione costituisce al tempo stesso presupposto del riconoscimento e limite della legittimazione speciale, la quale ha dunque carattere ontologicamente unitario.
Si è anche evidenziato che ove la legittimazione ad agire discenda direttamente dalla legge, con carattere dunque eccezionale, neppure la previsione statutaria può assegnare ad articolazioni interne dell’ente associativo la contitolarità della predetta legittimazione, che resta in capo all’ente di carattere nazionale accreditato in sede ministeriale; ciò in quanto lo statuto non può conferire una legittimazione che la legge non ha previsto.
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La mera vicinanza di un fondo ad una discarica o ad un impianto di trattamento di rifiuti non legittima di per sé il proprietario frontista ad insorgere avverso il provvedimento od il contegno autorizzativo dell’opera, essendo necessaria anche la prova del danno che egli da questa possa ricevere, che, esemplificativamente, può essere connesso al fatto che la localizzazione dell’impianto riduce il valore economico del fondo situato nelle sue vicinanze, od al fatto che le prescrizioni dettate dall’Autorità competente in ordine alle modalità di gestione dell’impianto sono inidonee a salvaguardare la salute di chi vive nelle vicinanze, od anche all’incremento del traffico veicolare.
La vicinitas, intesa quale stabile e significativo collegamento del ricorrente con la zona il cui ambiente si intende proteggere, può fondare la legittimazione al ricorso (in quanto enuclea la titolarità di una posizione giuridica differenziata rispetto alla collettività indifferenziata), ma non anche l’interesse al ricorso, inteso come utilità concreta ritraibile dall’eventuale accoglimento del ricorso.
Il sindacato di legittimità su di un provvedimento preordinato alla cura di interessi generali che nel territorio trovano la loro esplicazione può essere provocato da un soggetto che agisce uti singulus solo prospettando il pregiudizio specifico che astrattamente viene prodotto nella sfera giuridica del ricorrente, senza, ovviamente, dover provare l’effettività del danno subendo.

La giurisprudenza prevalente, formatasi in tema di localizzazione di discariche o comunque di localizzazione di impianti per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti, è infatti orientata nel senso di ritenere che l’associazione ambientale locale sia priva di legittimazione attiva, in quanto carente del riconoscimento ministeriale previsto dall’art. 13 della legge 08.07.1986, n. 349.
Più precisamente, si afferma che la speciale legittimazione delle associazioni a protezione ambientale a ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986 riguardi l’associazione ambientalistica nazionale formalmente riconosciuta e non le sue strutture territoriali, le quali non possono ritenersi munite di autonoma legittimazione processuale neppure per l’impugnazione di un provvedimento ad efficacia territorialmente limitata.
In altri termini, o l’articolazione costituisce un soggetto a sé stante, ed in tale caso rientra nella sfera di previsione dell’art. 18 già citato, oppure rappresenta un’articolazione territoriale dell’associazione, ed in quanto tale il presidente del club o comitato locale non ha la rappresentanza dell’associazione nazionale, la sola legittimata ex lege, né il potere di promuovere la lite per suo conto ed in suo nome.
Secondo un siffatto orientamento, dunque, il carattere nazionale od ultra regionale dell’associazione costituisce al tempo stesso presupposto del riconoscimento e limite della legittimazione speciale, la quale ha dunque carattere ontologicamente unitario (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 14.04.2006, n. 2151; Sez. VI, 09.03.2010, n. 1403; Sez. VI, 07.04.2010, n. 1960).
Si è anche evidenziato, richiamando il precedente di Cons. Stato, Ad. Plen., 11.01.2007, n. 2 (in tema di associazioni di consumatori, tematica distinta, ma contenutisticamente simmetrica), che ove la legittimazione ad agire discenda direttamente dalla legge, con carattere dunque eccezionale, neppure la previsione statutaria può assegnare ad articolazioni interne dell’ente associativo la contitolarità della predetta legittimazione, che resta in capo all’ente di carattere nazionale accreditato in sede ministeriale; ciò in quanto lo statuto non può conferire una legittimazione che la legge non ha previsto (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 19.10.2011, n. 1481).
Obietta parte ricorrente, nei propri scritti difensivi, che, al di là della legittimazione legale ex artt. 13 e 18 della legge n. 349 del 1986, vi sia spazio per riconoscere anche una legittimazione ordinaria alle associazioni ambientalistiche che godano di un adeguato grado di stabilità e rappresentatività in un ambito territorialmente limitato.
Su tale questione si registra in giurisprudenza qualche oscillazione, nel senso che talune pronunce affermano che il giudice amministrativo può riconoscere, caso per caso, legittimazione ad impugnare atti amministrativi incidenti sull’ambiente anche ad associazioni a carattere locale, che perseguano, conformemente al loro statuto, in modo non occasionale, obiettivi di tutela ambientale, avendo altresì un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un’area di afferenza riconducibile alla zona ove si colloca il bene a fruizione collettiva che si asserisce leso (Cons. Stato, Sez. IV, 08.11.2010, n. 7907).
Al contrario, altra parte della giurisprudenza afferma che dopo l’entrata in vigore della legge n. 349 del 1986 non vi è più spazio per il riconoscimento della legittimazione processuale in capo ad associazioni diverse da quelle rientranti nella previsione dell’art. 13 della legge stessa, in quanto la pregressa costruzione giurisprudenziale è stata elaborata per risolvere il problema della tutela processuale dei ridetti interessi “diffusi”, per i quali all’epoca non esistevano meccanismi normativi che autorizzassero particolari soggetti ad invocare tale tutela; una volta che il legislatore è intervenuto con la previsione di una legittimazione ex lege, si esaurisce l’ambito della tutela processuale riconosciuta dall’ordinamento (Cons. Stato, Sez. IV, 28.03.2011, n. 1876).
Entrambe le soluzioni presentano profili di coerenza sistematica.
Nel caso di specie, peraltro, anche a volere seguire l’indirizzo meno restrittivo, osserva il Collegio che in capo al ricorrente Club della Teverina difettano i requisiti per riconoscergli autonoma legittimazione, e non già come articolazione territoriale di un’associazione nazionale. A questo riguardo, la giurisprudenza richiede che le associazioni locali perseguano statutariamente, in modo non occasionale, obiettivi di tutela ambientale, e posseggano un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene che si assume leso (Cons. Stato, Sez. VI, 26.07.2001, n. 4123).
L’Associazione Amici della Terra-Club della Teverina non possiede il carattere di ente esponenziale in via stabile e continuativa di interessi diffusi radicati sul territorio, essendo sorto solamente nel marzo 2010, cioè circa due mesi prima della proposizione del presente ricorso, per effetto della confluenza in esso del comitato spontaneo “Salviamo il basso Tevere”; e non basta il mero scopo associativo a rendere differenziato un interesse diffuso od adespota, facente capo alla popolazione nel suo complesso, quale la salvaguardia dell’ambiente (cfr. art. 2 dello Statuto), in quanto, diversamente, si eluderebbe il divieto di azione popolare (in termini Cons. Stato, Sez. V, 14.06.2007, n. 3192).
Al difetto di legittimazione attiva dell’associazione ricorrente si accompagna quella, anche in proprio, del suo legale rappresentante dr. Claudio Cesaretti, che non ha allegato la titolarità di alcuna situazione giuridica soggettiva specifica.
Si deve ora procedere allo scrutinio dell’eccezione di difetto di legittimazione e di interesse al ricorso dei sigg.ri Morresi e Tata, argomentata dalle parti resistenti nella considerazione dell’inadeguatezza della mera allegazione di essere residenti a Giove e proprietari di terreni situati nelle immediate vicinanze del sito ove è in corso di realizzazione il biodigestore (la cui opera, peraltro, gli stessi ricorrenti, con la memoria di discussione, precisano essere interrotta, ed il cantiere abbandonato da più di un anno e mezzo), senza provare il danno arrecato nella loro sfera giuridica.
Anche tale eccezione appare meritevole di positiva valutazione.
Occorre infatti considerare come la giurisprudenza prevalente ritenga che la mera vicinanza di un fondo ad una discarica o ad un impianto di trattamento di rifiuti non legittima di per sé il proprietario frontista ad insorgere avverso il provvedimento od il contegno autorizzativo dell’opera, essendo necessaria anche la prova del danno che egli da questa possa ricevere, che, esemplificativamente, può essere connesso al fatto che la localizzazione dell’impianto riduce il valore economico del fondo situato nelle sue vicinanze, od al fatto che le prescrizioni dettate dall’Autorità competente in ordine alle modalità di gestione dell’impianto sono inidonee a salvaguardare la salute di chi vive nelle vicinanze, od anche all’incremento del traffico veicolare (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2012, n. 2460; Sez. V, 16.06.2009, n. 3849; Sez. V, 20.05.2002, n. 2714).
I ricorrenti, nella memoria di discussione, deducono che la prova del pregiudizio non può essere fornita a priori, essendo celata dal lamentato difetto di istruttoria, dovendosi dunque radicare l’interesse nel solo criterio della vicinitas.
Tale assunto non è peraltro condivisibile, in quanto la vicinitas, intesa quale stabile e significativo collegamento del ricorrente con la zona il cui ambiente si intende proteggere (così Cons. Stato, Sez. V, 26.02.2010, n. 1134), può fondare la legittimazione al ricorso (in quanto enuclea la titolarità di una posizione giuridica differenziata rispetto alla collettività indifferenziata), ma non anche l’interesse al ricorso, inteso come utilità concreta ritraibile dall’eventuale accoglimento del ricorso.
Sotto questo profilo, anch’esso attinente ad una condizione dell’azione, il sindacato di legittimità su di un provvedimento preordinato alla cura di interessi generali che nel territorio trovano la loro esplicazione può essere provocato da un soggetto che agisce uti singulus solo prospettando il pregiudizio specifico che astrattamente viene prodotto nella sfera giuridica del ricorrente, senza, ovviamente, dover provare l’effettività del danno subendo (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 28.08.2012 n. 334 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOVietato accorpare i vigili a un ufficio più complesso.
Il comune non può sopprimere il corpo di vigilanza urbana e inglobarlo all'interno di una struttura amministrativa più complessa. E nemmeno degradare il comandante delegando un dirigente esterno all'organizzazione della polizia municipale.
Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 27.08.2012 n. 4605.
Un comune ha riformulato l'organizzazione del comando di polizia locale sopprimendo il corpo ed inserendo i vigili alle dipendenze del settore segreteria. Contro questa determinazione il comandante degradato ha proposto ricorso al tar lamentando numerose violazioni di legge. Il collegio ha accolto il ricorso ma il comune ha proposto appello, senza successo. A parere del collegio, infatti, con l'istituzione del corpo di polizia si crea una struttura organizzativa autonoma ed unitaria con uno stato giuridico ed economico differenziato.
In pratica l'aggregazione degli operatori di vigilanza rappresenta il corpo di polizia locale al vertice del quale è posto il comandante che ha la responsabilità della struttura e ne risponde direttamente al sindaco. Pertanto, la polizia municipale, prosegue la sentenza, «una volta eretta in corpo, non può essere considerata una struttura intermedia in una struttura burocratica più ampia né, per tale incardinamento, essere posta alle dipendenze del dirigente amministrativo che dirige tale più ampia struttura».
E questa unitarietà non può essere contrastata nemmeno differenziando l'attività gestionale da quella di vigilanza. Privare il comandante della sua capacità di intervento sugli aspetti gestionali per attribuirli al coordinatore dell'area amministrativa infatti non è conforme alla legge 65/1986 la quale prevede inoltre uno stato giuridico ed economico differenziato per la polizia locale rispetto agli altri dipendenti comunali.
L'autonomia del corpo, conclude il collegio, «si spiega anche in ragione della specifica caratterizzazione delle funzioni del personale che vi appartiene. È sufficiente al riguardo considerare l'attribuzione in via ordinaria a tutti gli addetti della polizia municipale delle funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale e di pubblica sicurezza con riconoscimento della relativa qualità».
In pratica, la soppressione del posto di comandante e lo scorporo dei compiti di polizia locale comportano una evidente violazione della normativa di riferimento (articolo ItaliaOggi del 30.08.2012).

APPALTISe l'impresa assiste, tramite rappresentante, alla seduta in cui vengono adottate determinazioni in ordine all’esclusione della sua offerta, è in tale seduta che l'impresa acquisisce la piena conoscenza del provvedimento ed è dalla data della stessa seduta che decorre il termine per impugnare il medesimo provvedimento, mentre la presenza di un rappresentante della ditta partecipante alla gara di appalto in quella seduta non comporta ex se la piena conoscenza dell'atto di esclusione ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione solo qualora il rappresentante stesso non sia munito di apposito mandato o non rivesta una specifica carica sociale, ossia non ricorrano i casi in cui la conoscenza avuta dal medesimo sia riferibile alla società concorrente.
Com’è pacifico in giurisprudenza, se l'impresa assiste, tramite rappresentante, alla seduta in cui vengono adottate determinazioni in ordine all’esclusione della sua offerta, è in tale seduta che l'impresa acquisisce la piena conoscenza del provvedimento ed è dalla data della stessa seduta che decorre il termine per impugnare il medesimo provvedimento, mentre la presenza di un rappresentante della ditta partecipante alla gara di appalto in quella seduta non comporta ex se la piena conoscenza dell'atto di esclusione ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione solo qualora il rappresentante stesso non sia munito di apposito mandato o non rivesta una specifica carica sociale, ossia non ricorrano i casi in cui la conoscenza avuta dal medesimo sia riferibile alla società concorrente (cfr., tra le più recenti, Cons. St., sez. VI, 13.12.2011 n. 6531 e sez. V, 18.11.2011) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 22.08.2012 n. 4593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISussiste il divieto per la stazione appaltante di sottoporre l'offerta ad operazioni manipolative e di adattamento, risultando altrimenti violati la par condicio dei concorrenti, l'affidamento da essi posto nelle regole di gara per modulare l'offerta economica e le esigenze di trasparenza e certezza (con conseguente necessità di prevenire possibili controversie sull’effettiva volontà dell’offerente) delle gare pubbliche.
A fronte di ciò, risulta evidentemente recessivo il principio della conservazione delle offerte, né può farsi applicazione dell’art. 90 del d.P.R. 21.12.1999 n. 554 (ora art. 119 del d.P.R. 10.12.2010 n. 207), il quale detta prefissati criteri volti a comporre discordanze tra le diverse componenti dell’offerta “a prezzi unitari” delle lavorazioni e forniture occorrenti per l’esecuzione delle opere o lavori pubblici, indicate in apposita lista dalla stazione appaltante, vale a dire in un’ipotesi qui non ricorrente.
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La mancata verbalizzazione delle modalità di custodia delle offerte economiche non è motivo di illegittimità se la censura non sia sorretta da allegazione che si sia verificata manomissione.

Nella specie, va fatta applicazione del costante indirizzo giurisprudenziale secondo cui sussiste il divieto per la stazione appaltante di sottoporre l'offerta ad operazioni manipolative e di adattamento, risultando altrimenti violati la par condicio dei concorrenti, l'affidamento da essi posto nelle regole di gara per modulare l'offerta economica e le esigenze di trasparenza e certezza (con conseguente necessità di prevenire possibili controversie sull’effettiva volontà dell’offerente) delle gare pubbliche (cfr., tra le tante, Cons. St., sez. VI, 02.03.2011 n. 1299; sez. V, 08.02.2011 n. 846 e 14.09.2010, n. 6687; sez. IV, 28.12.2005 n. 7470).
A fronte di ciò, risulta evidentemente recessivo il principio della conservazione delle offerte, né può farsi applicazione dell’art. 90 del d.P.R. 21.12.1999 n. 554 (ora art. 119 del d.P.R. 10.12.2010 n. 207), il quale detta prefissati criteri volti a comporre discordanze tra le diverse componenti dell’offerta “a prezzi unitari” delle lavorazioni e forniture occorrenti per l’esecuzione delle opere o lavori pubblici, indicate in apposita lista dalla stazione appaltante, vale a dire in un’ipotesi qui non ricorrente.
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Quanto all’appello incidentale di Diasorin, col primo mezzo si lamenta che le offerte economiche, aperte 20.07.2010 ed esaminate 10.05.2011, per molti mesi siano rimaste aperte ed incustodite, in assenza di indicazioni nei verbali delle modalità di custodia e delle cautele adottate.
Tuttavia, la Sezione ha già espresso l’avviso, dal quale il Collegio non ravvisa motivo di discostarsi, che la mancata verbalizzazione delle modalità di custodia non sia motivo di illegittimità se la censura non sia sorretta da allegazione che si sia verificata manomissione (cfr. Cons. St., sez. III, 13.05.2011 n. 2908).
Oltretutto, nella specie le offerte economiche non erano più segrete, essendo state aperte nella seduta del 20.07.2010 (verbale n. 5), in cui ai concorrenti è stata fatta prendere visione reciproca delle offerte stesse, sicché nessun rischio di alterazione vi era più e, del resto, Diasorin neppure ipotizza una qualche irregolarità al riguardo
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 22.08.2012 n. 4592 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICACostituiscono vincoli soggetti a decadenza quelli preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificazione i quali, pertanto, svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
Il principio della prevalenza dell'interesse pubblico, in virtù del quale un atto di pianificazione generale non ha bisogno di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si esprime con i criteri posti a sua base è temperato dal principio della tutela degli interessi privati, sicché l’amministrazione pubblica può legittimamente reiterare il vincolo preordinato all'esproprio che sia decaduto per il decorso del quinquennio in assenza della dichiarazione della pubblica utilità, ma è tenuta a fornire un'adeguata motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione, così da escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti.
Sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene. Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l'iniziativa economica privata - pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento: si fa riferimento, ad esempio, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali; in breve, a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato.
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Sono richiesti, in caso di reiterazione di vincoli espropriativi, un "surplus" di istruttoria e una motivazione adeguata.

In punto di diritto, deve rammentarsi che la vicenda dei vincoli preordinati all’espropriazione, contenuti nel P.R.G. ovvero in altri strumenti urbanistici prende le mosse dalla sentenza con la quale la Corte Costituzionale riconobbe illegittima la disciplina recata dalla legge urbanistica (L. 17.08.1942 n. 1150), che prevedeva la possibilità di imporre alla proprietà privata, in sede di pianificazione, vincoli preordinati all' espropriazione, senza alcun limite temporale e senza indennizzo (Corte Costituzionale, 29.05.1968 n. 55).
A seguito di tale decisione, il legislatore intervenne con la L. 19.11.1968 n. 1187, il cui art. 2 provvedeva a fissare in cinque anni il periodo entro cui detti vincoli devono, a pena di decadenza, tradursi in piani esecutivi o, comunque, deve avviarsi in modo certo il procedimento espropriativo.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Sez. V, 03.01.2001 n. 3; Sez. IV, 17.04.2003 n. 2015 e 22.06.2004 n. 4426), costituiscono vincoli soggetti a decadenza quelli preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificazione i quali, pertanto, svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
Il principio della prevalenza dell'interesse pubblico, in virtù del quale un atto di pianificazione generale non ha bisogno di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si esprime con i criteri posti a sua base è temperato dal principio della tutela degli interessi privati, sicché l’amministrazione pubblica può legittimamente reiterare il vincolo preordinato all'esproprio che sia decaduto per il decorso del quinquennio in assenza della dichiarazione della pubblica utilità, ma è tenuta a fornire un'adeguata motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione, così da escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti (Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.09.2011 n. 5216 e 22.06.2004 n. 4397).
La giurisprudenza ha inoltre precisato che sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene. Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l'iniziativa economica privata - pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento: si fa riferimento, ad esempio, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali; in breve, a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato.
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Deve quindi concludersi per la illegittimità dell’azione amministrativa sulla scorta della nota e consolidata giurisprudenza che richiede, in caso di reiterazione di vincoli espropriativi, un "surplus" di istruttoria e una motivazione adeguata, non rinvenibile negli atti de quibus (Consiglio di Stato, Sez. IV, 15.09.2009, n. 5521; Adunanza Plenaria, 24.05.2007 n. 7) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 18.08.2012 n. 3730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Esproprio reiterato, dopo un lustro non bastano le formule di stile.
E' illegittima la deliberazione del Consiglio comunale con la quale è stato reiterato un vincolo preordinato all'esproprio -ormai scaduto per il decorso del termine quinquennale di efficacia- che sia genericamente motivata con la necessità di tutelare e/o conseguire finalità di interesse pubblico.
La segnalata pronuncia concerne l’impugnazione del provvedimento di diniego di un permesso di costruire, in uno alla sottesa deliberazione consiliare di reiterazione di un ormai scaduto vincolo preordinato all’esproprio dei suoli interessati.
In particolare il deducente ha esposto che la civica P.A. aveva respinto la propria richiesta di permesso di costruire per la realizzazione di unità abitativa sulla scorta della considerazione per cui, oltre al resto, il lotto interessato dall’intervento sarebbe stato gravato dal menzionato vincolo per la realizzazione di alcuni parcheggi pubblici.
Sicché, avversati il suddetto provvedimento negativo e la presupposta deliberazione di reiterazione del vincolo espropriativo, il ricorrente ha contestato la violazione e falsa applicazione dell’art. 12, D.P.R. n. 380/2001, degli artt. 7 e 40, L. n. 1150/1942, nonché l’eccesso di potere per sviamento, difetto assoluto di motivazione, contraddittorietà e illogicità manifesta.
Il TAR di Napoli ha accolto il gravame.
In punto di diritto, ha dapprima rammentato che le fattispecie involgenti i vincoli preordinati all’esproprio, contenuti nel P.R.G. comunale ovvero in altri strumenti urbanistici, prendono le mosse dalla sentenza con la quale la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità della disciplina recata dalla legge urbanistica (L. 17.08.1942, n. 1150), che prevedeva la possibilità di imporre alla proprietà privata vincoli preordinati all'espropriazione, senza alcun limite temporale e senza indennizzo (Corte Cost., 29.05.1968, n. 55).
Per tal ragione, il legislatore è successivamente intervenuto con la L. 19.11.1968, n. 1187, il cui art. 2 provvede a fissare in cinque anni il periodo entro cui detti vincoli devono, a pena di decadenza, tradursi in piani esecutivi o, comunque, deve avviarsi in modo certo il procedimento espropriativo.
Di conseguenza il giudicante non ha mancato di evidenziare che, in linea di principio, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, costituiscono vincoli soggetti a decadenza quelli preordinati all’espropriazione o che comportano l’inedificabilità i quali, pertanto, svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio. (Cons. Stato, Sez. V, 3 gennaio 2001, n. 3; idem, Sez. IV, 17.04.2003, n. 2015 e 22.06.2004, n. 4426).
In virtù di tanto, l’adito Collegio ha sottolineato come il principio della “prevalenza dell'interesse pubblico” -secondo cui un atto di pianificazione generale non necessita di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si esprime con i criteri posti alla sua base- debba essere temperato dal principio della “tutela degli interessi privati”; pertanto, la P.A., sebbene possa legittimamente reiterare il vincolo preordinato all'esproprio decaduto per il decorso del quinquennio senza apposita dichiarazione di pubblica utilità, è comunque tenuta a fornire un'adeguata motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione, così da escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti (Cons. Stato, Sez. IV, 19.09.2011, n. 5216; idem, 22.06.2004, n. 4397).
Orbene, avuto riguardo alla vicenda in parola, il TAR di Napoli ha rilevato la natura espropriativa del vincolo gravante sul bene, non ritenendo condivisibile la deduzione svolta dall’amministrazione secondo cui il provvedimento di reiterazione del vincolo avrebbe costituito espressione di una mera potestà conformativa.
Tale considerazione è derivata dall’esame del provvedimento reiettivo impugnato, nel contesto del quale si dava atto del contrasto del progetto edilizio proprio con il vincolo previsto dal P.R.G., nonché della delibera consiliare con cui il Comune aveva espressamente stabilito di "mantenere i vincoli preordinati all’esproprio così come previsti nel piano vigente".
Conseguentemente, sono state ritenute fondate le censure relative al difetto di motivazione della contestata deliberazione.
Al riguardo, infatti, ha osservato che all’epoca dell’adozione di quest’ultimo atto, il vincolo originariamente impresso dal P.R.G. risultava scaduto per decorso del termine quinquennale di efficacia ai sensi dell’art. 9, secondo comma, del D.P.R. n. 327/2001.
Sicché la doglianza svolta dall’esponente in ordine all’assenza di idonea motivazione alla base dell’opzione reiterativa è stata ritenuta fondata da parte dell’adito Collegio, attesi i ben noti principi giurisprudenziali in tema di precisi e puntuali oneri motivazionali a carico dell’amministrazione in ipotesi di reiterazione di vincolo espropriativo scaduto.
Al contrario, nella richiamata delibera consiliare, la P.A. si era limitata a rilevare che: "… l’amministrazione comunale intende provvedere, nel breve periodo alla verifica delle risultanze del piano, anche al fine di apportare, ove ne ricorrano le condizioni, le necessarie variazioni… nelle more della definizione di quanto sopra si ritiene necessario mantenere in essere i vincoli preordinati all’esproprio così come previsti nel piano vigente".
È parso evidente che la motivazione addotta dal Comune era del tutto generica e, quindi, inidonea a soddisfare l’onere motivazionale su di esso gravante: l’amministrazione, infatti, avrebbe dovuto esternare le ragioni di interesse pubblico, attuale e concreto, che avevano giustificato il perdurare del sacrificio imposto al privato, con la precisazione che tale indicazione non poteva limitarsi a un indefinito interesse generale (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 18.08.2012 n. 3730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl riconoscimento della responsabilità della pubblica amministrazione per il tardivo esercizio della funzione amministrativa richiede, oltre alla constatazione della violazione dei termini del procedimento, l'accertamento che l'inosservanza delle cadenze procedimentali sia imputabile a colpa o dolo dell'amministrazione medesima e che il danno lamentato sia conseguenza diretta ed immediata del ritardo dell'amministrazione: spetta perciò al danneggiato, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda, non potendosi l'ingiustizia e la sussistenza presumersi "iuris tantum", quale meccanica conseguenza del ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo favorevole.
Quanto al ritardo nel rilascio del titolo concessorio, difetta anche la prova del ritardo stesso.
Invero, il riconoscimento della responsabilità della pubblica amministrazione per il tardivo esercizio della funzione amministrativa richiede, oltre alla constatazione della violazione dei termini del procedimento, l'accertamento che l'inosservanza delle cadenze procedimentali sia imputabile a colpa o dolo dell'amministrazione medesima e che il danno lamentato sia conseguenza diretta ed immediata del ritardo dell'amministrazione: spetta perciò al danneggiato, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda, non potendosi l'ingiustizia e la sussistenza presumersi "iuris tantum", quale meccanica conseguenza del ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo favorevole (Cons. St., sez. IV, 04.05.2011, n. 2675) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 16.08.2012 n. 2027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Incompletezza domanda sanatoria comporta improcedibilità.
L’art. 39, comma 4, della legge 23.12.1994, n. 724 “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”, prevede espressamente che la mancata presentazione dei documenti previsti per legge entro il termine di tre mesi dalla espressa richiesta di integrazione notificata dal comune comporta l'improcedibilità della domanda e il conseguente diniego della concessione o autorizzazione in sanatoria per carenza di documentazione.
In tale contesto non avviene la formazione del silenzio assenso.
La normativa evocata, ossia l’art. 39, comma 4, della legge 23.12.1994, n. 724 “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”, prevede espressamente che “la mancata presentazione dei documenti previsti per legge entro il termine di tre mesi dalla espressa richiesta di integrazione notificata dal comune comporta l'improcedibilità della domanda e il conseguente diniego della concessione o autorizzazione in sanatoria per carenza di documentazione”.
Come sopra evidenziato, la domanda di sanatoria proposta era mancante di elementi essenziali di valutazione, situazione da cui è scaturita la richiesta di integrazione documentale da parte del Comune.
In tale contesto, la formazione del silenzio assenso non avviene, atteso che la stessa presuppone in ogni caso la completezza della domanda di sanatoria (accompagnata in particolare dall'integrale pagamento di quanto dovuto a titolo di oblazione per quanto attiene la formazione del silenzio-accoglimento), come chiarito dalla pacifica giurisprudenza in merito (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 02.02.2012 n. 578; id., 12.09.2011 n. 5091) 
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.08.2012 n. 4525 - link a www.giustizia-amministrativa).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Individuazione vincolo area boscata.
Il concetto di bosco dato dall’art. 6 del decreto legislativo n. 227 del 2001 è, per espresso disposto di legge, cedevole rispetto alle eventuali diverse definizioni stabilite dalle regioni con norme già adottate o da adottarsi nei dodici mesi successivi. Per determinare se un appezzamento di terreno è ricompreso all’interno di una superficie con vincolo boschivo, l’accertamento dell’ente competente deve riguardare non la sola area oggetto di indagine, ma l’area considerata nel suo complesso.
D’altronde, se così non fosse, basterebbe ritagliarsi, all’interno di un’area boscata, una porzione di terreno con dimensioni inferiori ai parametri previsti dalle norme per negare a questa la natura di area boscata e pretendere allora il rilascio di un titolo edificatorio, il che sarebbe evidentemente inammissibile.

Il concetto di “bosco” data dall’art. 6 del citato decreto legislativo n. 227 del 2001 è, per espresso disposto di legge, cedevole rispetto alle eventuali diverse definizioni stabilite dalle regioni con norme già adottate o da adottarsi nei dodici mesi successivi.
La disposizione legislativa richiamata fa rinvio alle norme regionali e non richiede che questa assumano veste di norme di legge. Nel caso di specie, il P.U.T.T./p della Regione Puglia è strumento idoneo allo scopo, dato che esso, oltre a recare prescrizioni concrete, ha natura di atto normativo (così Cons. Stato, Sez. IV, 31.01.2012, n. 476).
Peraltro, proprio ai parametri offerti dal piano ai fini della definizione di “bosco” (in termini di superficie, larghezza media e copertura) ha riguardo il sopralluogo effettuato dalla Regione nell’area in discorso.
Dal sopralluogo emerge che il terreno in oggetto rientra nella definizione normativa di “bosco”.
A questa conclusione fattuale, non contestata nella sua concreta dimensione, non possono essere opposti:
- né i dati per avventura difformi recati dalla cartografia annessa al piano o ad altri strumenti urbanistici (dovendosi per l’appunto prendere in considerazione, ai fini della tutela, lo stato di fatto);
- né il rilievo -sviluppato dalla parte privata anche nell’udienza pubblica- che il sopralluogo avrebbe avuto ad oggetto non la sola area di proprietà degli appellati, bensì l’intera area boscata, perché oggetto di indagine non poteva che essere l’area considerata nel suo complesso. D’altronde, se così non fosse, basterebbe ritagliarsi, all’interno di un’area boscata, una porzione di terreno con dimensioni inferiori ai parametri previsti dalle norme per negare a questa la natura di area boscata e pretendere allora il rilascio di un titolo edificatorio: il che sarebbe evidentemente inammissibile.
Trattandosi dunque di bosco, si applica l’art. 4, comma 2, del decreto legislativo più volte ricordato, secondo cui “la trasformazione del bosco è vietata, fatte salve le autorizzazioni rilasciate dalle regioni …” 
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2012 n. 4502 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Legittimità annullamento del parere comunale senza motivazione.
a) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria;
c) l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento, perché sia a sua volta immune da vizi di legittimità, può motivare sulla non compatibilità degli interventi programmati rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo.

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E' legittimo il provvedimento della Soprintendenza che annulla il parere paesaggistico favorevole rilasciato dal Comune ente subdelegato, perché non assolve il compito proprio di dare “da solo, piena contezza dell'ammissibilità dell'intervento con una congrua descrizione sia dell'ambiente nel quale l'opera deve inserirsi, che dell'opera medesima” .
Infatti, nel provvedimento comunale annullato, non è stata data alcuna specifica motivazione della compatibilità dell'intervento autorizzato con la disciplina vincolistica della zona in cui ricade il manufatto, dichiarata di notevole interesse pubblico ai sensi della legge n. 1497 del 1939, poiché si afferma soltanto che le opere in progetto non contrastano con il contesto paesistico e panoramico vincolato.
Inoltre, l’eventuale parziale degrado di un’area sottoposta a tutela, non giustificherebbe, in ogni caso, la tolleranza da parte dell’Amministrazione comunale di ulteriori abusi che comprometterebbero ancora di più le aree rimaste integre, dovendo essa anzi salvaguardare il residuo valore paesistico delle zone ancora non del tutto compromesse.
Sui limiti dell’esame da parte della Soprintendenza dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza costante di questo Consiglio di Stato, per la quale:
a) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria;
c) l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento, perché sia a sua volta immune da vizi di legittimità, può motivare sulla non compatibilità degli interventi programmati rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo (Cons. Stato, Sez. VI: 22.06.2011, n. 3767; 26.07.2010, n. 4861; 04.12.2009, n. 7609; 13.02.2009, n. 772).
Ciò richiamato si deve osservare che nel provvedimento comunale di cui si tratta non è stata data alcuna specifica motivazione della compatibilità dell'intervento autorizzato con la disciplina vincolistica della zona in cui ricade il manufatto, dichiarata di notevole interesse pubblico con il decreto ministeriale 24.04.1954 ai sensi della legge n. 1497 del 1939, poiché si afferma soltanto che le opere in progetto “non contrastano con il contesto paesistico e panoramico vincolato”.
Tale motivazione non può ritenersi adeguata per il solo fatto del previo parere favorevole della C.E.C., espresso con l’unica condizione “che l’accessorio venga tinteggiato con lo stesso colore dell’edificio principale”, restando il giudizio comunque carente poiché privo del necessario e specifico raffronto tra le caratteristiche dell’opera da autorizzare e i valori su cui si fonda la tutela dei luoghi in cui è stato realizzato l’abuso.
Il provvedimento rilasciato dall'ente subdelegato non assolve perciò al compito proprio di dare “da solo, piena contezza dell'ammissibilità dell'intervento con una congrua descrizione sia dell'ambiente nel quale l'opera deve inserirsi, che dell'opera medesima” (Cons. Stato, Sez. VI, 28.12.2011, n. 6885) e correttamente, di conseguenza, la Soprintendenza ha nel proprio decreto rilevato che “nel provvedimento in esame l’Autorità decidente non spiega come e perché l’intervento sanato sia compatibile con le esigenze della tutela ambientale” e, su tale base, conclude che “il provvedimento succitato è viziato da eccesso di potere sotto il profilo della carenza di motivazione”, restando con ciò nei limiti della propria competenza.
Da quanto sopra deriva che il provvedimento della Soprintendenza è legittimo in quanto giustificato dal corretto riscontro dell’eccesso di potere che vizia il provvedimento comunale per carenza della relativa motivazione; il detto riscontro si configura infatti come ragione autonoma alla base del provvedimento per cui, secondo la costante giurisprudenza, esso è altresì di per sé sufficiente a sorreggere la legittimità dell’atto.
Peraltro, le ulteriori considerazioni della Soprintendenza, sul pregio dell’area sulla quale è stato realizzato l’abuso, non hanno inteso sostituire la valutazione dell’autorità statale a quella della autorità comunale, ma hanno evidenziato la sussistenza di circostanze di fatto che l’ente subdelegato avrebbe dovuto valutare, in sede di esame della istanza di sanatoria
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.08.2012 n. 4499 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disposizione di portata generale di cui all’art. 32, primo comma, relativa ai vincoli che appongono limiti all’edificazione …deve interpretarsi “nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo” corrispondendo “tale valutazione…alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente”, ferma perciò la necessità del parere favorevole della autorità preposta alla gestione del vincolo per la sanabilità dell’opera ai sensi dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985.
... essendo stato in ogni caso altresì comunque chiarito da questo Consiglio che “La disposizione di portata generale di cui all’art. 32, primo comma, relativa ai vincoli che appongono limiti all’edificazione …deve interpretarsi “nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo” corrispondendo “tale valutazione…alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente” (Ad.Plen. n. 20 del 1999), ferma perciò la necessità del parere favorevole della autorità preposta alla gestione del vincolo per la sanabilità dell’opera ai sensi dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985 (Cons. Stato, Sez. VI, 13.03.2008, n. 1077)  (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.08.2012 n. 4499 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lotto minimo e asservimento del fondo contiguo.
Due lotti confinanti che fanno capo a due proprietà distinte e ciascuno di consistenza inferiore a lotto minimo d’intervento edilizio, si pongono, invero, in una relazione di asservimento reciproco, per cui una sola delle suddette proprietà può integrare la dotazione minima richiesta grazie all’asservimento del fondo contiguo. Un solo lotto, grazie all’asservimento dell’altro, può ottenere il titolo aedificandum, non potendosi configurare una edificazione che interessi entrambe le aree con due costruzioni insistenti su lotti ascrivibili a distinte proprietà.
Se così non fosse ci si potrebbe trovare di fronte ad un vero e proprio escamotage, in cui più proprietari di aree distinte, con le “modalità” dell’accorpamento, aggirerebbero l’ostacolo della dotazione minima di ciascun lotto per poter ivi essere consentita l’edificazione.

La problematica è costituita dal fatto che vi sono due lotti confinanti, che fanno capo a due proprietà distinte e ciascuno dei quali di consistenza inferiore alla superficie di 700 mq (lotto minimo d’intervento edilizio) .Detti lotti si pongono, invero, in una relazione di asservimento reciproco, di guisa che una sola delle suddette proprietà può integrare la dotazione minima richiesta grazie all’asservimento del fondo contiguo.
In relazione alle caratteristiche tipologiche delle aree in questione come sopra descritte, un solo lotto, grazie all’asservimento dell’altro, può ottenere il titolo aedificandum, non potendosi configurare una edificazione che interessi entrambe le aree con due costruzioni insistenti su lotti ascrivibili a distinte proprietà.
Parte appellante sostiene che nella specie si sarebbe verificato solo l’accorpamento di due lotti edificabili in un solo lotto, ma ciò non è possibile dal momento che le aree sono urbanisticamente distinte, potendo avvenire l’unificazione invocata solo ove si fosse in presenza di un unico bene assoggettate al regime giuridico di un’unica, indivisa proprietà, il che non è.
Se così non fosse ci si potrebbe trovare di fronte ad un vero e proprio escamotage, in cui più proprietari di aree distinte, con le “modalità” dell’accorpamento, aggirerebbero l’ostacolo della dotazione minima di ciascun lotto per poter ivi essere consentita l’edificazione.
I due fondi messi insieme hanno capacità edificatoria sufficiente per un solo intervento insistente su uno dei due lotti (di uno o dell’altro proprietario) e questo perché una delle due aree reciprocamente asservite ha “caricato” l’altra della superficie minima necessaria, con la conseguenza che, una volta stabilita ed effettuata l’operazione di asservimento, non residua per il lotto asservito la potenzialità edificatoria sufficiente a realizzare su di esso un altro fabbricato, avendo appunto esaurito, con l’asservimento, la capacità di edificazione (Cons. Stato Sez. V 10.02.2000 n. 749; idem 07.11.2002 n. 6128) 
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2012 n. 4482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Ascensore a distanza ravvicinata. Sì all'impianto in deroga alla vicinanza minima dall'immobile. La Cassazione: l'opera abbatte le barriere architettoniche ed è funzionale all'abitabilità.
L'installazione dell'ascensore in un edificio condominiale, in quanto opera finalizzata all'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche e necessaria per la piena ed effettiva abitabilità di un appartamento, può avvenire anche senza il rispetto delle distanze legali tra immobili.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente sentenza 03.08.2012 n. 14096.
Il caso concreto. Nella specie l'assemblea di un condominio aveva deliberato l'avvio di opere volte all'installazione di un impianto di ascensore esterno all'edificio e che avrebbe occupato una parte del cortile, venendo a trovarsi a distanza inferiore ai tre metri previsti dalla legge (art. 907 c.c.) rispetto alle finestre di alcuni appartamenti. Alcuni dei rispettivi proprietari avevano quindi impugnato giudizialmente la delibera condominiale sia per la predetta lesione del diritto di veduta sia per il pregiudizio che tale opera avrebbe comportato per il decoro architettonico dell'edificio.
Il tribunale, tuttavia, aveva respinto il ricorso, qualificando l'ascensore quale impianto necessario all'effettiva abitabilità di un immobile, al pari di quelli di acqua, luce e gas, come tale non sottostante al regime civilistico delle distanze legali. Di avviso contrario era però stata la corte d'appello presso la quale i condomini avevano deciso di impugnare la decisione di primo grado, che aveva invece ritenuto pienamente applicabile nella specie il disposto di cui all'art. 907 c.c.. Infatti, secondo il giudice di secondo grado, poiché l'art. 2 della legge n. 13/1989 sull'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche impone in ogni caso il rispetto della destinazione delle parti comuni (art. 1120, comma 2, c.c.), a maggior ragione deve ritenersi che tale norma non consenta di recare pregiudizio alle proprietà esclusive.
Inoltre, sempre secondo la corte di merito, sarebbe stata la stessa legge or ora richiamata, laddove all'art. 3 si deroga espressamente al rispetto delle distanze previste dai regolamenti locali, senza fare alcuna menzione delle distanze minime previste dal codice civile, a rendere applicabili anche in materia condominiale le disposizioni in materia di vedute.
La decisione della Suprema corte. La decisione della corte di appello è quindi stata portata all'esame della Cassazione dal condominio, che reclamava la piena legittimità della deliberazione assembleare. E la Suprema corte, a sua volta, ha completamente ribaltato le argomentazioni giuridiche seguite dai giudici di merito, annullando la sentenza impugnata e stabilendo una serie di interessanti principi in materia di installazione degli ascensori e abbattimento delle c.d. barriere architettoniche.
In estrema sintesi, i giudici di legittimità hanno infatti ritenuto che la normativa sulle distanze legali, per quanto applicabile anche in ambito condominiale (seppure in via subordinata alla disciplina delle cose comuni di cui all'art. 1102 c.c.), non opera nei confronti di quegli impianti, tra i quali è sicuramente compreso anche l'ascensore, che siano necessari all'effettiva abitabilità di un immobile.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, l'applicabilità della normativa in materia di vedute anche in ambito condominiale non può ritenersi implicitamente confermata dal predetto art. 3 della legge n. 13/1989 che, contrariamente a quanto ritenuto nella specie dai giudici di appello, riguarda soltanto i rapporti tra immobili confinanti appartenenti a diversi proprietari e non anche le ipotesi di condominio degli edifici (articolo ItaliaOggi Sette del 27.08.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Insanabilità opere su area di rispetto autostradale.
Il vincolo di rispetto autostradale previsto dal D.M. n. 1404/1968 comporta, dopo la sua imposizione, un divieto di edificabilità di carattere assoluto ex art. 33 (opere non suscettibili di sanatoria), comma 1, lett. d, della Legge n. 47/1985, differente dalla inedificabilità relativa e rimuovibile, di cui all’art. 32 della legge n. 47/1985.
Come correttamente ritenuto dal TAR, ricadendo la fattispecie in esame nel contesto dell’art. 33, comma 1, lett. d, della Legge n. 47/1985 (opere non suscettibili di sanatoria), l’Amministrazione comunale non era tenuta ad acquisire alcun parere da parte dell’Autorità preposta al vincolo di rispetto stradale che nella specie era l’A.N.A.S.
Il vincolo di rispetto autostradale, previsto dal D.M. n. 1404/1968, comporta infatti un divieto di edificabilità di carattere assoluto dopo la sua imposizione, differentemente dalla inedificabilità relativa e rimuovibile, di cui all’art. 32 della legge n. 46/1985 
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.08.2012 n. 4432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIVa riconosciuta natura di servizio pubblico al servizio d’illuminazione votiva, differenziandolo nettamente dall’ipotesi di concessione e gestione di opera pubblica.
Nella giurisprudenza amministrativa sembra ormai essere prevalente l’indirizzo che riconosce natura di servizio pubblico al servizio d’illuminazione votiva, differenziandolo nettamente dall’ipotesi di concessione e gestione di opera pubblica (ex plurimis Consiglio di Stato, sez. V, sent. 29.03.2010, n. 1790, lì affermandosi espressamente che il servizio di illuminazione votiva costituisce “concessione di pubblico servizio e non di opera pubblica”; ed ancora, in senso analogo, Consiglio di Stato, sez. V, sent. 11.08.2010, n. 5620 e Consiglio di Stato, sez. V, sent. 14.04.2008, n. 1600) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 03.08.2012 n. 1993 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIa) non assume rilievo il fatto che il bando o il disciplinare di gara prevedano che soltanto il titolare della ditta o il legale rappresentante debbano rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38 d.lgs. n. 163/2006;
b) la “ratio” della disciplina in questione è, infatti quella di consentire la partecipazione soltanto a soggetti che abbiano comprovato -indipendentemente, quindi, dall’effettiva situazione di fatto- la propria moralità professionale, con la conseguenza che l’omissione delle dichiarazioni da rendere ai sensi del citato art. 38 costituisce di per sé motivo di esclusione dalla procedura ad evidenza pubblica;
c) poiché il citato art. 38 ha un chiaro contenuto di ordine pubblico, esso si applica a prescindere dal suo richiamo, inserimento espresso o inserzione fra le specifiche clausole che regolano la singola gara.
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a) “l’art. 38… impone, a pena di esclusione dalla gara, la dichiarazione, con riferimento a tutti i soggetti ivi previsti, dell’assenza di tutti gli elementi ostativi espressamente ed analiticamente ivi indicati… anche in caso di mancata espressa previsione del bando di gara, attesa la natura di ordine pubblico dell’obbligo in questione”;
b) ciò in quanto le “predette dichiarazioni sono richieste per una finalità che non è solo di garanzia sull'assenza di ostacoli pure di natura etica all’aggiudicazione del contratto, ma anche per una ordinaria verifica sull’affidabilità dei soggetti partecipanti: la concreta carenza di condizioni ostative costituisce un elemento successivo rispetto alla conoscenza di una situazione di astratta sussistenza dei requisiti morali e giuridici che lambiscono in modo determinante la professionalità degli amministratori”.

Con sentenza n. 117/2010, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha condivisibilmente affermato che:
a) non assume rilievo il fatto che il bando o il disciplinare di gara prevedano che soltanto il titolare della ditta o il legale rappresentante debbano rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38 d.lgs. n. 163/2006;
b) la “ratio” della disciplina in questione è, infatti quella di consentire la partecipazione soltanto a soggetti che abbiano comprovato -indipendentemente, quindi, dall’effettiva situazione di fatto- la propria moralità professionale, con la conseguenza che l’omissione delle dichiarazioni da rendere ai sensi del citato art. 38 costituisce di per sé motivo di esclusione dalla procedura ad evidenza pubblica (sul punto, cfr. anche Cons. St., Sez. V, n. 131/ 2009);
c) poiché il citato art. 38 ha un chiaro contenuto di ordine pubblico, esso si applica a prescindere dal suo richiamo, inserimento espresso o inserzione fra le specifiche clausole che regolano la singola gara.
La natura di ordine pubblico dell’art. 38 e la sua funzione di eterointegrazione della legge di gara indipendentemente dal suo richiamo, inserimento espresso o inserzione fra le specifiche clausole che regolano la singola gara, è stata ribadita dal Tar di Palermo, con la sentenza della Sezione I n. 1933/2011.
In tale pronuncia il Tar di Palermo ha anche richiamato la precedente sentenza n. 70/2011 della medesima Sezione, in cui, tra l’altro, si è condivisibilmente affermato che:
a) “l’art. 38… impone, a pena di esclusione dalla gara (ex multis: TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 15.03.2010 n. 2915; TAR Piemonte Torino, Sez. II, 05.03.2010 n. 1426; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 01.03.2010 n. 1206), la dichiarazione, con riferimento a tutti i soggetti ivi previsti, dell’assenza di tutti gli elementi ostativi espressamente ed analiticamente ivi indicati… anche in caso di mancata espressa previsione del bando di gara, attesa la natura di ordine pubblico dell’obbligo in questione (TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 04.12.2008 n. 1565; TAR Sardegna, Cagliari, Sez. I, 14.02.2008 n. 190)”;
b) ciò in quanto le “predette dichiarazioni sono richieste per una finalità che non è solo di garanzia sull'assenza di ostacoli pure di natura etica all’aggiudicazione del contratto, ma anche per una ordinaria verifica sull’affidabilità dei soggetti partecipanti: la concreta carenza di condizioni ostative costituisce un elemento successivo rispetto alla conoscenza di una situazione di astratta sussistenza dei requisiti morali e giuridici che lambiscono in modo determinante la professionalità degli amministratori” (sul punto cfr. anche C.d.S., Sez. Sez. V, 12.06.2009, n. 3742).
Ne consegue che non può condividersi la tesi della controinteressata secondo cui l’esclusione dalla procedura dovrebbe essere disposta nel solo caso di effettiva sussistenza di una delle condizioni ostative previste dal primo comma dell’art. 38, mentre tale conseguenza dovrebbe escludersi nell’ipotesi in cui, in difetto di una specifica previsione di esclusione contenuta nella “lex specialis”, un concorrente abbia omesso di rendere alcuna delle dichiarazioni previste.
Il secondo comma dell’art. 38 prevede, infatti, che il candidato o concorrente attesti il possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostitutiva in conformità alla previsioni di cui al d.p.r. n. 445/2000 e ciò impone di interpretare l’espressione di cui al comma precedente (“sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti che si trovano…, etc.”) nel senso che tale esclusione non dipende dall’effettiva insussistenza -in concreto- della situazione ostativa, ma dalla semplice assenza della dichiarazione sostitutiva prevista dal comma successivo, in ragione della funzione di eterointegrazione della “lex specialis” riconosciuta al citato art. 38, la cui finalità -come evidenziato dalla giurisprudenza indicata- è (anche) quella di consentire all’Amministrazione di accertare in via preliminare, nel rispetto della “par condicio” di tutti i partecipanti alla gara, l’astratta insussistenza delle condizioni ostative di cui alla disposizione in questione (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 03.08.2012 n. 1989 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'atto amministrativo di convalida di un precedente provvedimento viziato di incompetenza non vale a riaprire i termini per l'impugnazione dell'atto convalidato, avendo per sua natura carattere retroattivo.
Ciò in quanto, con la convalida, e con la ratifica, gli effetti giuridici, a differenza della rinnovazione dell’atto amministrativo, vanno imputati all’atto convalidato, con la conseguenza che l’intervenuta convalida/ratifica di un atto amministrativo viziato per incompetenza, proprio per il suo carattere retroattivo, non riapre i termini per l’impugnazione dell’atto convalidato.

Il Collegio rileva come, per orientamento pacifico (Cons. Stato, Sez. V, 21.02.1987, n. 111 e TAR Calabria, Catanzaro, 30.05.2001, n. 878), l'atto amministrativo di convalida di un precedente provvedimento viziato di incompetenza non vale a riaprire i termini per l'impugnazione dell'atto convalidato, avendo per sua natura carattere retroattivo.
Ciò in quanto, con la convalida, e con la ratifica, gli effetti giuridici, a differenza della rinnovazione dell’atto amministrativo, vanno imputati all’atto convalidato, con la conseguenza che l’intervenuta convalida/ratifica di un atto amministrativo viziato per incompetenza, proprio per il suo carattere retroattivo, non riapre i termini per l’impugnazione dell’atto convalidato (cfr. TAR Lazio, II Sez., 11.10.1982 n. 838) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 03.08.2012 n. 1971 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere di sospensione dei lavori in corso, attribuito all’Autorità comunale dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché dall’art. 3 della l.r. Umbria 03.11.2004, n. 21, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico; alla natura interinale del potere consegue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti definitivi.
Logico corollario di ciò è che a seguito dello spirare del termine di quarantacinque giorni, ove l’Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l’ordine in questione perde ogni efficacia, mentre nell’ipotesi di adozione del provvedimento sanzionatorio, è quest’ultimo che determina la lesione della sfera giuridica del destinatario, con assorbimento dell’ordine di sospensione dei lavori.
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In presenza di un abuso edilizio, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione.
Il potere di reprimere abusi edilizi non è soggetto a prescrizione né a decadenza, stante il carattere di illecito permanente dell’abuso; il lungo tempo trascorso può assumere rilievo solo allorché l’opera sia stata ritenuta, anche implicitamente, regolare dall’Amministrazione, in occasione dell’esame di precedenti pratiche edilizie, di attività di vigilanza sul territorio o di altre attività amministrative.

Ed invero, secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, il potere di sospensione dei lavori in corso, attribuito all’Autorità comunale dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché dall’art. 3 della l.r. Umbria 03.11.2004, n. 21, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico; alla natura interinale del potere consegue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti definitivi. Logico corollario di ciò è che a seguito dello spirare del termine di quarantacinque giorni, ove l’Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l’ordine in questione perde ogni efficacia, mentre nell’ipotesi di adozione del provvedimento sanzionatorio, è quest’ultimo che determina la lesione della sfera giuridica del destinatario, con assorbimento dell’ordine di sospensione dei lavori.
Nel caso di specie l’ordine di sospensione è stato impugnato congiuntamente all’ordine di demolizione n. 29 del 22.09.2010, e comunque allorché era già decorso il termine di efficacia della sospensione dei lavori, con conseguente inammissibilità, in parte qua, del ricorso (in termini, tra le tante, TAR Veneto, Sez. II, 08.02.2012, n. 198; TAR Lazio, Sez. I-quater, 08.06.2011, n. 5121; 08.11.2010, n. 33243; Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008, n. 6550).
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Ciò chiarito, è sufficiente ricordare il costante indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in presenza di un abuso edilizio, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione (tra le tante, da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 06.03.2012, n. 1260).
Anche di recente, questo Tribunale Amministrativo ha avuto modo di affermare che il potere di reprimere abusi edilizi non è soggetto a prescrizione né a decadenza, stante il carattere di illecito permanente dell’abuso; il lungo tempo trascorso può assumere rilievo solo allorché l’opera sia stata ritenuta, anche implicitamente (il che non è nel caso di specie, come si è cercato in precedenza di chiarire), regolare dall’Amministrazione, in occasione dell’esame di precedenti pratiche edilizie, di attività di vigilanza sul territorio o di altre attività amministrative (TAR Umbria, 30.05.2012, n. 197)
(TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 03.08.2012 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere-dovere di sanzionare gli abusi edilizi non si consuma per il trascorrere del tempo, avendo i termini previsti dalla normativa in materia carattere ordinatorio. L’ordine di demolizione, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, e quindi non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti.
E’ perciò legittima l’ordinanza di demolizione il cui presupposto sia costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell’opera in difformità dal titolo abilitativo od in carenza dello stesso, con la conseguenza che, ove ricorrano tali requisiti, il provvedimento è sufficientemente motivato, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione.
Il lungo tempo trascorso dal momento della realizzazione dell’opera può assumere rilievo solamente allorché l’opera stessa sia stata ritenuta, anche implicitamente, regolare dalla stessa Amministrazione, in occasione dell’esame di precedenti pratiche edilizie, di attività di vigilanza sul territorio, o di altre attività amministrative.
Non ha perciò alcuna importanza che la capanna adibita a manufatto agricolo preesistesse da oltre cinquanta anni e che solo nel 2001 l’abuso sia stato contestato. Ed è altrettanto irrilevante che gli altri manufatti preesistessero da oltre quaranta anni, non potendo l’amministrazione abdicare alle proprie funzioni di vigilanza sulle trasformazioni del territorio.

Per le stesse ragioni sinora evidenziate va anche disatteso il secondo motivo di violazione dell’art. 3, L. n. 241/1990, dedotto sotto il profilo della mancanza di idonea motivazione sull’interesse al ripristino della legalità edilizia dopo il lunghissimo tempo trascorso (fra i quaranta e i cinquanta anni) d’inattività del comune.
Per giurisprudenza costante del Tribunale, il potere-dovere di sanzionare gli abusi edilizi non si consuma per il trascorrere del tempo, avendo i termini previsti dalla normativa in materia carattere ordinatorio (TAR Umbria Perugia, 07.12.2010, n. 522). L’ordine di demolizione, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, e quindi non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti (TAR Umbria 30.05.2012, n. 197).
E’ perciò legittima l’ordinanza di demolizione il cui presupposto, come quella impugnata, sia costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell’opera in difformità dal titolo abilitativo od in carenza dello stesso, con la conseguenza che, ove ricorrano tali requisiti, il provvedimento è sufficientemente motivato, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione (TAR Umbria 11.06.2012, n. 205).
Il lungo tempo trascorso dal momento della realizzazione dell’opera può assumere rilievo solamente allorché l’opera stessa sia stata ritenuta, anche implicitamente, regolare dalla stessa Amministrazione, in occasione dell’esame di precedenti pratiche edilizie, di attività di vigilanza sul territorio, o di altre attività amministrative (TAR Umbria, 21.01.2010, n. 23).
Non ha perciò alcuna importanza che la capanna adibita a manufatto agricolo preesistesse da oltre cinquanta anni e che solo nel 2001 l’abuso sia stato contestato. Ed è altrettanto irrilevante che gli altri manufatti preesistessero da oltre quaranta anni, non potendo l’amministrazione abdicare alle proprie funzioni di vigilanza sulle trasformazioni del territorio (TAR Umbria Perugia, 07.12.2010, n. 522) (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 03.08.2012 n. 316 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl provvedimento di revoca dell’atto amministrativo, quando incide su posizioni in precedenza acquisite dal privato, deve essere adeguatamente motivato non soltanto con riferimento ai motivi di interesse pubblico che la giustificano, ma anche in considerazione delle posizioni consolidate in capo al privato e all’affidamento di quest’ultimo ingenerato dal provvedimento sottostante.
... per l'annullamento dell’ordinanza sindacale n. 178 del 29.03.1995 con la quale si è disposta la rimozione di quattro insegne luminose frontali l’esercizio di agenzia di viaggi della ricorrente società; di ogni atto connesso.
...
E’ controverso nel presente giudizio la legittimità dell’atto, in epigrafe meglio specificato, con il quale la resistente amministrazione ha disposto la rimozione di quattro insegne luminose frontali l’esercizio di agenzia di viaggi della ricorrente società che nelle proprie censure si duole dell’illegittimità del provvedimento sotto molteplici profili.
Deduce al riguardo che l’atto si caratterizza, oltre che per la sua natura sanzionatoria, anche quale criptico provvedimento di annullamento dell’autorizzazione a suo tempo rilasciata, il tutto in violazione dei principi di autotutela.
La censura coglie nel segno.
E’ consolidato in giurisprudenza il principio in forza del quale il provvedimento di revoca dell’atto amministrativo, quando incide su posizioni in precedenza acquisite dal privato, deve essere adeguatamente motivato non soltanto con riferimento ai motivi di interesse pubblico che la giustificano, ma anche in considerazione delle posizioni consolidate in capo al privato e all’affidamento di quest’ultimo ingenerato dal provvedimento sottostante (ex multis Cons. St. Sez. V 25.09.2006 n. 5622).
Poiché nell’atto gravato le ragioni che giustificano la misura adottata dall’amministrazione comunale, incidente sfavorevolmente sulla sfera giuridica dell’azienda, non appare conforme al paradigma emergente dai citati principi giurisprudenziali siccome carente di adeguata motivazione in ordine all’affidamento riposto dalla parte , la censura in esame deve stimarsi fondata e come tale va accolta, con l’annullamento del provvedimento impugnato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.08.2012 n. 1604 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Circa gli atti preparatori c.d endoprocedimentali, non dotati di autonoma lesività, eventuali suoi vizi possono essere fatti valere, unicamente in via derivata, impugnando il provvedimento finale.
Parimenti non impugnabile è la nota del 06.04.1994, con cui l’amministrazione regionale ha comunicato all’interessato l’avvio del procedimento di recupero, ai sensi degli artt. 7 ed 8 della legge n. 241/1990, della somma indebitamente percepita secondo quanto specificato nella stessa comunicazione.
Tale nota infatti rientra nella categoria degli atti preparatori c.d endoprocedimentali, non dotati di autonoma lesività; pertanto, eventuali suoi vizi possono essere fatti valere, unicamente in via derivata, impugnando il provvedimento finale (TAR Lazio Latina, sez. I, 14.0.2009, n. 24; TAR Piemonte Torino, sez. I, 25.10.2008 , n. 2684) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.08.2012 n. 1602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un muro di recinzione, peraltro di consistenza piuttosto limitata, il quale non comporta alcuna trasformazione urbanistica del territorio, né ha alcuna particolare incidenza sul carico urbanistico e sulla conformazione dei luoghi, esprime una facoltà accessoria al diritto dominicale, consistente nel potere di escludere l'accesso indebito di terzi nell'area di proprietà e non risulta soggetto ad alcun titolo abilitativo.
Invero, qualora la recinzione, collocata in zona non urbana, abbia una ridotta incidenza e consistenza, non altera sensibilmente il territorio e costituisce solo minimale espressione del diritto di proprietà: detto manufatto apparendo non idoneo a mutare l'aspetto del territorio in essere non richiede il titolo abilitativo edilizio.

Deduce il ricorrente difetto di motivazione del provvedimento impugnato poiché, a fronte di una DIA finalizzata alla mera costruzione di un muro di recinzione nei pressi del fabbricato di proprietà del ricorrente sito in località Case Campoli (area PEEP), il provvedimento di inammissibilità della DIA non risulta sufficientemente motivato.
La censura è fondata posto che la realizzazione di un muro di recinzione, peraltro di consistenza piuttosto limitata, il quale non comporta alcuna trasformazione urbanistica del territorio, né ha alcuna particolare incidenza sul carico urbanistico e sulla conformazione dei luoghi, esprime una facoltà accessoria al diritto dominicale, consistente nel potere di escludere l'accesso indebito di terzi nell'area di proprietà e non risulta soggetto ad alcun titolo abilitativo.
A tal proposito il TAR Brescia Lombardia sez. I, 15.02.2012, n. 234 ha affermato che “Qualora la recinzione, collocata in zona non urbana, abbia una ridotta incidenza e consistenza, non altera sensibilmente il territorio e costituisce solo minimale espressione del diritto di proprietà: detto manufatto apparendo non idoneo a mutare l'aspetto del territorio in essere non richiede il titolo abilitativo edilizio” (TAR Lazio-Latina, sentenza 02.08.2012 n. 637 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento.
In caso di ordine di demolizione delle opere abusive, non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario; né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990; il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito, infatti, esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.

Anzitutto, con riferimento alla dedotta violazione delle garanzie partecipative, la giurisprudenza prevalente ha avuto modo di stabilire che: “in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento” (TAR Liguria Genova, sez. I, 22.04.2011, n. 666).
Analogamente: “in caso di ordine di demolizione delle opere abusive, non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario; né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990; il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito, infatti, esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione” (TAR Campania Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702) (TAR Lazio-Latina, sentenza 02.08.2012 n. 635 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza che dispone la sospensione di lavori ritenuti abusivi, è dotata di una efficacia temporanea che viene meno se nel termine di 45 giorni dalla sua adozione non vengono adottati provvedimenti sanzionatori definitivi (art. 27 del D.P.R. 380 del 2001); conseguentemente, qualora l’inefficacia intervenga nel corso del giudizio la relativa impugnazione va dichiarata improcedibile.
L’ordinanza che dispone la sospensione di lavori ritenuti abusivi, è dotata infatti di una efficacia temporanea che viene meno se nel termine di 45 giorni dalla sua adozione non vengono adottati provvedimenti sanzionatori definitivi (art. 27 del D.P.R. 380 del 2001); conseguentemente, qualora l’inefficacia intervenga nel corso del giudizio la relativa impugnazione va dichiarata improcedibile (ex multis TAR Lazio n. 174/2009; TAR Liguria n. 66/2009) (TAR Lazio-Latina, sentenza 02.08.2012 n. 634 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAI vincoli di destinazione, imposti dai Piani per Insediamenti Produttivi, decaduti per decorso del decennio ex art. 27, comma 3, L. n. 865/1971, possono essere reiterati anche mediante un atto di variante limitato ad una parte dell’area PIP e/o ad alcuni lotti.
Tuttavia, in caso di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio il Comune deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti e perciò deve indicare le ragioni che rendono necessaria la reiterazione del vincolo, come per es. il raggiungimento di specifiche e compravate esigenze pubbliche.

Pur tenendo conto della circostanza che i vincoli di destinazione, imposti dai Piani per Insediamenti Produttivi, decaduti per decorso del decennio ex art. 27, comma 3, L. n. 865/1971, possono essere reiterati anche mediante un atto di variante, come nella specie, limitato ad una parte dell’area PIP e/o ad alcuni lotti, va rilevato che in caso di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio il Comune deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti e perciò deve indicare le ragioni che rendono necessaria la reiterazione del vincolo, come per es. il raggiungimento di specifiche e compravate esigenze pubbliche (sul punto cfr. C.d.S. Ad. Plen. Sent. n. 7 del 24.05.2007) (TAR Basilicata, sentenza 02.08.2012 n. 373 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Proroga termine validità concessione edilizia.
L’efficacia temporale dei titoli edilizi, com’è noto, decorre con la comunicazione dell’inizio dei lavori e termina con quella di comunicazione di fine dei lavori. L’eventuale protrazione della validità del titolo edilizio può essere accordata solo nel caso di presentazione della proroga prima della scadenza del titolo stesso.
Tuttavia, l’efficacia di quest’ultimo non può essere posticipata nell’ipotesi in cui, vi è una formale comunicazione dell’avvenuta ultimazione delle opere edilizie. Inoltre, non può nemmeno invocarsi il fatto che la comunicazione di ultimazione dei lavori è stata effettuata al solo fine di ottenere l’agibilità dei fabbricati, dacché propedeutico all’attestazione della conformità ai requisiti igienico-sanitari e di sicurezza dell’edificio è l’adempimento dell’avvenuto collaudo o certificato di regolare esecuzione delle opere.

I titoli edilizi hanno, com’è noto, efficacia temporale che decorre, in particolare, con la comunicazione dell’inizio dei lavori e termina con quella di comunicazione di fine dei lavori.
La protrazione della validità del titolo edilizio può essere accordata in relazione alla presentazione di proroga prima della scadenza del titolo stesso, ma l’efficacia del medesimo non può essere posticipata nell’ipotesi in cui, come nella specie, è la concessionaria stessa a far presente con formale comunicazione l’avvenuta ultimazione delle opere edilizie.
Né può invocarsi il fatto che la comunicazione di ultimazione dei lavori è stata effettuata al solo fine di ottenere l’agibilità dei fabbricati, dacché propedeutico all’attestazione della conformità ai requisiti igienico-sanitari e di sicurezza dell’edificio è l’adempimento dell’avvenuto collaudo o certificato di regolare esecuzione delle opere (artt. 23, 24 e 25 del Testo unico sull’edilizia di cui al DPR n. 320/2001) 
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.08.2012 n. 4403 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il decreto di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica deve spiegare il contrasto delle opere con l’ambiente e non può travalicare in una non consentita valutazione di merito.
La destinazione di un’area a zona agricola ben può essere effettuata a salvaguardia del paesaggio o dell’ambiente, non presuppone necessariamente che l’area stessa venga utilizzata ad uso agricolo e ben può consentire la realizzazione di manufatti nei limiti delle previsioni del piano regolatore generale ad essa relative.
Nei casi in cui la discrezionalità tecnico/amministrativa abbia un ruolo considerevole, un diniego di nulla osta deve essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di non ammettere un determinato intervento: affermare che un determinato intervento compromette gli equilibri ambientali della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero postulato apodittico.
Per quanto concerne la motivazione idonea a sorreggere un provvedimento di diniego del richiesto nulla osta per la costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, deve chiarirsi che l’Amministrazione non può limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un’opera non sia idonea ad inserirsi nell’ambiente, attraverso l’individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.

La giurisprudenza, relativamente all’esercizio dei poteri inibitori della Soprintendenza, ha più volte sostenuto che “il decreto di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica deve spiegare il contrasto delle opere con l’ambiente e non può travalicare in una non consentita valutazione di merito” (ex multis, Cons. St., Sez. VI, 27.02.2012 n. 1096).
Questo Collegio, di recente (sent. n. 882/2012, depositata in data 11.05.2012), ha ricordato che la destinazione di un’area a zona agricola ben può essere effettuata a salvaguardia del paesaggio o dell’ambiente, non presuppone necessariamente che l’area stessa venga utilizzata ad uso agricolo (Cons. St., sez. VI, 03.11.2008, n. 5478) e ben può consentire la realizzazione di manufatti nei limiti delle previsioni del piano regolatore generale ad essa relative (Cons. St., sez. VI, 25.09.2002, n. 259).
In fattispecie affini alla presente, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di precisare che “nei casi in cui –come quello in esame– la discrezionalità tecnico/amministrativa abbia un ruolo considerevole, un diniego di nulla osta deve essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di non ammettere un determinato intervento: affermare che un determinato intervento compromette gli equilibri ambientali della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero postulato apodittico” (TAR Liguria, sez. I, 22.12.2008, n. 2187; TAR Piemonte, sez. I, n. 1153/2011).
Ed ancora: “Per quanto concerne la motivazione idonea a sorreggere un provvedimento di diniego del richiesto nulla osta per la costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, deve chiarirsi che l’Amministrazione non può limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un’opera non sia idonea ad inserirsi nell’ambiente, attraverso l’individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche” (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23751) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 01.08.2012 n. 1591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 32 l. 47/1985 nel prevedere la necessità del parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente.
La variegata motivazione dell’atto impugnato si fonda, in primo luogo, sulla pretesa inammissibilità di una autorizzazione paesaggistica ex post cioè rilasciata rispetto ad opere già realizzate.
In senso contrario, è sufficiente osservare che l’istanza cui si riferisce il provvedimento impugnato è stata avanzata ai sensi della legge n. 724/1994, la quale, ha in sostanza comportato la riapertura dei termini del precedente condono –ovverosia risalente al 1985– prevedendo l’art. 39 del citato corpus normativo che “Le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.12.1993…”.
Il rinvio operato dalla legge alla disciplina del precedente condono comporta che trova applicazione per esso l’art. 32 della legge n. 47/1985 che consente la sanatoria, almeno in linea generale, anche degli immobili insistenti su aree sottoposte a vincolo paesaggistico. Esso, al primo comma, primo periodo, infatti statuisce che “Fatte salve le fattispecie previste dall'articolo 33, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”.
La giurisprudenza ha peraltro osservato, in ordine a tale disposizione, che essa “nel prevedere la necessità del parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente” (cfr. C. Stato, 5517 - 12.10.2011 - Sez. VI) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 01.08.2012 n. 1587 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il presupposto per l'applicazione del rito speciale è il silenzio della P.A. e, in particolare, l'omissione di provvedimento che acquista rilevanza come ipotesi di silenzio-rifiuto, attraverso il relativo, caratteristico procedimento, quando la medesima si sia resa inadempiente, restando inerte, ad un obbligo di provvedere. Quest'ultimo può scaturire dalla legge, o dalla peculiarità della fattispecie, per la quale ragioni di equità impongono l'adozione di un provvedimento al fine, soprattutto, di consentire al privato (data la particolarità del processo amministrativo, che è sostanzialmente un processo sull'atto) di adire la giurisdizione per far valere le proprie ragioni. L'obbligo di provvedere dell'Amministrazione, poi, a sua volta, presuppone che l'istanza del richiedente sia rivolta ad ottenere un provvedimento cui questi abbia un diretto interesse e che essa non appaia subito irragionevole ovvero risulti all'evidenza infondata.
Pertanto, scopo del ricorso contro il silenzio-rifiuto è ottenere un provvedimento esplicito dell'Amministrazione, che elimini lo stato di inerzia ed assicuri al privato una decisione che investe la fondatezza o meno della sua pretesa.
La fonte dell'obbligo giuridico di provvedere consiste, di solito, in una norma di legge, di regolamento od in un atto amministrativo, ma non necessariamente deve derivare da una disposizione puntuale e specifica, potendosi, talora, desumere anche da prescrizioni di carattere generale e/o dai principi generali regolatori dell'azione amministrativa.
Il rimedio giurisdizionale previsto dall'art. 117 c. p. a. è volto esclusivamente a far accertare l'inerzia dell'Amministrazione nel pronunziarsi in ordine ad una istanza, a fronte della quale -a carico della stessa Amministrazione- sussiste un obbligo a provvedere. Pertanto, si può ritenere che, a prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione normativa impositiva, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) di quest'ultima.

Il ricorso è fondato.
Occorre premettere che il presupposto per l'applicazione del rito speciale è il silenzio della P.A. e, in particolare, l'omissione di provvedimento che acquista rilevanza come ipotesi di silenzio-rifiuto, attraverso il relativo, caratteristico procedimento, quando la medesima si sia resa inadempiente, restando inerte, ad un obbligo di provvedere. Quest'ultimo può scaturire dalla legge, o dalla peculiarità della fattispecie, per la quale ragioni di equità impongono l'adozione di un provvedimento al fine, soprattutto, di consentire al privato (data la particolarità del processo amministrativo, che è sostanzialmente un processo sull'atto) di adire la giurisdizione per far valere le proprie ragioni. L'obbligo di provvedere dell'Amministrazione, poi, a sua volta, presuppone che l'istanza del richiedente sia rivolta ad ottenere un provvedimento cui questi abbia un diretto interesse e che essa non appaia subito irragionevole ovvero risulti all'evidenza infondata (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I, 01.12.2010, n. 34860).
Pertanto, scopo del ricorso contro il silenzio-rifiuto è ottenere un provvedimento esplicito dell'Amministrazione, che elimini lo stato di inerzia ed assicuri al privato una decisione che investe la fondatezza o meno della sua pretesa (ex multis: Cons. Stato: Sez. VI 10.06.2003 n. 3279; Sez. V 12.10.2004 n. 6528; Sez. V 26.04.2005, n. 1913; Sez. V 05.02.2007, n. 457).
La fonte dell'obbligo giuridico di provvedere consiste, di solito, in una norma di legge, di regolamento od in un atto amministrativo, ma non necessariamente deve derivare da una disposizione puntuale e specifica, potendosi, talora, desumere anche da prescrizioni di carattere generale e/o dai principi generali regolatori dell'azione amministrativa (cfr. Tar Calabria - Catanzaro - n. 939/2009).
Il rimedio giurisdizionale previsto dall'art. 117 c. p. a. è volto esclusivamente a far accertare l'inerzia dell'Amministrazione nel pronunziarsi in ordine ad una istanza, a fronte della quale -a carico della stessa Amministrazione- sussiste un obbligo a provvedere. Pertanto, si può ritenere che, a prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione normativa impositiva, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) di quest'ultima (cfr.: Cons. Stato Sez. V 22-11-1991 n. 1331).
Orbene, applicando i suesposti principi al caso di specie, si può ritenere fondata la pretesa del ricorrente ad ottenere la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione del Comune di Tramonti a seguito dell'avvio del procedimento ad iniziativa di parte innescato dal ricorrente stesso con la domanda di proroga per l’ultimazione dei lavori di cui al permesso di costruire n. 65/2003 rilasciato per la realizzazione di un impianto di distribuzione del carburante sulla sua proprietà in località Chiunzi. Risulta dagli atti di causa che tale istanza è stata ricevuta dagli uffici comunali in data 04.05.2012 e che non è intervenuta in merito alcuna determinazione dell’Amministrazione.
Conclusivamente, alla luce delle svolte considerazioni, si ordina al Comune di Tramonti di adottare provvedimento espresso relativo alla domanda di proroga inoltrata dal ricorrente in data 07.01.2012, e successiva diffida del 04.05.2012, nel termine di 60 (sessanta) giorni dalla notificazione ovvero dalla comunicazione della presente decisione.
Nomina sin d’ora, per il caso di ulteriore inerzia alla scadenza del termine anzidetto, il Prefetto della Provincia di Salerno, o suo delegato, quale Commissario ad Acta, che provvederà in luogo dell’Amministrazione inadempiente su impulso di parte (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 01.08.2012 n. 1580 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vano seminterrato visibile all’esterno.
E’ legittimo l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal comune, non avendo l’autorità comunale sufficientemente valutato, tra l’altro, l’impatto negativo sul paesaggio circostante che la realizzazione di un vano seminterrato ha comportato.
Non è sostenibile il carattere neutro di detto vano ai fini paesaggistici, dato che il manufatto spacciato per interrato, si presenta in realtà quasi alla stregua di un vano fuori terra, risultando scoperto su due lati e ben visibile all’esterno da più punti di osservazione.
Dunque, non appare immotivata la conclusione della Soprintendenza in ordine alla non sufficiente valutazione della compromissione, ad opera dell’autorità comunale, dei valori paesaggistici tutelati con il decreto di vincolo sull’area.

Venendo alle censure afferenti i contenuti propri del provvedimento soprintendentizio di annullamento della autorizzazione, riproposti con i motivi aggiunti in primo grado e riformulati in questa sede, il Collegio ritiene che esse siano infondate e vadano respinte, poiché:
- il sindacato esercitato dalla Soprintendenza non ha travalicato nel caso di specie i limiti propri che incontra il potere di annullamento ministeriale nella disciplina normativa transitoria (art. 159 d.lgs. cit.) applicabile ratione temporis alla vicenda per cui è giudizio;
- in particolare, la Soprintendenza si è limitata a rilevare, con valutazioni sul punto ineccepibili in quanto scevre da vizi logici e da contraddittorietà dei dati acquisiti, il vizio di difetto di motivazione e di istruttoria che inficiava il decreto comunale oggetto di annullamento (n. 44 del 2006), non avendo l’autorità comunale sufficientemente valutato, tra l’altro, l’impatto negativo che sul paesaggio circostante ha riverberato la realizzazione del vano seminterrato;
- non appare condivisibile quanto sul punto osservato dall’appellante a proposito del carattere ‘neutro’ di detto vano ai fini paesaggistici, dato che, anche all’esame del materiale fotografico acquisito agli atti di causa, risulta che il manufatto assuntivamente “interrato” si presenta in realtà quasi alla stregua di un vano fuori terra, risultando scoperto su due lati e ben visibile all’esterno da più punti di osservazione, di tal che non appare immotivata la conclusione della Soprintendenza in ordine alla non sufficientemente valutata compromissione, ad opera dell’autorità comunale, dei valori paesaggistici compendiati nel decreto di vincolo sull’area (d.m. 20.07.1966)
 (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.07.2012 n. 4389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Strada privata ad uso pubblico.
La proprietà privata di un’area non esclude l’uso pubblico della stessa, infatti, un’area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un interesse pubblico di carattere generale, e non uti singuli ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato.
Inoltre, costituisce strada pubblica quel tratto viario avente finalità di collegamento, con funzione di raccordo o sbocco su pubbliche vie, e che sia effettivamente utilizzata dalla collettività uti cives. L’uso del bene da parte della collettività indifferenziata per lunghissimo tempo comporta l’assunzione da parte del bene di caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale, ciò non può che comportare l’uso altresì pubblico dell’area per parcheggio regolamentato in quanto strumentale all’avvicinamento all’arenile, risultando invero illogico e ingiustificato che ai cittadini, innovando rispetto al consolidato e risalente stato dei luoghi, venga consentito il libero accesso al mare vietando loro un’attività risalente nel tempo e volta al medesimo fine.

Per la giurisprudenza consolidata:
a) la proprietà privata di un’area non esclude l’uso pubblico della stessa;
b) un’area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un interesse pubblico di carattere generale, e non uti singuli ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato;
c) costituisce strada pubblica quel tratto viario avente finalità di collegamento, con funzione di raccordo o sbocco su pubbliche vie, e che sia effettivamente utilizzata dalla collettività uti cives;
d) l’uso del bene da parte della collettività indifferenziata per lunghissimo tempo comporta l’assunzione da parte del bene di caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale (Cons. Stato, Sez. IV, 15.06.2012, n. 3531; Sez. V, 10.01.2012, n. 43)
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.07.2012 n. 4386 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gazebo in legno necessita permesso a costruire.
L’art. 3, lett. e.5), del d.P.R. n. 380/2001, ha lo scopo di frenare il fenomeno dei c.d. abusi progressivi, infatti, riconduce alla nozione di intervento di nuova costruzione, anche le istallazioni di strutture non murarie, per le quali è sempre necessario il permesso di costruire.
Una struttura in legno costituita da un unico manufatto, non può essere qualificata come semplice gazebo, in quanto assume la consistenza di un vero e proprio piano in elevazione che deve essere oggetto di concessione edilizia e di eventuale autorizzazione paesaggistica. I caratteri della rimovibilità della struttura e dell’assenza di opere murarie non rilevano per nulla, quando l’installazione attua una consistente trasformazione del tessuto edilizio, in conseguenza della sua conformazione e della sua destinazione all’attività imprenditoriale.
Inoltre, il carattere pertinenziale dell'intervento non muta il suo regime giuridico (d.i.a. in luogo di quello concessorio), in quanto la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità proprie che la distinguono da quella civilistica, dal momento che il manufatto, preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, deve soprattutto avere un volume modesto, rispetto all'edificio principale in modo da escludere ogni ulteriore carico urbanistico.
In primo luogo, tale norma regolamentare risulta implicitamente abrogata dall’art. 3, lett. e.5), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, tra l’altro, riconduce alla nozione di “intervento di nuova costruzione" proprio “l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere… che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Pertanto, a tutto voler concedere, l’articolo 8 del regolamento edilizio comunale, nel ricondurre la realizzazione di un gazebo alla nozione di “manutenzione straordinaria” da attuarsi con d.i.a. potrebbe, forse riferirsi ai soli gazebo, con funzioni analoghe agli ombrelloni, che costituiscono semplici arredi temporanei della terrazza, ma sicuramente non concerneva una struttura che, per le sue notevoli dimensioni strutturali e per il suo impatto visivo, integrava un’ipotesi del tutto differente (ma sul punto vedi amplius infra). In ogni caso cui non vi era alcuna pregiudiziale necessità di impugnare la detta normativa regolamentare.
Parimenti è inconferente l’assunto circa la pretesa necessità di impugnativa della nota della Soprintendenza del 1998 sia perché per i “gazebo” occorre comunque il permesso di costruire è conseguentemente e sia perché la stessa risultava, comunque, del tutto superata della cogente valenza dell'art. 167, comma 4°, lett. c) del D.L.vo 22.01.2004 n. 42, per cui, in zona vincolata, anche in caso di “manutenzione straordinaria" di cui all'articolo 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 –come nel Comune di Forio- devono essere comunque preceduti dalla previa verifica di compatibilità paesaggistica dell'opera, con conseguente irrilevanza dell'eventuale preventivo esercizio positivo del controllo urbanistico/edilizio.
Per la giurisprudenza peraltro tale disciplina in caso di realizzazione di “gazebo” deve sempre essere di rigorosa applicazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2005 n. 714)
(massima tratta www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4318 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Inammissibile sanatoria già rigettata.
E’ inammissibile la domanda di sanatoria presentata ex art. 13 della legge n. 47 del 1985 per essere stata rigettata, precedentemente, domanda di condono, ex art. 39 della legge n. 724 del 1994, avente identico contenuto e presupposti essenziali, quale, nella specie, la mancanza del necessario parere di compatibilità ambientale dell’intervento edilizio, sempre per gli stessi manufatti.
 Tutte dette critiche non sono fondate poiché ben può essere condivisa la tesi comunale che è inammissibile la domanda di sanatoria presentata ex art. 13 della legge n. 47 del 1985 per essere stata rigettata , precedentemente, domanda di condono, ex art. 39 della legge n. 724 del 1994, avente identico contenuto e presupposti (essenziali) sempre per gli stessi manufatti.

Ed invero, non può il Collegio non rilevare come l’insanabilità dei manufatti in questione sia questione già decisa e come, conseguentemente, sia preclusa sul punto ogni nuova statuizione, in disparte ogni valutazione, per un verso, circa la ripetibilità o meno di domande aventi la stessa finalità e carenti dello stesso presupposto essenziale, allorquando già la prima di esse sia stata motivatamente rigettata proprio per la carenza di detto presupposto essenziale, quale, nella specie, la mancanza del necessario parere di compatibilità ambientale dell’intervento edilizio e, per altro verso, circa la natura di atto sostanzialmente confermativo del primo diniego, essendo già stato legittimamente denegato, per la stessa ragione, il condono ex lege n. 724 del 1994.
Inoltre, parte appellante erra nel ritenere:
- da un lato,che non sia possibile una declaratoria di inammissibilità della sanatoria allorquando, come nella specie, difetti comunque il presupposto necessario in entrambe le ipotesi (cd. sanatoria ordinaria ex art. 13 citato, ovvero condono) e cioè l’assenso dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, nella specie ambientale;
- dall’altro, a non riconoscere l’effetto costitutivo proprio del giudicato, nel caso di specie ancor più incidente proprio perché è insussistente il presupposto essenziale richiesto, di conformità delle opere edilizie abusive al vincolo ambientale invece esistente,
- dall’altro, ancora, l’inammissibilità in radice di ogni forma di sanatoria, non essendo quest’ultima legittimamente invocabile, alla luce delle norme di tutela del vincolo ambientale (DM 17.05.1956, emanato ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497), stante che sono consentiti esclusivamente il recupero conservativo degli edifici già esistenti, nonché l’ordinaria e straordinaria manutenzione degli stessi, nel necessario presupposto che gli immobili da recuperare e/o manutenere siano stati ovviamente edificati in conformità alle specifiche previsioni degli strumenti urbanistici e delle leggi vigenti in materia, ipotesi che, nella specie, non sono sussistenti trattandosi d nuove edificazioni abusive.
Consegue alle considerazioni esposte che non v’era alcuna necessità di emettere un nuovo provvedimento ingiuntivo della demolizione dei manufatti abusivi in questione poiché, diversamente da quanto ritenuto dall’appellante, il Comune poteva ognora procedere di ufficio sulla base dei precedenti provvedimenti adottati, stante la definitività dell’accertamento di insanabilità ambientale dei manufatti, e la Società ben poteva, qualora lo avesse effettivamente voluto, procedere allo spontaneo abbattimento dei manufatti abusivi, senza che vi fosse bisogno di un nuovo provvedimentio ingiuntivo, incombendole soltanto l’obbligo di preavvertire il Comune della propria intenzione, onde evitare inutili aggravi procedimentali ed oneri finanziari al Comune stesso, stante il suo iniziale inadempimento nei termini allo scopo concessi (massima tratta www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.07.2012 n. 4307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il giudice può interrogare i dirigenti dell'ente in causa.
Dirigenti sotto tiro. Se l'ente pubblico finisce nel mirino dei cittadini in una causa davanti al giudice amministrativo, il collegio può ben «interrogarne» i dirigenti, sentendoli in udienza per chieder loro chiarimenti in contraddittorio con le parti in causa. E il merito è tutto del combinato disposto degli artt. 63 e 65 del nuovo codice del processo amministrativo.
È quanto emerge dall'ordinanza 27.07.2012 n. 2742 della III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Capi «alla sbarra» - Qualcosa non torna nell'esclusione di alcuni studenti dall'iscrizione di un corso universitario a numero chiuso (medicina, per la cronaca). E il collegio vuole vederci chiaro nell'interpretazione delle norme offerta sul numero dei posti da mettere a concorso per l'anno accademico «incriminato». Resta da capire chi siano i dirigenti in grado di fornire i chiarimenti che stanno a cuore ai giudici. Chi meglio del direttore generale del Miur e del rettore dell'Ateneo? Nessuno. E infatti sono loro i convocati per fare luce sullo stop imposto agli aspiranti camici bianchi. I «big» chiamati in causa possono ben farsi sostituire da alcuni funzionari di fiducia e assistere da tecnici altrettanto stimati. Ma qualcuno proveniente dall'ente dovrà comunque intervenire in aula affrontando gli avvocati delle controparti.
Audizione fondamentale - Segnano un punto nella loro sfida per diventare medici i giovani, che pure non riescono ancora a mettere piede in facoltà. Al momento i giudizi non rinvengono elementi idonei per accogliere la domanda degli studenti che chiedono l'immediata ammissione con riserva al corso di laurea indicato: sotto il profilo del «fumus» i magistrati ritengono necessario acquisire ulteriori chiarimenti da parte delle amministrazioni interessate, vale a dire l'Ateneo e il ministero dell'istruzione. Ma viene comunque fissata un'udienza a breve scadenza (mercoledì 7 novembre).
Il disposto dell'art. 55, comma 10, del codice processo amministrativo risulta utile a tutelare i giovani ricorrenti. Che audizione sia allora, con i dirigenti che spiegheranno ai giudici perché la delibera del consiglio della facoltà di medicina e chirurgia dell'Ateneo e i successivi provvedimenti degli organi accademici di governo hanno indicato un numero di posti pari a 200 (oltre i 20 riservati agli studenti extracomunitari) (articolo ItaliaOggi dell'01.09.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Beni culturali. Estensione ambito di tutela.
È pienamente coerente con la funzione esercitata mediante gli strumenti apportati dal D.lgs. 42/2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio, che una particolare ampiezza della tutela si giustifica quando essa è applicata non in relazione ad un singolo immobile, ma in relazione ad un complesso il cui importante valore culturale si presenta in modo unitario, che acquista o accresce interesse in relazione alla percezione organica ed integrata nell’ambiente in cui è inserito.
Per costante e condivisa giurisprudenza, più volte ribadita da questo Consiglio di Stato (per tutte, sez. VI, 06.06.2011, n. 3354) l’ampiezza dell’ambito spaziale nel quale si rende necessario il regime di tutela attiene alla stretta valutazione tecnica dell’Amministrazione preposta alla cura dei beni culturali, e che tale valutazione non è sottoposta al vaglio di legittimità del giudice, se non per motivi di illogicità estrinseca (massima tratta www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.07.2012 n. 4240 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità spostamento manufatto.
E’ legittimo l’annullamento ministeriale dell’autorizzazione ex lege 1497/1939, rilasciata dal Comune in sanatoria, e la conseguente ordinanza di demolizione disposta dal Sindaco a seguito dell’annullamento ministeriale.
Infatti, lo spostamento per cinquanta metri della collocazione del manufatto, di notevole dimensione, avrebbe dovuto comportare una valutazione specifica della compatibilità di tale non autorizzata collocazione con le esigenze di tutela del territorio protetto, essendo del tutto evidente che, anche rimanendone ferme le dimensioni, la stessa disposizione spaziale dell’immobile determina interferenza con il paesaggio, e che proprio tale interferenza avrebbe dovuto costituire oggetto di esame da parte del Comune.
Quanto alla seconda considerazione, non è dubbio che lo spostamento per cinquanta metri della collocazione del manufatto, di notevole dimensione, avrebbe comportato una valutazione specifica della compatibilità di tale non autorizzata collocazione con le esigenze di tutela del territorio protetto, essendo del tutto evidente che, anche rimanendone ferme le dimensioni, la stessa disposizione spaziale dell’immobile determina interferenza con il paesaggio, e che proprio tale interferenza avrebbe dovuto costituire oggetto di esame da parte del Comune.
L’autorizzazione ex lege 29.06.1939, n. 1497, rilasciata in sanatoria dal Sindaco il 13.02.1996, omette invece del tutto di considerare la compatibilità della nuova collocazione con le esigenze di tutela e perciò è stata legittimamente annullata dal Ministero, che ne ha rilevato il profilo estrinseco della carenza di motivazione, da solo sufficiente a sostenere la validità del provvedimento tutorio
(massima tratta www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.07.2012 n. 4229 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La “variante semplificata” di cui all'art. 5 del D.P.R. n. 447/1998 è pur sempre uno strumento derogatorio ed eccezionale, di guisa che essa non solo non è obbligatoria, nel senso che il Comune può comunque decidere di esaminare la proposta di variante, seguendo l'iter normale, ma non fa venir meno, in alcun modo, l'ampia discrezionalità di cui gode il Comune nell’attività di pianificazione urbanistica circa “an” e “quomodo” della prestazione dell'eventuale assenso.
La variante semplificata non può comportare uno stravolgimento dei principi e delle regole essenziali per la corretta e razionale gestione del territorio comunale. Ammettere il contrario, affermando che la procedura in argomento implichi l’impossibilità per il Comune di svolgere le indagini ritenute opportune, significherebbe svuotare le attribuzioni assegnate dalla legge al Consiglio Comunale, vincolando le decisioni di esso al parere della conferenza di servizi.
Pertanto, anche quando vi sia  un parere favorevole della conferenza di servizi inteso a favorire e semplificare la realizzazione di una struttura ricettiva, esso non è da ritenersi vincolante per il Consiglio Comunale, il quale autonomamente valuta se aderire o meno alla proposta.

Si consideri, a tal riguardo, che la “variante semplificata” di cui al citato art. 5 del D.P.R. n. 447/1998, è pur sempre uno strumento derogatorio ed eccezionale, di guisa che essa non solo non è obbligatoria, nel senso che il Comune può comunque decidere di esaminare la proposta di variante, seguendo l'iter normale, ma non fa venir meno, in alcun modo, l'ampia discrezionalità di cui gode il Comune nell’attività di pianificazione urbanistica circa “an” e “quomodo” della prestazione dell'eventuale assenso.
La variante semplificata non può comportare uno stravolgimento dei principi e delle regole essenziali per la corretta e razionale gestione del territorio comunale. Ammettere il contrario, affermando che la procedura in argomento implichi l’impossibilità per il Comune di svolgere le indagini ritenute opportune, significherebbe svuotare le attribuzioni assegnate dalla legge al Consiglio Comunale, vincolando le decisioni di esso al parere della conferenza di servizi (cfr.: TAR Puglia Bari, III, 05-06-2008, n. 1399).
Pertanto, anche quando vi sia –come nel caso di specie- un parere favorevole della conferenza di servizi inteso a favorire e semplificare la realizzazione di una struttura ricettiva, esso non è da ritenersi vincolante per il Consiglio Comunale, il quale autonomamente valuta se aderire o meno alla proposta (cfr.: Cons. Stato IV, 14.04.2006 n. 2170).
Anche la circostanza di precedenti deroghe concesse per analoghi interventi in quella zona appare inconferente e non integra il profilo della contraddittorietà o della disparità di trattamento, per almeno quattro ragioni:
1) perché è difficile fare confronti tra interventi simili e tra aree contigue;
2) perché le precedenti scelte potrebbero essere la conseguenza di errori da non ripetere;
3) perché ci può essere un limite oltre il quale la presenza di alberghi o altre strutture simili sulla fascia marina determini una saturazione;
4) perché le scelte urbanistiche e di governo del territorio sono altamente discrezionali e insindacabili, se non per manifesta illogicità (cfr.: Cons. Stato IV, 21.10.2008 n. 5159) (TAR Molise, sentenza 25.07.2012 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'originario titolare di un permesso di costruire può liberarsi dagli obblighi connessi al titolo, nel caso in cui alieni il terreno da edificare -ovvero l'edificio in costruzione- cedendo il titolo edilizio mediante apposita volturazione.
Con tale atto, il Comune autorizza l'acquirente a subentrare nella titolarità del permesso di costruire e nello stesso tempo accetta l'accollo degli oneri concessori da parte dell'acquirente stesso, con liberazione del precedente titolare.
La voltura non implica il rilascio di un nuovo e autonomo titolo edilizio e non richiede, né presuppone, una nuova verifica in ordine alla compatibilità del progetto con la normativa urbanistico-edilizia ma solo una verifica, a contenuto non discrezionale, in ordine alla trasferibilità del titolo ai successori o aventi causa.
Se è vero che la norma di cui all’art. 11 del D.P.R. n. 380/2001 consente soltanto il trasferimento dell’intero titolo edilizio e non di una parte di esso, quel che impone di dare alla detta norma un’interpretazione di stretto diritto (cioè, non estensiva) è proprio la natura di atto non discrezionale della volturazione, poiché l’ipotesi che possa essere scorporata o frazionata una parte del titolo pone problemi di valutazione della compatibilità del risultato con la disciplina urbanistica, che snaturerebbero la funzione dell’istituto.

L'originario titolare di un permesso di costruire può liberarsi dagli obblighi connessi al titolo, nel caso in cui alieni il terreno da edificare -ovvero l'edificio in costruzione- cedendo il titolo edilizio mediante apposita volturazione.
Con tale atto, il Comune autorizza l'acquirente a subentrare nella titolarità del permesso di costruire e nello stesso tempo accetta l'accollo degli oneri concessori da parte dell'acquirente stesso, con liberazione del precedente titolare (cfr.: TAR Veneto Venezia, II, 16-06-2011, n. 1042).
La voltura non implica il rilascio di un nuovo e autonomo titolo edilizio e non richiede, né presuppone, una nuova verifica in ordine alla compatibilità del progetto con la normativa urbanistico-edilizia ma solo una verifica, a contenuto non discrezionale, in ordine alla trasferibilità del titolo ai successori o aventi causa (cfr.: Tar Lazio Latina I, 12.01.2010 n. 3).
Se è vero che la norma di cui all’art. 11 del D.P.R. n. 380/2001 consente soltanto il trasferimento dell’intero titolo edilizio e non di una parte di esso, quel che impone di dare alla detta norma un’interpretazione di stretto diritto (cioè, non estensiva) è proprio la natura di atto non discrezionale della volturazione, poiché l’ipotesi che possa essere scorporata o frazionata una parte del titolo pone problemi di valutazione della compatibilità del risultato con la disciplina urbanistica, che snaturerebbero la funzione dell’istituto (TAR Molise, sentenza 25.07.2012 n. 373 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Reato di abbandono o deposito incontrollato.
Nel reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti non rileva l'occasionalità della condotta ma la qualifica dell'agente per discernere l'illecito amministrativo da quello penale.
La normativa opera differenziazioni tra i tipi di imprese che conferiscono i rifiuti ritenendo evidentemente sufficiente ad attribuire valenza maggiormente offensiva alla condotta di colui il quale operi nell'ambito di un'attività professionale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.07.2012 n. 30123 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Normativa antisismica e responsabilità del direttore dei lavori.
Al direttore dei lavori compete il controllo degli adempimenti prescritti dalla normativa antisismica. Se è vero che il reato di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001 rientra fra quelli “a soggettività ristretta", non può esservi dubbio che l'obbligo di rispetto degli adempimenti e di verifica della regolarità delle opere grava su chiunque "esplica attività tecnica" correlata all'esecuzione delle opere e nei limiti delle specifiche responsabilità.
In altre parole, la responsabilità del direttore dei lavori è configurabile solo per effetto dell'omesso controllo sugli adempimenti richiesti dalla normativa antisismica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2012 n. 29478 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Abbandono e natura di reato eventualmente permanente.
La contravvenzione di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti (art. 256, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, in precedenza enunciata nell’art. 51 della L. 22/1997) costituisce una ipotesi di reato commissivo eventualmente permanente, la cui antigiuridicità cessa o con il sequestro del bene o con l'ultimo abusivo conferimento di rifiuti o con la sentenza di primo grado (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2012 n. 29460 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Potere del giudice e illegittimità del titolo abilitativo.
Il giudice penale può accertare la illegittimità sostanziale del titolo abilitativo non soltanto se l'atto medesimo sia illecito, ovvero frutto di attività criminosa per eventuali collusioni del soggetto beneficiario con organi dell'amministrazione, ma anche nell'ipotesi in cui sussista la non conformità dell'atto alla normativa che ne regola l'emanazione o alle disposizioni legislative in materia urbanistico-edilizia (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2012 n. 28545 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque. Acque meteoriche.
Rientrano tra le acque reflue quelle che provengano dall'insediamento produttivo nella sua totalità e cioè dall'inscindibile composizione dei suoi elementi confluenti nel corpo recettore, a nulla rilevando che parte di essi sia composto da liquidi non direttamente derivanti dal ciclo produttivo, come ad esempio quelli delle acque meteoriche necessariamente legate alla composizione chimica-fisica, diverse da quelle proprie delle acque metaboliche e domestiche.
L'art. 74, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 152 del 2006 definisce "acque reflue industriali" qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzioni di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche o di dilavamento.
Secondo condivisibile orientamento, il refluo deve essere considerato nell'inscindibile composizione dei suoi elementi, a nulla rilevando che parte di esso sia composta da liquidi non direttamente derivanti dal ciclo produttivo, come quelli delle acque meteoriche o dei servizi igienici, immessi in un unico corpo recettore. (Cassazione Sezione 3 n. 13376/1998, 10/11/1998 - 18/12/1998).
Ne consegue che rientrano tra le acque reflue quelle che provengano dall'insediamento produttivo nella sua totalità e cioè dall'inscindibile composizione dei suoi elementi confluenti nel corpo recettore, a nulla rilevando che parte di essi sia composto da liquidi non direttamente derivanti dal ciclo produttivo, come ad esempio quelli delle acque meteoriche necessariamente legate alla composizione chimica- fisica, diverse da quelle proprie delle acque metaboliche e domestiche (Cassazione Sezione 3, n. 42932/2002, 24/10/2002 - 19/12/2002)
(massima tratta www.lexambiente.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 12.07.2012 n. 1261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Piantumazione di una siepe.
La posa di una semplice siepe non appare soggetta alla necessità di un titolo edilizio e ciò ancorché l’area sia sottoposta a vincolo paesaggistico e risulta diretta principalmente a far valere lo ius excludendi alios, che costituisce contenuto tipico del diritto di proprietà.
Con il ricorso in epigrafe la Immobiliare Giade ha dedotto, in primo luogo, l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in quanto la piantumazione di una siepe per delimitare l’area di proprietà, senza l’apposizione, peraltro, di alcuna rete metallica né tantomeno l’edificazione di un muretto, non necessiterebbe -a differenza di quanto ritenuto dall’Amministrazione Comunale- di titolo edilizio, rientrando tra le facoltà del proprietario.
Tale censura è fondata e meritevole di accoglimento.
Come già evidenziato dal Collegio in sede di accoglimento della domanda cautelare, la posa di una semplice siepe non appare soggetta alla necessità di un titolo edilizio e ciò ancorché l’area sia sottoposta a vincolo paesaggistico (TAR Veneto, Sez. II, 23.04.2010. n. 1547) e risulta diretta principalmente a far valere lo ius excludendi alios, che costituisce contenuto tipico del diritto di proprietà (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 05.02.2008 n. 40).
Eguali considerazioni possono ben valere anche per il cartello “proprietà privata
(massima tratta www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 05.07.2012 n. 808 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Autorizzazione alle emissioni e valori limite e prescrizioni più severi di quelli contenuti negli allegati.
E’ la legge a prevedere il potere dell’amministrazione di stabilire, nel provvedimento autorizzativo, valori limite e prescrizioni “più severi di quelli contenuti negli allegati I, II, III, e V alla parte quinta del presente decreto, nelle normative di cui al comma 3 e nei piani e programmi di cui al comma 4” (art. 271, comma 7, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152).
L’esercizio di tale potere non presuppone l’esistenza di Piani regionali per il risanamento della qualità dell’aria, pur dovendo fondarsi su ragioni connesse alla tutela della qualità dell’aria, emerse in sede istruttoria e adeguatamente evidenziate in sede procedimentale (massima tratta www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 29.06.2012 n. 782 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: Rifiuti. Ubicazione impianto di smaltimento.
L'impianto di smaltimento dei rifiuti non necessariamente deve essere realizzato in zona industriale.
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La destinazione agricola di una determinata area è volta non tanto e non solo a garantire il suo effettivo utilizzo a scopi agricoli, quanto piuttosto a preservarne le caratteristiche attuali di zona di salvaguardia da ogni possibile nuova edificazione, con la conseguenza che, salvo diverse specifiche previsioni, essa non può considerarsi incompatibile con la realizzazione di un impianto di discarica, tanto più che quest’ultimo deve essere ragionevolmente localizzato al di fuori della zona abitata.
Il potere di pianificazione del territorio non può precludere del resto insediamenti industriali in zone a destinazione agricola, salvo che in via eccezionale, quando cioè si sia in presenza di un assetto agricolo di particolare pregio, consolidato da tempo remoto ovvero favorito da opere di bonifica, ciò anche in considerazione del fatto che la destinazione agricola ha in realtà lo scopo di impedire insediamenti abitativi residenziali e non già quello di precludere in via assoluta e radicale qualsiasi intervento urbanisticamente rilevante.
Deve rilevarsi che, come emerge dalla lettura della determinazione REGTA/669/2009 del 04.11.2009 del dirigente del Settore Tutela Territoriale ed Ambientale della Provincia di Lodi, il diniego di autorizzazione (per la realizzazione e l’esercizio di un impianto di stoccaggio e trattamento di fanghi biologici, da avviarsi a recupero mediante spandimento in agricoltura, su un’area di sua proprietà sita nel Comune di Meleti) è stato innanzitutto imperniato proprio sulla destinazione urbanistica dell’area, classificata -nello strumento urbanistico vigente del Comune di Meleti, sia in quello vigente, sia nel PGT adottato- come zona E, agricola, precisandosi poi, per un verso, che l’articolo 196 del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, prevedeva che per la realizzazione di impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti dovevano essere privilegiate le aree industriali, e, per altro verso, che la previsione contenuta nell’art 27, comma 5, del D.Lgs. n. 22 del 1997 (ora 208 del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152), secondo cui l’approvazione del progetto di un nuovo impianto di smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi, costituiva automatica variante allo strumento urbanistico “ove occorra”, comportava che la collocazione dell’impianto in zona diversa da quella industriale doveva essere considerata un’eccezione, dovendosi provare l’impossibilità di una diversa collocazione dell’impianto da realizzare.
Peraltro detta motivazione, ad avviso della Sezione, è frutto di un’erronea interpretazione delle disposizioni contenute nei ricordati articoli 196 e 208 del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152.
Invero lo stesso tenore letterale del terzo comma dell’articolo 196 esclude che la realizzazione di impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti debba avvenire necessariamente ed esclusivamente in aree industriale, così esprimendo una previsione tendenziale e di massima, un criterio direttivo di preferenza cui devono attenersi in linea di principio le regioni, coerentemente con la peculiare forma verbale usata dal legislatore, secondo cui le regioni “privilegiano” la realizzazione dei predetti impianti in tali zone.
Del resto è agevole intuire la ratio di un simile criterio direttivo, volto a sottolineare la natura industriale di tali impianti, collocandoli quindi preferibilmente, in coerenza con il disegno urbanistico delineato dallo strumento di governo del territorio, nella zona da quest’ultimo individuata per le attività industriali; tuttavia, la circostanza che tale collocazione costituisca solo una indicazione di massima ovvero un criterio preferenziale è confermata dalla espressa previsione che essa deve essere comunque compatibile con le peculiari caratteristiche dell’area: insomma il legislatore ha inteso fissare una indicazione preferenziale, astratta, salvo poi a demandare in concreto la verifica e la valutazione della sua compatibilità.
Di per sé, quindi, il fatto che l’area su cui era stata prevista la realizzazione dell’impianto, oggetto della negata autorizzazione, non fosse urbanisticamente classificata quale zona industriale non costituiva motivo ostativo al rilascio dell’approvazione, né imponeva, così come suggestivamente insinuato dalle appellanti, al soggetto richiedente di provare l’impossibilità di collocare l’impianto da realizzare in zona industriale, spettando piuttosto all’amministrazione il potere/dovere di verificare comunque la compatibilità del sito prescelto con l’impianto da realizzare.
Né poteva essere invocato, a fondamento del diniego di autorizzazione, la circostanza che l’area su cui era stata prevista la realizzazione dell’impianto fosse urbanisticamente classificata, come zona agricola E.
E’ sufficiente ricordare al riguardo che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo di discostarsi, la destinazione agricola di una determinata area è volta non tanto e non solo a garantire il suo effettivo utilizzo a scopi agricoli, quanto piuttosto a preservarne le caratteristiche attuali di zona di salvaguardia da ogni possibile nuova edificazione, con la conseguenza che, salvo diverse specifiche previsioni, essa non può considerarsi incompatibile con la realizzazione di un impianto di discarica, tanto più che quest’ultimo deve essere ragionevolmente localizzato al di fuori della zona abitata (C.d.S., sez. V, 01.10.2010, n. 7243; 16.06.2009, n. 3853).
E’ stato anche sottolineato che il potere di pianificazione del territorio non può precludere del resto insediamenti industriali in zone a destinazione agricola, salvo che in via eccezionale, quando cioè si sia in presenza di un assetto agricolo di particolare pregio, consolidato da tempo remoto ovvero favorito da opere di bonifica, ciò anche in considerazione del fatto che la destinazione agricola ha in realtà lo scopo di impedire insediamenti abitativi residenziali e non già quello di precludere in via assoluta e radicale qualsiasi intervento urbanisticamente rilevante (C.d.S., sez. V, 18.09.2007, n. 4861).
In questa ottica deve essere apprezzata la previsione contenuta nel sesto comma dell’art. 208 del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, secondo cui “L’approvazione sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e cominciali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori”.
Essa invero sarebbe ultronea e priva di qualsiasi utilità se l’impianto da realizzare dovesse essere collocato obbligatoriamente ed esclusivamente in zona industriale, laddove la ricordata previsione normativa ne permette invece la collocazione anche in una zona che, secondo le previsioni urbanistiche, non la tollererebbe, subordinatamente al riscontro ed alla valutazione di compatibilità in concreto da parte dell’amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.06.2012 n. 3818 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAMeno burocrazia per i raccoglitori. Rifiuti, l'ambulante è fuori dai registri.
L'attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi effettuata in forma ambulante da chi possiede il relativo titolo abilitativo deve ritenersi sottratta alla disciplina dei rifiuti (art. 266, comma 5, dlgs 152/2006) limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio.
Al contrario se viene provato che il soggetto non è un ambulante, la raccolta e il trasporto devono essere autorizzati. L'ambulante, secondo quanto stabilito dall'articolo 266, comma 5, del dlgs n. 152/2006, non è obbligato né all'iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, né alla tenuta del registro di carico e scarico e del formulario di identificazione. Ma affinché tale esclusione dalla disciplina sui rifiuti operi l'interessato deve comunque essere abilitato all'esercizio dell'attività in forma ambulante, attraverso una licenza comunale, ed essere iscritto nel Registro delle imprese tenuto dalla Cdc.
Questo è quanto precisato dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 27.06.2012 n. 25352.
Gli Ermellini a sostegno della loro tesi ricordano che il dlgs n. 114 del 1998, all'art. 28 prevede che «il commercio sulle aree pubbliche può essere svolto «su qualsiasi area purché in forma itinerante». L'esercizio dell'attività di cui al comma 1 è soggetto ad apposita autorizzazione rilasciata a persone fisiche o a società di persone regolarmente costituite secondo le norme vigenti. L'autorizzazione all'esercizio dell'attività di vendita sulle aree pubbliche esclusivamente in forma itinerante è rilasciata, in base alla normativa emanata dalla regione, dal comune nel quale il richiedente ha la residenza, se persona fisica, o la sede legale».
A sua volta l'art. 29 dispone che «chiunque eserciti il commercio sulle aree pubbliche senza la prescritta autorizzazione... è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 2.582 a euro 25.822 e con la confisca delle attrezzature e della merce
» (articolo ItaliaOggi del 31.08.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Procedimento bonifica.
Il procedimento di bonifica (disciplinato dall’art. 242 D.Lgs. 152/2006) si svolge attraverso un complesso iter procedimentale caratterizzato da fasi ben definite e collocate in sequenza propedeutica l’una (quella precedente) rispetto all’altra (quella successiva). In particolare alle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza segue l’elaborazione e l’approvazione del piano di caratterizzazione nonché l’avvio della procedura di analisi del rischio.
All’esito di tali adempimenti viene redatto e approvato il progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, delle ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale. All’approvazione del progetto segue, infine, la relativa fase esecutiva. Risulta quindi evidente che il procedimento entra in stallo se non viene conclusa una fase dello stesso propedeutica all’avvio della fase successiva.

Va ricordato che il procedimento di bonifica (disciplinato dall’art. 242 D.Lgs. 152/2006) si svolge attraverso un complesso iter procedimentale caratterizzato da fasi ben definite e collocate in sequenza propedeutica l’una (quella precedente) rispetto all’altra (quella successiva). In particolare alle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza segue l’elaborazione e l’approvazione del piano di caratterizzazione nonché l’avvio della procedura di analisi del rischio.
All’esito di tali adempimenti viene redatto e approvato il progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, delle ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale. All’approvazione del progetto segue, infine, la relativa fase esecutiva
(massima tratta www.lexambiente.it - TAR Marche, sentenza 22.06.2012 n. 450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Variazione urbanistica e V.i.a.-V.a.s..
La V.A.S., ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. 152 del 2006, non è un procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma un passaggio endoprocedimentale di esso, che si concreta nell’espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima.
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In presenza di una variazione urbanistica funzionale alla realizzazione di un progetto contemporaneamente interessato dalla procedura di valutazione di impatto ambientale, quest’ultima esaurisce le verifiche in tale fase richieste dalla legge, mentre la V.A.S e la relativa verifica di assoggettabilità (art. 12 d.lgs. n. 152/2006) riguardano i soli casi di autonoma elaborazione di piani e programmi idonei ad incidere in modo rilevante sull’ambiente.
A maggior ragione va ritenuto che, qualora sia comunque sottoposta a V.A.S. una variante sostanzialmente diretta alla realizzazione di un singolo intervento sottoposto a V.I.A., l’integrazione tra le due procedure risulta, oltre che legittima, opportuna, ed è suggerita dalla stessa lettera della legge che dà una lettura orientata allo scopo delle procedure, nella parte in cui, all’art. 13, c.4, del d.lgs 152/2006, detta le disposizioni per l’applicazione dell’allegato VI al d.lgs, prescrivendo che le sue previsioni debbano tenere conto di determinate circostanze e permettendo l’utilizzo di approfondimenti o informazioni ottenute nell’ambito di altri livelli decisionali o altrimenti acquisite.

Infine, è palesemente infondata l’eccezione di tardività per avere impugnato la variante unitamente alla Valutazione Ambientale Strategica, in quanto contrastante con la più recente e condivisibile giurisprudenza, che ha ritenuto come la V.A.S., ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. 152 del 2006, non sia un procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma un passaggio endoprocedimentale di esso, che si concreta nell’espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima (CdS Sez. IV 12.01.2011 n. 133)
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In giurisprudenza si è condivisibilmente ritenuto che, in presenza di una variazione urbanistica funzionale alla realizzazione di un progetto contemporaneamente interessato dalla procedura di valutazione di impatto ambientale, quest’ultima esaurisca le verifiche in tale fase richieste dalla legge, mentre la V.A.S e la relativa verifica di assoggettabilità (art. 12 d.lgs. n. 152/2006) riguardano i soli casi di autonoma elaborazione di piani e programmi idonei ad incidere in modo rilevante sull’ambiente (Tar Emilia Romagna Parma 22.12.2010 n. 552). A maggior ragione va ritenuto che, qualora sia comunque sottoposta a V.A.S. una variante sostanzialmente diretta alla realizzazione di un singolo intervento sottoposto a V.I.A., come nel caso in esame (come risulta dalla determinazione 177/2008 più volte citata, alla pag. 21, e sostanzialmente incontestato dalla ricorrente) l’integrazione tra le due procedure risulta, oltre che legittima, opportuna, ed è suggerita dalla stessa lettera della legge che dà una lettura orientata allo scopo delle procedure, nella parte in cui, all’art. 13 c.4 del d.lgs 152/2006, detta le disposizioni per l’applicazione dell’allegato VI al d.lgs, prescrivendo che le sue previsioni debbano tenere conto di determinate circostanze e permettendo l’utilizzo di approfondimenti o informazioni ottenute nell’ambito di altri livelli decisionali o altrimenti acquisite
(massima tratta www.lexambiente.it - TAR Marche, sentenza 22.06.2012 n. 444 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Classificazione acustica.
L’attribuzione in concreto di una delle due classi previste dal piano di classificazione acustica è connotata da margini di apprezzamento discrezionale che, seppure ancorati all’accertamento di specifici presupposti di fatto, devono ricondurre a sintesi interessi tra loro confliggenti, quali la tutela della salute e la salvaguardia della libertà di iniziativa economica.
La censura con cui si contesta l’illegittimità del piano di classificazione acustica per aver attribuito all’area della parte ricorrente la classe V, anziché la VI, non può essere condivisa.
L’attribuzione in concreto di una delle due classi in sede di pianificazione è connotata infatti da margini di apprezzamento discrezionale che, seppure ancorati all’accertamento di specifici presupposti di fatto, devono ricondurre a sintesi interessi tra loro confliggenti, quali la tutela della salute e la salvaguardia della libertà di iniziativa economica (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 30.03.2009, n. 967; Tar Lombardia, Brescia, 02.04.2008, n. 348; Tar Piemonte, Sez. II, 19.02.2007, n. 714; Tar Veneto, Sez. III, 24.01.2007, n. 187; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 07.04.2005, n. 751).
Nel caso all’esame si tratta di un’area che si inserisce in un contesto urbano, e che è a ridosso di un complesso abitativo di non recente formazione, e ciò fa apparire priva di profili di illogicità la scelta operata dal Comune
(massima tratta www.lexambiente.it - TAR Veneto, Sez. III, sentenza 15.06.2012 n. 845 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Legittimità controllo dell’ARPA senza preavviso.
Poiché la misurazione delle immissioni acustiche provenienti da un'attività produttiva è suscettibile di poter essere notevolmente influenzato dalle modalità con cui l’attività si svolge, va riconosciuto all’Agenzia Regionale per l’Ambiente (ARPA) la facoltà di svolgere i controlli senza preavvisare gli interessati, perché altrimenti l’esito delle misurazioni potrebbe risulterebbe non attendibile.
Inoltre, è conforme alla legge, la misurazione dei valori di immissione anziché dei valori di emissione, in quanto è evidente, che la pretesa di tener conto soltanto dei valori di emissione vanificherebbe le finalità di tutela della salute previste dalla normativa sull’inquinamento acustico, che implica la necessità di misurare i livelli di pressione acustica presenti nei ricettori sensibili e quindi nell'ambiente abitativo.

Il primo motivo, con il quale la parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, per l’omessa acquisizione del suo apporto procedimentale non può essere accolto.
Va in primo luogo rilevato che, poiché la misurazione delle immissioni acustiche provenienti da un'attività produttiva è suscettibile di poter essere notevolmente influenzato dalle modalità con cui l’ attività si svolge, va riconosciuto all’Arpav la facoltà di svolgere i controlli senza preavvisare gli interessati, perché altrimenti l’esito delle misurazioni potrebbe risulterebbe non attendibile (cfr. Cons. Stato, V, 05.03.2003, n. 1224).
In secondo luogo va osservato che l’omessa acquisizione dell’apporto procedimentale nel caso di specie non avrebbe comunque potuto condurre ad una diversa determinazione, in quanto l’Amministrazione ha provato in giudizio la correttezza delle rilevazioni e dell’applicazione della normativa rilevante nel caso di specie, e trova pertanto applicazione l’art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241.
Anche le censure di cui al secondo motivo sono infondate.
Con una prima censura la parte ricorrente lamenta una contraddizione tra le premesse e il dispositivo del provvedimento impugnato, perché nella motivazione viene contestata la violazione del valore differenziale, mentre alla fine viene ordinata una riduzione dei valori di immissione a meno di 50 dB (A).
La doglianza è priva di fondamento.
Dalla documentazione versata in atti risulta che il giorno 23.08.2005 è stato riscontrato un livello di rumore di 56,5 dB (A) con un differenziale di 13,5 dB (A), mentre il giorno 24.08.2005 sono stati registrati 55,5 dB (A) con un differenziale di 12,5 dB (A).
Il provvedimento impugnato ha ordinato, alternativamente, o la riconduzione ad un differenziale di 5 dB (A) che è quello previsto per i limiti diurni, o il rispetto del valore di immissione di 50 dB (A), il che è conforme a quanto prevede la normativa in materia, atteso che il valore differenziale non si applica, in quanto ogni effetto del rumore è da ritenersi trascurabile, quando il rumore misurato a finestre aperte sia inferiore a 50 dB(A) durante il periodo diurno (cfr. l’art. 4, comma 2, del DPCM 14.11.1997).
E’ priva di fondamento anche la doglianza con la quale la parte ricorrente lamenta la mancata misurazione dei valori di emissione anziché quelli di immissione, in quanto è evidente che la pretesa della parte ricorrente di tener conto dei soli valori di emissione frustrerebbe le finalità di tutela della salute previste dalla normativa sull’inquinamento acustico, che implica la necessità di misurare i livelli di pressione acustica presenti nei ricettori sensibili e quindi nell'ambiente abitativo.
Va inoltre respinta perché generica e formulata in via meramente ipotetica la doglianza con la quale la ricorrente afferma la non correttezza delle operazioni tecniche eseguite per le misurazioni, che risultano analiticamente documentate nel rapporto di prova (cfr. doc. 5 allegato alle difese del Comune) (massima tratta www.lexambiente.it - TAR Veneto, Sez. III, sentenza 15.06.2012 n. 845 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Classificazione acustica e rapporto con la pianificazione urbanistica.
La classificazione acustica del territorio deve coordinarsi e non sovrapporsi meccanicamente alla pianificazione urbanistica, perché, pur caratterizzandosi per la tendenziale omogeneità con la zonizzazione degli strumenti urbanistici che costituisce l’imprescindibile punto di partenza per la classificazione del territorio, deve al contempo scontare una corrispondenza che non è perfettamente biunivoca, atteso che esiste un naturale scollamento fra le due tipologie di pianificazione, poiché lo strumento urbanistico disciplina l'assetto del territorio ai fini prettamente urbanistici ed edilizi, individuando le zone omogenee con criteri quantitativi, mentre la classificazione acustica ha riguardo all'effettiva fruibilità dei luoghi, valendosi di indici qualitativi.
L’assunto del Comune secondo il quale la classificazione in classe VI è necessaria perché l’immobile ricade in zona urbanistica territoriale omogenea di tipo D e per non operare microzonizzazioni, non può essere condiviso.
Va infatti considerato che la classificazione acustica del territorio deve coordinarsi e non sovrapporsi meccanicamente alla pianificazione urbanistica, perché, pur caratterizzandosi per la tendenziale omogeneità con la zonizzazione degli strumenti urbanistici che costituisce l’imprescindibile punto di partenza per la classificazione del territorio, deve al contempo scontare una corrispondenza che non è perfettamente biunivoca, atteso che “esiste un naturale scollamento fra le due tipologie di pianificazione, poiché lo strumento urbanistico disciplina l'assetto del territorio ai fini prettamente urbanistici ed edilizi, individuando le zone omogenee con criteri quantitativi, mentre la classificazione acustica ha riguardo all'effettiva fruibilità dei luoghi, valendosi di indici qualitativi” (cfr. Tar Liguria, Sez. I, 28.06.2005, n. 985; Tar Veneto, Sez. III, 12.01.2011, n. 24; id. 30.03.2009, n. 967) (massima tratta www.lexambiente.it - TAR Veneto, Sez. III, sentenza 15.06.2012 n. 841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICARicorsi doc contro il Prg. Serve una lesione concreta al diritto di proprietà. Consiglio di stato: la mancanza di un atto applicativo del piano è irrilevante.
Per impugnare i provvedimenti urbanistico-edilizi (per esempio un piano regolatore) è necessario avere un interesse a ricorrere, ossia aver subito una lesione concreta ed effettiva al diritto di proprietà. Non sono quindi ammissibili ricorsi «generici» diretti a chiedere semplicemente un restyling della pianificazione territoriale facendo leva solo sulla qualità di proprietari di un suolo ricadente nel territorio comunale ma non inciso dalle prescrizioni urbanistiche censurate. Se questi requisiti sussistono è irrilevante la mancanza di un atto applicativo dello strumento urbanistico e tale circostanza «non determina di per sé l'inesistenza dell'interesse a ricorrere».
Lo ha affermato l'adunanza generale del Consiglio di stato (parere 06.06.2012 n. 2735) in un parere chiesto dal ministero dello sviluppo economico su un ricorso straordinario al presidente della repubblica promosso da una srl di Seregno (Mi) contro la delibera con cui il comune aveva escluso dall'applicazione del Piano casa gran parte del territorio municipale.
Facendo leva sull'art. 5, comma 6, della legge regionale lombarda n. 13/2009 attuativa del Piano casa, l'ente, a giudizio della società, «avrebbe conseguito l'obiettivo, illegittimo e non consentito, di una generale disapplicazione della normativa», escludendo intere zone omogenee «laddove la legge avrebbe consentito di estromettere solo parti individuate del territorio comunale».
La società era proprietaria di un compendio immobiliare nel comune di Seregno, in passato sede di una rilevante attività, ma attualmente completamente dismesso da alcuni anni. Ma ciononostante accusava il comune di aver «completamente vanificato le aspettative edificatorie dell'area, maturate in modo specifico con riguardo al piano casa».
I giudici di palazzo Spada si sono prima di tutto chiesti se la srl potesse o meno agire in giudizio. E in particolare, essendo indubitabile la legittimazione a ricorrere da parte della società (in quanto proprietaria di suoli ricadenti nel territorio del comune), hanno affrontato il tema dell'interesse a ricorrere. Il Consiglio di stato ha riconosciuto che «la presenza di un atto applicativo di diniego delle facoltà edificatorie sostanzia la posizione legittimante nel senso della sussistenza dell'interesse a ricorrere».
Ma l'assenza di un applicativo, tuttavia, «non determina di per sé l'inesistenza dell'interesse a ricorrere». Un piano regolatore, infatti, una volta adottato, «nella misura in cui è suscettibile di applicazione o non necessita di ulteriori atti esecutivi, in quanto per il suo contenuto ha già immediata portata prescrittiva, è immediatamente lesivo e direttamente impugnabile». A legittimare il ricorso basta, infatti, «che la delibera impugnata si applichi anche all'area di proprietà della società ricorrente incidendo su aspettative edificatorie qualificate».
Il riconoscimento dell'interesse ad agire non è stato però sufficiente a convincere nel merito i giudici di palazzo Spada che hanno considerato «ragionevoli» le motivazioni addotte dal comune per tutelare le peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali e urbanistiche (articolo ItaliaOggi del 29.08.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sui limiti applicativi, in capo al comune, del "piano casa" in Lombardia. 
Sono legittimati ad impugnare i provvedimenti urbanistico-edilizi i soggetti che vantino un interesse personale, diretto ed attuale all'annullamento dell'atto -perché proprietari dei fondi, più in generale, secondo l'indirizzo che ormai prevale, per essere titolari di diritti reali su immobili situati nella zona interessata dalla costruzione assentita, o anche per il solo fatto di trovarsi con la zona stessa in una situazione di stabile collegamento o di essere insediati abitativamente in essa- che lamentino una lesione dei valori urbanistici, intesi in senso ampio, garantiti dalle previsioni urbanistiche relative alla zona.
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In giurisprudenza su pianificazione ed interesse a ricorrere si sono avute ricostruzioni differenti: di recente si è messo in rilievo che nel contenzioso avente ad oggetto procedure di pianificazione urbanistica, non sono direttamente trasferibili le ricostruzioni sulla natura dell'interesse strumentale svolte nell'ambito delle questioni riguardanti gli atti di una procedura concorsuale o selettiva, trattandosi di situazioni profondamente differenti, in quanto, in queste ultime fattispecie, il ricorrente mira al perseguimento di un'utilità (aggiudicazione dell'appalto o posizionamento utile in graduatoria) che l'Amministrazione ha attribuito ad altro soggetto o ad altri soggetti specificamente individuati, nell'ambito di una procedura competitiva la cui ripetizione è ex se suscettibile di formare oggetto di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato, mentre tali considerazioni non possono estendersi alla pianificazione urbanistica che attiene a posizioni riguardanti un’intera comunità ed un vasto territorio, assunte in base a valutazioni che potrebbero anche non essere ripetute non essendovi un obbligo simile a quello di rinnovazione delle operazioni di gara.
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Il c.d. interesse strumentale alla rinnovazione della gara, riguardato nella sua oggettività, non è altro che un interesse al rispetto della legalità, che viene paludato da riferimenti soggettivi (utilità di ripetere la procedura che il ricorrente si propone di conseguire con la deduzione di vizi che, ove fondati, sono in grado di travolgere l'intera gara), al fine di accreditarne la valenza personale, che è un requisito necessario per poter promuovere un ricorso giurisdizionale che comunque si atteggia in modo diverso e peculiare nelle procedure di pianificazione.
Alla luce di tale orientamento va rilevato che l'interesse a una immediata impugnazione di un P.R.G. va ancorato al dato della concreta ed effettiva lesività delle stesse, nel senso che le prescrizioni censurate devono incidere direttamente sulla proprietà del ricorrente ovvero, pur senza riguardarle direttamente, devono determinare un significativo decremento del loro valore di mercato o della loro utilità.
Non può, al contrario, ammettersi un generico interesse "strumentale" alla riedizione dell'attività di pianificazione del territorio comunale, connesso alla semplice qualità di proprietario di un suolo comunque ricadente nel territorio medesimo (ancorché non immediatamente inciso dalle prescrizioni urbanistiche censurate).
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L'autonoma impugnativa degli atti a contenuto generale è configurabile soltanto quando sussista una lesione immediata e diretta delle posizioni dei destinatari. Ove, peraltro, l'incertezza del contenuto degli atti medesimi dia luogo a dubbi interpretativi tali che non possa essere desunta chiaramente l'immediata e concreta lesività, deve, a garanzia dei privati, ritenersi ammissibile il ricorso avverso atti e/o comportamenti applicativi che incidano nella sfera degli interessati.
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Un piano regolatore generale o uno strumento urbanistico una volta adottato, nella misura in cui è suscettibile di applicazione, o in cui non necessita di ulteriori atti esecutivi, in quanto per il suo contenuto ha già in sé immediata portata prescrittiva (o limitativa, come in caso di esclusione di attività edificatorie in via generale consentite dalla legislazione regionale), è immediatamente lesivo e direttamente impugnabile.
È immediatamente impugnabile lo strumento urbanistico quando dalla sua adozione consegue la eliminazione o limitazione di alcune facoltà proprie del diritto di proprietà in forza delle previsioni vincolistiche in esso racchiuse od in forza del suo valore derogatorio rispetto ad una disciplina permissiva di carattere generale.
Si è ritenuto così che il proprietario di aree edificabili, poste all'interno del territorio oggetto di pianificazione urbanistica di dettaglio, ha interesse ad impugnarne il relativo provvedimento, segnatamente nel caso in cui il Comune fissi regole direttamente conformative della capacità edificatoria del ricorrente.
In modo analogo si è ritenuto che sussista l'interesse a ricorrere contro un piano di lottizzazione, qualora una disposizione del regolamento edilizio, subordinando ogni attività edificatoria alla previa redazione di un piano unitario, abbia creato in capo al ricorrente l' interesse legittimo a partecipare attivamente all'attività di pianificazione, o in sede di iniziativa, se essa assume la forma di lottizzazione, o in sede di apporto collaborativo (osservazioni o opposizioni) se essa assume la forma del piano particolareggiato o del piano quadro.
Con impostazione più restrittiva si è ritenuto che le prescrizioni di dettaglio contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale comunale, che, per la loro natura regolamentare, sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo, possono formare oggetto di censura in occasione della impugnazione di quest'ultimo; lo stesso non si può affermare, invece, in riferimento alle disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata.
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L'interesse a un’immediata impugnazione di un p.r.g. (o di un atto analogo) va ancorato al dato della concreta ed effettiva lesività delle prescrizioni di piano, nel senso che le prescrizioni censurate devono incidere direttamente sulla proprietà del ricorrente ovvero, pur senza riguardarle direttamente, devono determinare un significativo decremento del loro valore di mercato o della loro utilità non potendo, al contrario, ammettersi un generico interesse "strumentale" alla riedizione dell'attività di pianificazione del territorio comunale, connesso alla semplice qualità di proprietario di un suolo comunque ricadente nel territorio medesimo (ancorché non immediatamente inciso dalle prescrizioni urbanistiche censurate).
Resta fermo invece che sono inammissibili le censure alle prescrizioni del p.r.g. (o di atto analogo) che disciplinano aree non di proprietà del ricorrente e per le quali non sia chiarito quale sia l’interesse all’impugnazione.
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Sussiste l'interesse a ricorrere contro le varianti agli strumenti di pianificazione urbanistica, anche se riguardano aree non di proprietà del ricorrente, allorché la nuova destinazione incida in qualche modo sul godimento o sul valore di mercato dell'area, o comunque su interessi propri del ricorrente stesso, come quello alla salute o al valore ambientale.

Sono legittimati ad impugnare i provvedimenti urbanistico-edilizi i soggetti che vantino un interesse personale, diretto ed attuale all'annullamento dell'atto -perché proprietari dei fondi, più in generale, secondo l'indirizzo che ormai prevale, per essere titolari di diritti reali su immobili situati nella zona interessata dalla costruzione assentita, o anche per il solo fatto di trovarsi con la zona stessa in una situazione di stabile collegamento o di essere insediati abitativamente in essa- che lamentino una lesione dei valori urbanistici, intesi in senso ampio, garantiti dalle previsioni urbanistiche relative alla zona.
Analizzando più specificamente la posizione legittimante, va rilevato che quanto alla legittimazione a ricorrere essa ben può ritenersi sussistente per la società ricorrente proprietaria di suoli ricadenti nel Comune la cui delibera di applicazione del Piano casa è impugnata.
L’interesse a ricorrere richiede invece una disamina ulteriore.
L’Amministrazione competente all’istruttoria ha eccepito che nella specie l’atto impugnato –avente portata generale se non carattere normativo- non sarebbe lesivo in difetto di un atto applicativo.
La società ricorrente ha fatto valere la propria posizione di operatore del settore.
In primo luogo va rilevato che l’atto di cui all’art. 5, comma 6, della legge regionale n. 13 del 2009 non ha valore normativo, essendo motivato, e volto solo ad individuare parti di territorio nelle quali escludere l’applicabilità delle norme del Piano casa.
Esso ha quindi valore di un atto di pianificazione derogatorio rispetto a potenzialità edificatorie fissate in via generale ed astratta dalla legge regionale.
In giurisprudenza su pianificazione ed interesse a ricorrere si sono avute ricostruzioni differenti: di recente si è messo in rilievo che nel contenzioso avente ad oggetto procedure di pianificazione urbanistica, non sono direttamente trasferibili le ricostruzioni sulla natura dell'interesse strumentale svolte nell'ambito delle questioni riguardanti gli atti di una procedura concorsuale o selettiva, trattandosi di situazioni profondamente differenti, in quanto, in queste ultime fattispecie, il ricorrente mira al perseguimento di un'utilità (aggiudicazione dell'appalto o posizionamento utile in graduatoria) che l'Amministrazione ha attribuito ad altro soggetto o ad altri soggetti specificamente individuati, nell'ambito di una procedura competitiva la cui ripetizione è ex se suscettibile di formare oggetto di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato, mentre tali considerazioni non possono estendersi alla pianificazione urbanistica che attiene a posizioni riguardanti un’intera comunità ed un vasto territorio, assunte in base a valutazioni che potrebbero anche non essere ripetute non essendovi un obbligo simile a quello di rinnovazione delle operazioni di gara (Consiglio Stato, sez. IV, 12.10.2010, n. 7439).
Tale ricostruzione merita condivisione.
Va ricordata la ricostruzione critica della nozione di interesse strumentale effettuata dalla Sezione quarta del Consiglio di Stato nella sentenza prima citata.
La Sezione quarta nella sentenza citata ha espresso le sue perplessità in merito alla ricostruzione dommatica del concetto di interesse strumentale con argomenti che l’Adunanza Generale condivide.
In particolare si è fatto riferimento alla pronuncia Consiglio di Stato, sez. IV, 26.11.2009, n. 7441 secondo la quale il c.d. interesse strumentale alla rinnovazione della gara, riguardato nella sua oggettività, non è altro che un interesse al rispetto della legalità, che viene paludato da riferimenti soggettivi (utilità di ripetere la procedura che il ricorrente si propone di conseguire con la deduzione di vizi che, ove fondati, sono in grado di travolgere l'intera gara), al fine di accreditarne la valenza personale, che è un requisito necessario per poter promuovere un ricorso giurisdizionale che comunque si atteggia in modo diverso e peculiare nelle procedure di pianificazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4542).
Alla luce di tale orientamento va rilevato che l'interesse a una immediata impugnazione di un P.R.G. va ancorato al dato della concreta ed effettiva lesività delle stesse, nel senso che le prescrizioni censurate devono incidere direttamente sulla proprietà del ricorrente ovvero, pur senza riguardarle direttamente, devono determinare un significativo decremento del loro valore di mercato o della loro utilità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 31.12.2009, nr. 9301; id., 19.03.2009, nr. 1653; id., 21.05.2007, nr. 2572; id., 28.07.2005, nr. 4018).
Non può, al contrario (e come sarà di seguito argomentato), ammettersi un generico interesse "strumentale" alla riedizione dell'attività di pianificazione del territorio comunale, connesso alla semplice qualità di proprietario di un suolo comunque ricadente nel territorio medesimo (ancorché non immediatamente inciso dalle prescrizioni urbanistiche censurate).
Sorge poi l’ulteriore problema di verificare se l’atto generale sia impugnabile solo in presenza di un atto applicativo ovvero se, in ricorrenza di alcune specifiche condizioni di fatto, da individuarsi nell’incisione diretta delle previsioni pianificatorie sulla proprietà, sia ammissibile anche l’impugnazione diretta dell’atto generale.
E resta da verificare –questione di indubbia delicatezza- cosa debba intendersi per incisione diretta sull’interesse del proprietario.
Senza dubbio la presenza di un atto applicativo di diniego di facoltà edificatorie determina e sostanzia la posizione legittimante nel senso della sussistenza dell’interesse a ricorrere.
Ma l’assenza dell’atto applicativo non determina di per sé l’inesistenza dell’interesse a ricorrere.
Infatti anche in assenza di tale atto applicativo l’interesse ad impugnare un atto generale di pianificazione urbanistica può sussistere (ed il tema assume un aspetto particolarmente delicato poiché se si ammette tale impostazione –ossia l’immediata impugnabilità- la decorrenza del termine per impugnare diviene immediata, con correlativa eventuale inammissibilità dell’impugnazione dell’atto applicativo per tardiva impugnazione dell’atto presupposto).
Va da sé che l'autonoma impugnativa degli atti a contenuto generale è configurabile soltanto quando sussista una lesione immediata e diretta delle posizioni dei destinatari. Ove, peraltro, l'incertezza del contenuto degli atti medesimi dia luogo a dubbi interpretativi tali che non possa essere desunta chiaramente l'immediata e concreta lesività, deve, a garanzia dei privati, ritenersi ammissibile il ricorso avverso atti e/o comportamenti applicativi che incidano nella sfera degli interessati (Consiglio Stato, sez. V, 10.06.1989, n. 372).
Ciò premesso, rileva l’Adunanza Generale che un piano regolatore generale o uno strumento urbanistico una volta adottato, nella misura in cui è suscettibile di applicazione, o in cui non necessita di ulteriori atti esecutivi, in quanto per il suo contenuto ha già in sé immediata portata prescrittiva (o limitativa, come in caso di esclusione di attività edificatorie in via generale consentite dalla legislazione regionale), è immediatamente lesivo e direttamente impugnabile.
È immediatamente impugnabile lo strumento urbanistico quando dalla sua adozione consegue la eliminazione o limitazione di alcune facoltà proprie del diritto di proprietà in forza delle previsioni vincolistiche in esso racchiuse od in forza del suo valore derogatorio rispetto ad una disciplina permissiva di carattere generale.
Si è ritenuto così che il proprietario di aree edificabili, poste all'interno del territorio oggetto di pianificazione urbanistica di dettaglio, ha interesse ad impugnarne il relativo provvedimento, segnatamente nel caso in cui il Comune fissi regole direttamente conformative della capacità edificatoria del ricorrente (Consiglio Stato, sez. V, 04.05.1995, n. 695).
In modo analogo si è ritenuto che sussista l'interesse a ricorrere contro un piano di lottizzazione, qualora una disposizione del regolamento edilizio, subordinando ogni attività edificatoria alla previa redazione di un piano unitario, abbia creato in capo al ricorrente l' interesse legittimo a partecipare attivamente all'attività di pianificazione, o in sede di iniziativa, se essa assume la forma di lottizzazione, o in sede di apporto collaborativo (osservazioni o opposizioni) se essa assume la forma del piano particolareggiato o del piano quadro (Consiglio Stato, sez. IV, 19.05.1981 , n. 396).
Con impostazione più restrittiva si è ritenuto che le prescrizioni di dettaglio contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale comunale, che, per la loro natura regolamentare, sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo, possono formare oggetto di censura in occasione della impugnazione di quest'ultimo; lo stesso non si può affermare, invece, in riferimento alle disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (Consiglio Stato, sez. VI, 05.08.2005, n. 4159).
Nella specie non si è di fronte ad una pianificazione urbanistica di dettaglio o ad attività convenzionate ma ad una situazione che merita comunque di essere apprezzata positivamente, sotto il profilo dell’aspettativa edificatoria, per la società ricorrente e della conseguente lesività della sua negazione per atto di piano.
Infatti la società ha impugnato una delibera che dispone in via generale sulla possibile deroga ad una legge regionale attuativa del c.d. Piano casa che, in assenza di tale deroga, avrebbe concesso ai proprietari ampie possibilità di sviluppo volumetrico degli edifici esistenti.
Ne deriva che la circostanza che difetti nella specie un atto applicativo non è tuttavia rilevante in senso assolutamente preclusivo dell’interesse a ricorrere, essendo sufficiente a radicare la legittimazione al ricorso sia la circostanza che la delibera impugnata si applichi anche all’area di proprietà della società ricorrente incidendo su aspettative edificatorie qualificate, sia il rilievo che questa esercita in zona la propria attività imprenditoriale.
Evidente è la sussistenza dell'interesse al ricorso, quantomeno parziale, poiché la ricorrente persegue il fine del mantenimento della disciplina urbanistica della zona stabilita dalla legge regionale n. 13 del 2009, che le era sicuramente più favorevole e che è stata esclusa dal Comune in riferimento ad alcune aree.
Ciò in relazione al già menzionato orientamento –da condividersi– secondo il quale l'interesse a un’immediata impugnazione di un p.r.g. (o di un atto analogo) va ancorato al dato della concreta ed effettiva lesività delle prescrizioni di piano, nel senso che le prescrizioni censurate devono incidere direttamente sulla proprietà del ricorrente ovvero, pur senza riguardarle direttamente, devono determinare un significativo decremento del loro valore di mercato o della loro utilità non potendo, al contrario, ammettersi un generico interesse "strumentale" alla riedizione dell'attività di pianificazione del territorio comunale, connesso alla semplice qualità di proprietario di un suolo comunque ricadente nel territorio medesimo (ancorché non immediatamente inciso dalle prescrizioni urbanistiche censurate) (Consiglio Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546).
Resta fermo invece che sono inammissibili le censure alle prescrizioni del p.r.g. (o di atto analogo) che disciplinano aree non di proprietà del ricorrente e per le quali non sia chiarito quale sia l’interesse all’impugnazione (Consiglio Stato, sez. IV, 02.03.2001, n. 1162).
Ne deriva che, nella specie, sono inammissibili le censure relative alle zone A centro storico e BP2, BP3, BP4 nonché le censure avanzate con riferimento ai CRU ed ai CRUI ed ancora per gli interventi soggetti a piano attuativo (vedasi ricorso ove si specifica che la società ricorrente è proprietaria di immobili ricadenti in aree B1, BP1 e BV1 e memoria del Comune ove si eccepisce l’inammissibilità del ricorso con riferimento alle altre aree diverse da quelle prima indicate).
Né la società ricorrente ha provato un suo interesse anche indiretto all’eliminazione di tali prescrizioni.
Tanto sarebbe stato necessario in ossequio all’insegnamento per cui sussiste l'interesse a ricorrere contro le varianti agli strumenti di pianificazione urbanistica, anche se riguardano aree non di proprietà del ricorrente, allorché la nuova destinazione incida in qualche modo sul godimento o sul valore di mercato dell'area, o comunque su interessi propri del ricorrente stesso, come quello alla salute o al valore ambientale (Consiglio Stato, sez. IV, 10.08.2004, n. 5516).
Nel merito poi va rilevato che il Comune di Seregno non ha manifestato una volontà di precludere in modo assoluto sul suo territorio l’applicazione della legge regionale n. 13 del 2009, non essendo poi illegittimo, nell’individuare le parti del proprio territorio nelle quali il Piano casa in tutto od in parte non trova applicazione, fare riferimento alle aree come individuate dagli strumenti urbanistici esistenti (in particolare alle norme ed alle classificazioni delle aree poste nelle NTA vigenti nel Comune).
Alcune zone sono escluse già dalla legge regionale (ad es. i centri storici e le zone individuate dagli strumenti urbanistici vigenti o adottati quali nuclei di antica formazione: in proposito cfr. art. 3 della legge regionale citata) sicché è evidente che anche il Comune nell’adottare la delibera di cui all’art. 5, comma 6, della legge regionale della Lombardia n. 13 del 2009 può fare riferimento agli strumenti urbanistici ed alle classificazioni delle NTA, non potendosi accettare un’interpretazione della normativa secondo la quale il Comune sarebbe legittimato ad escludere solo specifiche parti del territorio (difficile da individuarsi un limite) e non potrebbe fare riferimento alla vigente zonizzazione.
Resta fermo che la disciplina posta dal Comune non può determinare preclusioni o limiti assoluti all’operatività della disciplina del Piano casa regionale.
Ma tanto non è avvenuto nel caso di specie.
Più in particolare va rilevato che il Comune, con motivazione ragionevole tenuto conto della natura dell’area disciplinata quale già definita dalle NTA, ha escluso l’applicazione dell’art. 3 della predetta legge regionale nelle zone B1, al fine di tutelare le loro peculiarità storiche, paesaggistico ambientali ed urbanistiche ed ha disposto che tale esclusione non sia assoluta perché sono stati fatti salvi gli interventi che rispettino l’altezza delle gronde esistenti, con la sola possibilità di allineamento alla gronda adiacente se di altezza superiore.
La finalità dell’esclusione della zona BP1 può individuarsi anche -come si evince complessivamente dalla relazione allegata alla delibera- nell’esigenza di evitare gravi ripercussioni in termini di carichi urbanistici derivante dalla trasformazione di destinazioni produttive in destinazioni residenziali sicché anche sotto questo profilo appare ragionevole ed immune da censure la specifica motivazione dell’atto.
Va ricordato, nella specie, che la legge regionale della Lombardia richiede una specifica motivazione sul punto, a sostegno dell’individuazione delle parti del territorio nelle quali le disposizioni indicate nell’art. 6 non trovano applicazione (art. 5, comma 6, della legge regionale n. 13 del 2009 ).
Sicché ammesso –come si è detto- che le parti del territorio possano anche astrattamente coincidere con le zone individuate dalla strumentazione urbanistica in via generale, occorre tuttavia che l’ente comunale chiarisca concretamente per quali ragioni è addivenuto a tale scelta.
Ciò il Comune ha fatto nella relazione allegata alla delibera.
Vanno a questo proposito riportate testualmente le motivazioni della relazione allegata alla delibera impugnata.
Circa la zona B1 la relazione si esprime nel modo seguente: “Propone inoltre di escludere dall’applicazione dell’art. 3 le Cortine edilizie ricadenti nelle zone residenziali B1 B2 B3.
Al fine di conservare la struttura urbana consolidata, mantenere l’omogeneità insediativa, preservare i fronti continui di edificazione e consentire microtrasformazioni che garantiscano la conservazione del principio insediativo esistente e consentano la riqualificazione dell’immagine della strada.
Sono fatti salvi gli interventi che rispettino le altezze delle grondaie esistenti, con la sola possibilità di allineamento alla gronda adiacente se di altezza superiore
”.
Il Comune ha poi escluso dall’applicazione del “piano casa” anche –e ciò rileva per quanto prima detto circa l’incidenza diretta sull’interesse proprietario- la zona BP1.
Circa la zona BP1 si è deciso di escludere tali aree motivando nel modo seguente: “Zone produttive esistenti BP1 … gli edifici produttivi esistenti nelle zone BP1… ubicate in zona a prevalente destinazione residenziale in quanto l’eventuale riuso potrebbe comportare la dismissione delle attività produttive esistenti e, in assenza di una pianificazione attuativa, avere gravi ripercussioni in termini di carichi urbanistici, carenza di servizi e parcheggi anche in relazione all’elevata consistenza volumetrica degli edifici”.
La scelta effettuata, motivata nei suddetti limiti, risulta ben concreta e specifica; essa poi non è generalizzata a tutto il territorio comunale che è suddiviso in ben sette zone.
Inoltre la deroga alla legge regionale, non assoluta in zona B1, è adottata per salvaguardare le cortine esistenti e, fra l’altro, per mantenere omogeneità insediativa, mentre nella zona BP1 è adottata per mitigare i carichi urbanistici.
Ciò è, in definitiva, conforme al ruolo riservato dalla Costituzione al Comune, quale ente titolare delle funzioni amministrative nel disegno del c.d. federalismo d’esecuzione (art. 118 Cost. ed art. 5, comma 6, della legge regionale n. 13 del 2009) sicché il potere di deroga va letto nel quadro di un generale ruolo dell’ente locale –riconosciuto dalla stessa legislazione regionale lombarda- di salvaguardia delle esigenze della comunità amministrata anche quando, nel governo del territorio, per scelte nazionali, prevalgano spinte e direttive chiare verso una maggiore suscettibilità edificatoria dei suoli.
Nessuno sviamento od eccesso di potere quindi sussiste nella specie ma solo l’esercizio delle potestà assegnate al Comune dalla legge regionale in ossequio al dettato costituzionale sul riparto di funzioni fra amministrazione regionale (cui spetta legiferare) e locale (cui spetta pur sempre amministrare ossia concretizzare il disegno legislativo).
In ultimo va rilevato che la prescrizione della delibera in esame che, dopo aver dettato una disciplina di indici di fabbricabilità dei parcheggi (1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione), prevede un nesso di pertinenzialità avuto riguardo al lotto in cui preesistono i fabbricati oggetto di intervento ed escludendo la monetizzazione, è legittima.
Essa appare esercizio di facoltà concesse al Comune dalla legge regionale più volte citata che, all’art. 5, comma 6, legittima il Comune a fornire “prescrizioni circa modalità di applicazione della presente legge con riferimento alla necessità di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali”.
Né rileva la legge urbanistica generale n. 12 del 2005 atteso il valore specifico della prescrizione in esame volta ad ovviare ad una situazione di eccezionale ed improvviso incremento abitativo, a fini di ordinato sviluppo dell’urbe.
La mancata riduzione degli oneri di urbanizzazione poi non è illegittima alla luce dell’art. 5, comma 4, della legge regionale n. 13 del 2009 che riconosce ai Comuni una mera facoltà di ridurre tali oneri e non un obbligo (Consiglio di stato, Adunanza Generale, parere 06.06.2012 n. 2735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARI: Il danno da calunnia. Responsabilità civile e onere probatorio.
La semplice presentazione di una denuncia penale, poi archiviata, non costituisce, di per sé, fonte di responsabilità e risarcimento del danno, dovendo necessariamente ricorrere, al fine della qualificazione della denuncia in termini di calunnia, il dolo e non semplicemente la colpa del denunciante.
Da ciò deriva che il denunciante non incorre in responsabilità civile se non quando, agendo con dolo, si rende colpevole di calunnia, essendo irrilevante la mera colpa, determinata da leggerezza o avventatezza ed essendo richiesto, per contro, per l’imputabilità del reato di calunnia ed il conseguente risarcimento del danno, la precisa volontà dolosa del denunciante.
È onere del danneggiato dimostrare tutti i presupposti dell’illecito addebitato al convenuto, cioè non solo la materialità delle accuse, ma anche la consapevolezza della loro falsità ed infondatezza
(Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 12.01.2012 n. 300).
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IL COMMENTO/ R. Foffa: Il danno da calunnia presuppone la prova della sussistenza di tutti gli elementi, soggettivi ed oggettivi, della fattispecie criminosa. La sentenza in commento si sofferma, con estrema precisione, sul contenuto del relativo onere probatorio, che è a carico del danneggiato (link a www.ipsoa.it).

URBANISTICA: È illegittimo, per eccesso di potere, il provvedimento con cui il comune non adotta una congrua motivazione, ma si limita a "prendere atto" dell'intervenuta decadenza del termine quinquennale di vigenza della convenzione di lottizzazione, respingendo le istanze della cooperativa interessata volte all'autorizzazione all'esecuzione delle opere di urbanizzazione e di variante al piano, qualora vi fosse stata una richiesta di proroga del termine e il comune avesse già iniziato l'esame per l'adozione della variante, sospendendolo in attesa delle risultanze di un contenzioso "inter partes".
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La scadenza del termine di esecuzione del piano di lottizzazione, se determina la sua inefficacia, non per ciò solo comporta l'irrilevanza del piano medesimo sotto il profilo della specifica qualificazione dell'interesse di colui che sottoscrisse la convenzione a veder mantenuta la destinazione urbanistica data dal piano regolatore all'area ed alla corrispondente cura dell'amministrazione a non compromettere quell'interesse senza la sua ponderazione insieme con l'interesse pubblico.
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La scadenza d'una convenzione di lottizzazione edilizia già attuata non fa venir meno gli obblighi da essa scaturenti, con riguardo al mantenimento anche per il futuro della sistemazione edilizia prevista per l'area lottizzata.

Invero non ignora il Collegio il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’amministrazione è condizionata, nella modifica del piano regolatore, dalla preesistente sussistenza di un piano di lottizzazione, essendosi detto, in giurisprudenza che “È illegittimo, per eccesso di potere, il provvedimento con cui il comune non adotta una congrua motivazione, ma si limita a "prendere atto" dell'intervenuta decadenza del termine quinquennale di vigenza della convenzione di lottizzazione, respingendo le istanze della cooperativa interessata volte all'autorizzazione all'esecuzione delle opere di urbanizzazione e di variante al piano, qualora vi fosse stata una richiesta di proroga del termine e il comune avesse già iniziato l'esame per l'adozione della variante, sospendendolo in attesa delle risultanze di un contenzioso "inter partes" (TAR Lazio, sez. I, 01.06.1999, n. 1155).
Del pari si è affermato, in giurisprudenza, che “La scadenza del termine di esecuzione del piano di lottizzazione, se determina la sua inefficacia, non per ciò solo comporta l'irrilevanza del piano medesimo sotto il profilo della specifica qualificazione dell'interesse di colui che sottoscrisse la convenzione a veder mantenuta la destinazione urbanistica data dal piano regolatore all'area ed alla corrispondente cura dell'amministrazione a non compromettere quell'interesse senza la sua ponderazione insieme con l'interesse pubblico” (TAR Abruzzo L'Aquila, 30.12.1994, n. 1014);
La scadenza d'una convenzione di lottizzazione edilizia già attuata non fa venir meno gli obblighi da essa scaturenti, con riguardo al mantenimento anche per il futuro della sistemazione edilizia prevista per l'area lottizzata” (Consiglio Stato, sez. V, 20.03.2000, n. 1509) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 16.04.2004 n. 305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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