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AGGIORNAMENTO AL 24.09.2012 |
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UTILITA' |
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PROGETTUALI:
Disciplinari–tipo e mansionari per le prestazioni
professionali dell’Ingegnere (committenti pubblici e
privati). On-line tutte le schede singole (in formato Word)
per il proprio utilizzo (link a www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Riqualificazione
energetica e detrazione fiscale del 55%: arriva la nuova
guida aggiornata dell’Agenzia delle Entrate.
L’agevolazione fiscale per la riqualificazione energetica
consiste nel riconoscimento di detrazioni d’imposta pari al
55% delle spese sostenute per gli interventi che aumentano
il livello di efficienza energetica degli edifici esistenti.
Chi può fruire di queste detrazioni? A quali tipologie di
lavori spettano queste agevolazioni? Cosa fare per
ottenerle?
A queste domande risponde l’Agenzia delle Entrate con la
nuova versione, aggiornata ad agosto 2012, della guida “Ristrutturazioni
Edilizie: le agevolazioni fiscali”, in cui
sono descritte le tipologie di intervento che usufruiscono
della detrazione e gli adempimenti necessari per ottenerla.
Ricordiamo che le disposizioni che regolano la materia dei
benefici fiscali per il risparmio energetico sono state più
volte modificate e, di conseguenza, negli ultimi anni sono
cambiate anche le procedure da seguire per poterne
usufruire.
Inoltre, dal primo luglio 2013 l’agevolazione fiscale del
55% sarà sostituita con la detrazione fiscale del 36%
prevista per le spese di ristrutturazioni edilizie che non
avrà più scadenza.
La guida aggiornata dell’Agenzia delle Entrate è così
strutturata:
● L’agevolazione per la riqualificazione energetica
●
Gli interventi interessati all’agevolazione
●
Tipologia di spesa e relativa detrazione
●
Adempimenti necessari per ottenere la detrazione
(20.09.2012 - link a www.acca.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: G.
Bertagna,
LE BUSTE PAGA E LA CONVENZIONE CON IL MEF (tratto dalla
newsletter di www.publika.it n. 50 - settembre 2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: M.
Acquasaliente,
Note sulla decadenza del permesso di costruire
(link a www.venetoius.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
A. Muratori,
VIA e AIA: affinità e differenze di finalità e contenuti tra
giurisprudenza e norme «espresse» (link a
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
M. Grisanti,
Non ultimare le opere edili nei termini prescritti da leggi,
regolamenti e/o permesso di costruire è reato? (link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.
Amendola,
Bonifica di siti contaminati e sanzioni penali (link a www.industrieambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.
De Falco,
Nozione di rifiuto e di sottoprodotto, classificazione dei
rifiuti, particolari tipologie di materiali ed ambito di
applicazione della normativa
(tratto da e link a www.industrieambiente.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
G.U. 21.09.2012 n. 221 "Regolamento recante la disciplina
dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo"
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
decreto 10.08.2012 n. 161).
---------------
Semplificazioni al via
in cantiere.
Il materiale da scavo non va smaltito ma può essere riusato.
In Gazzetta Ufficiale il regolamento
che attua il Cresci Italia. E punta sui piani di utilizzo.
Materiali da scavo non più considerati come rifiuti, ma come
sottoprodotti. Gestiti attraverso piani di utilizzo che le
imprese dovranno predisporre e proporre alle amministrazioni
che autorizzano la realizzazione dell'opera.
Con il decreto
161 del 2012, pubblicato sulla G.U. n. 221 di ieri,
“Regolamento recante la disciplina dell'utilizzazione delle
terre e rocce da scavo”, in vigore dal 6 ottobre prossimo,
il ministero dell'ambiente dà attuazione all'articolo 49 del
decreto-legge 24.01.2012, n. 1 (Cresci Italia). “Al
fine di migliorare l'uso delle risorse naturali e prevenire
(_) la produzione di rifiuti”, si legge nel provvedimento,
“il presente Regolamento stabilisce (_) i criteri
qualitativi da soddisfare affinché i materiali di scavo (_)
siano considerati sottoprodotti e non rifiuti” nonché “le
procedure e le modalità affinché la gestione e l'utilizzo
dei materiali da scavo avvenga senza pericolo per la salute
dell'uomo e senza recare pregiudizio all'ambiente”.
Un disciplina dal cui ambito di applicazione sono comunque
esclusi i rifiuti provenienti direttamente dall'esecuzione
di interventi di demolizione di edifici o altri manufatti
preesistenti, onde evitare che materiali pericolosi non
vengano smaltiti secondo le più restrittive norme di legge.
In conformità ai piani di utilizzo, il materiale da scavo
potrà essere riutilizzato nel corso dell'esecuzione della
stessa opera, nel quale è stato generato, o di un'opera
diversa, per la realizzazione di reinterri, riempimenti,
rimodellazioni, rilevati, ripascimenti, interventi a mare,
miglioramenti fondiari o viari oppure altre forme di
ripristini e miglioramenti ambientali. Ma anche in processi
produttivi, in sostituzione di materiali di cava.
Da
sottolineare che il nuovo modello imperniato sui pianti di
utilizzo non sarà a costo zero per le imprese. L'Istituto
superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA),
infatti, entro tre mesi predisporrà un tariffario nazionale
da applicare per la copertura dei costi sopportati
dall'Agenzia regionale di protezione ambientale (Arpa) o
dall'Agenzia provinciale di protezione ambientale (Appa)
territorialmente competente per l'organizzazione e lo
svolgimento delle attività legate appunto ai piani di
utilizzo, individuando il costo minimo e un costo
proporzionale ai volumi di materiale da scavo. In attesa, i
costi sono definiti dai tariffari delle Arpa o Appa
territorialmente competenti.
Tornando al piano di utilizzo,
esso è presentato dall'impresa almeno novanta giorni prima
dell'inizio dei lavori per la realizzazione dell'opera. La
trasmissione (il modello è allegato al dm) può avvenire, a
scelta del proponente, anche solo per via telematica. La
procedura è abbastanza complessa e lunga e soprattutto
prevede regole ad hoc per i casi, ad esempio, di siti in
cui, per fenomeni naturali, nel materiale da scavo vi siano
particolari concentrazioni di elementi che superino le
concentrazioni soglia di contaminazione. O per il caso di
siti oggetto di interventi di bonifica o di ripristino
ambientale. Il piano ha una durata limitata. Una volta
scaduto viene meno la qualifica di sottoprodotto del
materiale da scavo con conseguente obbligo di gestire il
materiale come rifiuto e quindi di smaltirlo. Tale effetto
si produce anche nel caso di violazione degli obblighi
assunti dall'impresa nel piano.
Va comunque detto che in
situazioni di emergenza dovute a causa di forza maggiore, la
sussistenza dei requisiti può essere attestata mediante una
dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà. L'avvenuto
utilizzo del materiale in conformità al piano di utilizzo è
attestato dall'esecutore mediante una dichiarazione
sostitutiva dell'atto di notorietà. A livello di
disposizioni transitorie, il decreto prevede che entro i
centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del
regolamento, i progetti per i quali e' in corso una
valutazione di impatto ambientale relativa
all'utilizzabilità del materiale da scavo, possono essere
assoggettati alla disciplina del piano di utilizzo
(articolo ItaliaOggi del
22.09.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: G.U.
18.09.2012 n. 218 "Ulteriori disposizioni correttive ed
integrative al decreto legislativo 02.07.2010, n. 104,
recante codice del processo amministrativo, a norma
dell’articolo 44, comma 4, della legge 18.06.2009, n. 69" (D.Lgs.
14.09.2012 n. 160). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI -
LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il debito derivante da lodo arbitrale rituale in
materia di lavori pubblici è riconoscibile quale debito
fuori bilancio attesa l’equiparabilità, quanto
all’efficacia, alla sentenza.
Per la copertura dello stesso è possibile applicare
dell’avanzo di amministrazione disponibile, ovviamente nel
pieno rispetto dei presupposti di legge (cfr. art. 187 TUEL)
e tenendo in considerazione l’obbligo giuridico del Comune
di rispettare gli obblighi derivanti dal patto di stabilità
interno.
Nella delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio
occorre individuare il soggetto responsabile della
formazione della fattispecie debitoria in questione.
A tale individuazione deve fare seguito l’adozione delle
necessarie misure a tutela del patrimonio dell’ente (ed, in
particolare, la messa in mora del debitore), provvedendo a
trasmettere alla Procura regionale della Corte dei Conti
competente per territorio la delibera di riconoscimento del
debito fuori bilancio in ossequio ai vigenti obblighi di
legge.
Il Sindaco del Comune di Cisano
Bergamasco (BG) ha posto alla Sezione una richiesta di
parere avente ad oggetto le modalità e gli effetti del
riconoscimento quale debito fuori bilancio dell’obbligazione
in capo all’ente di pagare una somma di denaro a seguito di
condanna contenuta in un lodo arbitrale.
Più nel dettaglio, l’organo rappresentativo dell’ente
precisa quanto segue.
E’ pervenuto al Comune da parte del Collegio arbitrale un
lodo relativo a maggiori somme dovute per la costruzione di
una scuola materna.
Dall’esame del lodo si evince che l’Amministrazione Comunale
deve corrispondere all’impresa aggiudicataria dei lavori la
somma di euro 411.978,17 oltre ad euro 76.000 circa per
compensi al Collegio arbitrale, CTU, spese per marche da
bollo, trasferte, etc.. per un totale complessivo di euro
487.978,17.
Il Sindaco precisa che, a tre mesi dalla nomina, deve
fronteggiare una situazione che porterà al sicuro sforamento
del patto di stabilità con gravi conseguenze sia a livello
di erogazione di servizi alla cittadinanza, sia a livello di
futura gestione amministrativa che subirà sanzioni pesanti
quali la decurtazione del Fondo di riequilibrio, la mancata
assunzione di personale, l’impossibilità di contrarre mutui,
la decurtazione delle indennità, etc..
Tutto ciò premesso, al fine di avere un quadro preciso su
quale comportamento attuare al fine di non incorrere in
responsabilità contabili, tenuto conto che l’Amministrazione
intende ricorrere in appello per nullità del lodo, chiedendo
la sospensiva dello stesso, il Sindaco pone alla Sezione i
seguenti quattro quesiti.
1) Indipendentemente dal ricorso in
appello, il Consiglio Comunale deve riconoscere subito il
debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194 TUEL?
2) Per la copertura finanziaria dello stesso è possibile
ricorrere all’avanzo di amministrazione, provvedendo al
pagamento mediante un piano di rateizzazione della durata di
tre anni finanziari da convenire con la controparte?
3) Tenuto conto che l’impiego dell’avanzo di amministrazione
porterebbe al sicuro sforamento del patto di stabilità, è
forse più utile provvedere ad aumentare le imposte e le
tasse o prevedere un aumento di entrate relative ad
eventuali alienazioni di immobili, tenuto conto che la
riduzione della spesa fissa è praticamente impossibile?
4) L’azione di responsabilità nei confronti di chi ha
provocato tale debito è da intraprendere nella stessa
delibera di riconoscimento del debito?
Per quanto concerne il primo quesito, il Sindaco
chiede se il Consiglio Comunale debba riconoscere subito il
debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194 TUEL.
Orbene, la Sezione osserva che nel caso di debiti derivanti
da sentenza esecutiva il significato del provvedimento del
Consiglio Comunale non è quello di riconoscere una
legittimità del debito che già esiste, ma di ricondurre al
sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che
è maturato all’esterno di esso.
In altri termini, la valenza della delibera consiliare ex
art. 194, comma 1, lett. a), T.U.E.L. non è quella di
riconoscere la legittimità di una obbligazione, la cui
validità è stata oggetto di delibazione in sede giudiziaria,
quanto una funzione giuscontabilistica individuabile nella
salvaguardia degli equilibri di bilancio (mediante
l’individuazione delle risorse necessarie a finanziare il
debito), ed anche garantista consistente nell’accertamento
di chi sia responsabile della formazione della fattispecie
debitoria che si è formata al di fuori della ordinaria
contabilità dell’ente (cfr. la delibera della Sezione n.
1/2007). Deve, altresì, aggiungersi che, in ogni caso, dal
riconoscimento di legittimità discende l’obbligo, per l’ente
pubblico, di contabilizzazione e di quantificazione
finanziaria del debito riconosciuto, in virtù dei principi
di universalità, veridicità ed attendibilità del bilancio.
Peraltro, il riconoscimento della legittimità del debito
fuori bilancio derivante da sentenza esecutiva non
costituisce acquiescenza alla stessa, e pertanto non esclude
l’ammissibilità dell’impugnazione. Il medesimo
riconoscimento deve essere accompagnato dalla riserva di
ulteriori impugnazioni ove possibili e opportune.
Ne deriva che nel caso di sentenza esecutiva, al fine di
evitare il verificarsi di conseguenze dannose per l’ente per
il mancato pagamento nei termini previsti, la convocazione
del Consiglio Comunale per l’adozione delle misure di
riequilibrio deve essere disposta immediatamente e in ogni
caso in tempo utile per effettuare il pagamento nei termini
di legge ed evitare la maturazione di oneri ulteriori a
carico del bilancio dell’ente.
Tali principi possono essere estesi alla riconoscibilità
quale debito fuori bilancio di un debito derivante da lodo
arbitrale rituale in materia di lavori pubblici, attesa
l’equiparabilità, quanto all’efficacia, alla sentenza (Corte
Conti, Sez. Lombardia, delib. n. 910/2009).
In relazione al secondo quesito, il Sindaco si
interroga se per la copertura finanziaria del debito fuori
bilancio in esame sia possibile ricorrere all’avanzo di
amministrazione, provvedendo al pagamento mediante un piano
di rateizzazione della durata di tre anni finanziari da
convenire con la controparte.
Ai sensi dell’art. 194, comma 2, TUEL per il pagamento del
debito fuori bilancio l’ente può provvedere anche mediante
un piano di rateizzazione, della durata di tre anni
finanziari, compreso quello in corso, convenuto con i
creditori. Per il finanziamento delle spese suddette, in
ossequio all’art. 193, comma 3, TUEL, possono essere
utilizzate per l’anno in corso e per i due successivi tutte
le entrate e le disponibilità, ad eccezione di quelle
provenienti dall’assunzione di prestiti e di quelle aventi
specifica destinazione per legge, nonché i proventi
derivanti dall’alienazione di beni patrimoniali disponibili.
E’ possibile provvedere alla copertura della spesa in
argomento mediante l’applicazione dell’avanzo di
amministrazione disponibile, ovviamente nel pieno rispetto
dei presupposti di legge (cfr. art. 187 TUEL).
Passando al terzo quesito, il Sindaco -tenuto conto
che l’impiego dell’avanzo di amministrazione porterebbe al
sicuro sforamento del patto di stabilità– chiede se sia più
utile provvedere ad aumentare le imposte e le tasse o
prevedere un aumento di entrate relative ad eventuali
alienazioni di immobili, tenuto conto che la riduzione della
spesa fissa è praticamente impossibile.
Ribadita la declaratoria di inammissibilità di siffatto
quesito nella parte in cui involge profili di
discrezionalità politica rientranti nell’esclusiva sfera
dell’ente, il Collegio rammenta il cogente obbligo giuridico
in capo alla Civica Amministrazione –anche in sede di
reperimento delle risorse a copertura del debito in esame-
di rispettare il patto di stabilità interno sin dalla
predisposizione del bilancio di previsione (oltre che,
ovviamente, all’esito della gestione), adottando gli
opportuni provvedimenti.
Infine, con il quarto quesito l’organo
rappresentativo dell’ente chiede se l’azione di
responsabilità nei confronti di chi ha provocato tale debito
debba essere intrapresa nella stessa delibera di
riconoscimento del debito.
A questo proposito, il Collegio ribadisce innanzitutto
quanto già segnalato sub quesito n. 1, in merito alla
necessità di individuare, all’interno della delibera di
riconoscimento del debito fuori bilancio, il soggetto
responsabile della formazione della suddetta fattispecie
debitoria che si è formata al di fuori della ordinaria
contabilità dell’ente. A tale individuazione deve fare
seguito l’adozione delle necessarie misure a tutela del
patrimonio dell’ente (ed, in particolare, la messa in mora
del debitore), provvedendo a trasmettere alla Procura
regionale della Corte dei Conti della Lombardia la delibera
di riconoscimento del debito fuori bilancio in ossequio ai
vigenti obblighi di legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 18.09.2012 n. 401). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Rimborso spese viaggio Amministratori.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia
-interpellata dal Comune di Alserio sulla interpretazione
dell'art. 84, comma 3, del TUEL- con il
parere 20.08.2012 n. 377,
afferma quanto segue:
"Il testo letterale dell'art. 84, comma 3, del D.Lgs.
18/08/2000 n. 267, anche dopo la novella del 2010 (art. 5,
comma 9, del D.L. 78/2010), pare essere molto chiaro: 'Agli
amministratori che risiedono fuori del capoluogo del comune
ove ha sede il rispettivo ente spetta il rimborso per le
sole spese di viaggio effettivamente sostenute per la
partecipazione ad ognuna delle sedute dei rispettivi organi
assembleari ed esecutivi, nonché per la presenza necessaria
presso la sede degli uffici per lo svolgimento delle
funzioni proprie o delegate'.
Anche l'ultima parte di tale testo appare chiara, nel senso
che la spesa di viaggio deve essere stata causata dal
diritto-dovere di svolgere imprescindibilmente 'funzioni
proprie' (ad esempio quelle del Sindaco) o 'delegate' (con
riferimento, evidentemente, agli Assessori). Il rimborso è
dovuto per le 'sole spese di viaggio': questa espressione è
stata indirettamente rafforzata dalla successiva
legislazione, che ha voluto regolare in modo diverso le
spese di missione e la forfetizzazione delle spese. Sono
rimborsabili solo le spese effettive e non anche quelle
determinate in modo forfettario. E' rimasto, dunque, il
rimborso delle spese di viaggio per 'gli amministratori che
risiedono fuori del capoluogo del comune ove ha sede il
rispettivo ente'.
Questo indirizzo interpretativo è stato confermato e
ampiamente motivato con la deliberazione n. 10/2011 della
Sezione Regionale di Controllo per la Liguria, la quale ha
anche affermato il principio secondo il quale la ratio
sottesa agli interventi di razionalizzazione della spesa
realizzati dal legislatore con le novelle prima del 2007 e
poi del 2010, è quella di ancorare i rimborsi ad elementi
effettivi della spesa anziché a valori predeterminati, in
quanto, si ripete, il legislatore ha voluto eliminare ogni
forma di forfetizzazione. Il rimborso è, dunque, ammesso
alle condizioni previste dalla norma in esame, anche se deve
essere sottoposto al severo vaglio dell'Amministrazione,
secondo il criterio appena citato.
Vi è da chiarire che il rimborso è previsto dall'art. 84,
comma 3, solo per gli 'amministratori' e non anche per i
responsabili burocratici: è da ritenere, quindi, che quando
l'assessore abbia una duplice funzione egli debba essere
rimborsato solo per la spesa di viaggio che abbia effettuato
per la sua qualità di assessore e non anche per la sua
qualità di responsabile del settore tecnico. La lettura
della legge pare in proposito molto chiara" (tratto da
www.publika.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Come
deve svolgersi il trasporto dei materiali derivanti dai
crolli del sisma in Emilia?
(14.09.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Come
deve svolgersi la raccolta dei materiali derivanti dai
crolli del sisma in Emilia?
(14.09.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Secondo
quali direttive deve svolgersi la gestione dei rifiuti e
delle macerie derivanti dal sisma in Emilia? (14.09.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Come
devono essere gestiti i rifiuti contenenti amianto derivanti
dai crolli degli edifici in Emilia?
(14.09.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Come
vengono classificati i rifiuti derivanti dai crolli degli
edifici in Emilia ai sensi della legge n. 122/2012?
(14.09.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
APPALTI:
Valutazioni della commissione giudicatrice; sono sindacabili
dal giudice?
Domanda
Le valutazioni
effettuate da una Commissione giudicatrice in una gara
d'appalto sono sindacabili da parte dell'organo giudiziario?
Risposta
Le valutazioni
della Commissione giudicatrice nell'ambito di una procedura
concorsuale per l'affidamento di un appalto costituiscono
espressione dell'esercizio della c.d. discrezionalità
tecnica, o meglio costituiscono -volendo utilizzare altra
terminologia- valutazioni tecniche; tuttavia, a prescindere
dalla terminologia prescelta, è oggi pacifico che si tratta
di valutazioni pienamente sindacabili dal Giudice
Amministrativo, sia sotto il profilo della ragionevolezza,
adeguatezza e proporzionalità che sotto l'aspetto più
strettamente tecnico.
Infatti, tramontata l'equazione discrezionalità
tecnica-merito insindacabile a partire dalla sentenza Cons.
Stato Sez. IV, 09.04.1999, n. 601, il sindacato
giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici della P.A. può
oggi svolgersi in base non al mero controllo formale ed
estrinseco dell'iter logico seguito dall'Autorità
Amministrativa, bensì alla verifica diretta
dell'attendibilità delle operazioni tecniche sotto il
profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed
a procedimento applicativo (14.09.2012 - tratto da
www.ipsoa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Incompatibilità di un amministratore locale che riveste la
carica di Presidente di una associazione sovvenzionata dal
Comune.
Per un amministratore locale che
riveste, altresì, la carica di Presidente di una
associazione sportiva nei cui confronti l'Amministrazione
eroga annualmente dei contributi potrebbe sussistere la
causa di incompatibilità prevista dall'art. 63, c. 1, n. 1)
del D.Lgs. 267/2000, nella parte in cui dispone che non può
ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore
di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte
facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il
dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
A tal fine, devono ricorrere i tre requisiti previsti dalla
norma e cioè che la sovvenzione erogata dal Comune abbia i
caratteri della continuità, della facoltatività e della
notevole consistenza.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
sussistenza di una causa di incompatibilità per un
amministratore locale che riveste, altresì, la carica di
Presidente di una associazione sportiva nei cui confronti
l'Amministrazione eroga annualmente dei contributi.
Specifica, altresì, l'Ente che detti contributi sono erogati
a detta associazione analogamente a quanto avviene nei
confronti delle altre associazioni presenti sul proprio
territorio.
Preliminarmente, si rileva che la valutazione della
sussistenza delle cause di ineleggibilità o di
incompatibilità dei componenti di un organo elettivo
amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo.
È, infatti, principio di carattere generale del nostro
ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano
esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Così come, in sede di esame delle condizioni degli eletti
(art. 41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio
comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti
dei propri membri esistano condizioni ostative all'esercizio
delle funzioni, allo stesso modo, qualora venga
successivamente attivato il procedimento di contestazione di
una causa di incompatibilità, a norma dell'art. 69 del
D.Lgs. 267/2000, spetta al consiglio medesimo, al fine di
valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le
osservazioni difensive formulate dall'amministratore e, di
conseguenza, adottare gli atti ritenuti necessari.
Ciò premesso, ai sensi dell'articolo 63, comma 1, numero 1),
seconda parte, del D.Lgs 267/2000, non può ricoprire la
carica di consigliere comunale l'amministratore di ente,
istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte
facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il
dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole
dottrina[1], il termine 'ente' deve essere inteso in senso
lato e, pertanto, vi rientrano anche gli organismi privi di
personalità giuridica. In questo senso si è pronunciata
anche la Corte di Cassazione, con la sentenza 22.06.1972, n.
2068, che ha inteso comprendere nella nozione di ente
sovvenzionato le persone giuridiche pubbliche, private e le
associazioni non riconosciute che, pur non dotate di
personalità giuridica, abbiano autonomia amministrativa e
patrimoniale.
Per quanto riguarda la specificazione del concetto di
sovvenzione, secondo la dottrina e la giurisprudenza,[2]
essa deve consistere in un'erogazione continuativa a titolo
gratuito, volta a consentire all'ente sovvenzionato di
raggiungere, con l'integrazione del proprio bilancio, le
finalità in vista delle quali è stato costituito.
In definitiva, affinché si verifichi la situazione di
incompatibilità in questione, la succitata norma prescrive
che tale sovvenzione debba possedere tre caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve
essere saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l'intervento
finanziario dell'ente non deve cioè derivare da un obbligo,
ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte
facoltativo, tenuto conto di quanto precisato;
- notevole consistenza: l'apporto della sovvenzione deve
essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per
cento del totale delle entrate annuali dell'ente
sovvenzionato.
Con riferimento alla fattispecie in esame l'Ente dovrà
valutare se il 'contributo' dallo stesso concesso
all'associazione abbia i requisiti per essere qualificato,
indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, quale
sovvenzione idonea a fare insorgere la causa di
incompatibilità in oggetto. Dovrà, altresì, valutare se
sussistano i tre requisiti sopra indicati.
In particolare, quanto a quello della continuità, non
sorgono dubbi circa la sua sussistenza stante la cadenza
annuale della elargizione in riferimento.
Circa il requisito della facoltatività si tratta di valutare
se il contributo erogato all'associazione in riferimento
presenti o meno tale carattere.
Si premette che sull'argomento non è dato riscontrare la
presenza di un orientamento unanimemente condiviso.
Benché in passato lo scrivente Ufficio abbia aderito alla
tesi dottrinaria prevalente, la quale afferma che per
determinare l'incompatibilità la sovvenzione non deve avere
il carattere dell'obbligatorietà, nel senso che 'non deve
essere conseguenza di una legge, o di un regolamento o di un
contratto bilaterale, ma deve rientrare nella
discrezionalità, cioè deve essere concessa a titolo gratuito
o ciò che è lo stesso deve rientrare nella libera
determinazione dell'Ente che la accorda',[3] tuttavia,
non può sottacersi come, più di recente, abbia ottenuto
l'avallo del Ministero dell'Interno la tesi secondo la quale
la sovvenzione è facoltativa 'nel senso e nei limiti in
cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge'.[4]
Trattasi di impostazione più rigorosa che circoscrive il
concetto dell'obbligatorietà a quelle sole elargizioni per
le quali manchi qualsiasi facoltà discrezionale dell'Ente
locale nel concederle.
Da ultimo, l'Ente dovrà valutare se ricorra anche il
carattere della notevole consistenza, cioè se l'apporto
della sovvenzione, per la parte facoltativa, superi,
nell'anno, il 10 per cento del totale delle entrate
dell'associazione.
---------------
[1] Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo,
Amministrazione locale, 3, ed. Giuffré, II ed. 1994, pag. 78
e segg.; R.O. Di Stilo - E. Maggiora, Ineleggibilità e
incompatibilità alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985,
pag. 73; E. Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità,
incandidabilità nell'ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[2] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.05.1972, n.
1479.
[3] Rocco Orlando di Stilo, 'Gli organi regionali,
provinciali, comunali e circoscrizionali', Maggioli editore,
1982, pag. 140. Nello stesso senso, Enrico Maggiora,
'Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente
locale', Giuffrè editore, 2000, pag. 142; AA.VV.,
'L'ordinamento comunale', Giuffrè editore, 2005, pag. 138.
[4] Ministero dell'Interno, parere del 30.12.2010 (prot.
n. 15900/TU/63). In dottrina, si veda, F. Pinto e S.
D'Alfonso, 'Incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità
e status degli amministratori locali', Maggioli editore,
2003, pag. 196 e parere della Regione Val d'Aosta
dell'08.03.2002, il quale afferma che: 'La sovvenzione si
intende facoltativa nel senso e nei limiti in cui non trovi
origine in un obbligo stabilito dalla legge. Non si sottrae
dal concetto di sovvenzione facoltativa un contributo dovuto
sulla base di un regolamento comunale, laddove la
determinazione del regolamento sia riconducibile ad una
scelta discrezionale dell'ente' (24.08.2012 -
link a www.regione.fvg.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Seduta del consiglio comunale. Richiesta di accesso alla
documentazione messa a disposizione dei consiglieri,
relativa agli argomenti iscritti all'ordine del giorno.
Si ritiene che la richiesta di un
cittadino di accedere alla documentazione relativa
all'ordine del giorno della seduta del consiglio comunale,
motivata dalla necessità di documentarsi adeguatamente al
fine di poter intervenire in modo qualificato alla seduta
del consiglio aperta anche alla cittadinanza, sia priva di
elementi idonei a consentire l'individuazione della
situazione giuridicamente rilevante che possa legittimarne
l'accoglimento, rientrando la fattispecie nella generale
disciplina sul diritto di accesso di cui alla L. 241/1990.
---------------
Il Comune ha chiesto un parere in merito alla richiesta
informale da parte di un cittadino avere visione e di
ottenere copia della documentazione, relativa all'ordine del
giorno della seduta del consiglio comunale, contenuta nelle
cartelle a disposizione dei consiglieri. La richiesta è
motivata dalla necessità da parte dell'interessato di
documentarsi adeguatamente al fine di poter intervenire in
modo qualificato alla seduta del consiglio aperta anche alla
cittadinanza.
Si fa preliminarmente presente che ciascun consigliere
comunale, in quanto membro del consiglio e rappresentante
eletto direttamente dalla comunità locale, è individualmente
investito di un munus che comprende una serie di
garanzie e prerogative, tra le quali l'acquisizione di
informazioni e documenti, atte a consentire allo stesso di
esprimere un voto consapevole sugli affari di competenza del
consiglio, nonché di compiere una valutazione della
correttezza e dell'efficacia dell'operato
dell'amministrazione comunale ed eventualmente promuovere,
nell'ambito del consiglio stesso, le varie iniziative
consentite dall'ordinamento.
In tale ambito è riconducibile l'esigenza che tutti i
consiglieri dispongano preventivamente non solo dell'ordine
del giorno degli argomenti da trattare in ciascuna adunanza
del consiglio, ma anche della relativa documentazione
istruttoria, al fine di consentire agli stessi, in quanto
componenti dell'organo, di prepararsi adeguatamente a
partecipare attivamente e consapevolmente alla discussione.
Conseguentemente, sotto il profilo considerato, si ritiene
non sussista alcun obbligo in capo all'Amministrazione di
ottemperare alla richiesta di accedere ai fascicoli messi a
disposizione dei consiglieri, neanche nel caso in cui la
popolazione sia invitata a partecipare alle sedute del
consiglio, a intervenire nella discussione degli argomenti e
ad esprimere le proprie opinioni, non essendo attribuibili
ad soggetti esterni al consiglio comunale le prerogative
poste dall'ordinamento, ratione officii, in capo ai
componenti dell'organo medesimo.
La richiesta formulata dal cittadino rientra invece nella
generale disciplina sul diritto di accesso ai documenti
amministrativi di cui al Capo V della legge 07.08.1990, n.
241, il cui articolo 22, comma 1, precisa, alla lettera a),
che per 'diritto di accesso' si intende il «diritto degli
interessati di prendere visione e di estrarre copia di
documenti amministrativi» e, alla lettera b), che per
'interessati' debbano intendersi «tutti i soggetti
privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o
diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso».
L'istanza, a norma dell'articolo 25, comma 2, della legge
241/1990, deve essere motivata e quindi contenere gli
elementi idonei a identificare l'interesse o gli interessi
che si intendono tutelare.
Al fine del riconoscimento dell'interesse giuridicamente
rilevante, il soggetto deve dimostrare, all'atto della
richiesta, la correlazione esistente tra la propria
situazione giuridica soggettiva e l'interesse alla
conoscenza del bene o della vicenda oggetto dell'atto o del
documento amministrativo di cui si chiede visione o
copia.[1]
Si precisa, inoltre, che la giurisprudenza, nel delineare
l'interesse legittimante il diritto di accesso, ha chiarito,
da un lato, che lo stesso deve essere accertato caso per
caso e deve essere personale e concreto, serio, non
emulativo, non riconducibile a mera curiosità[2] e
ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso e,
dall'altro, che la documentazione richiesta deve essere
direttamente riferibile a tale interesse.[3]
Inoltre si è affermato che la situazione giuridicamente
rilevante si configura come nozione diversa e più ampia
rispetto all'interesse all'impugnativa e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo[4].
La legittimazione all'accesso, conseguentemente, va
riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti
procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano
idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione
giuridica[5].
Si ritiene, pertanto, che nel caso in esame non sussistano
elementi idonei a configurare un interesse giuridicamente
rilevante che possa legittimare l'accesso di cui trattasi.
---------------
[1] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 30.11.2009, n.
7486, secondo cui «l'interesse giuridicamente rilevante del
soggetto che richiede l'accesso non solo non deve
necessariamente consistere in un interesse legittimo o in un
diritto soggettivo, dovendo solo essere giuridicamente
tutelato, purché non si tratti del generico ed indistinto
interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività
amministrativa, ma deve anche sussistere un rapporto di
strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui
si chiede l'ostensione.
Questo rapporto di strumentalità va inteso in senso ampio,
ossia in modo che la documentazione richiesta sia mezzo
utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante
e non strumento di prova diretta della lesione di tale
interesse. Pertanto, l'interesse all'accesso ai documenti
deve essere considerato in astratto, escludendo che la
legittimazione all'accesso possa essere valutata facendo
riferimento alla legittimazione della pretesa sostanziale
sottostante, avendo consistenza autonoma, indifferente allo
scopo ultimo per cui viene esercitata».
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 12.10.2010, n. 7446.
[3] Cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II, 16.11.2005, n. 1138.
[4] Cfr. TAR Lazio, Roma, sez. Prima-ter, 27.07.2009, n.
7550.
[5] Vedi nota 2 e cfr. Consiglio di Stato, sez. VI
27.10.2006, n. 6440 (02.08.2012 - link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune di
Tuscania - Parere in merito ai titoli abilitativi necessari
per la collocazione diurna di "chioschi mobili con
automezzo" in area vincolata a scopo di vendita di generi
alimentari (Regione Lazio,
parere
04.05.2012 n. 98047 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Oggetto:
Sanatoria di interventi edilizi-urbanistici abusivi
realizzati prima dell’imposizione del vincolo paesaggistico
- Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia
Romagna,
parere
17.04.2012 n.
95795 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Oggetto:
Concessioni sul demanio della navigazione interna – Rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica – Richiesta di chiarimenti (Regione
Emilia Romagna,
parere
23.03.2012 n.
3702 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Vignanello - Parere in merito alla possibilità di
effettuare una ristrutturazione con demolizione del
manufatto e ricostruzione in area di sedime diversa da
quella originaria (Regione Lazio,
parere 19.03.2012 n. 415958 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune di Roccasecca - Parere in merito all'oblazione
prevista dall'accertamento di conformità urbanistica
disciplinato dall'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e dall'art.
22 della L.R. n. 15/2008 (Regione Lazio,
parere
19.04.2012 n. 389143 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Mazzano Romano - Parere in merito alla facoltà del
Comune di presentare osservazioni al preavviso di diniego ex
art. 10-bis della Legge n. 241/1990 emesso dal
Soprintendente ai sensi dell'art. 146, comma 8, del D.Lgs.
n. 42/2004 - esclusione (Regione
Lazio,
parere
06.04.2012 n. 440568
di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune di Sonnino - Parere in merito alla possibilità di
attribuire ad un'area un indice di volumetria di altra area
confinante avente diversa destinazione urbanistica (Regione Lazio,
parere
05.04.2012 n. 451450 di prot.). |
URBANISTICA:
Comune di Tarquinia - Parere in merito alle tipologie di
pianificazione urbanistica attuativa in zone del territorio
comunale interessate da fenomeni di edilizia abusiva (Regione Lazio,
parere 02.03.2012 n.
551614 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Carbognano - Parere in merito al condono edilizio
in area soggetta a vincolo paesaggistico di cui all'art.
134, comma 1, lett. c, del D.Lgs. n. 42/2004 - Legge n.
326/2003 (Regione Lazio,
parere 02.03.2012 n.
152392 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune di Morolo - Parere in merito alla nozione di
ristrutturazione urbanistica e alla differenza con la
ristrutturazione edilizia (Regione Lazio,
parere
09.11.2011 n. 310951 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune di Sperlonga - Pareri paesaggistici ex art. 32 Legge
n. 47/1985 e condono edilizio ex Legge n. 326/2003 -
Competenze e procedimento (Regione Lazio,
parere
04.10.2011 n. 320349 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Mazzano Romano - Parere in merito alla durata del
parere paesaggistico in sanatoria e all'applicazione del
"danno ambientale" (Regione Lazio,
parere
04.10.2011 n. 255317 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: OGGETTO:
DPR n. 139 del 2010 – Risposta a richiesta d interpretazione
(Regione Emilia Romagna,
parere
19.09.2011 n.
223720 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune
di Campagnano di Roma - Parere in merito alla fase
procedimentale in riferimento alla quale calcolare gli oneri
concessori nel condono edilizio previsto dalla Legge n.
326/2003 (Regione Lazio,
parere 03.08.2011 n.
122542 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Sant'Apollinare - Parere in merito alla possibilità
di rilasciare un titolo abilitativo in sanatoria per una
tettoia realizzata a copertura di un terrazzo, in mancanza
di strumentazione urbanistica e in area soggetta a vincolo
paesaggistico (Regione Lazio,
parere
26.07.2011 n. 332318 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Mazzano Romano - Parere in merito alla possibilità
di annullare il condono edilizio conseguito con false
dichiarazioni (Regione Lazio,
parere
26.07.2011 n. 310225 di prot.). |
URBANISTICA:
Quesito circa la titolarità ad esprimere il parere
paesaggistico sugli strumenti urbanistici attuativi ed in
sede di conferenze di servizi finalizzate alla
sottoscrizione di accordi di programma, ai sensi dell'art.
16 della Legge n. 1150/1942 (Regione
Lazio,
parere
15.06.2011 n. 262422
di prot.). |
LAVORI PUBBLICI:
Comune di Arcinazzo Romano - Parere in merito alla procedura da
seguire per la realizzazione di un'opera pubblica ai sensi
dell'art. 19 del D.P.R. n. 327/2001 (Regione Lazio,
parere
21.03.2011 n.
121088 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
Comune di Fiumicino - Parere in merito alla necessità di
acquisire l'autorizzazione paesaggistica per le opere di
urbanizzazione prima dell'approvazione della convenzione di
lottizzazione (Regione Lazio,
parere
16.03.2011 n. 92842 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Oggetto:
Risposta a quesito in merito all’accertamento di
compatibilità paesaggistica ai sensi degli artt. 167 e 181
del D.Lgs. n. 42 del 2004, Codice dei beni culturali e del
paesaggio (Regione Emilia Romagna,
parere
01.03.2011 n.
53566 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Anagni - Parere in merito alla possibilità di
eseguire un intervento di ristrutturazione con demolizione e
ricostruzione dell'immobile e aumento di superfici utili (Regione Lazio,
parere
14.02.2011 n.
150630 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Santopadre - Parere in merito al regime
sanzionatorio da applicare in caso di installazione di
impianti di telecomunicazioni e radiotelevisivi in assenza
di titolo abilitativo edilizio (Regione Lazio,
parere
14.02.2011 n.
149559 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Monte Compatri - Parere in merito all'applicazione
dell'indennità risarcitoria "Danno ambientale" per le opere
abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo (Regione Lazio,
parere 08.02.2011 n.
136081 di prot.). |
URBANISTICA:
Parere in merito all'edificabilità dei comparti edificatori
non attuati mediante piano particolareggiato di esecuzione (Regione Lazio,
parere
08.02.2011 n.
87558 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Oggetto:
Procedura autorizzazione semplificata ai sensi del DPR n.
139 del 09.07.2010 – Risposta a richiesta di parere (Regione
Emilia Romagna,
parere
07.02.2011 n.
32862 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Veroli - Parere sull'applicabilità dell'art. 6 del
D.P.R. n. 380/2001 come sostituito dalla Legge n. 73/2010 (Regione Lazio,
parere 02.02.2011 n.
163245 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Bolsena - Parere in merito all'interpretazione
dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 ed art. 23 della L.R. n.
15/2008 in tema di lottizzazione abusiva (Regione Lazio,
parere 03.01.2011 n.
91138 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune di Capranica - Parere in merito alla competenza
all'esecuzione delle ordinanze di demolizione in zona di
interesse archeologico (Regione Lazio,
parere
26.10.2010 n. 158560 di
prot.). |
URBANISTICA:
Comune di Piedimonte San Germano - Parere in merito agli
effetti della decadenza del vincolo preordinato
all'esproprio sulle aree interessate dal mancato intervento (Regione Lazio,
parere
26.10.2010 n.
116703 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Ardea - Parere in merito alla possibilità di
rilasciare permesso di costruire in area di lotto intercluso
con vincolo di P.R.G. decaduto (Regione Lazio,
parere
26.10.2010 n.
116125 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Cantalice - Parere in merito alla prescrizione
delle sanzioni amministrative in materia
urbanistico-edilizia (Regione Lazio,
parere
19.10.2010 n. 2035 di
prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Parere in merito alla necessità del nulla osta paesaggistico
per la realizzazione di piste di esbosco (Regione Lazio,
parere
19.10.2010 n.
1996 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Monte Compatri - Parere in merito
all'applicabilità della sanzione pecuniaria per il c.d.
'danno ambientale' alle domande di condono edilizio - art.
15 Legge n. 1497/1939 (Regione
Lazio,
parere
14.07.2010 n. 122212
di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Rieti - Parere in merito all'applicazione delle
eccezioni di cui all'art. 142, comma 2, D.Lgs. n. 42/2004 ai
beni individuati ai sensi dell'art. 134, comma 1, lett. c) (Regione Lazio,
parere
14.06.2010 n.
27974 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Bassano in Teverina - Parere in merito alla
possibilità di realizzare una piscina in zona agricola
soggetta a vincolo paesaggistico (Regione Lazio,
parere
24.05.2010 n.
128441 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Nepi - Parere in merito alla natura giuridica e
agli effetti dell'accertamento c.d. "straordinario" di
compatibilità paesaggistica - art. 1, commi 37, 38, 39 Legge
308/2004 (Regione Lazio,
parere
20.05.2010 n. 100099 di
prot.). |
URBANISTICA:
Comune di Arce - Parere in merito alla natura del vincolo di
destinazione a parcheggio pubblico; decadenza quinquennale e
c.d. "zone bianche" (Regione Lazio,
parere 06.04.2010 n.
168090 di
prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Tolfa - Parere sulla possibilità di rilasciare un
permesso di costruire ai sensi dell'art. 36 D.P.R. 380/2001
in area sottoposta al vincolo paesaggistico di cui all'art.
142, comma 1, lett. g) D.Lgs. 42/2004 (Regione Lazio,
parere
30.03.2010 n.
18318 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Fontechiari - Parere in merito alla possibilità di
rilasciare permesso di costruire in sanatoria per muro di
contenimento finalizzato alla messa in sicurezza di opere
abusive (Regione Lazio,
parere 03.03.2010 n.
117282 di
prot.). |
URBANISTICA:
Comune di Civitella San Paolo - Parere in merito alla
decadenza dei vincoli di destinazione imposti dal P.R.G. (Regione Lazio,
parere 02.02.2010 n.
234245 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Corpo Forestale dello Stato Fiuggi - Parere in merito alla
necessità del nulla osta paesaggistico per la realizzazione
di una tensostruttura temporanea denominata "Palafiuggi" (Regione Lazio,
parere
28.09.2009 n.
177256 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Parere in merito all'applicazione della procedura della
demolizione d'ufficio di cui all'art. 27, comma 2, del
D.P.R. 380/2001 (Regione Lazio,
parere
24.09.2009 n. 147029 di
prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune
di Anagni - Parere in merito all'applicabilità
dell'accertamento di conformità agli interventi di
demolizione e ricostruzione (art. 36 D.P.R. n. 380/2001 e
art. 22 L.R. n. 15/2008)
(Regione Lazio,
parere
27.08.2009 n.
118162 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune
di Tuscania - Parere in merito alla possibilità di procedere
alla demolizione e ricostruzione di un fabbricato condonato
avente destinazione incompatibile con il piano regolatore,
differente sagoma e da collocarsi in una diversa area di
sedime (Regione Lazio,
parere
29.07.2009 n.
42593 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune
di Gaeta - Parere in merito all'ipotesi di contrasto tra il
regolamento comunale per la telefonia mobile ed il nulla
osta paesaggistico rilasciato dalla Regione Lazio
(Regione Lazio,
parere
13.07.2009 n.
113301 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune
di Santa Marinella - Parere in merito alla necessità di
ottenere l'autorizzazione paesaggistica per la realizzazione
di un "tappetino in asfalto" in area privata soggetta a
vincolo paesaggistico
(Regione Lazio,
parere
12.06.2009 n.
99031 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune
di Pisoniano - Parere in merito alla possibilità di
rilasciare il permesso di costruire in un lotto residuo in
area urbanizzata in mancanza di piano attuativo (Regione Lazio,
parere
21.05.2009 n.
81641 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune
di Castel Gandolfo - Parere in merito alla possibilità di
installare tende frangisole
(Regione Lazio,
parere
19.05.2009 n.
65296 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune
di Sora - Parere inerente la fattibilità di un intervento di
demolizione e ricostruzione in zona di P.R.G. destina a
verde pubblico in mancanza di piano attuativo (Regione
Lazio,
parere 22.04.2009 n. 178866 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune
di Tarquinia - Parere in merito alla competenza alla
demolizione delle opere abusive realizzate in aree vincolate
(Regione Lazio,
parere
22.04.2009 n.
14828 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune
di Lanuvio - Interpretazione ed applicazione dell'art. 32,
comma 25, della legge n. 326/2003 – Condono edilizio:
criteri di ammissibilità. Risposta del Ministero
(Regione Lazio,
parere
13.02.2009 n.
23881 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Oggetto:
Parere in merito all'interpretazione ed applicazione
dell'art. 32, comma 25, della Legge 326/2006. Condono
edilizio - alternatività dei criteri (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti, Ufficio Legislativo,
nota 10.02.2009 n. 5424 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA: Comune
di Pontecorvo - Parere in merito ad un intervento di
demolizione e ricostruzione di un fabbricato in parte diruto
(Regione Lazio,
parere
19.01.2009 n.
65768 di prot.). |
NEWS |
EDILIZIA
PRIVATA: Pronto
il dm. Edifici, fine dell'energia autocertificata.
Precluso in caso di vendita al proprietario degli immobili
di poter optare per un'autodichiarazione sull'appartenenza
alla classe energetica più bassa, evitando così la
certificazione energetica del tecnico abilitato.
Come anticipato da ItaliaOggi il 14/09/2012, sono in arrivo
modifiche al dm 26/06/2009 «Linee guida nazionali per la
certificazione energetica degli edifici» da parte di un
provvedimento interministeriale (Mise, Trasporti e Ambiente)
diffuso nei giorni scorsi e trasmesso alla Conferenza delle
Regioni per l'approvazione. Si deve ricordare che la
certificazione energetica è obbligatoria nel caso di
richiesta di incentivi o agevolazioni pubbliche per la
riqualificazione degli edifici esistenti (detrazioni del 55%
e premio conto energia impianti fotovoltaici).
Il dm si è reso necessario dopo il deferimento dell'Italia
alla Corte di giustizia Ue del 26.04.2012 per l'incompleto
recepimento della direttiva 2002/91/Ce. La direttiva
2002/91/Ce è stata recepita nel nostro ordinamento con dlgs
19.08.2005 n. 192 (e successive modifiche). Il
provvedimento, definisce chiaramente gli edifici esentati
dall'obbligo di certificazione energetica, escludendo dagli
stessi solo quegli edifici per cui risulta tecnicamente non
possibile o non significativo procedere alla certificazione
energetica.
Tra gli edifici esentati risultano: box, cantine,
autorimesse, parcheggi multipiano, depositi, strutture
stagionali a protezione degli impianti sportivi e altri
edifici a questi equiparabili; nonché ruderi e immobili
venduti nello stato di «scheletro strutturale».
Inoltre vengono meglio specificati i ruoli degli enti
tecnici, Cti, Enea e Cnr, per la qualificazione dei software
commerciali per il calcolo della prestazione energetica nel
caso si utilizzino i metodi più rigorosi o quelli
semplificati.
È stata inoltre dettagliata la forma dei sistemi di calcolo
di riferimento nazionale che gli enti devono rendere
disponibili, tra questi raccolte di casi di studio e fogli
di calcolo
(articolo ItaliaOggi del
21.09.2012). |
APPALTI - ENTI
LOCALI:
L'impatto inatteso della norma sulla trasparenza
via web dei benefici concessi dalle p.a.. Trappola
amministrazione aperta. Dietro l'angolo nuovi adempimenti. E
spese incontrollate.
La norma sull'amministrazione «aperta» introdotta col
decreto sviluppo potrebbe essere fonte di una valanga di
nuovi adempimenti burocratici.
Esattamente al contrario dell'intento enunciato dal governo,
semplificare e rendere più trasparente l'azione
amministrativa, l'articolo 18 del dl 83/2012, convertito in
legge 123/2012, si rivela una fonte di problemi e
adempimenti burocratici difficili da attuare.
E una pericolosa spesa per le amministrazioni pubbliche.
Oggetto delle pubblicazioni.
L'articolo 18 elenca dettagliatamente tutti gli elementi che
debbono essere pubblicati sui portali delle amministrazioni,
in conseguenza dell'assegnazione a persone fisiche o
giuridiche di benefici economici di qualsiasi natura, dai
contributi ai contratti di appalto.
Nell'elencazione, tuttavia, manca la previsione dei
provvedimenti di liquidazione o pagamento delle spettanze ai
terzi. Oggettivamente, essendo questi aspetti
dell'esecuzione delle obbligazioni contratte, forse con le
esigenze di trasparenza non avrebbero molto a che vedere.
Tuttavia i commi 1 e 6 fanno, con maggiore o minore
chiarezza, riferimento proprio anche ai pagamenti. Infatti,
al comma 1 si parla di pubblicizzare l'«attribuzione dei
corrispettivi e dei compensi»; al comma 6 si rinvia ad
un regolamento per «disciplinare le modalità di
attuazione del presente articolo in relazione ai pagamenti
periodici e per quelli diretti ad una pluralità di soggetti
sulla base del medesimo titolo».
Nell'incertezza, allora, nonostante la voce «pagamento»
non sia compresa tra quelle obbligatoriamente oggetto della
pubblicazione, è bene inserirle. Questo renderebbe, però, la
pubblicizzazione delle informazioni un'operazione di
aggiornamento progressiva, per ovvie ragioni. Non si vede,
allora, come possa operare la sanzione della responsabilità
amministrativa, che ai sensi del comma 5 dell'articolo 18
deriverebbe dall'incompletezza delle informazioni, posto che
esse non saranno mai del tutto complete.
Rischi di spese incontrollate.
Il comma 5 stabilisce che la pubblicità delle informazioni
previste dall'articolo 18 costituisce «condizione legale
di efficacia del titolo legittimamente delle concessioni e
attribuzioni di importo complessivo superiore ai mille euro».
Contestualmente, si dà ai privati beneficiari la possibilità
di controllare la mancata, incompleta o ritardata
pubblicazione e, sulla base di ciò, di richiedere il
risarcimento per il danno da ritardo che deriverebbe,
evidentemente, dalla ritardata attivazione dei contratti o,
è da ritenere, anche dei pagamenti.
Un adempimento meramente informativo, insomma, viene
trasformato in condizione di efficacia delle erogazioni,
incidendo, per altro, indirettamente sulla disciplina
dell'efficacia non tanto degli atti amministrativi, ma
addirittura delle negoziazioni tra privati. Infatti, il
titolo legittimante per gli appalti, gli incarichi di
collaborazione, ma anche le concessioni dei contributi, non
sono i provvedimenti amministrativi di aggiudicazione e
impegno di spesa, che hanno rilevanza, come noto, solo
interna, bensì i contratti o le convenzioni che regolano,
poi, i rapporti obbligatori tra le parti.
Il rischio è che per inadempimenti formali, l'intero
rapporto negoziale risulti attivato illegittimamente, con
spostamento degli oneri obbligatori dall'amministrazione
pubblica al funzionario competente, a tutto danno della
posizione del privato. Ma, ulteriore rischio, è il
proliferare di vertenze per il risarcimento del danno da
ritardo, col rischio dell'esplosione di nuove ed
incontrollabili spese per l'amministrazione pubblica. Il
tutto, lo si ribadisce, per la scelta non ben meditata di
attribuire ad un adempimento formale, una pubblicazione,
addirittura valore della condizione di efficacia dei
contratti e persino dei pagamenti.
Per i pagamenti occorre già una trafila complicatissima, tra
acquisizione del Durc e verifiche ad Equitalia, per effetto
delle quali il termine dei 30 giorni previsto dalle
direttive europee è una chimera. In più si aggiunge un nuovo
adempimento. Senza per altro sapere cosa occorra pubblicare
per il pagamento: il provvedimento di liquidazione, oppure
il mandato? E senza tenere conto che, in ogni caso, il
titolo per i pagamenti resta sempre e solo il contratto o la
convenzione, sicché la pubblicizzazione dei provvedimenti di
materiale erogazione della spesa appare un eccesso
burocratico difficilmente giustificabile
(articolo ItaliaOggi del
21.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Numero legale blindato. Chi manca all'appello non
si calcola presente. Il caso del
consigliere assente dall'aula dopo aver richiesto la
verifica.
Deve essere computato tra i presenti il consigliere che,
dopo aver chiesto la verifica del numero legale del
consiglio comunale, si sia assentato?
Le modalità di determinazione del numero legale per la
validità delle sedute sono demandate all'autonomia normativa
degli enti locali. È importante, pertanto, che i medesimi si
dotino di una disciplina chiara ed esaustiva in materia.
Ciò anche al fine di sottrarre l'ente a possibili
contestazioni. Numerose fonti regolamentari recanti la
disciplina di organi collegiali prevedono che i richiedenti
la verifica del numero legale debbano essere considerati
presenti (cfr art. 46, comma 6, regolamento della Camera dei
deputati e art. 108 del Senato) ancorché siano assenti
dall'aula al momento del conteggio.
Tuttavia, se tale criterio non è stato recepito dal
regolamento del consiglio comunale ovvero nello stesso viene
previsto che la verifica dei presenti sia compiuta tramite
appello nominale, o apparecchiatura elettronica e che i
consiglieri che si astengono dal votare sono computati nel
numero dei presenti, sembrerebbe evincersi che i consiglieri
assenti dall'aula al momento dell'appello non possano essere
considerati presenti ai fini del numero legale della seduta
(articolo ItaliaOggi del
21.09.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Giunta a ridotta
composizione.
Quesito: La giunta provinciale può deliberare in una
composizione ridotta, nel caso in cui sia stato revocato e
non ancora sostituito uno degli assessori della sua
compagine?
È necessario che la sostituzione dell'assessore revocato
avvenga in tempi brevi, allo scopo di ricostituire il plenum
dell'organo collegiale qualora la composizione dello stesso
sia determinata in modo rigido dallo statuto dell'ente.
Infatti tale fonte può individuare il numero degli assessori
in modo fisso oppure, in alternativa, in modo “flessibile”
entro il limite massimo consentito dalla legge statale (v.
art. 47, comma 2, del Tuel n. 267/2000); nel caso sia stata
prescelta dall'ente locale la prima opzione, lo stesso è
vincolato all'osservanza della prescritta composizione
numerica, senza margini di discrezionalità, per tale
profilo, da parte del Presidente. Per quanto concerne la
tempistica riguardante la sostituzione dell'assessore
revocato, nulla stabilisce sul punto l'art. 46, comma 4 del
Tuel.
È appena il caso di rammentare che l'istituto della revoca
dell'incarico assessorile, nella previgente legislatura,
prevedeva la contestualità della sostituzione; più
precisamente, revoca e sostituzione dell'assessore erano
configurati quali adempimenti di competenza del consiglio
–adottati su proposta del sindaco ovvero del presidente
della provincia– che dovevano avere luogo «nella stessa
seduta». Nell'attuale sistema, conformato a tutt'altre
modalità di elezione della giunta ed alla sua configurazione
di organo fiduciario del sindaco ovvero del presidente della
provincia, ora eletto a suffragio diretto, mancano
riferimenti espressi a un termine entro il quale l'organo di
vertice deve provvedere alla sostituzione dell'assessore
revocato.
Ciò non impedisce che sia insita nel sistema la necessità
che l'adempimento in questione debba essere effettuato
tempestivamente, al fine di rendere conforme alle
prescrizioni statutarie la composizione numerica della
giunta. Per quanto concerne l'evenienza che l'incompleta
composizione dell'organo collegiale comporti, nelle more
della sostituzione, l'impossibilità di deliberare
validamente, si rileva che l'indirizzo giurisprudenziale
formatosi sul punto è impostato sul principio per cui la
completezza dell'organo collegiale è indispensabile ai fini
della sua operatività soltanto all'atto della costituzione
originaria.
Pertanto, se qualcuno dei componenti viene a mancare
successivamente deve ritenersi che il collegio possa
continuare legittimamente a svolgere le sue funzioni, nelle
more della reintegrazione del plenum, purché sia sussistente
il quorum strutturale (così Cons. St., Sez. V, 08.07.1977 n.
767); la giurisprudenza in parola motiva tale soluzione con
la necessità di impedire la paralisi dell'organo,
privilegiando l'efficienza rispetto alla rappresentatività
(articolo ItaliaOggi del
21.09.2012). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Dal
Consiglio nazionale forense il modello di contratto dopo lo
stop definitivo alle tariffe. Patti chiari tra avvocato e
cliente.
Per iscritto il compenso fissato a ore o per fasi di
attività.
Compenso orario o compenso per fasi di attività. La
struttura a due vie del compenso da pattuire nel
conferimento di incarico all'avvocato è prevista dal
modello
di contratto, elaborato dal Consiglio nazionale forense. Il
contratto tra cliente e avvocato, a seguito dell'abolizione
delle tariffe, è necessario per stabilire l'onorario del
professionista. Il compenso va determinato per iscritto in
una apposita scrittura privata, che segue il preventivo di
massima.
Tra l'altro il contratto scritto produce effetti vincolanti
(nei rapporti avvocato-cliente) per la determinazione del
compenso da parte del giudice (decreto ministeriale n.
140/2012), e può rappresentare un punto di riferimento per
la determinazione, sempre giudiziale, delle spese di
soccombenza. A quest'ultimo proposito va ricordato che non
potendosi più elaborare una nota spese da produrre al
giudice, è opportuno produrre copia del contratto, previa
prudenziale autorizzazione del cliente. Il giudice, nella
liquidazione delle spese, potrà tenere conto del livello del
compenso pattuito documentato con il contratto.
Vediamo le clausole più rilevanti.
Privacy. Il contratto di incarico professionale è la sede in
cui il cliente dichiara di avere ricevuto l'informativa
prevista dall'articolo 13 del codice della privacy e di
avere prestato il consenso di cui all'articolo 23 dello
stesso codice. Peraltro va ricordato che il modello di
contratto presuppone una separata informativa, che può
essere consegnata su foglio a parte o inserita come allegato
del contratto stesso.
Conciliazione. Nel modello di contratto si trova anche
l'informativa sulla media-conciliazione, con espresso
riferimento ai benefici fiscali conseguibili dal ricorso a
questo sistema stragiudiziale di soluzione delle
controversie. Peraltro va segnalato che l'informativa va
allegata al primo atto difensivo (articolo 4 dlgs 28/2010),
e questo significa che il contratto va depositato in
tribunale.
Antiriciclaggio. Il modello di contratto del Cnf contiene
l'informativa relativa agli obblighi di segnalazione delle
operazioni sospette previsto dal decreto legislativo
56/2004.
Difficoltà dell'incarico. Una clausola specifica del
contratto riguarda l'informazione da dare al cliente, anche
per obblighi deontologici, sul grado di difficoltà
dell'incarico. Viene stabilita la seguente scaletta:
questione ordinaria; questione difficile; questione
complessa.
Imprevisti. L'iter del giudizio potrebbe presentare sviluppi
non prevedibili. Il modello di contratto, da un lato,
obbliga l'avvocato a fare una prognosi delle attività e dei
connessi costi prevedibili; dall'altro consente all'avvocato
di far presente le circostanze non prevedibili al momento
della stipulazione del contratto, che determinano un aumento
dei costi. Si tratta di una valvola aperta alla possibile
integrazione del contratto.
Importi. Il modello di contratto offre alcune strade
alternative per la quantificazione del compenso.
In primo luogo si sceglie una strada simile a quella
adottata dal decreto 140/2012 sulla liquidazione giudiziale
dei compensi e cioè una quantificazione per fasi
(mediazione, studio, cautelare, fase introduttiva,
istruttoria, decisoria ed esecutiva). In alternativa si
propone un modello di calcolo in base alle ore di attività.
Questa modalità era riservata, dalle «vecchie» tariffe, solo
all'attività stragiudiziale, ma ora può essere esteso anche
all'attività giudiziale.
Spese. Le spese, secondo il modello, possono essere
determinate in modo forfettario oppure in base alla
documentazione che verrà prodotta successivamente: in questo
caso il modello indica di inserire al momento della
conclusione del contratto di conferimento di incarico
professionale, un tetto massimo oppure dei riferimenti al
tipo di mezzo di trasporto che sarà utilizzato (treno,
aereo, autovettura), classe del treno o dell'aereo,
categoria alberghiera per il pernottamento.
Transazione. Analogamente a quanto previsto dal decreto
140/2012 sulla liquidazione giudiziale, il contratto premia
l'avvocato che favorisce una soluzione bonaria con un
surplus di compenso. Il modello non offre una clausola tipo,
invece, sul patto di quota lite (compenso legato al
risultato, come quota di quanto incassato).
Acconti e saldo. Il modello di contratto contiene la
specifica indicazione dei tempi di pagamento di acconti e
saldo. Se il cliente non paga nei termini, il contratto
viene dichiarato risolto.
Liquidazione del giudice. All'esito della causa il giudice
potrà riconoscere alla parte vittoriosa il recupero delle
spese legali, ma eventualmente in misura inferiore a quella
pattuita dal cliente con il proprio legale. Per questi casi
il contratto stabilisce la prevalenza dell'accordo rispetto
alla liquidazione del giudice. La parte eccedente rimane a
carico del cliente. Se il giudice riconoscesse di più, il
modello di contratto riserva all'avvocato questa somma
ulteriore.
Clausole vessatorie. Il modello di contratto prevede la
doppia firma del cliente sulle clausole vessatorie
(integrazione del contratto per cause imprevedibili,
clausola risolutiva espressa in caso di mancato pagamento,
riconoscimento al legale della cifra maggiore tra quella
prevista dal contratto e quella liquidata dal giudice ecc.).
Il modello precisa che non si è ritenuto opportuno prevedere
il riferimento alla disciplina del contratto con il
consumatore e, quindi, alla trattativa individuale delle
clausole vessatorie: questo per evitare che la
qualificazione di contratto con il consumatore sia lo
strumento per l'applicazione al professionista dello
«statuto» dell'imprenditore
(articolo ItaliaOggi del
20.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: PACCHETTO
SEMPLIFICAZIONI/ Lo stop a costruire va dichiarato.
Sugli immobili vincolati il diniego del permesso va
esplicitato. Provvedimento presto al vaglio del Consiglio
dei ministri.
Diniego espresso del permesso di costruire su immobili
vincolati. Se il comune non adotta il provvedimento
conclusivo entro il termine previsto, l'istanza non si
considera automaticamente rigettata, ma l'ente locale deve
comunicare in maniera esplicita la sua decisione.
È quanto
prevede la bozza di decreto sulle semplificazioni, presto
all'esame del Governo. Ma vediamo di illustrare tutte le
novità, anche in materia di privacy.
Immobili vincolati. Il decreto chiarisce le conseguenze
dell'inerzia del comune nell'adozione del provvedimento
conclusivo del procedimento di rilascio del permesso di
costruire, in caso di esistenza di un vincolo ambientale,
paesaggistico o culturale e di diniego del relativo atto ampliativo. Nella formulazione vigente è previsto il
«silenzio-rifiuto»: questo significa che la risposta del
comune è negativa. La novità cambia la natura del silenzio
in silenzio non significativo, cioè non avente valore di
provvedimento di diniego. La relazione di accompagnamento
precisa che rimane ferma, anche a seguito dell'esito
negativo del procedimento di rilascio del titolo abilitativo
reso necessario dalla presenza di un vincolo, la necessità
che il comune concluda il procedimento di rilascio del
permesso di costruire con un provvedimento espresso.
Questo significa, anche, che in caso di ulteriore inerzia
l'interessato potrà rivolgersi al Tar contro il silenzio
dell'amministrazione.
Con un secondo intervento viene semplificata la procedura di
conferenza dei servizi nel caso in cui l'immobile oggetto
dell'intervento sia sottoposto a un vincolo la cui tutela
non compete, anche in via di delega, alla amministrazione
comunale. Le regole attuali obbligano il comune a indire
necessariamente la conferenza di servizi. Questo anche
nell'ipotesi in cui sussista un solo vincolo e, quindi, la
conferenza si risolva nella convocazione di un tavolo cui
partecipa una sola amministrazione, oltre a quella
procedente. Peraltro la relazione al decreto spiega che ciò
non preclude al comune, se ne ravvisa l'opportunità (in
particolare quando coesistano più vincoli sul medesimo
immobile) la facoltà di convocare una conferenza di servizi.
Parere del soprintendente. Il decreto restituisce
all'amministrazione competente il potere di provvedere sulla
domanda di autorizzazione, prevista dall'articolo 146 del
codice del paesaggio, decorsi inutilmente i termini indicati
per l'espressione del parere del soprintendente. L'articolo
146, infatti, in caso di avvenuto adeguamento degli
strumenti urbanistici alle prescrizioni dei piani
paesaggistici, il parere del soprintendente assume natura
obbligatoria non vincolante e si considera favorevole se non
sia stato reso entro il termine di novanta giorni dalla
ricezione degli atti.
Inoltre, il medesimo articolo prevede
che, in caso di mancata pronuncia da parte della
Soprintendenza entro il termine di 45 giorni dalla ricezione
degli atti, l'amministrazione competente può indire una
conferenza di servizi che si pronuncia entro 15 giorni.
Appalti. Il decreto modifica le percentuali di
qualificazione denominata OG11. Per effetto delle modifiche
le imprese attualmente svantaggiate possono partecipare alle
gare di appalto per la loro potenzialità complessiva in
OG11, oppure di partecipare alle gare di appalto indette
nelle categorie specialistiche (principio di assorbenza),
nei limiti delle percentuali relativamente corrispondenti.
Il decreto prevede poi la disciplina espressa del contratto
di rete per favorire l'aggregazione tra imprese e la loro
partecipazione alle gare di appalto. Con il contratto di
rete viene instaurato un rapporto di collaborazione duraturo
e continuativo, non limitato a una specifica gara, ma, al
contrario, finalizzato al perseguimento di un programma di
sviluppo di ampia portata. Per la partecipazione alle gare
gli operatori economici devono pattiziamente regolare la
partecipazione congiunta alle procedure di gara nell'oggetto
del contratto di rete. Il mandato, in fase di
partecipazione, potrebbe essere sostituito dall'impegno
scritto al conferimento dello stesso a valle
dell'aggiudicazione o avere, alternativamente, la forma
della scrittura privata autenticata ovvero dell'atto
sottoscritto digitalmente.
Distanze. Vengono modificate le distanze tra edifici,
limitatamente ai territori interessati da eventi sismici e
da calamità naturali, per gli interventi di ristrutturazione
edilizia, anche con sopraelevazioni e aumenti di volume. Il
decreto prevede il rispetto delle distanze vigenti all'epoca
della costruzione originaria, salvo deroga, nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati qualora rientrino in piani di recupero e
riconversione urbana.
Privacy. Il decreto estende al concetto più ampio di
impresa, anche se esercitata in forma individuale (cioè da
una persona fisica), l'esclusione dal campo di applicazione
del Codice della privacy già prevista per il trattamento di
informazioni relative alle persone giuridiche e, quindi,
sostanzialmente alle società (cioè ad imprese gestite in
forma societaria).
Con una eccezione: viene fatta salva la speciale disciplina
nazionale Capo II, Tit. X, Codice e comunitaria (direttiva
58/2002/CE) posta a tutela degli interessi giuridici di
persone giuridiche e imprese contraenti di servizi di
comunicazioni elettronica
(articolo ItaliaOggi del
18.09.2012). |
APPALTI:
La solidarietà
non blocca il Durc.
Sì alla regolarità in presenza di corresponsabilità nei
debiti. Il quadro della disciplina vigente negli appalti
privati dopo le novità del decreto semplificazioni.
La solidarietà non pregiudica il Durc (Documento unico di
regolarità contributiva). La presenza di debiti contributivi
scaturenti da un regime di solidarietà di un appalto,
infatti, non compromette la regolarità contributiva
dell'impresa ai fini del rilascio del documento unico (Durc
regolare).
La precisazione è dell'Inps che, con
circolare
10.08.2012 n.
106/2012, ha illustrato le novità della legge n. 44/2012
(conversione del dl n. 16/2012) in materia di responsabilità
solidale che lega committenti e appaltatori negli appalti
del settore privato.
La responsabilità solidale. Con questa espressione viene
indicato il vincolo che lega, negli appalti, la ditta che
affida un lavoro e quella che tale lavoro esegue. Un vincolo
che ha efficacia relativamente ai diritti retributivi,
fiscali e contributivi dei lavoratori che sono impiegati
nell'esecuzione dei lavori di quell'appalto.
Ai sensi degli
articoli 1292 e seguenti del codice civile, in particolare,
si ha obbligazione solidale passiva quando «più debitori
sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo
che ciascuno può essere costretto all'adempimento per la
totalità e l'adempimento da parte di uno di loro libera gli
altri (_)».
Per l'Inps, dunque, la solidarietà passiva nasce
per rafforzare il credito, in quanto attribuisce al
creditore (proprio l'Inps nel caso di obbligazioni
contributive) la facoltà di chiedere l'adempimento
dell'esatta prestazione a uno qualunque dei debitori.
Le regole oggi vigenti. Le norme di riferimento in materia
di responsabilità solidale per i trattamenti contributivi
nel contratto di appalto privato sono state soggette, nel
tempo, a diverse modifiche (si veda tabella). Dall'analisi
complessiva della normativa ne deriva che:
a) il committente è chiamato a rispondere in solido con
l'appaltatore, nonché con gli eventuali subappaltatori, per
l'intero importo della contribuzione previdenziale nonché
della retribuzione dovuta, con esclusione (dal 10.02.2012), delle sanzioni civili. Il ministero del lavoro, in
merito alle somme per le quali il committente viene chiamato
a rispondere in solidarietà, ha precisato che, anche a
seguito della modifica legislativa intervenuta (dal 10.02.2012), il regime di solidarietà permane sulle somme
dovute a titolo di interesse moratorio sui debiti
previdenziali (sia contributivi e assistenziali che
assicurativi), nascenti sul debito contributivo una volta
raggiunta l'entità massima prevista della sanzione civile,
considerata la portata generale dell'articolo 1294 del
codice civile e in mancanza, sul punto, di una previsione
contraria della legge.
Inoltre, ha chiarito che il dies a
quo a partire dal quale il committente, ex articolo 21 del
dl semplificazioni, non risponde dell'obbligo relativo alle
somme aggiuntive, coincide con tutti gli obblighi
contributivi la cui scadenza del versamento è successiva al
10.02.2012, data di entrata in vigore del predetto
decreto. Il vincolo della solidarietà viene meno dopo due
anni dalla cessazione dell'appalto (ovvero, in presenza di
subappaltatori, dopo due anni dalla cessazione del
subappalto).
Sono tutelati tutti i lavoratori, ovvero non
solo i lavoratori subordinati ma anche quelli impiegati
nell'appalto con altre tipologie contrattuali (per esempio i
collaboratori a progetto), nonché quelli in nero, purché
impiegati direttamente nell'opera o nel servizio oggetto
dell'appalto;
b) l'appaltatore è chiamato a rispondere in solido con il
subappaltatore:
1) ex articolo 35, comma 28, (fino al 28.04.2012), oltre che senza limiti economici, anche senza
termine di decadenza, con la conseguente applicazione del
termine di prescrizione previsto ex lege per i contributi.
Sono tutelati i lavoratori regolarmente iscritti al Lul o
per i quali è stata effettuata la comunicazione di
instaurazione del rapporto di lavoro (Unilav);
2) ex
articolo 29, comma 2, (dal 29.04.2012) in virtù di
consolidata giurisprudenza che considera il contratto di
subappalto null'altro che un vero e proprio appalto (che si
caratterizza, rispetto al contratto-tipo, solo per essere un
contratto derivato da altro contratto stipulato a monte, che
ne costituisce il presupposto).
Insomma, a partire dal 29.04.2012, il regime di
solidarietà complessivamente previsto per il committente
obbligato in solido è da ritenersi esteso anche
all'appaltatore chiamato in solidarietà (articolo ItaliaOggi Sette del
17.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Permessi light e sportello unico per i cantieri.
Ampliato il ricorso all'autocertificazione Comuni attesi
alla sfida dei tempi brevi.
Puntuale come ormai succede da un paio d'anni, con l'ultimo
decreto sviluppo arriva anche un pacchetto di
semplificazioni edilizie. Questa volta, però, accanto al
consueto ritocco delle procedure, il Governo gioca la carta
dell'attività amministrativa: lo sportello unico
dell'edilizia, infatti, è destinato a diventare un
front-office universale per cittadini, imprese e
professionisti. Di fatto, i funzionari comunali dovranno
dialogare con tutte le amministrazioni coinvolte –dalle
soprintendenze al genio civile– raccogliendo gli atti e
permessi necessari. E convocando, quando serve, una
conferenza di servizi per accelerare la decisione.
L'attuazione
Tra le righe del Dl 83/2012 (convertito dalla legge 134) si
annida una rivoluzione che potrebbe spazzare via in un solo
colpo tutte le frasi come «non è di nostra competenza» e «si
rivolga a un altro ufficio». Ma tutto dipenderà
dall'attuazione concreta delle nuove regole, che pongono una
sfida organizzativa molto impegnativa a Comuni già sotto
pressione per il blocco del turn-over e il patto di
stabilità.
Il rischio, quindi, è che l'accentramento delle pratiche in
un unico ufficio si traduca in un allungamento dei tempi.
Senza che i cittadini possano rivolgersi alle altre
amministrazioni per procurarsi gli atti o accelerare l'iter.
Proprio per scongiurare questi inconvenienti è stato
assegnato ai Comuni un termine di sei mesi per implementare
le nuove procedure, ed è stato previsto anche un meccanismo
che –in caso di inerzia– consentirà ai cittadini di far
intervenire un funzionario che si "sostituirà" a quello
inadempiente.
Un possibile effetto a doppio taglio è contenuto anche in
un'altra delle novità inserite nel decreto sviluppo, e cioè
l'estensione alla Dia di tutte le autocertificazioni
previste dalla Scia. Il vantaggio è evidente: il
professionista certifica il possesso di tutta una serie di
requisiti e non serve reperire alcuna documentazione. Ma, di
contro, dove le norme sostanziali non sono chiarissime –e
spesso succede– il tecnico è chiamato ad assumersi una
grande responsabilità, sia nei confronti
dell'amministrazione (che potrebbe bloccare i lavori anche
dopo i canonici 30 giorni azionando il potere di autotutela)
sia nei confronti del committente (che potrebbe chiedere il
risarcimento dei danni derivanti da eventuali errori). Non è
un caso, a ben vedere, che poche imprese abbiano scelto il
permesso di costruire con il silenzio-assenso (introdotto un
anno fa dal Dl 70/2011) preferendo invece avere un via
libera esplicito ai lavori.
I vincoli
Tutta da sperimentare è anche la semplificazione nei casi di
interventi in zone vincolate: finora il dialogo preventivo e
informale tra professionista e tecnici della soprintendenza
è servito in molti casi ad avvicinare le parti, a plasmare i
progetti in modo da rendere più facile il parere favorevole
dell'organo di tutela.
Cosa succederà ora che di fatto tecnici e privati saranno
"scavalcati" dallo sportello? L'accentramento riuscirà a
garantire la stessa flessibilità anche di fonte a
soprintendenze in perenne deficit di organico?
Dubbi di non poco conto se si pensa che in alcune regioni
italiane metà del territorio italiano è coperta da un
vincolo, ambientale o paesaggistico. E che dunque
conquistare anche attraverso il dialogo e la flessibilità il
via libera degli enti incaricati della tutela è un passaggio
cruciale per molti interventi edilizi. Insomma: anche per
quest'ultima innovazione normativa occorre quanto meno un
primo periodo di sperimentazione, e magari qualche
chiarimento interpretativo, un po' come è capitato con la
Scia.
Del resto sulle procedure edilizie –dopo le modifiche
normative degli ultimi due anni– resta poco da
semplificare: è ormai notevolmente ampliata l'area
dell'edilizia libera, con il nuovo strumento della
comunicazione di inizio attività che assomiglia da vicino
alla Dia ma consente di iniziare subito i lavori anche per
la manutenzione starordinaria (Dl 40/2011), fino all'ultima
deregulation contenuta proprio nel decreto sviluppo che ha
portato in edilizia libera le modifiche interne e il cambio
di destinazione d'uso dei fabbricati di impresa.
Il tutto in nome di un effetto anticrisi attribuito da
sempre ai lavori edili. Ma al di là delle semplificazioni di
procedure e organizzative, una forte spinta adesso è attesa
dai robusti incentivi fiscali, cioè da quel 50% di
detrazione sulle spese di ristrutturazione fino a 96mila
euro che proprio il decreto sviluppo ha portato con sé, a
partire dal 26 giugno scorso e fino al 30.06.2013 (articolo Il Sole 24 Ore del
17.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il nuovo front-office accentra le pratiche di tutti gli
altri enti.
Lo sportello comunale «dialoga» con le amministrazioni
pubbliche.
PRO E CONTRO/
I cittadini ora hanno un solo referente ma se servono i
pareri di soggetti diversi i tempi si allungano.
Lo sportello unico per l'edilizia (Sue) accentra tutti i
rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione in merito
a permessi e assensi edili, senza che sia più possibile con
le modifiche introdotte dal Dl 83/2012 bypassarlo, ottenendo
da altri uffici documentazione, informazioni o permessi,
comunque definiti.
Con «tutti i rapporti» si intende davvero tutti, fatta
l'unica eccezione di quelli di competenza di un altro
sportello unico, quello delle attività produttive (Suap),
che può a buon diritto entrare in gioco quando, insieme a
opere edili propriamente dette, occorre ottenere assensi in
merito all'apertura, alla cessazione, localizzazione,
trasformazione, ristrutturazione, riconversione,
ampliamento, trasferimento di un'attività produttiva o di
servizi.
Gli sportelli unici –da attivare entro il 12.02.2013– posso essere aperti dai Comuni, soprattutto se di piccole
dimensioni, anche in forma associata, per diminuire i costi
e razionalizzare il servizio.
Le funzioni dello sportello unico, così come ridisegnato dal
Dl 83 sono le seguenti:
- ricevere tutte le comunicazioni o le domande relative al
l'attività edilizia (comunicazioni con o senza relazione
asseverata, segnalazioni di inizio attività, denunce di
inizio attività, permessi di costruire, certificati di
agibilità) ivi comprese quella relative alle opere per le
fonti rinnovabili di energia (fatta eccezione per
l'autorizzazione unica che è curata dalla Regione o dalle
province da essa delegate con procedimenti assai simili a
quelli previsti per gli sportelli unici comunali);
- rilasciare tutti i permessi e gli assensi relativi;
- fornire informazioni del tutto gratuite in merito al
l'iter delle pratiche, alle normative d riferimento, ai
documenti e provvedimenti amministrativi;
- essere tramite obbligatorio tra il privato e tutte le
amministrazioni pubbliche chiamate a pronunciarsi
sull'intervento edilizio, richiedendo a tali amministrazioni
gli atti di assenso, comunque denominati, necessari per
realizzare le opere, direttamente (se possibile) o anche
tramite le cosiddette conferenze di servizi (si veda
l'articolo in pagina).
Il tipo e il numero di assensi integrativi che possono
essere necessari sono riportati nella tabella pubblicata a
fianco: si tratta di un elenco molto nutrito, più
dettagliato di quello riportato nel Testo unico
dell'edilizia (Dpr 380/2011), ma che non esaurisce tutte le
possibilità.
In buona sostanza gli sportelli unici sono nati per offrire
un solo referente al cittadino, dando un colpo di spugna
alla vecchia prassi dello "scaricabarile" tra le diverse
amministrazioni coinvolte in un intervento edile e fornendo
tempi certi per l'esame delle pratiche. Ai sensi della legge
241/1990, anzi, il cittadino deve essere informato di chi,
al l'interno del Sue, è «responsabile del procedimento»,
fornendo le informazioni base per potersi mettere in
contatto (per esempio, telefono,indirizzo ed e-mail): quindi
il rapporto non è con un'entità astratta (il Sue) ma con una
persona ben definita.
Il Testo unico privilegia comunque espressamente sia l'invio
delle domande da parte dei cittadini che l'acquisizione di
pareri e assensi per via telematica. Qualora sia possibile,
lo sportello unico raccoglie pareri, autorizzazioni o
documenti direttamente dalla diversa amministrazione
competente. Se non riesce a riceverli entro 30 giorni,
oppure entro lo stesso termine una della amministrazioni
esprime il suo dissenso, o il tipo di opere lo prevede
comunque (interventi di particolare complessità, opere
pubbliche, necessità della valutazione di impatto
ambientale), lo sportello convoca la conferenza di servizi.
Anch'essa può svolgersi per via telematica, ma, ovviamente,
l'iter della pratica finirà per prolungarsi.
---------------
IN PRATICA
Il divieto di chiedere atti già in possesso della Pa
In base all'articolo 9-bis del Testo unico dell'edilizia (Dpr
380/2001), introdotto dalla legge di conversione del Dl
83/2012, ai fini della presentazione, rilascio o formazione
dei titoli abilitativi previsti dal Testo unico, la pubblica
amministrazione è tenuta «ad acquisire d'ufficio i
documenti, le informazioni e i dati, compresi quelli
catastali, che siano in possesso delle pubbliche
amministrazioni», senza possibilità di «richiedere
attestazioni, comunque denominate, o perizie sulla
veridicità e sull'autenticità
di tali documenti, informazioni
e dati».
L'acquisizione del nulla-osta paesaggistico
I compiti di acquisizione indicati in precedenza sono
riferibili allo sportello unico per l'edilizia (Sue), al
quale
l'attuale formulazione dell'articolo 5 del Testo unico
assegna anche il compito di acquisire –direttamente o
tramite conferenza di servizi– tutti gli atti di assenso,
comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento, tra cui quelli per eseguire interventi
edilizi su immobili assoggettati a vincolo storico-artistico
o paesaggistico ai sensi del Dlgs 42/2004, «fermo restando
che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione
preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi
del medesimo codice».
Il rinvio, quindi, è all'articolo 25
del codice del 2004 –che a sua volta richiama l'istituto
della conferenza di servizi– e riguarda unicamente quelli
assoggettati a vincolo storico-artistico, poiché la norma
utilizza il termine «beni culturali» e non «patrimonio
culturale», così escludendo i «beni paesaggistici», che ne
sono una delle due distinte componenti, ai sensi
dell'articolo 2 del medesimo codice. La sostanza, tuttavia,
non cambia, poiché anche nel caso del nulla-osta
paesaggistico, se non direttamente acquisito dal Sue, dovrà
farsi ricorso alla conferenza di servizi, che questo
ufficio, come in passato, è tenuto ad indire.
L'orientamento del Consiglio di Stato
Sul punto va peraltro segnalata la recente sentenza del
Consiglio di Stato 4312/2012, contenente specifici rilievi
sui poteri del Sue. La pronuncia richiama innanzitutto il
consolidato indirizzo giurisprudenziale (tra le tante,
Consiglio di Stato, 6878/2011) secondo cui il procedimento
per il rilascio del permesso di costruire e quello per il
nulla-osta di compatibilità paesaggistica dell'intervento,
ancorché connessi, sono due procedimenti distinti, avendo a
oggetto la tutela di beni diversi ed essendo articolati
sulla base di competenze diverse.
Se ne fa conseguire che
l'articolo 5 del Dpr 380/2001, nell'assegnare al Sue
l'acquisizione di tutti gli «atti di assenso, comunque
denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento edilizio», si riferisce ai soli pareri e
nulla-osta endoprocedimentali volti al rilascio del permesso
di costruire, ma non può estendersi anche a
un'autorizzazione diversa ed esterna rispetto a tale
procedimento, quale è l'autorizzazione paesaggistica
eventualmente richiesta per l'esecuzione dell'intervento.
Tale orientamento, espresso dai giudici di Palazzo Spada
pochi giorni prima della pubblicazione della legge 134/2012,
andrà oggi rimeditato, alla luce della esclusività delle
funzioni assegnate al Sue (articolo Il Sole 24 Ore del
17.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il catalogo degli interventi/
L'edilizia libera guadagna spazio.
Senza titoli abilitativi anche i lavori interni e i cambi
d'uso sui capannoni.
TEMPI RAPIDI/
In tutti i casi diversi da permesso di costruire e denuncia
d'inizio attività il proprietario può avviare subito il
cantiere.
All'insegna della semplificazione, la disciplina dei titoli
edilizi cambia ancora nello sforzo di agevolare la ripresa
economica. In sede di conversione del decreto legge 83/2012
(da parte della legge 134) sono stati ulteriormente
modificati l'iter per il rilascio del permesso di costruire
e il novero degli interventi realizzabili con comunicazione
di inizio attività (Cia), ai sensi dell'articolo 6 del Testo
unico in materia edilizia, Dpr 380/2001.
Per quanto attiene
al permesso di costruire, è ora previsto che se entro 60
giorni dalla presentazione della domanda non siano
intervenuti gli assensi eventualmente necessari da parte
delle altre amministrazioni (o se sia intervenuto il
dissenso di una o più amministrazioni), il responsabile
dello sportello unico indica una conferenza di servizi.
In tema di Cia, sono invece state assoggettate a
comunicazione anche le «modifiche interne di carattere
edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad
esercizio d'impresa, ovvero le modifiche della destinazione
d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa».
Anche per queste opere, così come per gli interventi di
manutenzione straordinaria, l'interessato, insieme alla
comunicazione, dovrà però trasmettere i dati dell'impresa e
una relazione tecnica che attesti la conformità agli
strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, oltre a una
dichiarazione riguardo alla non necessità di titolo
abilitativo.
La riforma si pone del solco delle precedenti che hanno
complessivamente delineato cinque distinti modelli
abilitativi, ciascuno corrispondente a determinate categorie
di interventi edilizi:
- l'attività edilizia libera, attuabile senza alcuna
formalità;
- l'attività soggetta a Cia (asseverata in caso di
manutenzione straordinaria e modifiche interne o funzionali
a fabbricati d'impresa), realizzabile previa comunicazione;
- l'attività soggetta a segnalazione certificata di inizio
attività (Scia), anch'essa eseguibile contestualmente alla
presentazione della prevista documentazione e soggetta ad
eventuale inibitoria comunale entro 30 giorni;
- l'attività soggetta a denuncia di inizio attività (Dia),
realizzabile decorsi 30 giorni dalla presentazione del
relativo modello;
- le opere subordinate a rilascio di permesso di costruire,
espresso o ottenuto mediante silenzio-assenso.
Nel novero dell'attività edilizia libera ricadono la
manutenzione ordinaria, gli interventi per l'eliminazione di
barriere architettoniche che non alterino la sagoma
dell'edificio, le opere temporanee per ricerca nel
sottosuolo, i movimenti di terra pertinenti all'attività
agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali ed, infine, le
serre mobili stagionali, non in muratura.
Sono, invece, soggetti a Cia gli interventi di manutenzione
straordinaria (sempre che non riguardino parti strutturali,
non comportino aumento delle unità immobiliari e non
implichino incremento dei parametri urbanistici); le opere
per esigenze contingenti (destinate ad esser rimosse
comunque entro novanta giorni); le opere di pavimentazione e
di finitura di spazi esterni; l'installazione di pannelli
solari, fotovoltaici, al di fuori delle zona omogenee A); le
aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo
delle aree pertinenziali ed infine, come visto, le modifiche
edilizie interne e quelle funzionali dei fabbricati adibiti
ad esercizio d'impresa.
Il rilascio del permesso di costruire permane per le
attività edilizie più rilevanti ed, in particolare per:
- interventi di nuova costruzione;
- interventi di ristrutturazione urbanistica;
- interventi di ristrutturazione edilizia "maggiori", cioè
che portino a un organismo edilizio diverso dal precedente e
che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, o che
–solo per gli immobili compresi nelle zone A (centri
storici)– comportino cambi d'uso.
Infine, quali modelli residuali restano la Scia e la Dia. La
Scia è prevista in relazione agli interventi non
qualificabili né come attività edilizia libera, né come
attività soggetta a permesso di costruire o a Cia (come, ad
esempio, per gli interventi di restauro o di risanamento
conservativo e le ristrutturazioni cosiddette "minori") e
per le varianti a permessi di costruire che non incidano sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modifichino la
destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterino la
sagoma e non violino le prescrizioni del permesso di
costruire.
La Dia è ancora prevista (come chiarito all'articolo 5,
comma 2, lettera c) del Dl 70/2011) nelle fattispecie in cui
essa si configuri quale alternativa al permesso di costruire
–la cosiddetta Super-Dia– cioè relativamente alle
ristrutturazioni edilizie maggiori, agli interventi di nuova
costruzione o di ristrutturazione urbanistica disciplinati
da piani attuativi con precise disposizioni
plano-volumetriche e per le nuove costruzioni in esecuzione
di strumenti urbanistici generali recanti precise
disposizioni plano-volumetriche. Rimangono altresì soggetti
a Dia, gli interventi per i quali tale strumento sia stato
previsto dalle Regioni in base all'articolo 22, comma 4 del
Testo unico dell'edilizia.
Un'altra novità (si veda l'articolo a fianco in basso) è
l'estensione alla Dia del principio di "autocertificazione"
già previsto con l'introduzione della Scia. Il Governo, in
particolare, rilevando che le leggi regionali prevedono per
analoghi interventi Dia o Scia in termini spesso confusi e
alternativi, ha espressamente inteso rimettere ordine
quantomeno procedimentale, dettando regole di
semplificazione analoghe.
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LE RICADUTE
1 -
REGIONI E COMUNI -
La Consulta boccia le modifiche locali
Il quadro normativo statale può dirsi definito, ma quale
spazio resta alle Regioni e ai Comuni per differenziare la
disciplina delle costruzioni rispetto alle nuove
semplificazioni? Davvero poco a detta della Corte
Costituzionale che, con la decisione n. 164 dello scorso 4
luglio, ha stabilito che la Pa presta un "servizio" ai
cittadini mentre evade le pratiche edilizie (attraverso
l'istruttoria, il rilascio o il diniego dei titoli
edificatori, l'esercizio o il mancato esercizio della
potestà inibitoria rispetto alle Dia e alle Scia degli
interessati).
Secondo la Corte, il legislatore statale può legittimamente
ritenere opportuno che il servizio, ora di esclusiva
competenza dello sportello unico sia assicurato in termini
omogenei su tutto il territorio nazionale, determinando i
livelli essenziali delle prestazioni in relazione ai diritti
civili e sociali (articolo 117, comma 2, lettera m) della
Costituzione).
Se dunque il legislatore nazionale ritiene –come ha fatto–
che le nuove semplificazioni edilizie siano necessarie per
assicurare a tutti il godimento di prestazioni garantite,
ecco che per la Consulta la legislazione regionale non può
introdurre limitazioni o condizioni che possano appesantire
l'esercizio dello ius aedificandi (si vedano le sentenze
322/2009 e 282/2002). Alle Regioni non resta dunque che
prendere atto delle nuove disposizioni in materia di
formazione dei titoli edilizi.
Discorso solo leggermente diverso va fatto rispetto alla
documentazione da allegare a Dia, Scia, comunicazioni e
domande in genere. Le amministrazioni sono ora tenute ad
acquisire d'ufficio i documenti, le informazioni e i dati
che siano in possesso della Pa. Mentre resta fermo che le
Regioni e, a maggior ragione, i Comuni non possono stabilire
regole differenti rispetto alle modalità di reperimento e
messa a disposizione degli allegati progettuali, i
regolamenti comunali restano pienamente titolati a stabilire
quali atti e rappresentazioni (tavole progettuali, tabelle
quantificative, rendering architettonici, relazioni
illustrative) debbano essere prodotti o acquisiti. Certo, le
richieste non possono mai essere ingiustificatamente onerose
o illogiche, nel qual caso l'interessato può rivolgersi al
Tar per impugnare le indebite richieste, le norme
regolamentari che le prevedessero e l'eventuale diniego del
titolo edilizio o l'ordine di fermare i lavori.
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2 -
RAPPORTI CON LA PA -
Più oneri ai privati con la nuova Dia
La Dia come la Scia, almeno dal punto di vista delle
autocertificazioni. Il nuovo comma 1-bis dell'articolo 23
del Testo unico prevede che –anche per la Dia– quando è
prevista l'acquisizione di «atti o pareri» di organi o enti
o l'esecuzione di «verifiche preventive», tali atti, pareri
e verifiche siano sostituiti da autocertificazioni,
attestazioni e asseverazioni o certificazioni di tecnici
abilitati. Resta fermo il potere della Pa di verificare la
correttezza delle valutazioni dei tecnici. La misura –che
non si applica a vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali e agli atti delle amministrazioni preposte alla
tutela di altri interessi preminenti– se rafforza la
posizione del privato nella dialettica con la Pa in qualche
misura ne appesantisce la posizione, in quanto l'interessato
deve ora farsi carico dell'assunzione di ulteriori
responsabilità e spese tecnico-professionali.
Per contro, la nuova funzione di controllo rispetto alle
attestazioni del privato può essere più rischiosa per la Pa
in termini di danni da risarcire qualora, nonostante le
attestazioni di conformità predisposte dal privato, sia
disposto un ordine di non eseguire i lavori, poi ritenuto
illegittimo dal Tar.
La giustizia amministrativa ha già evidenziato che, a
seguito dell'annullamento di un provvedimento inibitorio, la
Pa ha il potere di verificare di nuovo la sussistenza dei
requisiti per l'esercizio dell'attività costruttiva, ma è
responsabile dei danni causati dalla sospensione illegittima
dei lavori (Tar Milano Lombardia, sez. II, 5901/2011 e
1092/2010).
Per ottenere la condanna della Pa, il danneggiato può
limitarsi a invocare l'illegittimità dell'atto quale indice
presuntivo di colpa. Spetterà, per contro, alla Pa
dimostrare che si è trattato di un «errore scusabile» o che
comunque non fosse esigibile una alternativa condotta lecita
(Consiglio di Stato, sez. IV, 483/2012). A fronte di un
provvedimento inibitorio illegittimo, mediante il quale
siano state confutate considerazioni tecniche, poi giudicate
corrette e conformi alla legge, il Comune difficilmente
potrà sostenere di essere ricaduto in un errore scusabile e
che una diversa valutazione non fosse possibile (articolo Il Sole 24 Ore del
17.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La vigilanza/
Al Comune 30 giorni per bloccare i lavori.
Ma lo stop è sempre possibile per gravi motivi.
L'AUTOTUTELA/
Scaduto il termine per le verifiche l'ente può intervenire
per garantire il bene primario della tutela del territorio.
Anche di fronte a interventi realizzati in edilizia libera o
con una semplice comunicazione o segnalazione di inizio
attività, senza quindi un esplicito controllo e assenso del
Comune, all'ente locale restano dei poteri di intervento di
fronte a opere illegittime. Ma come può il Comune
intervenire quando l'intervento edilizio è già partito?
Una risposta si può certamente ricavare dalla sentenza
188/2012, con cui la Corte costituzionale, dando una
interpretazione autentica del l'articolo 19 della legge
241/1990, ha definito l'ambito dei poteri di intervento
delle amministrazioni.
La Regione Emilia Romagna aveva paventato l'illegittimità
costituzionale della norma se interpretata nel senso che,
decorso il termine di 30 giorni concesso dal comma 3 per
inibire la prosecuzione dell'attività e non ricorrendo
nessuna delle ipotesi tassative indicate dal comma 4,
all'amministrazione fosse preclusa la repressione di abusi
edilizi esercitando il potere di autotutela.
Secondo la Consulta, l'articolo 19 può e deve essere letto
nel senso che il decorso del termine di legge non esclude
affatto il ricorso all'autotutela previsto dal comma 3, il
quale si aggiunge alla ulteriore potestà di intervento
configurata dal comma 4, esercitabile «in caso di pericolo
di danno per gli interessi ivi indicati».
L'esame della disposizione, infatti, deve essere effettuato
inserendola «nel più ampio contesto costituito dalla
configurazione normativa dei poteri amministrativi di
repressione dell'abuso edilizio con cui il legislatore ha
inteso accompagnare e completare la riforma dei titoli
abilitativi all'edificazione, culminata con l'introduzione
della segnalazione certificata di inizio attività».
La sentenza evidenzia come proprio il rilevante interesse
costituzionale di garantire un armonico sviluppo del
territorio e preservarne l'integrità, abbia indotto il
legislatore ad introdurre «un rimedio che, per i casi di più
grave sacrificio del bene pubblico, possa consentire di
superare l'affidamento ingenerato dalla Scia».
Negli stessi termini si è espressa di recente anche la
giurisprudenza di merito. Il Tar Emilia Romagna (sezione di Bologna sentenza
272/2912), ha evidenziato come indipendentemente dalla
natura giuridica della Dia (o della Scia), il mancato
rispetto del termine di legge di 30 giorni «comporta la
definitiva preclusione dell'esercizio del potere vincolato
di controllo inibitorio potendo venire in rilievo soltanto
il discrezionale potere di autotutela».
Questo sarebbe «l'unico concreto vantaggio per il privato,
in termini di tempestività del l'azione amministrativa e
conseguentemente di certezza e di affidamento, che ha
indotto il legislatore a sottoporre alcuni interventi
edilizi alla più snella disciplina della Dia in luogo del
procedimento necessario, per altri interventi edilizi più
rilevanti, di un titolo abilitativo espresso».
Alla luce di tali pronunce è quindi possibile individuare
distinte possibilità di intervento per la Dia e per la Scia
in materia edilizia:
- il potere inibitorio di carattere generale, esercitabile
nel termine di 30 giorni (articolo 19, commi 3 e 6-bis,
legge 241/1990, e articolo 23, comma 6, del Testo unico), in
caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti
per l'avvio dell'attività, salva la possibilità per il
privato di conformarsi alle previsioni di legge;
- la specifica potestà di intervento contemplata
dall'articolo 19, comma 4, esercitabile anche dopo il
decorso del termine di 30 giorni, ma unicamente nel caso di
pericolo di danno per:
- il patrimonio artistico e culturale;
- l'ambiente;
- la salute ;
- la sicurezza pubblica;
- la difesa nazionale;
sempre con possibilità di conformazione dell'attività dei
privati alla normativa vigente;
- il generale potere di autotutela, anche questo esercitabile
dopo lo scadere dei 30 giorni e nel rispetto dei presupposti
indicati agli articoli 21-quinquies e 21-nonies della legge
241/1990, quindi, nel caso di annullamento di ufficio,
comunque entro un termine ragionevole.
A tali poteri, inoltre, andrebbero aggiunte le possibilità
di intervento previste dall'articolo 27 del Testo unico,
visto l'esplicito richiamo dell'articolo 19, comma 6-bis
alle disposizioni relative alla vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni di
cui al Dpr 380/2001 e alle leggi regionali in materia.
La vigilanza e il potere di autotutela sono senz'altro
esercitabili anche nelle ipotesi di attività di edilizia
libera, laddove questa non risulti rispettosa dei parametri
indicati dall'articolo 6 del Testo unico.
---------------
LE SANZIONI
1 - I TERZI -
Il vicino può chiedere alla Pa di fermare la Scia o la Dia
Contro la presentazione di una Dia o una Scia, ritenute dal
terzo contrarie alla legge, il regime della tutela
giurisdizionale è oggi contenuto nell'articolo 19, legge
241/1990. La norma, al comma 6-ter, esclude innanzitutto che
la Dia e la Scia siano provvedimenti amministrativi taciti
direttamente impugnabili, aderendo in tal modo alle
conclusioni cui era giunta l'adunanza plenaria del Consiglio
di Stato con la sentenza n. 15/2011, salvo poi discostarsene
per ciò che attiene alle forme di tutela giurisdizionale.
Il secondo periodo dello stesso comma stabilisce infatti che
i terzi possano solo sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, sia
loro consentita «esclusivamente», la proposizione
dell'azione prevista dall'articolo 31 del Dlgs 104/2010,
cioè l'azione contro il silenzio della Pa.
Secondo la giurisprudenza (da ultimo Tar Lombardia-Milano
1075/2012), la "sollecitazione" dei poteri di verifica della
Pa da parte del terzo non può essere una generica denuncia
di eventuali abusi edilizi e, anche se non necessita di
formule specifiche, deve comunque possedere alcuni requisiti
minimi, atti a garantire la serietà dell'istanza e a
delineare un obbligo di provvedere. Tra questi la forma
scritta, l'indicazione, almeno sommaria, della lamentata
illegittimità delle opere edilizie e la richiesta di
esercizio del potere/dovere di verifica e di eventuale
repressione dell'abuso. Se questo tipo di istanza rimane
inascoltata potrà configurarsi il silenzio-inadempimento
impugnabile.
A fronte della più restrittiva ipotesi normativa, il
Consiglio di Stato (Sez. IV, 4255/2012 e 6614/2011) ammette
più ampie forme di tutela del terzo, sempre traendo spunto
dalla pronuncia 15/2011, secondo cui Scia e Dia sono
dichiarazioni imputabili a manifestazione di volontà privata
dalla quale scaturisce un procedimento doveroso di verifica
che, in assenza di requisiti per l'avvio o la continuazione
dell'attività, si conclude con un diniego espresso o tacito
di adozione del provvedimento inibitorio.
Il terzo, a tutela del proprio interesse pretensivo al
corretto esercizio della potestà di verifica e controllo,
potrà proporre l'azione di annullamento dell'atto (espresso
o tacito) di diniego di adozione del provvedimento
inibitorio, entro l'usuale termine di impugnazione,
decorrente dalla piena conoscenza dell'atto lesivo (cioè la
percezione dell'esistenza di un provvedimento e degli
aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
percepibile l'attualità dell'interesse ad agire). Inoltre,
congiuntamente o separatamente, potrà proporre l'azione di
adempimento dell'obbligo dell'amministrazione di adottare i
provvedimenti interdittivi o restrittivi, da esercitare
comunque nel termine di un anno previsto dall'articolo 31,
comma 3, Dlgs 104/2010, per l'azione avverso il silenzio.
---------------
2 -
I PROFESSIONISTI -
Per i tecnici aumentano responsabilità e sanzioni
Procedure snelle aggravano la responsabilità dei
professionisti. Con lo sportello unico dell'edilizia ai
tecnici è chiesta una collaborazione di tipo sostitutivo nei
confronti della Pa, ma è una collaborazione rischiosa. In
materia edilizia, chi costruisce deve asseverare (cioè
dichiarare, assumendosene la responsabilità) che le opere da
realizzare siano conformi agli strumenti urbanistici, ai
regolamenti edilizi e alle leggi.
In caso di errore, il professionista risponde al committente
(se emergono danni o ritardi), verso l'amministrazione (per
i reati di falso, in base agli articoli 359 e 481 del Codice
penale), nonché verso l'ordine professionale (per le
sanzioni disciplinari).
Tutto ciò secondo un principio di gradualità che oscilla
dalla colpa lieve a quella grave, secondo una scansione che
valuta le difficoltà di accesso e comprensione dei dati
(norme di piano, circolari, prassi), la prestazione
richiesta (di routine oppure originale), i tempi e modi di
esecuzione dell'incarico. I casi più gravi sono quelli in
cui il tecnico espone una dolosa rappresentazione della
realtà (ad esempio, non rappresenta una distanza che andava
rispettata). È invece esclusa la responsabilità del
professionista che, non avendo una conoscenza diretta, è
indotto in errore dal comportamento del privato (ad esempio,
circa l'epoca di costruzione di un manufatto): in tal caso è
il privato a rispondere della stessa pena cui andrebbe
incontro il professionista nell'attività di attestazione.
L'errore professionale (commesso cioè senza dolo) genera
responsabilità se non è scusabile: il tecnico risponde, come
tutti i professionisti, anche per colpa lieve cioè per
errori dovuti a leggerezza o generica trascuratezza. Solo
nel caso in cui emergano particolari difficoltà
nell'espletamento dell'incarico, il professionista vede
alleviata la propria responsabilità, rispondendo solo per
colpa grave, cioè per grave ed inescusabile violazione di
principi o prassi consolidate.
È in ogni caso dovere del professionista rivolgersi a uno
specialista se emergono speciali difficoltà. Se il
professionista di media capacità non lo fa, risponde per
colpa lieve anche se la prestazione da lui svolta è di
particolare difficoltà.
La lettura dei piani urbanistici non è ritenuta di elevata
difficoltà e nei casi dubbi il tecnico potrà allegare
all'asseverazione un foglio illustrativo che chiarisca il
ragionamento adottato.
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3 -
IMPIEGATI PUBBLICI -
I funzionari in ritardo rischiano di pagare i danni
Se lo sportello unico non ritiene che le dichiarazioni
indirizzategli siano utili o sufficientemente chiare, può
chiedere integrazioni, e nei casi più rilevanti inviare una
comunicazione di preavviso di archiviazione della pratica:
questo è previsto dall'articolo 10-bis della legge 241/1990,
affinché il privato interessato possa effettuare rettifica o
cercare di convincere della validità della propria
dichiarazione.
Se lo sportello dubita del contenuto della dichiarazione non
può chiedere ulteriori attestazioni o perizie (articolo
9-bis, Dpr 380/2001) ma se ritiene che la dichiarazione non
sia corrispondente al vero, può segnalare la circostanza
all'autorità giudiziaria (articolo 19, comma 6, legge
241/1990, articoli 359 e 481 del Codice penale).
Se il funzionario incaricato della pratica presso lo
sportello ritarda indebitamente la procedura, vi sono rischi
di risarcimento danni e conseguenze di carriera a carico del
funzionario stesso.
Ma perché il privato ottenga il risarcimento danni occorre
dimostrare che il ritardo ha frenato un procedimento che
sicuramente sarebbe giunto a risultati favorevoli. Se, al
contrario, una procedura tempestiva sarebbe stata inutile
perché non avrebbe comunque condotto ad un provvedimento
favorevole per il privato, non è possibile chiedere il
risarcimento per i danni causati dal mero ritardo (Consiglio
di Stato sentenza 2535/2012). Se il ritardo non è
giustificato, si possono chiedere i danni sia commerciali
(il ritardo nella vendita di un bene, la perdita di
occasioni) sia i danni biologici (affanni, ansia,
depressione, problemi neurologici): ad esempio, il Consiglio
di Stato (sentenza 1271/2011) ha riconosciuto un indennizzo
di 11mila euro per danni biologici e 44mila per danni
economici conseguenti ad un ritardo di due anni nel rilascio
di un permesso di costruire.
In proprio, il pubblico dipendente che omette o ritarda atti
rischia danni alla carriera (articolo 2, comma 9, della
legge 241/1990, articolo 72, comma 3, Dpr 445/2000) cioè
valutazioni negative di performance, oltre a responsabilità
disciplinari e amministrativo contabili.
In particolare il decreto sviluppo (Dl 83/2012) impone al
Comune, in caso di inerzia del responsabile del procedimento
di individuare (e pubblicare sul sito) il soggetto a cui
attribuire poteri sostitutivi che dovrà sbloccare la pratica
nella metà del tempo originariamente previsto e segnalare il
dipendente inadempiente all'ufficio per i provvedimenti
disciplinari.
---------------
DOMANDE E RISPOSTE
1 -
Documenti dal privato
Il professionista può raccogliere i pareri di varie
amministrazioni prima di rivolgersi allo sportello unico
comunale, oppure deve attender che la raccolta dei vari
pareri avvenga attraverso il Comune?
Se il privato ha interesse ad ottenere una Dia invece di una
Scia, o un permesso di costruire invece di una Dia, può
scegliere la strada più articolata (ad esempio, per meglio
presentarsi a terzi acquirenti o a banche finanziatrici).
Chiedendo una Dia, si rinuncia ai vantaggi di rapidità della
Scia ma si riesce ad evitare l'obbligo di utilizzare lo
sportello unico comunale e quindi si possono raccogliere
dalla Soprintendenza o dalla Regione i pareri ambientali o,
ad esempio, sulla normativa antisismica (articolo 23, comma
4, Dpr 380/2001).
2 -
Il «no» come ultima ratio
Lo sportello unico del Comune può rifiutare alcuni documenti
forniti dal cittadino o dal professionista?
Un rifiuto immotivato, un respingimento dell'utente per
incompletezza della domanda, non è previsto, né, tutto
sommato, necessario. Domande incomplete o incomprensibili
possono essere archiviate dopo aver informato l'utente con
un motivato preavviso di archiviazione a norma dell'articolo
10-bis della legge 241/1990, dando cioè un termine per
regolarizzare.
L'accentramento di varie attività nello sportello unico
consentirà ai professionisti di seguire la pratica
all'interno dell'ufficio con maggiore facilità. Anzi è
auspicabile che lo sportello adotti protocolli di buona
prassi, unificando la trattazione di domande analoghe
(articolo Il Sole 24 Ore del
17.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA:
E' dubbia la legittimità, nell’ambito dello
schema procedimentale di cui all’art. 159 del d.lgs. n. 42
del 2004, dell’esercizio del potere di annullamento
ministeriale anche oltre lo spirare del prescritto termine
di 60 giorni entro cui la Soprintendenza può annullare
l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla regione o
dall’ente locale delegato.
Il riconoscimento di siffatto potere contrasta in effetti
con la natura pacificamente perentoria di quel termine e con
gli effetti decadenziali che per giurisprudenza costante si
riconnettono al suo inutile decorso.
---------------
Dispone l'art. 21-nonies della l. 241/1990 che il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Nel caso in esame è completamente mancata da parte
dell’autorità procedente ogni valutazione al riguardo, il
che è particolarmente grave se si tiene conto che l’atto di
annullamento è intervenuto a distanza di molti mesi dalle
originarie autorizzazioni e che si era dunque formato un
legittimo affidamento, in capo alla odierna società
appellata, alla finalizzazione dell’intervento, peraltro
implicante non marginali impegni finanziari anche soltanto
per la elaborazione del progetto e della documentazione
strumentale al procedimento autorizzatorio.
Vanno anzitutto condivise le considerazioni svolte dai primi
giudici in ordine alla dubbia legittimità, nell’ambito dello
schema procedimentale di cui all’art. 159 del d.lgs. n. 42
del 2004, dell’esercizio del potere di annullamento
ministeriale anche oltre lo spirare del prescritto termine
di sessanta giorni entro cui la Soprintendenza può annullare
l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla regione o
dall’ente locale delegato.
Il riconoscimento di siffatto potere contrasta in effetti
con la natura pacificamente perentoria di quel termine e con
gli effetti decadenziali che per giurisprudenza costante si
riconnettono al suo inutile decorso.
Nel caso di specie è pacifico che l’atto di annullamento in
autotutela, recante la data del 12.02.2010, sia intervenuto
tardivamente sia con riguardo all’autorizzazione
paesaggistica n. 42 del 30.06.2009 rilasciata dal Comune di
Stroncone sul progetto in variante sia, a fortiori, in
relazione all’originaria autorizzazione comunale n. 6 del
12.04.2008 (ed ai pareri positivi espressi dalla
Soprintendenza con le note n. 9621 del 17.06.2008 e n. 15390
del 21.08.2008).
Ove poi si volesse sostenere che nel caso in esame
l’Amministrazione abbia attinto (non già ai poteri speciali
di controllo di cui al regime transitorio recato dall’art.
159 del Codice dei beni culturali e del paesaggio) bensì al
generale potere di riesame, consustanziale all’attività
provvedimentale amministrativa ed di per sé inestinguibile,
e che pertanto non venga in gioco in questa sede il potere
di annullamento di cui alla citata disposizione transitoria
del Codice del paesaggio (e le specifiche regole, anche
procedimentali, che lo riguardano), appaiono in ogni caso
dirimenti le considerazioni svolte dai giudici di primo
grado a proposito della conclamata violazione delle regole
procedimentali di cui la legge impone l’osservanza in
materia di autotutela decisoria.
Ed invero, stante la pacifica natura discrezionale dell’atto
di annullamento d’ufficio in primo grado impugnato
(intervenuto a distanza di notevole lasso temporale dal
formarsi dei provvedimenti abilitativi nell’ambito del
procedimento di autorizzazione unica all’impianto eolico
rilasciato dal sindaco di Stroncone il 23.01.2009, ai sensi
dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003), risultava in ogni
caso necessario dar corso –ciò che è stato illegittimamente
omesso– alla comunicazione d’avvio del procedimento di
ritiro, ai sensi dell’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241.
Non par dubbio, infatti, che la società appellata avrebbe
potuto offrire in sede procedimentale ogni utile apporto
collaborativo al fine di superare le sopravvenute ragioni
ostative individuate dalla Autorità soprintendentizia, tanto
più che la stessa aveva accuratamente predisposto ogni atto
istruttorio in funzione dell’ottenimento delle
autorizzazioni necessarie alla realizzazione
dell’intervento.
In ogni caso, ulteriore censura dirimente –che resiste alle
censure d’appello– posta a fondamento del ricorso di primo
grado e favorevolmente apprezzata dai giudici di primo grado
risiede nella omessa valutazione comparativa degli interessi
contrapposti che, nei procedimenti di secondo grado (art.
21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241), non tollera
eccezioni di sorta, per quanto rilevante possa essere
l’interesse pubblico a salvaguardia del quale l’autotutela
viene in concreto esercitata.
Dispone infatti il citato art. 21-nonies della legge sul
procedimento che il provvedimento amministrativo illegittimo
ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato
d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico,
entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo
ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Nel caso in esame è completamente mancata da parte
dell’autorità procedente ogni valutazione al riguardo, il
che è particolarmente grave se si tiene conto che l’atto di
annullamento è intervenuto a distanza di molti mesi dalle
originarie autorizzazioni (in realtà, l’autorizzazione
paesaggistica del 30.06.2009 sul progetto di variante ha
lasciato impregiudicate le pregresse valutazioni del giugno
e dell’agosto del 2008 riguardo alla compatibilità
paesaggistica dell’intervento secondo l’originario progetto,
stante la esiguità delle modifiche proposte in variante,
incidenti soltanto sul tracciato delle opere accessorie) e
che si era dunque formato un legittimo affidamento, in capo
alla odierna società appellata, alla finalizzazione
dell’intervento, peraltro implicante non marginali impegni
finanziari anche soltanto per la elaborazione del progetto e
della documentazione strumentale al procedimento
autorizzatorio
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.09.2012 n. 4997 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
sottoscrizione di un documento è lo strumento mediante il
quale l’autore fa propria la dichiarazione contenuta nello
stesso, consentendo così non solo di risalire alla paternità
dell’atto, ma anche di rendere l’atto vincolante verso i
terzi destinatari dell’espressione di volontà: da qui la
necessità dell’apposizione della firma in calce, ovvero a
chiusura del documento, a significazione della volontà di
condividere pienamente le asserzioni che precedono la
sottoscrizione.
--------------
Nelle procedure concorsuali, «l’offerta si configura come
dichiarazione di volontà del privato preordinata alla
costituzione di un rapporto giuridico e, dunque, se da una
parte la sua sottoscrizione assolve alla funzione di
assicurarne la provenienza, la serietà, l’affidabilità e
l’insostituibilità, dall’altra assume il connotato di
condizione essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il
profilo formale che sostanziale», sicché la sua mancanza
inficia la validità e la ricevibilità della manifestazione
di volontà contenuta nell’offerta.
La mancata sottoscrizione dell’offerta, quale atto
integrante la domanda di partecipazione alla gara, non può,
pertanto, essere considerata alla stregua di una mera
irregolarità formale sanabile nel corso del procedimento,
perché fa venire meno la certezza della provenienza e della
piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti
della dichiarazione nel suo complesso.
L’offerta presentata dal concorrente in una gara pubblica
riveste, infatti, natura di proposta contrattuale, ovvero di
impegno negoziale alla stipula del contratto in caso di
aggiudicazione: e proprio in quanto la sottoscrizione
esprime la volontà di assumere tale impegno, la sua mancanza
è causa di inesistenza della proposta negoziale.
L’essenzialità della sottoscrizione, oltre che nei principi
generali appena esposti, trova del resto conforto nel
dettato dell’art. 74, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006,
che testualmente prescrive che «le offerte hanno forma di
documento cartaceo o elettronico e sono sottoscritte con
forma manuale o digitale, secondo le norme di cui all’art.
77». Conseguentemente la disposta esclusione deve ritenersi
conforme al dettato dell’art. 46, comma 1-bis, dello stesso
d.lgs, il quale stabilisce che «la stazione appaltante
esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato
adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice».
Il Collegio osserva che la sottoscrizione di un documento è
lo strumento mediante il quale l’autore fa propria la
dichiarazione contenuta nello stesso, consentendo così non
solo di risalire alla paternità dell’atto, ma anche di
rendere l’atto vincolante verso i terzi destinatari
dell’espressione di volontà (CdS, V, 25.01.2011 n. 528): da
qui la necessità dell’apposizione della firma in calce,
ovvero a chiusura del documento, a significazione della
volontà di condividere pienamente le asserzioni che
precedono la sottoscrizione.
Come già affermato da questa Sezione con la sentenza n. 226
del 2012, nelle procedure concorsuali, «l’offerta si
configura come dichiarazione di volontà del privato
preordinata alla costituzione di un rapporto giuridico e,
dunque, se da una parte la sua sottoscrizione assolve alla
funzione di assicurarne la provenienza, la serietà,
l’affidabilità e l’insostituibilità, dall’altra assume il
connotato di condizione essenziale per la sua ammissibilità,
sia sotto il profilo formale che sostanziale», sicché la
sua mancanza inficia la validità e la ricevibilità della
manifestazione di volontà contenuta nell’offerta (CdS, V,
07.11.2008 n. 5547).
La mancata sottoscrizione dell’offerta, quale atto
integrante la domanda di partecipazione alla gara, non può,
pertanto, essere considerata alla stregua di una mera
irregolarità formale sanabile nel corso del procedimento,
perché fa venire meno la certezza della provenienza e della
piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti
della dichiarazione nel suo complesso (CdS, IV, 31.03.2010,
n. 1832).
L’offerta presentata dal concorrente in una gara pubblica
riveste, infatti, natura di proposta contrattuale, ovvero di
impegno negoziale alla stipula del contratto in caso di
aggiudicazione: e proprio in quanto la sottoscrizione
esprime la volontà di assumere tale impegno, la sua mancanza
è causa di inesistenza della proposta negoziale.
L’essenzialità della sottoscrizione, oltre che nei principi
generali appena esposti, trova del resto conforto nel
dettato dell’art. 74, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006,
che testualmente prescrive che «le offerte hanno forma di
documento cartaceo o elettronico e sono sottoscritte con
forma manuale o digitale, secondo le norme di cui all’art.
77». Conseguentemente la disposta esclusione deve
ritenersi conforme al dettato dell’art. 46, comma 1-bis,
dello stesso d.lgs, il quale stabilisce che «la stazione
appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di
mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente
codice»
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 19.09.2012 n. 1206 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nei
contratti d’appalto l’Amministrazione aggiudicatrice non è
obbligata a stipulare il contratto con il soggetto
aggiudicatario ed essa ben può rimuovere gli effetti
dell’atto di aggiudicazione provvisoria e finanche di quello
di aggiudicazione definitiva, purché la conseguente azione
amministrativa sia condotta coi necessari crismi della
legittimità.
Secondo un principio pacificamente affermato in
giurisprudenza e condiviso dal Collegio, infatti, «nei
contratti d’appalto l’Amministrazione aggiudicatrice non è
obbligata a stipulare il contratto con il soggetto
aggiudicatario ed essa ben può rimuovere gli effetti
dell’atto di aggiudicazione provvisoria e finanche di quello
di aggiudicazione definitiva, purché la conseguente azione
amministrativa sia condotta coi necessari crismi della
legittimità» (TAR Torino Piemonte, II, 03.04.2012, n.
385; TAR Toscana, II, 01.09.2011, n. 1372; conforme TAR
Sicilia, Catania, I, 25.02.2011, n. 463)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 19.09.2012 n. 1202 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L'esatta
qualificazione di un provvedimento va effettuata tenendo
conto del suo effettivo contenuto e della sua causa reale,
anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito
dall'amministrazione.
L'apparenza derivante da una terminologia, eventualmente
imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione
testuale dell'atto stesso non è vincolante, né può prevalere
sulla sostanza e neppure determina di per sé un vizio di
legittimità dell'atto, purché ovviamente sussistano i
presupposti formali e sostanziali corrispondenti al potere
effettivamente esercitato.
Costituisce peraltro approdo consolidato della
giurisprudenza quello per cui “l'esatta qualificazione di
un provvedimento va effettuata tenendo conto del suo
effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a
prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito
dall'amministrazione.
L'apparenza derivante da una terminologia, eventualmente
imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione
testuale dell'atto stesso non è vincolante, né può prevalere
sulla sostanza e neppure determina di per sé un vizio di
legittimità dell'atto, purché ovviamente sussistano i
presupposti formali e sostanziali corrispondenti al potere
effettivamente esercitato.” (TAR Campania Napoli, sez.
I, 06.02.2006, n. 1623)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.09.2012 n. 4942 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Parte
della giurisprudenza ha affermato la sussistenza
dell'obbligo di avviso dell'avvio del procedimento anche
nella ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente
vincolato, sulla scorta della considerazione che la pretesa
partecipativa del privato riguarda anche l'accertamento e la
valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque
fondare la determinazione amministrativa. Secondo tale tesi,
invero, non sarebbe rinvenibile alcun principio di ordine
logico o giuridico che possa impedire al privato,
destinatario di un atto vincolato, di rappresentare
all'amministrazione l'inesistenza dei presupposti ipotizzati
dalla norma, esercitando preventivamente sul piano
amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che
altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede
giudiziaria.
In definitiva, quello che rileva è la complessità
dell’accertamento da effettuare.
Secondo altra prospettazione, invece, “le norme sulla
partecipazione del privato al procedimento amministrativo
non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso
che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata
la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel
senso che la comunicazione è superflua -con prevalenza dei
principi di economicità e speditezza dell'azione
amministrativa- quando l'interessato sia venuto comunque a
conoscenza di vicende che conducono comunque all'apertura di
un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti.
In materia di comunicazione di avvio prevalgono, quindi,
canoni interpretativi di tipo sostanzialistico e
teleologico, non formalistico. Poiché l'obbligo di
comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex
art. 7 l. 07.08.1990 n. 241 è strumentale ad esigenze di
conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione
all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui
sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere
-in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del
provvedimento- l'omissione di tale formalità non vizia il
procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia
interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti
di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia
comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in
concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione.
Alla luce di questa linea interpretativa si può affermare
che la comunicazione di avvio del procedimento dovrebbe
diventare superflua quando: l'adozione del provvedimento
finale è doverosa (oltre che vincolata) per
l'amministrazione; i presupposti fattuali dell'atto
risultano assolutamente incontestati dalle parti; il quadro
normativo di riferimento non presenta margini di incertezza
sufficientemente apprezzabili; l'eventuale annullamento del
provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo
formale di comunicazione, non priverebbe l'amministrazione
del potere (o addirittura del dovere) di adottare un nuovo
provvedimento di identico contenuto (anche in relazione alla
decorrenza dei suoi effetti giuridici)”.
Tale orientamento da ultimo esposto appare al Collegio
condivisibile, in quanto rispettoso delle garanzie
procedimentali avulse da meccanicistiche applicazioni a
natura essenzialmente formalistica.
Si osserva al riguardo che la necessità della comunicazione
dell’avvio del procedimento ai destinatari dell’atto finale
è stata prevista in generale dal menzionato art. 7 L.
241/1990 non soltanto per i procedimenti complessi che si
articolano in più fasi (preparatoria, costitutiva ed
integrativa dell’efficacia), ma anche per i procedimenti
semplici che si esauriscono direttamente con l’adozione
dell’atto finale, i quali comunque comportano una fase
istruttoria da parte della stessa autorità emanante.
La portata generale del principio è confermata dal fatto che
il legislatore stesso (art. 7, 1° comma, ed art. 13 L.
241/1990) si è premurato di apportare delle specifiche
deroghe (speciali esigenze di celerità, atti normativi, atti
generali, atti di pianificazione e di programmazione,
procedimenti tributari) all’obbligo di comunicare l’avvio
del procedimento, con la conseguenza che negli altri casi
deve in linea di massima garantirsi tale comunicazione,
salvo che non venga accertata in giudizio la sua superfluità
in quanto il provvedimento adottato non avrebbe potuto
essere diverso anche se fosse stata osservata la relativa
formalità (cfr. CdS, sez. V n.2823 del 22.05.2001 e n. 516
del 04.02.2003; sez. VI n. 686 del 07.02.2002).
Ha dato luogo a contrasti, in dottrina ed in giurisprudenza,
la risposta al quesito relativo alla possibilità che la fase
procedimentale indicata possa essere omessa o compressa per
il fatto che si sia in presenza di provvedimento a contenuto
vincolato.
Deve rilevarsi in proposito che parte della
giurisprudenza ha affermato la sussistenza dell'obbligo
di avviso dell'avvio del procedimento anche nella ipotesi di
provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta
della considerazione che la pretesa partecipativa del
privato riguarda anche l'accertamento e la valutazione dei
presupposti sui quali si deve comunque fondare la
determinazione amministrativa (cfr. CdS sez. VI 20.04.2000
n. 2443; CdS 2953/2004; 2307/2004 e 396/2004). Secondo tale
tesi, invero, non sarebbe rinvenibile alcun principio di
ordine logico o giuridico che possa impedire al privato,
destinatario di un atto vincolato, di rappresentare
all'amministrazione l'inesistenza dei presupposti ipotizzati
dalla norma, esercitando preventivamente sul piano
amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che
altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede
giudiziaria.
In definitiva, quello che rileva è la complessità
dell’accertamento da effettuare (V. CdS, sez. VI n. 686 del
07.02.2002).
Secondo altra prospettazione, invece, “le norme
sulla partecipazione del privato al procedimento
amministrativo non vanno applicate meccanicamente e
formalmente, nel senso che occorra annullare ogni
procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa,
dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la
comunicazione è superflua -con prevalenza dei principi di
economicità e speditezza dell'azione amministrativa- quando
l'interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende
che conducono comunque all'apertura di un procedimento con
effetti lesivi nei suoi confronti.
In materia di comunicazione di avvio prevalgono, quindi,
canoni interpretativi di tipo sostanzialistico e
teleologico, non formalistico. Poiché l'obbligo di
comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex
art. 7 l. 07.08.1990 n. 241 è strumentale ad esigenze di
conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione
all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui
sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere
-in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del
provvedimento- l'omissione di tale formalità non vizia il
procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia
interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti
di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia
comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in
concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione.
Alla luce di questa linea interpretativa si può affermare
che la comunicazione di avvio del procedimento dovrebbe
diventare superflua quando: l'adozione del provvedimento
finale è doverosa (oltre che vincolata) per
l'amministrazione; i presupposti fattuali dell'atto
risultano assolutamente incontestati dalle parti; il quadro
normativo di riferimento non presenta margini di incertezza
sufficientemente apprezzabili; l'eventuale annullamento del
provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo
formale di comunicazione, non priverebbe l'amministrazione
del potere (o addirittura del dovere) di adottare un nuovo
provvedimento di identico contenuto (anche in relazione alla
decorrenza dei suoi effetti giuridici).” (Consiglio
Stato, sez. IV, 30.09.2002, n. 5003)
Tale orientamento da ultimo esposto appare al Collegio
condivisibile, in quanto rispettoso delle garanzie
procedimentali avulse da meccanicistiche applicazioni a
natura essenzialmente formalistica.
Sotto altro profilo, conforto a tale interpretazione si
rinviene in relazione al sopravvenuto disposto del comma 2
dell’art. 21-octies legge 15/2005, specificamente riferita
alla violazione procedimentale dell’articolo 7, ed
applicabile tanto alla ipotesi di atto vincolato che a
quella di atto discrezionale: la novella legislativa ha
previsto che l’amministrazione può dimostrare in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato , così superando la
censura di carattere formale (per una recente ricostruzione
del sistema alla luce della “novella”, si veda
Consiglio Stato, sez. VI, 07.01.2008, n. 19).
Essa è applicabile in astratto ratione temporis anche
alle controversie pendenti stante la natura processuale
della norma.
L'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, il quale stabilisce
che il provvedimento amministrativo non è annullabile per
mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'Amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato, costituisce disposizione di carattere
processuale, applicabile anche ai procedimenti in corso o
già definiti alla data di entrata in vigore della l. n. 15
del 2005.
L'orientamento in questione poggia sistematicamente
sull'evidente ratio della disposizione da ultimo
richiamata, volta a far prevalere gli aspetti sostanziali su
quelli formali nelle ipotesi in cui le garanzie
procedimentali non produrrebbero comunque alcun vantaggio a
causa della mancanza di un potere concreto di scelta da
parte dell'Amministrazione (Consiglio Stato, sez. VI,
18.02.2011, n. 1040)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.09.2012 n. 4925 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
requisito dell’esperienza nello specifico settore oggetto
dell’appalto, ex art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006,
deve essere inteso in maniera coerente con la diversità
delle competenze richieste in relazione al complesso della
prestazione prevista, senza necessità che la specifica
competenza dei componenti della commissione di gara debba
coprire ogni aspetto della procedura (trattandosi di figure
idonee a garantire la competenza giuridico-amministrativa
sempre necessaria nello svolgimento di procedimenti di
evidenza pubblica).
Non è necessario, pertanto, che l'esperienza professionale
di ciascun componente della Commissione copra tutti i
possibili ambiti oggetto di gara, in quanto è la
Commissione, unitariamente considerata, che deve garantire
quel grado di conoscenze tecniche richiesto nella specifica
fattispecie, in ossequio al principio di buon andamento
della P.A..
Ciò in primo luogo perché il requisito dell’esperienza nello
specifico settore oggetto dell’appalto, ex art. 84, comma 2,
del d.lgs. n. 163/2006, deve essere inteso in maniera
coerente con la diversità delle competenze richieste in
relazione al complesso della prestazione prevista, senza
necessità che la specifica competenza dei componenti della
commissione di gara debba coprire ogni aspetto della
procedura (trattandosi di figure idonee a garantire la
competenza giuridico-amministrativa sempre necessaria nello
svolgimento di procedimenti di evidenza pubblica.); non è
necessario, pertanto, che l'esperienza professionale di
ciascun componente della Commissione copra tutti i possibili
ambiti oggetto di gara, in quanto è la Commissione,
unitariamente considerata, che deve garantire quel grado di
conoscenze tecniche richiesto nella specifica fattispecie,
in ossequio al principio di buon andamento della P.A.
(Consiglio di Stato, sez. V, 10.08.2011, n. 4756).
In secondo luogo perché non è stato adeguatamente dimostrato
che la diversa composizione della commissione avrebbe
determinato un diverso esito della gara
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.09.2012 n. 4916 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
proprietario deve ritenersi passivamente legittimato
rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente
dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell'abuso.
Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua
assoluta estraneità all' abuso edilizio commesso da altri e
manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi
consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera
abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso
sia stato impossibilitato ad eseguire.
L’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi
sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva
disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di
demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei
luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del
provvedimento repressivo a costituire titolo per
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di
sedime sulla quale insiste il bene.
---------------
L'acquisizione gratuita dell'area non è una misura
strumentale, per consentire al Comune di eseguire la
demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma
costituisce una sanzione autonoma che consegue
all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando
l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio
e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito,
in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire
per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera
non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o
ambientali.
Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi di
inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si
riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non
potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e,
in particolare, nei confronti del proprietario dell'area
quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa
estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con
gli strumenti offerti dall'ordinamento.
---------------
Al fine di configurare la responsabilità del proprietario di
un'area per la realizzazione di una costruzione abusiva è
necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa
ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche
solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei
lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare
la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o
affinità tra responsabile e proprietario, della sua
eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di
vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime
patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni
e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi
elementi integrativi della colpa.
L'art. 31, commi 2 e 3 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che "il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale,
accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso,
in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni
essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o
la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene
acquisita di diritto, ai sensi del comma 3. Se il
responsabile dell' abuso non provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta
giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché
quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune".
Dall'esame della disposizione richiamata emerge che il
proprietario deve ritenersi passivamente legittimato
rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente
dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell'abuso.
Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua
assoluta estraneità all' abuso edilizio commesso da altri e
manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi
consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera
abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso
sia stato impossibilitato ad eseguire (cfr. tra le tante
Consiglio di Stato, IV, 03.05.2011, n. 2639; TAR Lazio,
Roma, II, 14.02.2011, n. 1395; TAR Umbria, 25.11.2008, n.
787).
Secondo la consolidata giurisprudenza condivisa dal
Collegio, l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi
commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed
esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità
dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino
dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo
l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire
titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
dell'area di sedime sulla quale insiste il bene (cfr. in
termini Tar Lazio, Latina, 01.09.2008, n. 1026; Tar
Campania, Napoli, II, 19.10.2006, n. 8673).
---------------
Sul punto, la Corte
Costituzionale (cfr. sentenza n. 345 del 15.07.1991) ha
precisato che l'acquisizione gratuita dell'area non è una
misura strumentale, per consentire al Comune di eseguire la
demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma
costituisce una sanzione autonoma che consegue
all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando
l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio
e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito,
in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire
per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera
non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o
ambientali. Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita
al patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi
di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si
riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non
potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e,
in particolare, nei confronti del proprietario dell'area
quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa
estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con
gli strumenti offerti dall'ordinamento.
La Cassazione ha, inoltre, affermato che al fine di
configurare la responsabilità del proprietario di un'area
per la realizzazione di una costruzione abusiva è necessaria
la sussistenza di elementi in base ai quali possa
ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche
solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei
lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare
la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o
affinità tra responsabile e proprietario, della sua
eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di
vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime
patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni
e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi
elementi integrativi della colpa (cfr. Cassazione penale,
sez. III, 12.04.2005, n. 26121) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 17.09.2012 n. 3879
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’art.
48 del codice dei contratti pubblici (D.lgs. n. 163/2006)
richiede che le imprese sorteggiate (e, in diverso momento,
l’aggiudicatario e il concorrente secondo classificato)
"comprovino" entro dieci giorni dalla data della richiesta
-termine che è da ritenere perentorio, salvo il caso di
oggettivo impedimento alla produzione della documentazione
non in disponibilità- il possesso dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente
richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione
indicata in detto bando o nella lettera di invito.
Poiché la legge stabilisce espressamente che l’esclusione
dell’impresa dalla gara è disposta “quando tale prova non
sia fornita” si deve ritenere che tale prova possa essere
fornita nei termini qualora inviata entro i dieci giorni
previsti dalla legge, anche se pervenuta il giorno
successivo alla scadenza del medesimo.
---------------
Le cause di esclusione dalle gare sono, invero, tipiche e
tassative in considerazione del fatto che possono comprimere
posizioni di diritto soggettivo garantite dal diritto
comunitario e dalla Costituzione, quali la libertà di
concorrenza e la capacità negoziale.
Dal principio di tassatività discende l’impossibilità per la
stazione appaltante di prevedere requisiti soggettivi di
partecipazione ulteriori e diversi e più restrittivi di
quelli indicati dalla legge. Ne consegue che, in presenza di
un’equivoca formulazione del bando o del disciplinare di
gara, recante i requisiti di partecipazione, è corretto
l’operato della stazione appaltante che abbia interpretato
la disposizione nel senso di richiedere esclusivamente i
requisiti soggettivi previsti dalla legge e non quelli non
rientranti nella discrezionale potestà della stazione
appaltante.
---------------
La dichiarazione relativa agli amministratori cessati può
essere resa dall’amministratore in carica.
L’art. 38 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce, infatti, che
l’attestazione del possesso dei requisiti può essere
effettuata mediante dichiarazione sostitutiva in conformità
alle previsioni del testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di documentazione
amministrativa, di cui al d.P.R. 28.12.2000, n. 445, il
quale prevede che tali dichiarazioni possano riguardare
anche terze persone.
In merito al primo motivo occorre rilevare che l’art. 48 del
codice dei contratti pubblici (D.lgs. n. 163/2006) richiede
che le imprese sorteggiate (e, in diverso momento,
l’aggiudicatario e il concorrente secondo classificato) "comprovino"
entro dieci giorni dalla data della richiesta -termine che è
da ritenere perentorio, salvo il caso di oggettivo
impedimento alla produzione della documentazione non in
disponibilità- il possesso dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente
richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione
indicata in detto bando o nella lettera di invito (da ultimo
Consiglio di Stato, sez. IV, 16.02.2012, n. 810).
Poiché la legge stabilisce espressamente che l’esclusione
dell’impresa dalla gara è disposta “quando tale prova non
sia fornita” si deve ritenere, in conformità a quanto
previsto nel caso specifico dal bando di gara, che tale
prova sia stata fornita nei termini in quanto inviata entro
i dieci giorni previsti dalla legge, anche se pervenuta il
giorno successivo alla scadenza del medesimo.
---------------
Il terzo motivo va respinto,
essendo stato fondato su una lettura del disciplinare di
gara volto ad estendere le dichiarazioni a soggetti diversi
da quelli previsti dalla legge, prevedendo addirittura
l’esclusione dell’impresa che non vi ottemperi: le cause di
esclusione dalle gare sono, invero, tipiche e tassative in
considerazione del fatto che possono comprimere posizioni di
diritto soggettivo garantite dal diritto comunitario e dalla
Costituzione, quali la libertà di concorrenza e la capacità
negoziale.
Dal principio di tassatività discende l’impossibilità per la
stazione appaltante di prevedere requisiti soggettivi di
partecipazione ulteriori e diversi e più restrittivi di
quelli indicati dalla legge. Ne consegue che, in presenza di
un’equivoca formulazione del bando o del disciplinare di
gara, recante i requisiti di partecipazione, è corretto
l’operato della stazione appaltante che abbia interpretato
la disposizione nel senso di richiedere esclusivamente i
requisiti soggettivi previsti dalla legge e non quelli non
rientranti nella discrezionale potestà della stazione
appaltante (in questo senso Cons. Stato sez. V, sentenza n.
3213 del 21.05.2010; TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza
17.01.2012, n. 130).
---------------
Il quinto motivo è deve essere respinto, posto che la
dichiarazione relativa agli amministratori cessati può
essere resa dall’amministratore in carica (Cons. Stato, IV,
27.06.2011, n. 3862). L’art. 38 del D.Lgs. 163/2006
stabilisce, infatti, che l’attestazione del possesso dei
requisiti può essere effettuata mediante dichiarazione
sostitutiva in conformità alle previsioni del testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
documentazione amministrativa, di cui al d.P.R. 28.12.2000,
n. 445, il quale prevede che tali dichiarazioni possano
riguardare anche terze persone (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.09.2012 n. 2347 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: L’art.
42 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che negli appalti di
servizi e forniture la dimostrazione delle capacità tecniche
dei concorrenti può essere fornita in uno o più dei seguenti
modi, a seconda della natura, della quantità o
dell'importanza e dell'uso delle forniture o dei servizi: a)
presentazione dell'elenco dei principali servizi o delle
principali forniture prestati negli ultimi tre anni con
l'indicazione degli importi, delle date e dei destinatari,
pubblici o privati, dei servizi o forniture stessi; in caso
di servizi e forniture prestati a favore di amministrazioni
o enti pubblici, essi sono provati da certificati rilasciati
e vistati dalle amministrazioni o dagli enti medesimi; per i
servizi e forniture prestati a privati, l'effettuazione
effettiva della prestazione è dichiarata da questi o, in
mancanza, dallo stesso concorrente.
La norma è dunque chiara nello stabilire le particolari
modalità con cui la prova della capacità tecnica può essere
data: ne consegue che la presentazione delle fatture
relative al servizio non è elemento sufficiente a superare
la presunzione legale del contenuto e dei caratteri della
prestazione desumibile dal corrispondente certificato, né il
fatto che non esista un modello legale per la certificazione
dei servizi può far ritenere che le espressioni utilizzate
nei certificati presentati trovino giustificazione
esclusivamente nel modello utilizzato.
In merito occorre rilevare che
l’art. 42 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che negli appalti
di servizi e forniture la dimostrazione delle capacità
tecniche dei concorrenti può essere fornita in uno o più dei
seguenti modi, a seconda della natura, della quantità o
dell'importanza e dell'uso delle forniture o dei servizi: a)
presentazione dell'elenco dei principali servizi o delle
principali forniture prestati negli ultimi tre anni con
l'indicazione degli importi, delle date e dei destinatari,
pubblici o privati, dei servizi o forniture stessi; in caso
di servizi e forniture prestati a favore di amministrazioni
o enti pubblici, essi sono provati da certificati rilasciati
e vistati dalle amministrazioni o dagli enti medesimi; per i
servizi e forniture prestati a privati, l'effettuazione
effettiva della prestazione è dichiarata da questi o, in
mancanza, dallo stesso concorrente.
La norma è dunque chiara nello stabilire le particolari
modalità con cui la prova della capacità tecnica può essere
data: ne consegue che la presentazione delle fatture
relative al servizio non è elemento sufficiente a superare
la presunzione legale del contenuto e dei caratteri della
prestazione desumibile dal corrispondente certificato, né il
fatto che non esista un modello legale per la certificazione
dei servizi può far ritenere che le espressioni utilizzate
nei certificati presentati trovino giustificazione
esclusivamente nel modello utilizzato (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.09.2012 n. 2347 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le modifiche apportate all'art. 38 del D. Lgs. n.
163 del 2006 per effetto dell'art. 4, c. 2, del D.L. n. 470
del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 106 del 2011, non
riguardano soltanto gli appalti dei lavori pubblici.
Le imprese partecipanti alle gare d'appalto in forma
associata hanno l'obbligo di indicare già nell'offerta le
quote di partecipazione non soltanto al raggruppamento,
costituendo o costituito, ma anche dei lavori.
Le modifiche apportate all'art. 38 del D. Lgs. n. 163 del
2006 per effetto dell'art. 4, c. 2, del D.L. n. 470 del
2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 106 del
2011, non riguardano soltanto gli appalti dei lavori
pubblici. Sebbene possano suscitare dubbi e perplessità
alcune espressioni letterali utilizzate, tuttavia le
modifiche in questione, concernendo i requisiti generali per
la partecipazione alle gare di appalto di cui all'art. 38
del D.Lgs. n. 163 del 2006 ("Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE"), si
applicano a tutti gli appalti ivi disciplinati (lavori,
servizi e forniture).
---------------
Secondo un prevalente indirizzo giurisprudenziale, ai sensi
dell'art. 37, c. 13, del D.Lgs. n. 163 del 2006, le imprese
partecipanti alle gare d'appalto in forma associata hanno
l'obbligo di indicare già nell'offerta le quote di
partecipazione non soltanto al raggruppamento, costituendo o
costituito, ma anche dei lavori, atteso che una
dichiarazione "ex post" in sede di esecuzione non
potrebbe assolvere allo stesso modo alle esigenze di
trasparenza ed affidabilità che caratterizzano la gara, e
deve sussistere anche una perfetta corrispondenza tra quota
di lavori e quota di effettiva partecipazione al
raggruppamento e l'una e l'altra devono essere stabilite e
manifestate dai componenti del raggruppamento all'atto della
partecipazione alla gara, costituendo ambedue le
dichiarazioni requisiti di ammissione alla gara, e non
contenuto di obbligazione da far valere in sede di
esecuzione del contratto, quand'anche non esplicitato dalla
lex specialis.
E' stata conseguentemente ritenuta illegittima l'ammissione
alla gara per l'appalto pubblico di servizi, qualora
l'offerta proveniente da un'associazione temporanea di
imprese non specifichi le parti del servizio che saranno
eseguite dalle singole imprese e le quote di partecipazione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.09.2012 n. 4895 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Nessun addebito può muoversi all'operato della
p.a per aver revocato la gara di appalto per la gestione del
servizio calore degli immobili comunali e per averlo
successivamente affidato direttamente ad una propria società
controllata.
La giurisprudenza ha escluso ai fini dell'ammissibilità
della domanda di risarcimento del danno la sufficienza del
solo annullamento del provvedimento lesivo, ritenendo
necessaria anche la sussistenza dell'elemento soggettivo del
dolo o della colpa.
Tuttavia, nel caso di specie, pur sussistendo ai fini
dell'ammissibilità della domanda di risarcimento l'elemento
oggetto della fattispecie risarcitoria (acclarata
illegittimità dell'atto amministrativo, astrattamente
foriero di danno), non si rinviene invece l'elemento
soggettivo della colpa.
Infatti, nessun addebito può muoversi all'operato
dell'amministrazione sotto il profilo della negligenza,
dell'imperizia o dell'imprudenza per aver revocato (con la
delibera ritenuta illegittima) la gara di appalto per la
gestione del servizio calore degli immobili comunali e per
averlo successivamente affidato, con separata deliberazione,
direttamente ad una propria società controllata: tale
scelta, infatti, tutt'altro che improvvisa, estemporanea ed
ingiustificata (ancorché ritenuta illegittima), è stata
determinata dalla convinzione della ricorrenza, nel caso di
specie, delle condizioni per poter procedere all'affidamento
diretto del servizio, condizioni consistenti nell'effettivo
esercizio da parte dell'ente locale di un controllo
sull'affidatario analogo a quello svolto sui propri servizi
e nello svolgimento da parte dell'affidatario della maggior
parte della propria attività con l'ente locale controllate.
Il fatto che tali criteri, in quanto meramente formali non
siano stati ritenuti di per sé sufficienti alla
configurazione del "controllo analogo" (solo in
presenza del quale può procedersi all'affidamento diretto di
un servizio ad una propria controllata), così determinando
l'illegittimità della delibera di revoca della gara, non è
sufficiente a far ritenere la sussistenza della colpa,
giacché all'epoca in cui l'amministrazione ha operato quella
scelta non vi era sul punto un sicuro e consolidato
indirizzo giurisprudenziale ed interpretativo (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 14.09.2012 n. 4894 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Il
termine di prescrizione dei crediti retributivi dovuti al
pubblico dipendente è quinquennale e decorre in costanza del
rapporto di lavoro.
Sulla base di questo orientamento si fondano numerose
pronunce del Consiglio di Stato, con le quali si è affermato
che "è pacifico che il principio della non decorrenza del
termine di prescrizione dei crediti di lavoro durante il
rapporto lavorativo è stato introdotto per i soli rapporti
di diritto privato e limitatamente ai rapporti non soggetti
alla cosiddetta “tutela forte” del lavoratore e non invece
per i rapporti di pubblico impiego, caratterizzati da una
adeguata protezione contro forme arbitrarie di licenziamento"
(in tal senso C.di S., VI, 16.11.2000, n. 4417, e C.di S.,
VI, 31.07.2003 n. 6140, che riprendono C. di S., V, n.
159/1995). Infatti "il datore di lavoro pubblico, in
quanto istituzionalmente vincolato alle regole sulla
discrezionalità amministrativa ed ai principi costituzionali
di buon andamento e imparzialità è in condizione di operare
una pressione ridotta rispetto ai propri dipendenti, anche
su quelli a tempo" (C. di S., VI, n. 8 del 2001).
Pertanto “il termine di prescrizione dei crediti
retributivi relativi ad un rapporto di lavoro con la P.A.,
per tutte le pretese riconosciute ai pubblici dipendenti che
hanno natura retributiva, è quinquennale e decorre in
costanza del rapporto stesso sebbene questo abbia carattere
provvisorio o temporaneo, in quanto non è sostenibile, per
la natura del rapporto, che il dipendente pubblico possa
essere esposto a possibili ritorsioni e rappresaglie quando
egli tuteli in via giudiziale i propri diritti ed interessi”
(C. di S., V, 17.02.2004, n. 601; C.di S., V, 10.11.1992 n.
1243; C.d.S. sez. VI, 31.07.2003 4417; C.d.S. sez. VI,
16.11.2000 n. 6140; così anche le sentenze del Consiglio di
Stato, sezione V, depositate il 03.04.2007 nn. 1486, 1487,
1488, 1489, 1490, 1491, 1492, 1493, 1494, 1495, 1496, 1497,
1498, 1499, 1500, 1501, 1502, 1503, 1504).
Di fronte a questo orientamento maggioritario si colloca un
altro filone interpretativo, che ha ritenuto applicabile la
regola della prescrizione decennale ai crediti attinenti al
rapporto di pubblico impiego che presuppongano
l'accertamento della posizione giuridica dell'interessato.
Quest'ultimo filone si basa su una lettura combinata delle
norme di cui agli articoli 2934 e 2935 c.c. per la quale la
prescrizione, e dunque l'estinzione del diritto nel termine
ordinario, comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto
stesso può essere fatto valere. Di conseguenza nei casi in
cui si rilevi incertezza sulla sussistenza e sui caratteri
di una certa posizione giuridica, la prescrizione può
iniziare il suo decorso solo dal momento dell'accertamento
del diritto stesso.
Al riguardo si è affermato infatti che “in materia di
crediti attinenti a rapporto di pubblico impiego si applica
la prescrizione decennale qualora i crediti non derivino
direttamente da norme recanti la disciplina del rapporto, ma
presuppongano l'accertamento della posizione giuridica
dell'interessato” (C. di S., V, 21.05.2004, n. 5973, che
riprende C. di S., VI, 11.12.1996, n. 1736).
Secondo la ricorrente
quest’ultimo orientamento sarebbe applicabile per risolvere
la vertenza in quanto il diritto da lei vantato può essere
fatto valere sul presupposto dell’accertamento giudiziale
della natura del rapporto per cui il termine di prescrizione
non decorre fino a quando non si sia concretizzato tale
presupposto.
Tale impostazione non può essere condivisa.
Deve essere ribadito il principio secondo il quale il
termine di prescrizione dei crediti retributivi dovuti al
pubblico dipendente è quinquennale e decorre in costanza del
rapporto di lavoro.
La norma applicabile al caso in esame è infatti l'articolo
2948 n. 4) per effetto del quale si prescrivono in cinque
anni gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve
pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi e non
gli articoli 2934 e 2935 c.c.
Ciò vale sia per quanto attiene ai rapporti di lavoro
privato che quanto attiene a quelli pubblici con la
differenza che, mentre per i primi la prescrizione comincia
a decorrere solo una volta concluso il rapporto, per i
secondi la prescrizione può cominciare a decorrere in corso
di rapporto.
Questa diversità di trattamento si giustifica col fatto che
la rinnovazione dei contratti di lavoro a tempo determinato
stipulati con la pubblica amministrazione non riveste
carattere di normalità e pertanto non può esserci il timore
da parte del prestatore di lavoro di non vedersi rinnovato
il contratto perché tale situazione si presenta
perfettamente conforme al principio secondo il quale
l’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione avviene
tramite regolare concorso.
Il caso che ora occupa sfugge all’applicazione dei principi
generali appena riassunti.
Nel caso di specie i contratti a termine stipulati sono
stati utilizzati, con la volontà di entrambe le parti, per
procedere all'assunzione di personale pubblico dipendente
senza il rispetto del generale principio del concorso.
I contratti di cui si tratta sono stati quindi
caratterizzati da palese precarietà, ed il lavoratore non
può vantare, nei confronti del datore di lavoro, la
cosiddetta “tutela forte” presupposto del decorso
della prescrizione in costanza di rapporto. (cfr. C.S. , V,
02.08.2011, n. 4570).
Inoltre, la regolare successione nel tempo dei contratti,
interrotta solo dalla definitiva conclusione del rapporto,
impone di considerarli alla stregua di un rapporto unico.
In conclusione, afferma il Collegio che i diversi periodi di
lavoro dell’appellante devono essere considerati
unitariamente, e che la prescrizione, quinquennale ai sensi
dell’articolo 2948, n. 4, del codice civile, decorre dalla
definitiva conclusione del rapporto, avvenuta nel 1992, per
cui l’attivazione della pretesa avvenuta, a parte eventuali
atti interruttivi, nell’anno 1995 con la proposizione del
ricorso di primo grado, deve essere ritenuta tempestiva
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.09.2012 n. 4890 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
ragionevolezza delle misure di limitazione della
partecipazione ai pubblici appalti deve essere valutata in
relazione alle concrete caratteristiche del contratto da
aggiudicare, e deve rispondere ad una necessità obiettiva.
Osserva il Collegio che la ragionevolezza delle misure di
limitazione della partecipazione ai pubblici appalti deve
essere valutata in relazione alle concrete caratteristiche
del contratto da aggiudicare, e deve rispondere ad una
necessità obiettiva
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.09.2012 n. 4889 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
mancanza di una disciplina speciale posta a tutela
della…..”potenziale commutabilità della sanzione demolitoria
in quella pecuniaria (art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001),
ovvero un regime di favore in sede di condono edilizio, come
avvenuto con l'art. 39, l. n. 724 del 1994….la posizione di
colui che abbia realizzato l'opera edilizia sulla base di un
titolo annullato non si differenzia dagli altri soggetti che
hanno invece realizzato l'opera abusiva senza titolo.
Risulta pertanto legittimo il riferimento e l’applicazione
dell’art. 38 sopra citato.
Le stesse considerazioni devono ritenersi applicabili anche
per quanto concerne i motivi a fondamento dell’impugnativa
dell’ordinanza di demolizione del 06/06/2012 n. 4 nella
parte in cui si sostiene la violazione dell’art. 38 del Dpr
380/2001 in cui l’Amministrazione sarebbe incorsa nel
momento in cui avrebbe applicato “automaticamente”
l’ordinanza di demolizione una volta posto in essere
l’annullamento in autotutela del permesso di costruire. Si è
avuto modo di evidenziare sul punto come l’Amministrazione
abbia effettivamente posto in essere un distinto
procedimento nel corso del quale ha verificato la mancanza
della contiguità dei fondi e il carattere abusivo sopra
ricordato. L’Amministrazione ha inoltre constatato
l’applicabilità della sanzione della riduzione in pristino
e, ciò, in considerazione del breve periodo di tempo
trascorso, nell’ambito del quale erano stati realizzati i
soli muri perimetrali.
Sul punto va ricordato che in mancanza di una disciplina
speciale (non rinvenibile nel caso di specie) posta a tutela
della…..”potenziale commutabilità della sanzione
demolitoria in quella pecuniaria (art. 38 d.P.R. n. 380 del
2001), ovvero un regime di favore in sede di condono
edilizio, come avvenuto con l'art. 39, l. n. 724 del
1994….la posizione di colui che abbia realizzato l'opera
edilizia sulla base di un titolo annullato non si
differenzia dagli altri soggetti che hanno invece realizzato
l'opera abusiva senza titolo (Cons. Stato Sez. IV,
10.08.2011, n. 4770 riforma della sentenza del Tar Toscana-Firenze, sez. III, n. 6648/2010)”. Risulta
pertanto legittimo il riferimento e l’applicazione dell’art.
38 sopra citato
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 14.09.2012 n. 1181 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: I
titoli abilitativi sono impugnabili dai controinteressati
dal momento in cui si possa ritenere integrata la conoscenza
da parte dei terzi dell'intervento programmato. In
particolare, tale orientamento postula che le opere abbiano
raggiunto uno stadio e una consistenza tali da renderne
chiara la lesività per le posizioni soggettive del
confinante.
Detto orientamento giurisprudenziale deve, tuttavia,
considerarsi “recessivo” rispetto a quella Giurisprudenza
del Consiglio di Stato che, sempre ai fini di individuare il
termine di impugnativa, ritiene comunque indispensabile
verificare, nel concreto, in quale preciso momento il
ricorrente abbia acquisito l’effettiva consapevolezza della
lesione eventualmente manifestatasi.
Il termine dei lavori deve allora essere considerato una
“presunzione” (peraltro “relativa”) dell’avvenuta
conoscibilità della lesione ed, in quanto tale, non deve
essere considerato applicabile tutte le volte che venga in
rilievo sulla base di ulteriori elementi.
---------------à
L’orientamento prevalente del Consiglio di Stato ritiene che
la nozione di “piena conoscenza…non postula necessariamente
la conoscenza di tutti gli elementi, essendo sufficiente
quella degli elementi essenziali quindi, l’autorità
emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto
lesivo”.
--------------
La piena conoscenza del provvedimento causativo…non può
ritenersi operante oltre ogni limite temporale ed in base ad
elementi puramente esteriori, formali o estemporanei, quali
ad esempio, atti d’iniziativa di parte (richieste d’accesso,
istanze segnalazioni, ecc) con la conseguenza inaccettabile
che l’attività dell’Amministrazione e le iniziative dei
contro interessati restano soggette in definitivamente o per
tempi dilatati alla possibilità di impugnazione anche quando
l’interessato non si renda parte diligente nel far valere la
pretesa entro i limiti temporali assicuratigli dalla legge.
---------------
Nel contenzioso in materia edilizia la vicinitas non è
elemento che possa ex se radicare la legittimazione al
ricorso avverso il permesso di costruire in assenza di prove
in ordine ai pregiudizi derivanti dal rilascio a terzi del
suddetto titolo abilitativo.
Sul punto va rilevato come non possa
condividersi la ricostruzione giuridica posta in essere
dalla ricorrente per quanto riguarda il rispetto dei termini
previsti per l’impugnativa e di cui al connaturato disposto
di cui agli artt. 29 e 41 del codice del processo.
Parte
ricorrente sostiene che il decorso di detti termini sia il
risultato della piena conoscenza della lesività dell’atto,
lesività che sarebbe stata pienamente “percepita”
solo a seguito dell’esperimento del diritto di accesso. Tesi
quest’ultima sostenuta sia nel proponimento del ricorso
principale sia, ancora, per quanto concerne i successivi
motivi aggiunti.
A tal fine il ricorrente riporta l’orientamento
giurisprudenziale in base al quale, in materia edilizia, i
titoli abilitativi sono impugnabili dai controinteressati
dal momento in cui si possa ritenere integrata la conoscenza
da parte dei terzi dell'intervento programmato. In
particolare, tale orientamento postula che le opere abbiano
raggiunto uno stadio e una consistenza tali da renderne
chiara la lesività per le posizioni soggettive del
confinante.
Detto orientamento giurisprudenziale deve, tuttavia,
considerarsi “recessivo” rispetto a quella Giurisprudenza
del Consiglio di Stato che, sempre ai fini di individuare il
termine di impugnativa, ritiene comunque indispensabile
verificare, nel concreto, in quale preciso momento il
ricorrente abbia acquisito l’effettiva consapevolezza della
lesione eventualmente manifestatasi (Consiglio di Stato sez. IV, 20.07.2011, n. 4374).
Il termine dei lavori deve allora essere considerato una
“presunzione” (peraltro “relativa”) dell’avvenuta
conoscibilità della lesione ed, in quanto tale, non deve
essere considerato applicabile tutte le volte che venga in
rilievo sulla base di ulteriori elementi, ipotesi
quest’ultima verificatasi nel caso di specie.
Dall’esame della documentazione dedotta in giudizio si
desume come i Sig.ri Virginio e Gaspare Mazzocco avevano
presentato un’istanza (inviata per conoscenza agli attuali
controinteressati) e, in data 04/11/2011, diretta ad
ottenere, da parte del Comune, la verifica delle distanze
tra le costruzioni confinanti.
Il successivo 19.03.2012, sempre i Sig.ri Virginio e
Gaspare Mazzocco, avevano provveduto ad inviare al Comune
un’analoga nota con la quale avevano reiterato la richiesta
di verifica di legittimità dell’atto impugnato e, ciò, in
considerazione dell’assunta violazione delle norme sulle
distanze tra la stalla e l’edificio (presumibilmente in
costruzione) di proprietà dei controinteressati.
L’invio di dette note dimostra come la lesività dell’opera
fosse, in entrambe le date sopra ricordate, già del tutto
manifesta.
Sul punto va inoltre ricordato come l’orientamento
prevalente del Consiglio di Stato (Sez. IV, 13.06.2011,
n. 3583) ritiene che la nozione di “piena conoscenza…non
postula necessariamente la conoscenza di tutti gli elementi,
essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quindi,
l’autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il
suo effetto lesivo”.
Il tenore delle note inviate dalla parte ricorrente
evidenzia inoltre come detta lesività costituisse oramai un
dato di fatto oggettivo, in quanto strettamente correlato ad
un dato ictu oculi verificabile e, in quanto tale,
riconducibile alla presunta violazione delle regole sulle
distanze.
Altresì censurabile è la tesi di parte ricorrente che
vorrebbe far decorrere la piena conoscenza della “lesività”
o dall’ultimazione dei lavori o, ancora, dall’acquisizione
della documentazione successiva alla presentazione di un
istanza di accesso agli atti. Sul punto è necessario
ricordare quanto affermato da un’altrettanto recente
Giurisprudenza nella parte ha sancito che... ”la piena
conoscenza del provvedimento causativo…non può ritenersi
operante oltre ogni limite temporale ed in base ad elementi
puramente esteriori, formali o estemporanei, quali ad
esempio, atti d’iniziativa di parte (richieste d’accesso,
istanze segnalazioni, ecc) con la conseguenza inaccettabile
che l’attività dell’Amministrazione e le iniziative dei
contro interessati restano soggette in definitivamente o per
tempi dilatati alla possibilità di impugnazione anche quando
l’interessato non si renda parte diligente nel far valere la
pretesa entro i limiti temporali assicuratigli dalla legge
(Consiglio di Stato 05.03.2010 n. 1298)”.
Deve pertanto concludersi nel dichiarare l’irricevibilità
del ricorso per tardività della sua proposizione e ai sensi
di cui all’art. 35, comma 1, lett. A) e, ciò, per quanto
attiene i Sig. Virginio e Gaspare Mazzocco.
Va al contrario rilevata la mancanza di interesse a
ricorrere per quanto riguarda gli altri soggetti ricorrenti,
questi ultimi riferiti alle Sig. re Scalco Caterina, Rozzanigo Antonella e Mazzocco Marianna. Detti ricorrenti
non hanno fornito alcun elemento a supporto atto a
differenziare e qualificare il loro interesse a ricorrere.
Sul punto va ricordato come la Giurisprudenza prevalente
(Cons. di Stato Sez. VI 27.01.2012 n. 420) ha affermato
che “nel contenzioso in materia edilizia la vicinitas non è
elemento che possa ex se radicare la legittimazione al
ricorso avverso il permesso di costruire in assenza di prove
in ordine ai pregiudizi derivanti dal rilascio a terzi del
suddetto titolo abilitativo" (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 14.09.2012 n. 1179 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulle condizioni che devono sussistere per
l'identificazione giuridica di un servizio pubblico.
Per identificare giuridicamente un servizio pubblico, non è
indispensabile, a livello soggettivo, la natura pubblica del
gestore, mentre è necessaria la vigenza di una previsione
legislativa che, alternativamente, ne preveda l'istituzione
e la relativa disciplina, oppure che ne rimetta
l'istituzione e l'organizzazione all'Amministrazione.
Oltre alla natura pubblica delle regole che presiedono allo
svolgimento delle attività di servizio pubblico e alla
doverosità del loro svolgimento, è ancora necessario, nella
prospettiva di un'accezione oggettiva della nozione, che
tali attività presentino carattere economico e produttivo (e
solo eventualmente costituiscano anche esercizio di funzioni
amministrative), e che le utilità da esse derivanti siano
dirette a vantaggio di una collettività, più o meno ampia,
di utenti (in caso di servizi divisibili) o comunque di
terzi beneficiari (in caso di servizi indivisibili)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.09.2012 n. 4870 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Parafarmacie, luce (non) verde per le insegne
luminose a croce.
E' illegittimo il provvedimento con il quale è stata
rigettata l'istanza presentata dalla titolare di una
parafarmacia, tendente a ottenere l'autorizzazione a
installare, in corrispondenza del proprio esercizio, una
croce bifacciale di colore blu, al centro della quale
sarebbe stata inserita la scritta "parafarmacia".
La ricorrente, titolare di una parafarmacia, ha impugnato il
provvedimento con cui il Comune ha negato alla medesima
l’installazione di impianti pubblicitari strumentali
all’attività svolta.
In particolare, ha eccepito l’illegittimità del diniego
sulla scorta della violazione del D.Lgs. n. 153/2009,
vigente in materia di disciplina delle farmacie; tanto,
poiché la medesima, mediante la menzionata istanza, aveva
chiesto l’autorizzazione a installare, al di fuori del
proprio esercizio commerciale, una croce con impianto a neon
di colore blu, con la scritta parafarmacia, proprio per
differenziarla da quella riservata in via esclusiva ai
titolari delle farmacie.
Costituitasi in giudizio, l’amministrazione ha eccepito in
rito l’inammissibilità del ricorso in quanto sarebbe stato
proposto avverso un atto meramente confermativo.
Il Collegio di Roma, in via preliminare, non ha condiviso
l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla civica P.A..
Al riguardo ha evidenziato che l’amministrazione, con il
provvedimento impugnato, aveva respinto la richiesta della
ricorrente sulla considerazione per cui, analogamente a
quanto espresso in merito a una precedente istanza, la
competente unità organizzativa tecnica municipale aveva
espresso parere contrario in ragione del contrasto con
quanto previsto nella deliberazione di Giunta regionale n.
864/2006.
Sicché, ha precisato che il contestato diniego, sebbene
provvisto di motivazione e statuizioni identiche a un
precedente atto, era stato tuttavia adottato sulla base di
una “rinnovata istruttoria”, incentrata su un nuovo
parere che, seppur analogo a quello reso nella precedente
istruttoria, aveva comportato una nuova valutazione
dell’amministrazione comunale e, così, l'esercizio di un
autonomo potere.
Per siffatte ragioni, ha ritenuto che il provvedimento
impugnato non poteva essere considerato atto meramente
confermativo, bensì un nuovo atto provvedimentale
autonomamente impugnabile.
Con riferimento al merito della vicenda, l’adito Tribunale
ha ritenuto il gravame fondato sia con riferimento alla
violazione della deliberazione di Giunta regionale n.
864/2006, sia in relazione alla mancata osservanza delle
disposizioni di cui al D.Lgs. n. 153/2009 (“Disciplina
sui nuovi servizi erogati dalle farmacie nell’ambito del
S.S.N.”).
E infatti, quanto alla menzionata deliberazione regionale,
ha osservato che il medesimo atto, sotto la rubrica "insegna",
in alcuna guisa contiene precipue indicazioni sulle
denominazioni che possono essere usate per individuare gli
esercizi commerciali diversi dalle farmacie che vendono
medicinali.
L’atto deliberativo, non a caso, specifica unicamente che: "…
in ogni caso non dovranno essere utilizzate denominazioni e
simboli che possano indurre il cliente a ritenere che si
tratti di una farmacia".
Di converso ha evidenziato che la deliberazione prevede
espressamente l’ammissibilità dell’adozione della
denominazione "parafarmacia", atteso il comune
utilizzo del termine con riferimento a esercizi diversi
dalle farmacie in cui si commercializzano prodotti di
interesse sanitario.
Parallelamente, con riguardo alla disciplina di cui al
D.Lgs. n. 153/2009, il giudicante ha ricordato che l’art. 5
prevede che: "Al fine di consentire ai cittadini
un'immediata identificazione delle farmacie operanti
nell'ambito del Servizio sanitario nazionale, l'uso della
denominazione «farmacia» e della croce di colore verde, su
qualsiasi supporto cartaceo, elettronico o di altro tipo, è
riservato alle farmacie aperte al pubblico e alle farmacie
ospedaliere".
Considerato l’esposto dato normativo, il G.A. romano,
dunque, ha sottolineato la sussistenza del solo divieto di
utilizzo di denominazioni e simboli potenzialmente idonei a
indurre i consumatori in errore circa la natura di farmacia
dell’esercizio.
Viceversa, ha precisato che l’utilizzo della denominazione "parafarmacia"
e di una croce di diverso colore, come il blu, da un lato,
non è vietata dalle fonti normative, dall’altro, non appare
idonea a ingenerare alcuna confusione nei consumatori ai
fini dell’individuazione della esatta tipologia di servizio.
Di conseguenza, il TAR capitolino ha ritenuto che l’elemento
indicativo delle sole farmacie è il simbolo "croce"
di colore verde e non il simbolo "croce" di altri
colori.
A fortiori nelle ipotesi, come quella in parola, in cui il
menzionato simbolo di colore blu doveva essere associato
alla denominazione di "parafarmacia" (tratto da
www.ipsoa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 12.09.2012 n. 7697 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
E' illegittima la lettera di invito al gestore
uscente del servizio a formulare offerta per l'affidamento
del servizio pubblico di distribuzione gas naturale nel
territorio, dopo il 29.06.2011.
Per effetto dell'entrata in vigore (il 29.06.2011) dell'art.
24 del decreto legislativo n. 93/2011, tutte le gare per
l'affidamento del servizio di distribuzione del gas,
ancorché bandite, che non fossero giunte prima di tale
ultima data almeno allo stadio dell'invio della lettera di
invito, avrebbero dovuto ritenersi definitivamente precluse
(con assorbimento delle preesistenti concessioni nei nuovi
ambiti territoriali minimi di cui all'art. 46-bis del d.l.
n. 159 del 2007); tale meccanismo preclusivo risultava
peraltro già disposto a decorrere dal 01.04.2011, dall'art.
3, c. 3, del d.m. 19.01.2011, così che il sopravvenuto
decreto legislativo avrebbe costituito un rinforzo della
fonte normativa ad opera del legislatore, al fine di fugare
dubbi sulla possibile inidoneità della fonte regolamentare a
determinare i disposti effetti transitori.
Pertanto, è illegittima, nel caso di specie, la lettera
d'invito spedita dal comune dopo la scadenza del termine del
29.06.2011 al quale il suddetto art. 24, del d.lvo n.
93/2011 ha ancorato la definitiva preclusione dell'indizione
e/o prosecuzione di gare extra-ambito (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 12.09.2012 n. 577 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI:
Cassazione, no al licenziamento del sindacalista
che dà dello “sbruffone” al capo.
La Corte di Cassazione, con la
sentenza 11.09.2012 n. 15165, ha stabilito la reintegra
nel posto di lavoro di un dipendente di un’azienda, nonché
delegato sindacale, che aveva dato dello “sbruffone”
all’amministratore unico dell’azienda stessa rifiutando, fra
l’altro, di ricevere la documentazione sulle procedure di
mobilità inerenti anche la sua posizione lavorativa.
Il lavoratore era stato licenziato nel 2006 in seguito al
suo rifiuto di ricevere i suddetti documenti.
Quest’atto, infatti, era stato valutato come un gesto di
insubordinazione, che accompagnato all’apprezzamento poco “felice”
che aveva rivolto all’amministratore unico, ne giustificava
l’espulsione.
La Cassazione, tuttavia, appare di diverso avviso. Per ciò
che attiene all’espressione pronunciata dal lavoratore, per
quanto possa apparire censurabile dal punto di vista
disciplinare, “appare inidonea a giustificare l’adozione
della misura espulsiva, essendosi trattato di una semplice
reazione emotiva scevra da intenti di minaccia”.
Per quanto riguarda, invece, il suo rifiuti a ricevere la
documentazione di cui sopra, i giudici ritengono che il
lavoratore “non aveva violato i suoi obblighi di
diligenza, non potendo farsi rientrare il suo rifiuto alla
ricezione dell’atto contenente la comunicazione della messa
in mobilità nell’alveo delle obbligazioni nascenti dal
contratto”.
Sulla base di queste motivazione, la Suprema Corte di
Cassazione ritiene il licenziamento una “sanzione
sproporzionata” e sancisce il riconoscimento in capo al
danneggiato degli stipendi arretrati (tratto da e link a
www.leggioggi.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: E'
illegittimo il provvedimento sindacale di nomina del
segretario comunale quale responsabile di settore laddove
non è stato dato conto dell’impossibilità di procedere con
le modalità alternative del Regolamento comunale degli
Uffici e dei Servizi, limitandosi a richiamare il disposto
del comma 4, norma la cui operatività interviene, come
detto, solo in caso di impossibilità a procedere con le
modalità contemplate dalla disposizione nei commi
precedenti.
Invero, il regolamento comunale:
● dispone all’art. 25, che la responsabilità di un servizio,
in caso di vacanza del posto o di assenza prolungata del
titolare, possa essere assegnata ad interim, per un periodo
di tempo determinato, ad altro funzionario di pari
categoria;
● tali mansioni, prosegue il comma 2, possono anche essere
transitoriamente assegnate a dipendenti di categoria
immediatamente inferiore, con l’osservanza delle condizioni
e modalità previste dalla normativa vigente in materia;
l’assegnazione temporanea è disposta dal Sindaco;
● il successivo comma 3 stabilisce poi che possa essere
prevista la nomina del responsabile del servizio, previa
convenzione tra Enti;
● infine il comma 4 prevede che qualora non sia possibile
procedere alla sostituzione dei Responsabili secondo le
modalità previste dai precedenti commi, le funzioni siano
comunque svolte dal Segretario comunale.
Il comma 4 rappresenta una norma di chiusura del sistema di
sostituzione del responsabile del servizio, volta a
garantire la funzionalità dell’ente, prevedendo un’ipotesi
residuale di attribuzione della titolarità del servizio al
segretario comunale, qualora non sia possibile assegnare in
altro modo l’incarico temporaneo, secondo le modalità
descritte dalla norma nei commi precedenti.
Né può ritenersi che l’art. 97, comma 4, lett. d), del
D.lgs. 267/2000, laddove prevede che il Segretario comunale
eserciti ogni altra funzione conferitagli dal Sindaco, possa
legittimare il conferimento di qualunque tipo di incarico al
Segretario comunale, dato che tale norma deve essere
coniugata con le altre disposizioni legislative e
regolamentari.
Anzi, a ben vedere, la previsione di cui al comma 4
dell’art. 25 del Regolamento comunale risulta essere ipotesi
specifica del più generale disposto di cui all’art. 97 del
D.lgs. 267/2000, ma la sua applicabilità, per effetto del
chiaro dettato della norma regolamentare, è subordinato
all’impossibilità di conferire incarichi secondo le modalità
previste dai commi precedenti dello stesso art. 25.
Con il primo motivo di gravame i ricorrenti deducono la
violazione del D.lgs. n. 267/2000 in combinato disposto con
il Regolamento Comunale degli Uffici e dei Servizi,
approvato con deliberazione di G.M. n. 35 del 23.03.2009.
Lamentano che gli atti della procedura selettiva, a partire
dal bando, approvato con determinazione n. 136 del
31/12/2012, e fino all’approvazione delle graduatorie
finali, di cui alla determina n. 90 del 28.09.2011,
sarebbero stati adottati da un soggetto illegittimamente
nominato quale responsabile del settore Amministrativo del
Comune.
Espongono infatti che il Sindaco del Comune di Grotteria,
con decreto Prot. n. 7830 del 31.12.2010, revocava al dott.
Vincenzo Lombardo l’attribuzione di responsabile del settore
affari generali–servizio amministrativo–servizi
demografici–ufficio personale, stabilendo di attribuire la
responsabilità di tali settori ad altra figura giuridica
presente nell’Ente. Quindi, con decreto Prot. n. 7831 del
31.12.2010, procedeva a nominare il Segretario comunale
dott. Arturo Tresoldi responsabile dell’area amministrativa
e dei relativi servizi, attribuendogli le relative funzioni
dirigenziali.
A seguito di avvicendamento in seno all’Ufficio di
Segretario comunale, il Sindaco, con decreto Prot. n. 6196
del 12.09.2011, nominava il “nuovo” Segretario
comunale dott.ssa Maria Luisa Calì quale responsabile
dell’area amministrativa e dei relativi servizi,
attribuendole le relative funzioni dirigenziali, la quale,
in tale veste, approvava le graduatorie finali della
procedura selettiva (cfr. determina n. 90 del 28.09.2011). I
ricorrenti espongono infine che, due mesi dopo la nomina
della dott.ssa Calì a responsabile dell’area amministrativa,
il Sindaco, con decreto n. 7577 del 15.11.2011, nominava il
dipendente comunale di Cat. C5 sig. Giovanni Marando
responsabile dell’area amministrativa e dei relativi
servizi, attribuendogli le relative funzioni dirigenziali.
...
Venendo quindi all’esame della censura introdotta con il
primo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 109 del D.lgs.
267/2000 gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo
determinato dal Sindaco, con provvedimento motivato e con le
modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza
professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel
programma amministrativo del sindaco o del presidente della
provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle
direttive del sindaco o del presidente della provincia,
della Giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di
mancato raggiungimento al termine di ciascun anno
finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di
gestione previsto dall'articolo 169 o per responsabilità
particolarmente grave o reiterata e negli altri casi
disciplinati dai contratti collettivi di lavoro.
Il successivo comma 2 prevede che nei comuni privi di
personale di qualifica dirigenziale le funzioni dirigenziali
di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva
l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera d),
possono essere attribuite, a seguito di provvedimento
motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei
servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale,
anche in deroga a ogni diversa disposizione. L’art. 97,
richiamato nella disposizione appena ricordata, dispone, al
comma 4, lett. d), che il segretario comunale eserciti ogni
altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai
regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente
della provincia.
Le norme del TU Enti locali, in relazione alle modalità di
conferimento degli incarichi dirigenziali, operano un rinvio
al regolamento comunale sull'ordinamento degli uffici e dei
servizi.
Il Regolamento del Comune di Grotteria, depositato in
giudizio, dispone all’art. 25, che la responsabilità di un
servizio, in caso di vacanza del posto o di assenza
prolungata del titolare, possa essere assegnata ad
interim, per un periodo di tempo determinato, ad altro
funzionario di pari categoria.
Tali mansioni, prosegue il comma 2, possono anche essere
transitoriamente assegnate a dipendenti di categoria
immediatamente inferiore, con l’osservanza delle condizioni
e modalità previste dalla normativa vigente in materia;
l’assegnazione temporanea è disposta dal Sindaco. Il
successivo comma 3 stabilisce poi che possa essere prevista
la nomina del responsabile del servizio, previa convenzione
tra Enti. Infine il comma 4 prevede che qualora non sia
possibile procedere alla sostituzione dei Responsabili
secondo le modalità previste dai precedenti commi, le
funzioni siano comunque svolte dal Segretario comunale.
Il comma 4 rappresenta una norma di chiusura del sistema di
sostituzione del responsabile del servizio, volta a
garantire la funzionalità dell’ente, prevedendo un’ipotesi
residuale di attribuzione della titolarità del servizio al
segretario comunale, qualora non sia possibile assegnare in
altro modo l’incarico temporaneo, secondo le modalità
descritte dalla norma nei commi precedenti.
I decreti del Sindaco prot. n. 7831 del 31/12/2011 e prot.
n. 6196 del 12/09/2011, con i quali il Segretario comunale è
stato nominato quale responsabile dell’Area amministrativa e
dei relativi servizi, non danno conto dell’impossibilità di
procedere con le modalità di cui ai commi 1-3 dell’art. 25
del Regolamento comunale degli Uffici e dei Servizi,
limitandosi a richiamare il disposto del comma 4, norma la
cui operatività interviene, come detto, solo in caso di
impossibilità a procedere con le modalità contemplate dalla
disposizione nei commi precedenti. I provvedimenti
sindacali, quindi, si presentano carenti sotto il profilo
motivazionale, non dando conto, anche sotto un mero profilo
di fatto, dei presupposti che consentono l’applicazione
della disposizione di cui all’art. 25, comma 4, del
regolamento comunale.
Né può ritenersi che l’art. 97, comma 4, lett. d), del
D.lgs. 267/2000, laddove prevede che il Segretario comunale
eserciti ogni altra funzione conferitagli dal Sindaco, possa
legittimare il conferimento di qualunque tipo di incarico al
Segretario comunale, dato che tale norma deve essere
coniugata con le altre disposizioni legislative e
regolamentari. Anzi, a ben vedere, la previsione di cui al
comma 4 dell’art. 25 del Regolamento comunale risulta essere
ipotesi specifica del più generale disposto di cui all’art.
97 del D.lgs. 267/2000, ma la sua applicabilità, per effetto
del chiaro dettato della norma regolamentare, è subordinato
all’impossibilità di conferire incarichi secondo le modalità
previste dai commi precedenti dello stesso art. 25.
Da quanto sopra esposto consegue l’illegittimità dei
provvedimenti di nomina del responsabile dell’Area
amministrativa, cui fa seguito l’illegittimità, in via
derivata, degli atti dallo stesso compiuti in relazione alla
procedura selettiva oggetto dell’odierno giudizio, atti
peraltro (anche) autonomamente gravati
(TAR Calabria–Reggio Calabria,
sentenza 11.09.2012 n. 575 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Trasformazione abusiva di una serra in tre
appartamenti.
E’ legittimo
il decreto dell’Amministrazione provinciale di Genova per
l’annullamento d’ufficio di una concessione in sanatoria
rilasciata dal Comune per la trasformazione di una serra in
tre appartamenti.
La Provincia di Genova secondo quanto prevede la l.reg. n. 7
del 1987 della Liguria, può annullare d’ufficio concessioni
edilizie in sanatoria rilasciate a “condono” di abusi
edilizi ai sensi della legge 47/1985 (e della successiva
legge 724/1994).
L’art. 6 della citata legge regionale prevede
l'annullamento, ai sensi dell'articolo 27 della Legge
urbanistica 17.08.1942, n. 1150, delle deliberazioni e dei
provvedimenti comunali che assentano opere non conformi alla
vigente disciplina urbanistico-edilizia, entro dieci anni
dalla loro adozione, sempre che sussista un sostanziale
interesse pubblico alla rimozione degli stessi (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 10.09.2012 n. 4771 -
tratto da www.lexambiente.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ciò che contraddistingue la ristrutturazione
dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione
del territorio, mediante un'edificazione di cui si conservi
la struttura fisica, sia pure con la sovrapposizione di un
insieme sistematico di opere, che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente, ovvero la cui stessa struttura fisica venga del
tutto sostituita, ma in quest'ultimo caso con ricostruzione
se non fedele, comunque rispettosa della volumetria e della
sagoma della costruzione preesistente.
Per distinguere gli interventi
di ristrutturazione da quelli di nuova costruzione questo
Consiglio (v., di recente, sezione IV, sent. n. 802 del
2011) ha evidenziato che ciò che contraddistingue la
ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta
trasformazione del territorio, mediante un'edificazione di
cui si conservi la struttura fisica, sia pure con la
sovrapposizione di un insieme sistematico di opere, che
possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente, ovvero la cui stessa struttura
fisica venga del tutto sostituita, ma in quest'ultimo caso
con ricostruzione se non fedele, comunque rispettosa della
volumetria e della sagoma della costruzione preesistente
(Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 10.09.2012 n. 4771 -
tratto da e link a www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Nozione di lottizzazione.
Costituisce lottizzazione edilizia qualsiasi utilizzazione
del suolo che, indipendentemente da1l’entità del
frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari,
preveda la realizzazione contemporanea o successiva di una
pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o
industriale, che postulino l'attuazione di opere di
urbanizzazione primaria o secondaria occorrenti per le
necessità dell’insediamento.
Il reato di lottizzazione può configurarsi : in presenza di
un intervento sul territorio tale da comportare una nuova
definizione dell’assetto preesistente in zona non
urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui
esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento
urbanistico generale attraverso la redazione di un piano
esecutivo e la stipula di una convenzione lottizzatoria
adeguata alle caratteristiche dell’intervento di nuova
realizzazione, ma anche allorquando detto intervento non
potrebbe in nessun caso essere realizzato poiché, per le sue
connotazioni oggettive, si pone in contrasto con previsioni
di zonizzazione e/o di localizzazione dello strumento
generale di panificazione che non possono essere modificate
da piani urbanistici attuativi (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.09.2012 n. 34251 -
tratto da www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Sul tratto distintivo della concessione rispetto
all'appalto.
Il tratto distintivo della concessione rispetto all'appalto
è rappresentato dalla modalità di remunerazione, ovvero
dalla controprestazione che nella concessione dipende dai
risultati della gestione del servizio. Di tal che, la
remunerazione del servizio è per l'imprenditore l'elemento
di valutazione della convenienza economica dell'offerta,
anche in considerazione della circostanza che l'impresa
aggiudicataria sopporterà il rischio economico collegato
alla gestione che, nel caso di specie (affidamento posto a
base della gara è la concessione nella gestione del servizio
pubblico di mensa scolastica, oltre alle connesse attività
amministrative, e la realizzazione del locale refettorio con
servizi annessi in un plesso scolastico del comune),
consiste nella possibilità che gli alunni decidano di non
usufruire del servizio mensa, sulla base degli orari
scolastici prescelti che non necessariamente implicano
l'esigenza di consumare i pasti a scuola.
Ciò posto, è di fondamentale importanza che il piano
economico finanziario sia il più dettagliato possibile
nell'elencazione delle voci di costo a carico dell'impresa,
in modo da supportare l'imprenditore nella valutazione della
convenienza economica del servizio da erogare o del lavoro
da svolgere (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 07.09.2012 n. 7630 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
E' legittima la clausola del bando che
imponga, a pena di esclusione, che la busta contenente
l'offerta debba essere integralmente sigillata con ceralacca
e controfirmata ai lembi di chiusura ed inserita in altra
busta ugualmente sigillata e controfirmata, e ciò in quanto,
coerentemente con la finalità di tutelare la "par condicio"
tra i concorrenti, gli adempimenti prescritti assicurano
l'autenticità della chiusura originaria proveniente dal
mittente e, evitando la manomissione del contenuto del
plico, garantiscono la segretezza dell'offerta; con la
conseguente legittimità dell’esclusione dalla gara
dell'impresa che abbia omesso la sigillatura del plico
contenente l'offerta.
In modo condivisibile la difesa del Comune ha posto in
risalto i seguenti aspetti della vicenda sottoposta al
vaglio del Collegio:
- il fatto che la prescrizione di cui all’art. 4 dell’avviso
di gara prevedesse, a pena di esclusione dalla procedura,
obblighi, congiunti, di sigillatura del plico con la
ceralacca e di controfirma per esteso sui lembi di chiusura
(“entrambe le garanzie”, osserva la difesa comunale,
sono contemplate “esplicitamente e a pena di esclusione”);
- la coerenza tra gli obblighi suddetti e la perdurante
valenza dei princìpi di oggettività, imparzialità e
trasparenza nelle procedure di gara e di “par condicio”
nei riguardi di tutti i concorrenti, in un contesto in cui
la stazione appaltante è tenuta a fissare regole certe
ancorate a un rigido formalismo. Detto altrimenti, e come
affermato in più occasioni dalla sezione, il che esonera
questo collegio dal fare citazioni particolari, il
formalismo che caratterizza le procedure di gara risponde a
ineludibili esigenze di “par condicio”;
- il fatto che gli adempimenti prescritti garantissero,
nell’insieme, l’identità e la immodificabilità della
documentazione, e la segretezza, identità e immodificabilità
della offerta, evitando manomissioni del contenuto del
plico;
- il fatto che le specifiche modalità di presentazione delle
offerte, prescritte a pena di esclusione, introducessero, è
vero, un elemento di garanzia particolarmente avanzato in
ordine alla genuinità e alla paternità della domanda di
partecipazione e della documentazione allegata, contro
rischi di frode o di indebita violazione della segretezza,
ma senza imporre ai partecipanti alla procedura oneri
particolarmente gravosi, trattandosi anzi di un “quid
pluris” di “facile assolvimento”, dettato
nell’esercizio di una discrezionalità indubbiamente
spettante alla stazione appaltante in materia cosicché, in
una procedura imperniata sul rigore formale, può concordarsi
con il riferimento, fatto dal TAR in sentenza, alla
rispondenza dell’art. 4 dell’avviso di gara a criteri di
razionalità e di proporzionalità rispetto agli scopi
perseguiti. In altri termini, in un conteso come quello
tratteggiato sopra, nel quale il formalismo che caratterizza
la disciplina delle procedure di gara risponde per un verso
a esigenze pratiche di certezza e celerità e, per altro
verso, alla necessità di garantire l'imparzialità
dell'azione amministrativa e la parità di condizioni tra i
concorrenti, appare fuori luogo il riferimento fatto
dall’appellante a una “irregolarità innocua” o
comunque sanabile, venendo in rilievo, invece, una clausola
non irrazionale né superflua (a una diversa conclusione,
favorevole all’appellante, si sarebbe potuti giungere
qualora l’omissione della controfirma per esteso sui lembi
di chiusura non fosse stata accompagnata da una specifica
comminatoria di esclusione nell’avviso di gara).
In modo coerente con l’orientamento ricavabile da Cons. St.,
n. 4396/2001, su fattispecie per certi versi analoga a
quelle odierna, in merito alla legittimità di una clausola
del bando che imponga, a pena di esclusione, che la busta
contenente l'offerta debba essere integralmente sigillata
con ceralacca e controfirmata ai lembi di chiusura ed
inserita in altra busta ugualmente sigillata e
controfirmata, e ciò in quanto, coerentemente con la
finalità di tutelare la "par condicio" tra i
concorrenti, gli adempimenti prescritti assicurano
l'autenticità della chiusura originaria proveniente dal
mittente e, evitando la manomissione del contenuto del
plico, garantiscono la segretezza dell'offerta; con la
conseguente legittimità dell’esclusione dalla gara
dell'impresa che abbia omesso la sigillatura del plico
contenente l'offerta; coerentemente, si diceva, con
l’orientamento giurisprudenziale sopra riassunto, gli
argomenti svolti dall’appellante in ordine alla
irragionevolezza della clausola dell’avviso di gara non
meritano favorevole considerazione (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 05.09.2012 n. 4696 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
L’interesse all’accesso ai documenti deve essere
considerato in astratto, escludendo che, con riferimento al
caso specifico, possa esservi spazio per l’amministrazione
per compiere apprezzamenti in ordine alla fondatezza o
ammissibilità della domanda giudiziale proponibile. La
legittimazione all’accesso non può dunque essere valutata
facendo riferimento alla fondatezza della pretesa
sostanziale sottostante, ma ha consistenza autonoma,
indifferente allo scopo ultimo per cui viene esercitata (…)
deve negarsi che il giudizio di pertinenza possa essere
inteso in modo così stringente da rimettere
all’Amministrazione una sorta di improprio giudizio
prognostico circa l’esito del giudizio alla cui proposizione
la domanda di accesso è strumentale.
---------------
L’affidamento delle posizioni organizzative non appare
caratterizzato da un rapporto fiduciario fra il livello di
indirizzo politico e quello gestionale, prevedendo il CCNL
del 31.03.1999 – Comparto Regioni ed Enti locali, sulla
revisione del sistema della classificazione professionale,
al comma 1 dell’articolo 9, rubricato “Conferimento e revoca
degli incarichi per le posizioni organizzative”, che «…Gli
incarichi relativi all’area delle posizioni organizzative
sono conferiti (…) previa determinazione di criteri generali
da parte degli enti…».
Sotto altro profilo, nel nostro ordinamento giuridico, le
ipotesi di attribuzione di incarichi intuitu personae
costituiscono un’eccezione al sistema, essendo limitate, per
quanto di interesse ai fini della presente trattazione, agli
incarichi di diretta collaborazione con il livello di
indirizzo politico, vale a dire «…quelli di maggiore
coesione con gli organi politici (segretario generale, capo
dipartimento e altri equivalenti)…» (Corte cost.,
23.03.2007, n. 103) e quelli del personale addetto agli
uffici di diretta collaborazione; infatti, il precetto
costituzionale della imparzialità dell'azione amministrativa
«...è alla base della stessa distinzione funzionale dei
compiti tra organi politici e burocratici e cioè tra
l'azione di governo –che è normalmente legata alle
impostazioni di una parte politica, espressione delle forze
di maggioranza– e l'azione dell'amministrazione, la quale,
nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è
vincolata, invece, ad agire senza distinzioni di parti
politiche e dunque al «servizio esclusivo della Nazione»
(art. 98 Cost.), al fine del perseguimento delle finalità
pubbliche obiettivate dall'ordinamento…» (Corte cost.,
ibidem).
Pertanto, essendo le posizioni organizzative collocate
nell’ambito della struttura burocratica gestionale e non
essendo legate da un rapporto di coesione (nel senso
indicato dalla richiamata sentenza Corte cost. 103/2007) con
il livello di indirizzo politico, non si può comunque
ritenere, in ragione del doveroso rispetto del principio di
separazione fra indirizzo politico e gestionale, e
diversamente da quanto affermato nella impugnata nota del
Direttore Generale, che il loro conferimento si fondi «…su
valutazioni personali coerenti con l’indirizzo politico del
Sindaco…».
... avverso il diniego di accesso opposto con nota del
Direttore Generale del Comune di Villafranca Tirrena prot.
1039 del 17.01.2012, agli atti del fascicolo personale del
responsabile del settore tecnico manutentivo del Comune,
richiesto con istanza del 04.01.2012.
...
Con ricorso depositato il 23.02.2012, il ricorrente impugna
il diniego di accesso ai documenti indicato in epigrafe,
premettendo:
- di essere dipendente di VIII qualifica del Comune di
Villafranca Tirrena;
- di aver proposto ricorso al Giudice del Lavoro di Messina
avverso una selezione interna per la copertura di un posto
Cat. D3 – profilo funzionario tecnico manutentivo, in cui si
era classificato secondo;
- di aver proposto appello –tuttora pendente– avverso la
sentenza 02.03.2007, n. 910, resa dal Tribunale di Messina;
- che nelle more del giudizio di secondo grado il vincitore
della selezione è stato collocato a riposo, venendo
sostituito da altra persona;
- di aver quindi chiesto accesso al fascicolo personale di
tale persona.
Il Comune si è costituito, eccependo in rito
l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione
di questo Giudice Amministrativo, trattandosi di atti di
gestione del rapporto di lavoro.
Nel merito ha dedotto l’inammissibilità della istanza di
accesso per mancanza di motivazione circa l’interesse
all’accesso, per genericità, visto che si chiederebbe
genericamente l’accesso al fascicolo personale di un’altra
persona, per difetto di legittimazione, dal momento che non
si chiederebbero gli atti relativi alla nomina del
responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune, ma di
visionare il suo fascicolo personale, e dal momento che
l’affidamento della posizione organizzativa di responsabile
dell’Ufficio tecnico del Comune sarebbe intuitu personae,
ciò che implicherebbe la mancanza di un «…diretto
collegamento fra il richiedente ed una specifica situazione
giuridicamente rilevante…» (controricorso, pag. 6).
Preliminarmente, l’eccezione di difetto di giurisdizione può
essere agevolmente superato in base al disposto dell’art.
133, comma 1, n. 6), cpa, che devolve alla giurisdizione
esclusiva del Giudice Amministrativo le controversie in
materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi,
in ciò riconfermando la previsione dell’art. 25, comma 5,
ultimo periodo, della legge 241/1990, come modificato
dall'art. 3, comma 6-decies, DL 14.03.2005, n. 35, nel testo
integrato dalla relativa legge di conversione 14.05.2005, n.
80.
Né rileva il riferimento agli atti di gestione del
personale, trattandosi nella specie di documenti concernenti
attività di pubblico interesse svolte da un’amministrazione
pubblica (sul punto CGARS, Sez. Giurisdizionale, 19.05.2011,
n. 374; TAR Sicilia–Palermo, 01.07.2011, n. 1269).
Nel merito, il ricorso è fondato.
Sulla dedotta inammissibilità della istanza di accesso per
mancanza di motivazione: effettivamente, l’istanza è
sfornita di motivazione circa l’interesse del ricorrente,
ciò che avrebbe in ipotesi potuto determinare
l’inammissibilità del ricorso (in tema, TAR Liguria, Sez. II,
19.11.2009, n. 3419); tuttavia, nell’impugnato provvedimento
di diniego si legge che «…Ella ha formulato richiesta di
atti senza alcuna motivazione e precisando verbalmente che è
Sua intenzione fare ricorso dal momento che, avendo la
laurea in ingegneria, ritiene di avere maggiore titolo e
qualificazione alla nomina…»; con ciò l’Amministrazione
ha dato prova dell’aver il ricorrente precisato, seppure per
le vie brevi, l’esistenza dell’interesse all’accesso ai fini
della tutela giudiziaria nei confronti del conferimento
della posizione organizzativa di responsabile dell’Ufficio
tecnico comunale.
Sulla inammissibilità per genericità e per difetto di
legittimazione: l’essere stato evidenziato un interesse
all’accesso, seppure per le vie brevi, integra l’indicazione
degli elementi che consentono l’individuazione degli atti,
vale a dire quelli su cui si fonda il provvedimento di
conferimento della posizione organizzativa («…il
richiedente ha l'onere di motivare la domanda di accesso e
di indicare gli estremi del documento oggetto della
richiesta ovvero gli elementi che ne consentano
l'individuazione …» TAR Campania–Napoli, Sez. V,
07.06.2007, n. 6021).
Con riguardo alla dedotta inammissibilità per difetto di
legittimazione, evincibile dalla circostanza che le
posizioni organizzative sarebbero conferite intuitu
personae, è sufficiente richiamare lo stabile e
condivisibile orientamento secondo cui «…l’interesse
all’accesso ai documenti deve essere considerato in
astratto, escludendo che, con riferimento al caso specifico,
possa esservi spazio per l’amministrazione per compiere
apprezzamenti in ordine alla fondatezza o ammissibilità
della domanda giudiziale proponibile. La legittimazione
all’accesso non può dunque essere valutata facendo
riferimento alla fondatezza della pretesa sostanziale
sottostante, ma ha consistenza autonoma, indifferente allo
scopo ultimo per cui viene esercitata (Cons. Stato,
13.10.2010, n. 7486) (…) deve negarsi che il giudizio di
pertinenza possa essere inteso in modo così stringente da
rimettere all’Amministrazione una sorta di improprio
giudizio prognostico circa l’esito del giudizio alla cui
proposizione la domanda di accesso è strumentale…»
(Cons. Stato, Sez. VI, 12.03.2012, n. 1403).
Comunque, con riferimento al caso di specie, l’affidamento
delle posizioni organizzative non appare caratterizzato da
un rapporto fiduciario fra il livello di indirizzo politico
e quello gestionale, prevedendo il CCNL del 31.03.1999 –
Comparto Regioni ed Enti locali, sulla revisione del sistema
della classificazione professionale, al comma 1
dell’articolo 9, rubricato “Conferimento e revoca degli
incarichi per le posizioni organizzative”, che «…Gli
incarichi relativi all’area delle posizioni organizzative
sono conferiti (…) previa determinazione di criteri generali
da parte degli enti…».
Sotto altro profilo, nel nostro ordinamento giuridico, le
ipotesi di attribuzione di incarichi intuitu personae
costituiscono un’eccezione al sistema, essendo limitate, per
quanto di interesse ai fini della presente trattazione, agli
incarichi di diretta collaborazione con il livello di
indirizzo politico, vale a dire «…quelli di maggiore
coesione con gli organi politici (segretario generale, capo
dipartimento e altri equivalenti)…» (Corte cost.,
23.03.2007, n. 103) e quelli del personale addetto agli
uffici di diretta collaborazione; infatti, il precetto
costituzionale della imparzialità dell'azione amministrativa
«...è alla base della stessa distinzione funzionale dei
compiti tra organi politici e burocratici e cioè tra
l'azione di governo –che è normalmente legata alle
impostazioni di una parte politica, espressione delle forze
di maggioranza– e l'azione dell'amministrazione, la quale,
nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è
vincolata, invece, ad agire senza distinzioni di parti
politiche e dunque al «servizio esclusivo della Nazione»
(art. 98 Cost.), al fine del perseguimento delle finalità
pubbliche obiettivate dall'ordinamento…» (Corte cost.,
ibidem).
Pertanto, essendo le posizioni organizzative collocate
nell’ambito della struttura burocratica gestionale e non
essendo legate da un rapporto di coesione (nel senso
indicato dalla richiamata sentenza Corte cost. 103/2007) con
il livello di indirizzo politico, non si può comunque
ritenere, in ragione del doveroso rispetto del principio di
separazione fra indirizzo politico e gestionale, e
diversamente da quanto affermato nella impugnata nota del
Direttore Generale del Comune prot. 1039 del 17.01.2012
(allegata al ricorso sub 5), che il loro conferimento si
fondi «…su valutazioni personali coerenti con l’indirizzo
politico del Sindaco…».
L’accesso richiesto dal ricorrente deve quindi essere
consentito, anche se, in relazione all’interesse
manifestato, limitatamente ai documenti che abbiano
influenza sul provvedimento di conferimento della posizione
organizzativa, in ciò ricompresi anche titoli curriculari
utili ai fini di tale conferimento.
Il Comune di Villafranca Tirrena dovrà quindi consentire
l’accesso entro il termine di 30 giorni decorrenti dalla
comunicazione in via amministrativa o notificazione di parte
della presente sentenza (TAR Sicilia–Catania, Sez. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2097 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti.
Danno erariale per appalti «scoperti».
Pagamento a carico del funzionario che ha
autorizzato l'impegno.
LE AUTORIZZAZIONI/
Imputabili all'ente solo le obbligazioni assunte con
delibera autorizzativa e copertura prevista nei documenti
contabili.
Il contratto sottoscritto dal Comune senza un valido impegno
di spesa non può essere inquadrato nella categoria dei
cosiddetti contratti attivi dell'ente e, pertanto, ne
risponde per danno erariale direttamente il funzionario
responsabile.
L'atto negoziale posto in essere con un impegno di spesa
assunto senza la necessaria copertura finanziaria non è
imputabile al Comune e l'azione di responsabilità è
esperibile dai privati contro gli amministratori e i
funzionari degli enti locali per prestazioni e servizi resi
senza il rispetto delle prescritte formalità.
Questi i principi sanciti dalla Corte di Cassazione nella
sentenza 04.09.2012 n. 14785, con cui è
stato respinto il ricorso presentato da una società contro
il Comune che non aveva pagato il corrispettivo di un
contratto d'appalto, sottoscritto anni prima, relativo al
servizio di rilevazione dei tributi comunali evasi.
La Corte ha chiarito che, nel rispetto dei principi di
legalità e correttezza, gli atti di acquisizione di beni e
servizi possono essere imputati all'ente solo in presenza di
una delibera autorizzativa e della relativa copertura
finanziaria. In mancanza di questa documentazione, il
contratto d'appalto è solo apparentemente riconducibile al
l'ente pubblico, mentre è sempre imputabile al funzionario
che ha autorizzato l'effettuazione dei lavori.
In assenza dei necessari atti di imputazione della spesa, si
realizza una frattura del nesso organico con l'apparato
pubblico e la conseguente responsabilità non può essere
attribuita all'amministrazione.
Secondo i magistrati, il mancato pagamento del dovuto non è
in contrasto con i principi di correttezza e buona fede, in
quanto la violazione dei principi sopra richiamati determina
l'inesistenza di un rapporto diretto tra terzo contraente e
Pa.
Come la nullità di una delibera conferente ad un
professionista l'incarico per la progettazione di un'opera
pubblica esclude la sua idoneità a costituire titolo per il
compenso, la Cassazione ha chiarito che anche l'assenza di
un valido impegno di spesa determina l'impossibilità di
imputare all'ente l'obbligazione derivante dal contratto.
Inoltre, non avendo l'ente proceduto al formale
riconoscimento di legittimità del debito fuori bilancio (che
costituisce valutazione di competenza dell'amministrazione),
il vizio di legittimità del contratto, conseguente alla
mancata copertura finanziaria, non è stato nemmeno sanato
dal Comune interessato.
Pertanto, il rapporto obbligatorio intercorreva unicamente
tra il terzo contraente e il funzionario che aveva
autorizzato la prestazione.
Il quadro normativo di riferimento stabilisce che il giudice
non può sostituirsi al l'amministrazione, affermando
l'esistenza di un diritto al riconoscimento del debito
assunto fuori bilancio.
Infatti, se si ritenesse sussistente un diritto al
riconoscimento giustiziabile davanti al giudice ordinario,
in presenza e nei limiti degli accertati e dimostrati
parametri di utilità e arricchimento per l'ente, nell'ambito
del l'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza, non si comprenderebbe poi il mantenimento del
principio della sussistenza del rapporto obbligatorio
unicamente tra il terzo e l'amministratore o il funzionario
che ha irritualmente autorizzato i lavori o i servizi, ai
sensi dell'articolo 191, comma 4, del Testo unico enti
locali (articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Intervento eseguito su opera abusiva.
L'intervento eseguito su un'opera abusiva non può comunque
qualificarsi come di manutenzione o di ristrutturazione
perché questi ultimi interventi, come si desume chiaramente
dalle definizioni offerte dall'articolo 3 del d.p.r.
380/2001, presuppongono la preesistenza di un organismo
edilizio non solo dal punto di vista meramente fattuale ma,
ancor prima, da quello giuridico e correttamente si fa
rilevare che siccome l'immobile totalmente abusivo, come il
manufatto preesistente nel caso di specie, deve essere
ritenuto giuridicamente inesistente e gli interventi di
completamento del medesimo manufatto non possono mai
considerarsi di manutenzione o di ristrutturazione,
assumendo invece rilevanza autonoma ai fini
dell'integrazione di un nuovo reato edilizio (Corte
di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 31.08.2012 n. 33544 -
tratto da e link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Beni ambientali. Spontanea rimessione in pristino
abuso edilizio.
Ai fini dell’applicazione della causa estintiva del reato di
cui all'art. 1-quinquies dell'art. 181 d.lgs. 42/2004 deve
osservarsi che tale disposizione, secondo cui «La rimessione
in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli
paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga
disposta d'ufficio dall'autorità amministrativa, e comunque
prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui
al comma 1» è stata introdotta nel Dlgs n. 42/2004 unitamente
a quella del comma 1-bis dall'art. 1, co. 36, della legge 15.12.2004, n. 308 recante la Delega al Governo per il
riordino, il coordinamento e l'integrazione della
legislazione in materia ambientale e misure di diretta
applicazione.
E’ del tutto evidente che, ove il legislatore avesse inteso
estendere alla previsione del comma 1 bis il trattamento
premiate indicato per il comma 1, ne avrebbe fatto espressa
menzione (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 31.08.2012 n. 33542 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il proprietario dell’immobile che non impedisce a un terzo
la commissione dell’abuso edilizio risponde penalmente
dell’abuso.
La Corte di Cassazione ravvisa il fondamento della responsabilità
nell’art. 40 del codice penale, il quale stabilisce che:
“non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di
impedire, equivale a cagionarlo”.
Secondo la Corte tale
articolo deve essere interpretato in termini solidaristici,
alla luce dell’art. 41, comma 2, Cost., sicché è da ritenere
che il proprietario non possa utilizzare la cosa propria né
consentire che altri la utilizzi in modo che ne derivi danno
ai consociati ed abbia, quindi, l’obbligo giuridico di non
consentire che l’evento dannoso o pericoloso si realizzi...
(Sez. 3 n. 12163, 12/07/1999 rv. 215078).
Scrive la Corte di Cassazione: “In questo senso la
sentenza sembra richiamare l’indirizzo inizialmente (ed a
lungo) sostenuto dalla Corte secondo cui in tema di reati
edilizi, non può essere attribuito ad un soggetto, per il
mero fatto di essere proprietario dell’area, un dovere di
controllo, dalla cui violazione derivi una responsabilità
penale per costruzione abusiva, prescindendo dalla concreta
situazione in cui venne svolta l’attività incriminata, cioè
senza identificare, in relazione alla specifica situazione
di fatto, il comportamento positivo o negativo posto in
essere dal soggetto medesimo che possa essere assunto ad
elemento integrativo della colpa. In relazione a tale
orientamento coerentemente si è ritenuto che il proprietario
risponde dei relativi reati non in quanto tale, ma solo se
abbia la disponibilità dell’immobile ed abbia dato incarico
dei lavori o li abbia eseguiti personalmente; mentre se
l’incarico sia stato dato da altro proprietario o da altro
detentore, non può essere ritenuto responsabile dell’abuso,
anche se abbia espresso adesione alla realizzazione
dell’opera.” (Sez. III n. 859 del 07/09/2000, ric.
Cutaia ed altro, rv. 216945).
Tale indirizzo è stato, tuttavia, successivamente
rivisitato. Si è puntualizzato, infatti, che nel caso in cui
il proprietario sia consapevole che sul suo terreno sia
eseguita da un terzo una costruzione abusiva e, potendo
intervenire, deliberatamente se ne astenga, pone in essere
una condotta omissiva che condiziona, rendendola possibile,
la realizzazione della predetta opera abusiva che è, quindi,
conseguenza diretta anche della sua omissione della quale
egli deve essere ritenuto responsabile ai sensi del
principio generale di causalità di cui al primo comma
dell’art. 40 cod. pen.. Si è aggiunto poi che anche il
secondo comma del succitato art. 40 cod. pen., per il quale
“non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di
impedire, equivale a cagionarlo”, deve essere
interpretato in termini solidaristici, alla luce dell’art.
41, comma 2, Cost., sicché è da ritenere che il proprietario
non possa utilizzare la cosa propria ne’ consentire che
altri la utilizzi in modo che ne derivi danno ai consociati
ed abbia, quindi, l’obbligo giuridico di non consentire che
l’evento dannoso o pericoloso si realizzi... ” (Sez. 3 n.
12163, 12/07/1999 rv. 215078).
Anche nella successiva evoluzione giurisprudenziale si
continua ad insistere sulla ravvisabilità del concorso del
proprietario non committente nel caso in cui costui abbia
piena consapevolezza dell’esecuzione delle opere da parte
del coimputato o abbia prestato consenso, seppure implicito
o tacito, all’attività edilizia posta in essere (Sez. 3, n.
44160 del 01/10/2003 Rv. 226589); e talora viene riaffermata
per il proprietario l’esistenza dell’obbligo giuridico di
non consentire che con l’utilizzo della cosa propria si
realizzi l’evento dannoso o pericoloso, affermando il
concorso morale nel reato consumato dall’autore della
edificazione abusiva, in capo al proprietario che potendo
intervenire se ne astenga deliberatamente, (Sez. 3, n. 43232
del 12/11/2002 Rv. 222969; ecc) .
Non è sufficiente, dunque, sulla base di tali
pronunciamenti, per escludere il concorso nel reato, che il
proprietario del terreno non abbia commissionato
materialmente i lavori ma occorre sostanzialmente qualcosa
in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non
abbia interesse all’abuso e non sia stato nelle condizioni
di impedirne l’esecuzione. Si pone allora il problema di
individuare gli elementi indizianti.
Al riguardo si è precisato con motivazioni del tutto
condivise dal Collegio che gli elementi in base ai quali
possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso,
anche solo moralmente, con il committente o l’esecutore dei
lavori, possono essere individuati, nella piena
disponibilità giuridica e di fatto del suolo e
nell’interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione,
così come dei rapporti di parentela o affinità tra terzo e
proprietario, nella eventuale presenza di quest’ultimo “in
loco”, nello svolgimento di attività ó\ì vigilanza
dell’esecuzione dei lavori, nella richiesta di provvedimenti
abilitativi in sanatoria, nel regime patrimoniale dei
coniugi, ovvero in tutte quelle situazioni e comportamenti
positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi
integrativi della colpa (Sez. 3, n. 26121 del 12/04/2005 Rv.
231954).
In altre sentenze, in linea con i rilievi del PM ricorrente,
si è effettivamente precisato che può essere attribuita al
proprietario non formalmente committente dell’opera abusiva
la responsabilità anche in relazione all’accertamento che
questi abiti nello stesso territorio comunale ove è stata
eretta la costruzione abusiva, che sia stato individuato sul
luogo, che sia il destinatario finale dell’opera (Sez. 3, n.
9536 dei 20/01/2004 Rv. 227403). Appare di conseguenza
evidente che l’esclusione della responsabilità del
proprietario non committente possa essere ritenuta solo
qualora, all’esito del vaglio degli elementi di prova, si
possa escludere l’interesse o il consenso di quest’ultimo
dell’abuso (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2012 n. 33540
- tratto da e link
a www.venetoius.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Abuso
edilizio. Responsabilità proprietario dell'area .
Se la qualità di proprietario del terreno non può essere da
sola sufficiente ad affermare la responsabilità per l'abuso,
è ravvisabile in ogni caso il concorso nel reato del
proprietario del terreno non committente dei lavori nel caso
in cui quest'ultimo vi abbia interesse o abbia comunque
consentito -sia pure tacitamente- alla loro esecuzione (Corte
di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 31.08.2012 n. 33540 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Impianti elettroeolici.
ai fini della determinazione della superficie occupata da
ogni singolo impianto elettroeolico, deve tenersi conto
della proiezione della parte aerea sull'area sottostante. Ai
fini di tale valutazione, infatti, non può non tenersi conto
del movimento rotatorio dell'impianto stesso.
Il concetto di
superficie coperta, con riferimento alla realizzazione di
impianti industriali, infatti, non deve essere inteso in
senso tecnico-costruttivo, bensì in quello più lato urbanistico-edilizio, quale superficie direttamente
impegnata da un impianto fisso anche tenendo conto della
superficie occupata per il suo funzionamento, in quanto
detta superficie viene sottratta ad ogni altra possibilità
di utilizzazione (Corte
di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 29.08.2012 n. 33365 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
D.i.a. e silenzio dell'amministrazione.
In materia edilizia, la inutile scadenza del termine di
legge per contestare all'interessato la carenza dei
presupposti e dei requisiti per seguire la disciplina
procedimentale della denunzia di inizio attività non
configura un provvedimento implicito di silenzio-assenso,
rimanendo impregiudicato il potere-dovere del Comune e
dell'autorità giudiziaria di intervenire sul piano
sanzionatorio nel caso in cui l'intervento realizzato a
seguito della presentazione della D.I.A. risulti sottoposto
a permesso di costruire (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.08.2012 n. 33355 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Rappresentazione dei luoghi difforme.
La rappresentazione di una
situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà esistente
e tale difformità costituisce un vizio di legittimità del
titolo edilizio, determinato dallo stesso soggetto
richiedente, costituisce ex se ragione idonea e sufficiente
per l’adozione del provvedimento di annullamento di ufficio
del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può
prescindere, ai fini dell’autotutela, dal contemperamento
con un interesse pubblico attuale e concreto.
In dipendenza di ciò, risulta del tutto in conferente, il
richiamo alla disciplina contenuta negli artt. 21-octies e
21-nonies della L. 241 del 1990, semmai, proprio la falsa
rappresentazione della realtà dei grafici, rendeva
necessaria e vincolante l’adozione, da parte
dell’Amministrazione comunale, del provvedimento di
annullamento in autotutela, il cui contenuto non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Va osservato che il giudice di primo grado ha comunque fatto
buon governo nella specie di un principio per certo
rilevante per il caso in esame, ben consolidato nella
giurisprudenza e in forza del quale, se è stata
rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto
in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio
di legittimità del titolo edilizio, determinato dallo stesso
soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se
ragione idonea e sufficiente per l’adozione del
provvedimento di annullamento di ufficio del titolo
medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere,
ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un
interesse pubblico attuale e concreto (cfr. in tal senso, ad
es., Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008 n. 6554, nonché Sez.
V, 12.10.2004 n. 6554) (Consiglio
di Stato,
Sez. IV,
sentenza 27.08.2012 n. 4619 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Legittimità repressione tardiva abuso edilizio su
area con vincolo paesistico.
Quando gli
immobili abusivi ricadono in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, la prevalenza dell'interesse pubblico
sull'interesse privato deve considerarsi “in re ipsa”,
in considerazione del rilievo costituzionale del paesaggio,
ex art. 9, comma 2 Cost. (la tutela del paesaggio inserita
dall’art. 9 Cost. tra i propri principi fondamentali,
assurgere a valore primario o assoluto v. Corte Cost. n.
367/2007), dunque, sono da considerarsi recessivi gli
interessi privati in conflitto con il preminente interesse
alla tutela del bene paesaggio.
Pertanto, è legittima la repressione dell'abuso edilizio,
disposta anche a distanza di tempo ragguardevole, purché
accompagnata da una puntuale motivazione sull'interesse
pubblico al ripristino dei luoghi, tesa a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.08.2012 n. 4610 -
tratto da www.lexambiente.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Legittimità diniego concessione edilizia ad una
distanza dal confine inferiore a ml. 5,00.
E’ legittimo il diniego del rilascio di una concessione
edilizia per costruzione di un fabbricato localizzato ad una
distanza dal confine inferiore a ml. 5, ossia alla distanza
minima prescritta dalla normativa urbanistica comunale,
notoriamente inderogabile anche per accordo tra le parti
(cfr., tra le tante Cass. Civ., Sez. II, 09.04.2010, n.
8465), non potendo operare in tale ipotesi la disciplina
civilistica generale (Consiglio
di Stato,
Sez. IV,
sentenza 10.08.2012 n. 4555 -
tratto da www.lexambiente.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
La Cassazione: modifica possibile pur trattandosi di uso più
intenso della cosa comune dai singoli. Sottotetto,
trasformazioni libere.
Irragionevole vietare la conversione in terrazze a uso
esclusivo.
Attici maggiormente appetibili. D'ora in poi, infatti, il
proprietario dell'ultimo piano sottostante il tetto comune
potrà trasformarne una parte in terrazza a uso esclusivo
anche senza il consenso degli altri condomini.
Con la
sentenza 03.08.2012 n. 14107 la Corte di Cassazione ha mutato il proprio orientamento
in materia di trasformazione del tetto condominiale in
terrazza privata, operazione fino a oggi considerata vietata
in condominio.
La seconda sezione civile della Suprema corte, con
un'innovativa lettura dei concetti di pari uso e di
destinazione del bene comune, sembra quindi avere aperto la
strada a un utilizzo più intenso delle proprietà esclusive
in ambito condominiale.
Il caso concreto. Nella specie l'impresa costruttrice di una
palazzina, che aveva venduto alcuni degli appartamenti a
terzi, aveva trasformato delle soffitte di sua proprietà in
mansarde abitabili con parziale abbattimento del tetto e
innalzamento della restante parte. I proprietari del piano
terra, riconosciuti in giudizio quali condomini, avevano
quindi citato l'impresa dinanzi al tribunale per sentire
dichiarare l'illegittimità delle opere in tal modo
realizzate e la riduzione in pristino del tetto
condominiale. In primo grado la domanda era stata rigettata
ma la Corte d'appello, ritenendo che la trasformazione del
tetto in tal modo realizzata dall'impresa comproprietaria ne
avesse alterato illegittimamente la destinazione e ledesse
il principio del pari utilizzo dei beni comuni, la aveva
invece accolta. Di qui il ricorso in Cassazione proposto
dall'impresa costruttrice.
La decisione della Suprema corte. Come si anticipava, i
giudici di legittimità, nel prendere atto dell'orientamento
costantemente seguito in materia di trasformazione del tetto
comune in terrazza a uso esclusivo, operazione ritenuta
sempre vietata in condominio perché utile a un solo
condomino con violazione del pari diritto degli altri
comproprietari (si veda altro articolo in pagina), hanno
però inteso motivatamente discostarsene, con l'obiettivo di
fornire una rilettura del principio del pari utilizzo dei
beni comuni di cui all'art. 1102 c.c che favorisca le
esigenze abitative dei singoli e limiti il potere di
preclusione dei singoli.
La Suprema corte, in estrema sintesi, è partita dal
considerare come l'orientamento in questione sia in
sostanziale contraddizione con quella giurisprudenza di
legittimità che ha ammesso l'apertura nel muro perimetrale
(e finanche nel tetto) di luci e vedute inerenti gli
appartamenti di proprietà esclusiva, consentendo quindi un
uso più intenso del bene comune da parte di uno o più
condomini, pur nell'ambito della sua destinazione
principale.
Alla luce di ciò, secondo la Cassazione, appare del tutto
irragionevole vietare sempre e comunque la trasformazione
del tetto in terrazza, laddove l'intervento sia minimo e,
soprattutto, vengano garantite le strutture sottostanti con
appropriati interventi tecnici, quali la coibentazione
termica, che suppliscano alla mancanza di copertura,
mantenendone la sua destinazione principale. Il diritto di
pari uso da parte degli altri condomini, secondo la Suprema
corte, deve quindi essere garantito con riferimento a
interessi concreti e non meramente astratti, mentre la
salvaguardia della destinazione del bene comune deve
avvenire in relazione alla funzione del medesimo, piuttosto
che alla sua consistenza materiale.
---------------
Inversione di rotta dei giudici supremi.
La recente sentenza della Corte di cassazione n. 14107/2012
si discosta notevolmente dalle precedenti decisione dei
giudici supremi che in passato, in diverse occasioni, hanno
sempre ritenuto illegittimo il comportamento del
proprietario dell'ultimo piano che avesse modificato il
tetto condominiale, trasformandolo in terrazza a livello per
il proprio uso esclusivo.
I casi precedenti e le giustificazioni dei condomini
dell'ultimo piano. Nei precedenti casi esaminati dalla
Cassazione i proprietari dell'ultimo piano del caseggiato
avevano generalmente modificato l'originaria copertura dello
stabile con un terrazzo accessibile soltanto da una nuova
scala posta all'interno dello stesso appartamento. Tali
opere, secondo le ragioni dei diretti interessati, sarebbero
rientrate nella facoltà di sopraelevazione spettante al
proprietario dell'ultimo piano, che comprenderebbe anche la
facoltà di sostituzione di un tetto con un lastrico solare o
con una terrazza. In ogni caso, sempre secondo i condomini
interessati, opere del genere non potrebbero essere ritenute
illegittime perché dopo la trasformazione sia il tetto sia
la terrazza assolvono comunque alla stessa funzione di
copertura e, quindi, non verrebbe meno il diritto degli
altri condomini si servirsi del nuovo manufatto come
copertura dell'edificio. Infine, in altri precedenti, non si
è mancato di giustificare dette opere con la necessità di
assicurare aria e luce a un locale soppalcato indispensabile
per l'abitabilità dello stesso.
Trasformazione del tetto e diritto di sopraelevazione. Le
decisioni della Suprema corte hanno sempre affermato che la
sostituzione, a opera del proprietario dell'ultimo piano di
un edificio condominiale, del tetto con una diversa
copertura (terrazza) che, pur non eliminando l'assolvimento
della funzione originariamente svolta dal tetto stesso,
costituisce alterazione della destinazione della cosa
comune, non può considerarsi compresa nel più ampio diritto
di sopraelevazione spettante al proprietario dell'ultimo
piano.
Infatti, si realizza una sopraelevazione di edificio
condominiale, soggetta al relativo regime legale, solo in
presenza di opere che comporti lo spostamento in alto della
copertura del fabbricato, mentre la stessa va esclusa nel
caso di lavori che, pur investendo la struttura e il modo di
essere di tale copertura, non incidano sulla posizione della
stessa. Quindi, secondo i supremi giudici, solo le
modificazioni del tetto di un fabbricato che comportino
aumento della superficie esterna del tetto medesimo e
aumento della volumetria dei vani sottostanti,
indipendentemente dalla loro utilizzabilità ai fini
abitativi, integrano una nuova costruzione.
Di conseguenza è
chiaro, per esempio, che non si può parlare semplicemente di
terrazza in sostituzione della preesistente copertura
condominiale quando alla fine dei lavori il tetto risulti
sopraelevato, con creazione di un piccolo sottotetto
praticabile e di un terrazzo. Una terrazza del genere, a
livello di locali costruiti in forza della facoltà di cui
all'art. 1127 c.c., serve sì da copertura parziale
dell'edificio, ma svolge anche l'altra e preminente funzione
di assicurare particolari utilità al proprietario esclusivo
dei contigui ambienti.
La violazione dei limiti di utilizzo dei beni comuni.
Secondo i giudici di legittimità il tetto, che ai sensi
dell'art. 11117 c.c. costituisce parte comune dell'edificio
condominiale, adempie all'unica funzione di copertura del
fabbricato nell'interesse di tutti i condomini.
La sua trasformazione, perciò, è indubbiamente ammessa, per
esempio attraverso la creazione di un lastrico solare in sua
sostituzione, sempre però che il nuovo manufatto mantenga
inalterata l'originaria funzione di copertura dell'edificio,
alla quale non può sovrapporsi una destinazione diversa.
Al contrario, come è stato costantemente ribadito dalla
giurisprudenza, la trasformazione del tetto a opera di un
condomino, nel senso di sostituire la copertura preesistente
con una diversa, oltre a non costituire una sopraelevazione,
determina il sorgere di un nuovo manufatto (la terrazza) che
per le sue concrete caratteristiche strutturali e per i suoi
annessi (scala di accesso interna all'appartamento) comporta
una destinazione a uso esclusivo dei condomini autori
dell'opera, causando un'alterazione della cosa comune, con
l'esclusione degli altri comproprietari di farne uguale uso.
In tale ipotesi, infatti, la trasformazione, non può essere
intesa come un'innovazione diretta al miglioramento o
all'uso più comodo o al maggior rendimento di un bene comune
a vantaggio di tutti i condomini, ma comporta invece la
violazione dei limiti previsti dalla legge, secondo i quali
non è consentito che si alteri la destinazione della cosa
comune e che si impedisca agli altri partecipanti di farne
ugualmente uso secondo il loro diritto.
Per quanto sopra è stata anche dichiarata nulla la delibera
dell'assemblea presa a maggioranza con cui un condomino era
stato autorizzato ad aprire un varco nel tetto,
trasformandolo in terrazza a livello per il proprio uso
esclusivo: infatti la funzione di copertura di un
caseggiato, che può essere assicurata sia dal tetto sia da
un lastrico solare, presuppone una scelta che non può essere
modificata se non con l'accordo di tutti i condomini (articolo ItaliaOggi Sette del
17.09.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Diritto
d'accesso cum grano salis.
Il giudizio tributario non «libera» il
diritto di accesso, ex l. n. 241/1990, del contribuente ai
documenti del procedimento tributario e comunque l'istanza
di ostensione dei documenti può essere inerente solo ad atti
già esistenti «in rerum natura».
Questo è il contenuto del responso emesso dalla IV Sez.
del Consiglio di stato nella
sentenza
30.07.2012 n. 4316.
Il giudizio in commento si è occupato del ricorso avverso un
diniego di accesso a documenti, manifestato da un ufficio
periferico dell'Agenzia delle entrate, a seguito di istanza
presentata da una società coinvolta in una lite tributaria
inerente un atto di recupero di credito d'imposta a seguito
di pvc della Guardia di finanza. La richiesta di specie era,
tra l'altro, indirizzata dalla società contribuente alle
liste dei crediti irregolari o inesistenti e agli atti
esistenti presso l'Anagrafe tributaria in relazione ai
modelli F24 ivi trasmessi.
Il Consiglio di stato, riformando la decisione del Tar
Veneto, ha argomentato che, nonostante l'orientamento della
giurisprudenza in favore del diritto di accesso a seguito di
instaurazione del giudizio tributario, si impone comunque
all'istante l'onere di specificare la consistenza del
proprio interesse all'accesso, indicando le ragioni
sottostanti l'acquisizione di determinati atti e l'utile
asservimento degli stessi a fini difensivi; in altri
termini, secondo il responso in commento, la pendenza di un
contenzioso tributario non determina l'automatica insorgenza
di una generalizzata legittimazione del contribuente
interessato a conoscere ogni e qualsiasi atti posto in
essere dall'Amministrazione tributaria, semmai è il giudice
tributario, destinatario di una richiesta in forma
istruttoria, il soggetto più idoneo e qualificato ad
apprezzare la sussistenza delle ragioni difensive evocate
dalla istante.
Sul punto, inoltre il collegio ha aggiunto che «l'opposta
opinione non si sottrae al rischio di legittimare il ricorso
a istanze meramente «esplorative» e, in definitiva, intese a
un controllo generalizzato dell'operato della p.a.». Il
supremo giudice amministrativo, nell'occasione, ha poi
rimarcato come dovesse ritenersi inammissibile l'istanza di
specie, non rivolta all'Amministrazione per l'ostensione di
atti già esistenti in rerum natura ma finalizzata una
attività di elaborazione e formazione di nuovi documenti che
non può mai essere pretesa in sede di accesso
(articolo ItaliaOggi del
21.09.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sostanze pericolose. Amianto.
In caso di
ritrovamento di amianto, è legittima l’ordinanza del Sindaco
con la quale si dispone la caratterizzazione e la messa in
sicurezza di aree inquinate da amianto, anche se la stessa
non è stata preceduta dalla comunicazione di avvio del
procedimento.
Infatti l’Amministrazione con tale procedimento intende
porre rimedio ad una situazione di grave pericolo per la
salute, così come consentito dal primo comma dell’art. 7
della legge n. 241 del 1990 (
TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 23.07.2012 n. 1031 -
tratto da www.lexambiente.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Depresso non licenziabile se ritarda l'avviso di malattia.
Provvedimento illegittimo quando il contratto
prevede il giustificato impedimento.
Non è licenziabile il dipendente che omette di comunicare
tempestivamente la prosecuzione della malattia, qualora i
giudici di merito accertino che l'omissione è giustificata,
in base alla disciplina collettiva, da uno stato di
depressione, manifestatosi e attestato al tempo del
licenziamento.
Così la sentenza 12.07.2012 n. 11798
della Corte di Cassazione, ad "avallare" la decisione di appello che
aveva ritenuto la malattia comprovato e giustificato
impedimento, idoneo, secondo il contratto collettivo, a
rendere non sanzionabile il fatto addebitato.
Il caso è quello di una lavoratrice che non comunica, nei
tempi dovuti, la prosecuzione della malattia. Il datore la
licenzia e lei fa causa. A conclusione del primo grado del
giudizio il licenziamento viene confermato. La Corte di
appello, invece, dichiara l'illegittimità del licenziamento,
in quanto l'omessa comunicazione era giustificata dal
compromesso equilibrio psicologico della lavoratrice. Il
datore, a sua volta, ricorre in Cassazione. Lamenta, in
primo luogo, che la Corte di merito ha affermato che la
lavoratrice versava in una situazione di squilibrio
psicologico, senza che tale valutazione avesse un riscontro
nella documentazione medica acquisita agli atti.
Inoltre,
contesta la sentenza per violazione di legge e vizio di
motivazione: i giudici di appello hanno ritenuto, quale
causa di oggettiva attenuazione della gravità della mancanza
addebitata alla lavoratrice, il fatto che il datore ben
potesse prevedere che la malattia sarebbe proseguita e che
lo stesso non avesse sollecitato la visita fiscale,
addossando su di lui l'onere della prova.
Interviene, allora, la Cassazione. Che, in primo luogo,
sostiene l'infondatezza del primo motivo di ricorso: la
Corte territoriale ha constatato, grazie alla «copiosa
documentazione versata in atti», che la lavoratrice, da
almeno un anno prima del licenziamento, soffriva di disturbi
d'ansia, con attacchi di panico, labilità emotiva
esasperata, stato progressivamente aggravatosi fino ad
evolvere, all'epoca del licenziamento, in vera e propria
sintomatologia depressiva. Lo stesso ricorso datoriale
contiene accenni a una sussistente sintomatologia
depressiva. Pertanto l'Appello ha, correttamente, basato la
decisione sull'esistenza di un comprovato e giustificato
impedimento, idoneo, in base alla disciplina collettiva
applicabile, a escludere la sanzionabilità disciplinare dei
fatti addebitati.
La specifica clausola del contratto in questione,
effettivamente, obbliga il lavoratore, in caso di malattia o
infortunio nonché di prosecuzione della malattia stessa, a
dare immediata notizia al datore, facendo però salvi «i casi
di giustificato e comprovato impedimento». L'interpretazione
della Cassazione, è bene precisare, può essere utile solo
quando sussista un tale contenuto contrattuale.
Neanche il secondo motivo di ricorso convince i giudici. Il
datore solleva dubbi sulla corretta interpretazione di norme
contrattuali, senza, tuttavia, produrre, come richiesto
dalle norme procedurali, il contratto collettivo: doveva
allegare il testo integrale del contratto collettivo
nazionale contenente quelle disposizioni, e invece ha
depositato solo un estratto di clausole collettive. In
conclusione, la Cassazione rigetta il ricorso condannando la
società alle spese del giudizio (articolo Il Sole 24 Ore del
17.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
Tar Puglia sdogana i pannelli, con limiti. Sì al
fotovoltaico nei centri storici.
Sì al fotovoltaico nei centri storici se i pannelli
installati non sono in contrasto con il contesto
architettonico e non si produce alcun effetto visivo che
distorca la visione degli elementi architettonici del bene.
Questo è il parere espresso dal TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
con la
sentenza 12.07.2012 n. 1241.
I giudici del Tar hanno infatti annullato il provvedimento
di diniego emesso dal dirigente dello Sportello unico per
l'edilizia del comune relativo alla domanda per la
realizzazione di un impianto fotovoltaico su fabbricato a
uso residenziale ubicato in centro storico, classificato dal
Prg come «edificio di notevole interesse ambientale»,
assoggettato alle prescrizioni dettate dall'art. 38 delle
Nta, tra cui l'obbligo di sottoporre ogni progetto
all'approvazione della Soprintendenza.
Quest'ultima esprimeva parere negativo «poiché le opere
di progetto, consistenti in lavori per l'installazione di un
impianto fotovoltaico da 9,66 kwp sul terrazzo di un
fabbricato di un immobile per civile abitazione, per
tipologia d'intervento e materiali, si ritenevano non
compatibili con il fabbricato esistente e con il contesto
architettonico del centro storico».
Sulla base di queste considerazioni il comune rigettava la
domanda. Il cittadino presentava pertanto ricorso al Tar e
quest'ultimo lo accoglieva giudicando contraddittorie le
motivazioni della pubblica amministrazione. Le valutazioni
operate dall'amministrazione si appalesano irrazionali e
contraddittorie. Infatti, dalla documentazione depositata
emerge che «la struttura sarà realizzata in modo da non
risultare visibile dall'esterno, in quanto i muri
perimetrali attigui a essa sono di altezza superiore».
Tali circostanze affermano i giudici non risultano essere
state vagliate, dal momento che il parere si fonda in
maniera apodittica sull'affermazione dell'asserito contrasto
con il contesto architettonico, benché appaia evidente che
lo stesso non è compromesso, se non si produce alcun effetto
visivo che distorca la visione degli elementi architettonici
del bene
(articolo ItaliaOggi del
21.09.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Accesso agli appunti del Segretario: i consiglieri non ne hanno
il diritto.
I consiglieri comunali e provinciali non
sono legittimati ad accedere al brogliaccio formato dal
segretario comunale per la successiva redazione del testo di
una delibera consiliare, in quanto i relativi appunti in
ordine alle opinioni espresse e alle valutazioni manifestate
dai membri consiliari non integrano un documento
amministrativo.
---------------
Gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il
nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di
informazione avanzate da un consigliere comunale e le
modalità di esercizio del "munus" da questi espletato.
L’interesse del consigliere comunale ad ottenere determinate
informazioni o copia di specifici atti detenuti
dall'amministrazione civica non si presta, pertanto, ad
alcuno scrutinio di merito da parte degli uffici
interpellati in quanto, sul piano oggettivo, esso ha la
medesima latitudine dei compiti di indirizzo e controllo
riservati al Consiglio comunale (al cui svolgimento è
funzionale).
---------------
Il consigliere comunale non può abusare del diritto
all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento,
piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od
aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro
gli immanenti limiti della proporzionalità e della
ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa
dell'ente civico.
Il ricorso è da ritenere infondato nella parte in cui parte
ricorrente si duole della illegittimità del diniego
interposto dall’Amministrazione comunale avverso l’istanza
di accesso al brogliaccio delle delibere consiliari
custodito dal segretario comunale, in quanto il Collegio
ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale
secondo cui “i consiglieri comunali e provinciali non
sono legittimati ad accedere al brogliaccio formato dal
segretario comunale per la successiva redazione del testo di
una delibera consiliare, in quanto i relativi appunti in
ordine alle opinioni espresse e alle valutazioni manifestate
dai membri consiliari non integrano un documento
amministrativo” (cfr. TAR Lombardia Brescia, 31.12.2003,
n. 1823).
Il ricorso è invece da accogliere con riferimento alle
ulteriori istanze di accesso di cui in epigrafe.
L’actio ad exhibendum esercitata dalla ricorrente,
nella valorizzata qualità di consigliere comunale di
minoranza, trova preciso fondamento normativo nell’art. 43
d.lgs. n. 267 del 2000, che riconosce ai consiglieri
comunali (e provinciali), per l’utile espletamento del loro
mandato, un latissimo "diritto all’informazione" a
cui si contrappone il puntuale obbligo degli uffici "rispettivamente,
del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed
enti dipendenti" di fornire ai richiedenti "tutte le
notizie e le informazioni in loro possesso".
La chiarezza ed univocità della norma è di tale forza
cogente da indurre la giurisprudenza (C. Stato, Sez. V,
02.09.2005, n. 4471) ad affermare che gli uffici comunali
non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra
l’oggetto delle richieste di informazione avanzate da un
consigliere comunale e le modalità di esercizio del "munus"
da questi espletato. L’interesse del consigliere comunale ad
ottenere determinate informazioni o copia di specifici atti
detenuti dall'amministrazione civica non si presta,
pertanto, ad alcuno scrutinio di merito da parte degli
uffici interpellati in quanto, sul piano oggettivo, esso ha
la medesima latitudine dei compiti di indirizzo e controllo
riservati al Consiglio comunale (al cui svolgimento è
funzionale).
La difesa comunale, nell’evidenziare che talune istanze
ostensive sarebbero state evase favorevolmente anche prima
della proposizione del ricorso, richiama l’affermazione
giurisprudenziale secondo cui “il consigliere comunale
non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli
dall'ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi
meramente emulativi od aggravando eccessivamente, con
richieste non contenute entro gli immanenti limiti della
proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta
funzionalità amministrativa dell'ente civico” (cfr. n.
4471 cit.).
Nel caso di specie, tuttavia, non si possono ritenere
varcati i confini di proporzionalità e ragionevolezza
tracciati dall’autorevole intervento del Supremo Consesso di
Giustizia Amministrativa, in quanto le istanza di accesso di
cui in epigrafe sub b) contengono adeguato riferimento ad
atti specifici, il cui reperimento non comporta, in termini
plausibili, un aggravio particolarmente significativo a
carico dei compulsati uffici comunali (TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
sentenza 23.03.2012
n. 539 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Gli interventi edilizi soggetti al permesso di
costruire non sono sanabili, pur se realizzati
dall'interessato con una denuncia di inizio attività
alternativa al permesso di costruire (art. 22, comma terzo,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380), mediante la presentazione di una
D.I.A. in sanatoria, ma richiedono la procedura di
accertamento di conformità prevista per la sanatoria
edilizia dall'art. 36 del citato decreto (fattispecie
relativa alla realizzazione di un muro di contenimento).
Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di L'Aquila ha
confermato la dichiarazione di colpevolezza di C.E.E. in
ordine ai reati: a) di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art.
44, lett. b); b) di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64
e 71, a lui ascritti per avere realizzato un muro a in
calcestruzzo armato dell'altezza di mt. 4 e della lunghezza
di mt. 10, nonché una gabbionata con riempimento in pietrame
dell'altezza di mt. 1 e la lunghezza di mt. 9 ed un altro
muro in pietrame senza il permesso di costruire e senza
avere fatto la prescritta denuncia per le opere in cemento
armato.
La Corte territoriale ha rigettato i motivi di gravame con i
quali l'appellante aveva dedotto che le opere di cui alla
contestazione potevano essere realizzate in base a DIA, la
cui carenza non costituisce reato, e dedotto che, in ogni
caso, i reati dovevano dichiararsi estinti per effetto di
una DIA in sanatoria.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore
dell'imputato, che la denuncia per violazione di legge e
vizi di motivazione.
Motivi della decisione
Con il primo mezzo di annullamento il ricorrente denuncia
violazione ed errata applicazione di legge.
Si deduce che la sentenza impugnata ha erroneamente escluso
che il muro di contenimento di cui alla contestazione fosse
assentibile mediante DIA, in base al rilievo che lo stesso
si eleva al di sopra del suolo, poiché tale accertamento
deve essere riferito alla posizione del muro a monte e non a
valle, da cui soltanto si nota la parete in sopraelevazione.
Si deduce, poi, che, anche se si ritenesse il manufatto
soggetto a permesso di costruire, l'interessato può, con
scelta discrezionale, optare, ai sensi del D.P.R n. 380 del
2001, art. 22, comma 2, per la richiesta di permesso di
costruire o edificare previa denuncia di inizio attività, la
cui mancanza è sanzionabile penalmente per il disposto di
cui al citato D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, u.c..
Si inferisce da tale disposto normativo che l'abuso può
essere sanato mediante il rilascio di DIA in sanatoria, che
l'imputato aveva ottenuto nel caso in esame. Sul punto si
richiamano anche le disposizioni del codice civile che non
considerano costruzione, ai fini dell'osservanza delle
distanze legali, i muri di contenimento.
Con il secondo mezzo di annullamento si denuncia carenza di
motivazione in ordine alla destinazione dell'opera a
servizio dell'edificio principale, essendo finalizzata a
impedire smottamenti della scarpata con la conseguente
natura pertinenziale della stessa.
Con l'ultimo mezzo di annullamento si denuncia carenza e
illogicità della motivazione con riferimento alla
interpretazione della DIA in sanatoria.
Si deduce che la sentenza impugnata ha affermato
erroneamente che la DIA in sanatoria non è conforme allo
strumento urbanistico, in quanto quest'ultimo prevede il
ricorso alla DIA per opere provvisionali ed indifferibili,
nonché carenza di motivazione con riferimento alle
dichiarazioni del tecnico comunale esaminato come teste, che
aveva ritenuto la sanatoria legittima. Il ricorso non è
fondato.
E' stato già affermato da questa Suprema Corte che "In
materia edilizia, è necessario il permesso di costruire per
la realizzazione di un muro di contenimento, in quanto si
tratta di un manufatto che si eleva al di sopra del suolo ed
è destinato a trasformare durevolmente l'area impegnata,
come tale qualificabile intervento di nuova costruzione".
(sez. 3^, 14.05.2008 n. 35898, Russo e altro, RV 241075).
E' evidente che tale massima si riferisce a qualsiasi muro
di contenimento, in considerazione delle rilevanti
dimensioni che l'opera in genere assume ed alla
modificazione edilizia permanente del territorio che essa
determina, non in considerazione de fatto che l'opera si
elevi al di sopra del suolo a monte o a valle, trattandosi
di una distinzione che non ha senso in relazione alla
funzione del manufatto.
Quanto alla DIA in sanatoria, anche se il D.P.R. n. 380 del
2001, art. 22, comma 3, consente per gli interventi di nuova
costruzione conformi agli strumenti urbanistici, nei casi
previsti dalle lett. b) e c) del terzo comma, l'esecuzione
dei lavori a seguito di denuncia di inizio di attività,
l'art. 36 dello stesso testo unico stabilisce che la
legittimazione dei manufatti già realizzati possa avvenire
solo mediante il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria.
Sicché per le opere soggette a permesso di costruire, anche
se l'interessato ha optato per l'esecuzione dei lavori
mediante denuncia di inizio attività, ai sensi del citato
art. 22, comma 3, non è affatto prevista la possibilità di
sanatoria di dette opere mediante DIA, in considerazione del
più pregnante controllo richiesto alla pubblica
amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni
originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si
proceda ad una valutazione di doppia conformità agli
strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito
della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato
accoglimento entro il termine di sessanta giorni (terzo
comma dell'art. 36).
Nel caso in esame, peraltro, la sentenza impugnata ha
rilevato che il muro di contenimento non risultava neppure
conforme al PRG, in quanto detto strumento urbanistico
prevede esclusivamente l'esecuzione di "opere
provvisionali di assoluta urgenza, indispensabili per
evitare pericoli e danni", mentre le opere incriminate,
secondo la sentenza impugnata, non possono assolutamente
essere considerate tali, essendo di tipo "durevole e
permanente".
Il richiamo alle norme civilistiche in materia di distanze è
del tutto improprio con riferimento alla disciplina edilizia
ed urbanistica sotto il profilo penale.
E' noto che rientrano nella nozione di pertinenza solo
manufatti di modeste dimensioni posti durevolmente a
servizio di un edificio principale.
Tale certamente non può essere ritenuto il muro di
contenimento di cui all'imputazione considerate le notevoli
dimensioni dell'opera e la naturale destinazione del muro di
contenimento ad una più ampia funzione di prevenzione in
relazione alle eventuali modificazioni naturali del
territorio.
Sull'ultimo motivo la sentenza ha correttamente osservato
che le diverse valutazioni degli organi amministrativi non
possono avere incidenza su quella del giudice ordinario e
quanto affermato in punto di diritto in relazione al primo
motivo di gravame risulta assorbente di qualsivoglia diversa
opinione espressa dal tecnico comunale quale teste
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza
14.11.2011 n. 41425). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
perdita di efficacia della concessione edilizia per mancato
inizio o ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve
essere accertata e dichiarata con formale provvedimento
dell'Amministrazione, anche ai fini del necessario
contraddittorio con il privato circa l'esistenza dei
presupposti di fatto e diritto che legittimano la
declaratoria di decadenza, sicché non essendo stato adottato
nel caso che occupa alcun provvedimento comunale di formale
declaratoria della decadenza della concessione edilizia di
cui trattasi, deve ritenersi che all’atto dell’adozione del
provvedimento di annullamento della stessa l’atto era
formalmente efficace e sussisteva interesse all’annullamento
dell’atto di ritiro.
Osserva al riguardo la Sezione che la censura non è
suscettibile di positiva valutazione, atteso che la perdita
di efficacia della concessione edilizia per mancato inizio o
ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere
accertata e dichiarata con formale provvedimento
dell'Amministrazione, anche ai fini del necessario
contraddittorio con il privato circa l'esistenza dei
presupposti di fatto e diritto che legittimano la
declaratoria di decadenza (Consiglio Stato, sez. IV,
29.01.2008, n. 249), sicché non essendo stato adottato nel
caso che occupa alcun provvedimento comunale di formale
declaratoria della decadenza della concessione edilizia di
cui trattasi, deve ritenersi che all’atto dell’adozione del
provvedimento di annullamento della stessa l’atto era
formalmente efficace e sussisteva interesse all’annullamento
dell’atto di ritiro
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.05.2011 n. 2821 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Qualora
in sede di rilascio della concessione edilizia sia stato
acquisito il parere della Commissione Edilizia, tale parere
va acquisito anche all'atto dell'annullamento d'ufficio del
suddetto titolo abilitativo, fatte salve le ipotesi in cui
il provvedimento di autotutela sia supportato da ragioni
formali o di tipo esclusivamente giuridico
In secondo luogo considera che
in base al principio del contrarius actus, qualora in
sede di rilascio della concessione edilizia sia stato
acquisito il parere della Commissione Edilizia, tale parere
va acquisito anche all'atto dell'annullamento d'ufficio del
suddetto titolo abilitativo, fatte salve le ipotesi in cui
il provvedimento di autotutela sia supportato da ragioni
formali o di tipo esclusivamente giuridico (Consiglio Stato,
sez. IV, 31.03.2009, n. 1909).
Nel caso che occupa il provvedimento di autoannullamento
della concessione edilizia di cui trattasi è stato motivato
con richiamo a ragioni non formali e non di tipo
esclusivamente giuridico, essendo stato fatto riferimento ad
incoerenze formali e dimensionali delle tavole di elaborati
di progetto (risultanti da una relazione del consulente
tecnico della Procura della Repubblica presso la Pretura di
Lecco), quindi a regioni esclusivamente tecniche
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.05.2011 n. 2821 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’Amministrazione
(e per essa il concessionario appositamente incaricato)
dispone del potere, esercitatile entro il termine
prescrizionale, di pretendere il pagamento di quanto “ab
origine” dovuto dal richiedente il titolo edilizio, come
quest’ultimo ha il potere di pretendere, entro lo stesso
termine, la restituzione di quanto eventualmente pagato in
eccedenza.
Peraltro è vero che la liquidazione del contributo viene
effettuata dall’Amministrazione, ma tale liquidazione non dà
luogo ad un provvedimento (ancorché di carattere paritetico)
avente natura costitutiva. Si tratta, invece, di attività
meramente ricognitiva e contabile, perché frutto
dell’applicazione di criteri automatici di determinazione
del “quantum debeatur” (attraverso tabelle parametriche
applicabili a volumi e superfici di progetto), nonché di
norme giuridiche che nulla lasciano alla discrezionalità
dell’Ente riguardo all’ammontare effettivamente dovuto.
L’Amministrazione non esercita, pertanto, alcun potere
libero e discrezionale, tanto è vero che la determinazione
potrebbe essere effettuata anche dal richiedente in via del
tutto autonoma (come in effetti avviene quando esso contesta
l’illegittima pretesa di un contributo superiore a quanto
dovuto).
---------------
Il diritto di credito dell’Amministrazione comunale, avente
ad oggetto il pagamento degli oneri dovuti per il rilascio
della concessione edilizia, è soggetto all’ordinario termine
decennale di prescrizione, decorrente dalla data di rilascio
della concessione edilizia, in cui il relativo credito
diviene certo, agevolmente liquidabile ed esigibile.
Nel caso in esame, a giudizio del Collegio, non ricorre la
fattispecie dell’autotutela amministrativa in senso stretto,
cioè l’autoannullamento di atti illegittimi. Va, infatti,
osservato che il concessionario si limita a richiedere un
pagamento integrativo, senza disporre alcunché riguardo alla
precedente determinazione del contributo effettuata dal
Comune al momento del rilascio del titolo edilizio.
Questo, tuttavia, non esclude che l’Amministrazione (e per
essa il concessionario appositamente incaricato) disponga
comunque del potere, esercitatile entro il termine
prescrizionale, di pretendere il pagamento di quanto “ab
origine” dovuto dal richiedente il titolo edilizio, come
quest’ultimo ha il potere di pretendere, entro lo stesso
termine, la restituzione di quanto eventualmente pagato in
eccedenza.
Peraltro è vero che la liquidazione del contributo viene
effettuata dall’Amministrazione, ma tale liquidazione non dà
luogo ad un provvedimento (ancorché di carattere paritetico)
avente natura costitutiva. Si tratta, invece, di attività
meramente ricognitiva e contabile (cfr. Cons. St., Sez. IV,
06.06.2008, n. 2686), perché frutto dell’applicazione di
criteri automatici di determinazione del “quantum
debeatur” (attraverso tabelle parametriche applicabili a
volumi e superfici di progetto), nonché di norme giuridiche
che nulla lasciano alla discrezionalità dell’Ente riguardo
all’ammontare effettivamente dovuto.
L’Amministrazione non esercita, pertanto, alcun potere
libero e discrezionale, tanto è vero che la determinazione
potrebbe essere effettuata anche dal richiedente in via del
tutto autonoma (come in effetti avviene quando esso contesta
l’illegittima pretesa di un contributo superiore a quanto
dovuto).
Di conseguenza, volendo analizzare la vicenda in termini
paritetici e negoziali, l’errore è sempre riconoscibile da
parte del debitore che si comporti osservando i canoni di
correttezza e di ordinaria diligenza, il quale non può
quindi invocare la tutela di un inesistente legittimo
affidamento.
---------------
Deve inoltre essere considerato
infondato il terzo motivo del ricorso, con cui si deduce
l’applicabilità del termine triennale di cui all’art. 35,
comma 11, della L. 28.02.1985, n. 47, ormai infruttuosamente
decorso.
Al riguardo il Collegio condivide l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui il diritto di credito
dell’Amministrazione comunale, avente ad oggetto il
pagamento degli oneri dovuti per il rilascio della
concessione edilizia, è soggetto all’ordinario termine
decennale di prescrizione, decorrente dalla data di rilascio
della concessione edilizia, in cui il relativo credito
diviene certo, agevolmente liquidabile ed esigibile (cfr.
Cons. St., Sez. IV, n. 2686/2008, cit.).
Peraltro va osservato che la disposizione invocata dalla
ricorrente rappresenta norma speciale applicabile ai
procedimenti in sanatoria che, come tale, deroga alla
disciplina generale solo per le fattispecie espressamente
considerate (TAR Marche,
sentenza 28.12.2009 n. 1475 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
sensi delle LL. n. 10 del 1977 e n. 122 del 1989, in sede di
rilascio della concessione edilizia, non sono assoggettabili
al contributo commisurato al costo di costruzione e agli
oneri di urbanizzazione i parcheggi c.d. obbligatori fissati
dall'art. 41-sexies della L. n. 1150 del 1942.
Infatti, la L. 24.03.1989 n. 122 (c.d. “legge Tognoli”),
recante disposizioni in materia di parcheggi, dispone (art.
11, comma 1) che le opere e gli interventi da essa previsti
“costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi
dell'art. 9, comma 1, lett. f), della l. 28.01.1977 n. 10”,
e dunque non sono soggetti a contributo concessorio.
Pertanto gli atti di accertamento devono essere ritenuti
illegittimi, nella parte in cui assoggettano al pagamento
degli oneri di urbanizzazione i parcheggi privati realizzati
dalla ricorrente, con la precisazione che il regime di
gratuità riguarda soltanto i parcheggi di pertinenza delle
nuove costruzioni nei limiti della dotazione obbligatoria,
che fanno corpo con le stesse o che vengono realizzati in
aree pertinenziali.
Osserva il Collegio che ai
sensi delle LL. n. 10 del 1977 e n. 122 del 1989, in sede di
rilascio della concessione edilizia, non sono assoggettabili
al contributo commisurato al costo di costruzione e agli
oneri di urbanizzazione i parcheggi c.d. obbligatori fissati
dall'art. 41-sexies della L. n. 1150 del 1942.
Infatti, la L. 24.03.1989 n. 122 (c.d. “legge Tognoli”),
recante disposizioni in materia di parcheggi, dispone (art.
11, comma 1) che le opere e gli interventi da essa previsti
“costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi
dell'art. 9, comma 1, lett. f), della l. 28.01.1977 n. 10”,
e dunque non sono soggetti a contributo concessorio (Cons.
St., Sez. V, 14.10.1992, n. 987; TAR Lombardia, Milano, Sez.
II, 17.04.2007, n. 1779).
Pertanto gli atti di accertamento devono essere ritenuti
illegittimi, nella parte in cui assoggettano al pagamento
degli oneri di urbanizzazione i parcheggi privati realizzati
dalla ricorrente, con la precisazione che il regime di
gratuità riguarda soltanto i parcheggi di pertinenza delle
nuove costruzioni nei limiti della dotazione obbligatoria,
che fanno corpo con le stesse o che vengono realizzati in
aree pertinenziali.
Per quanto riguarda invece la c.d. “strada interrata”,
va rilevato che trattasi di accesso privato, interrato e ad
esclusivo uso dei condomini, con conseguenza della rilevanza
del relativo volume ai fini del calcolo degli oneri di
urbanizzazione, onde gli atti di accertamento impugnati
devono essere ritenuti “in parte qua” legittimi
(TAR Marche,
sentenza 28.12.2009 n. 1475 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
decadenza della concessione edilizia non deve essere
dichiarata mediante un provvedimento formale, avendo la
stessa natura dichiarativa.
Osserva il Collegio che, come
si evince dalla documentazione in atti, il ritiro del
suddetto titolo edilizio è avvenuto il 16.02.2007, quando
era decorso il termine di un anno dal suo rilascio
(14.02.2006), con conseguente decadenza del medesimo ai
sensi dell’art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001,
secondo il quale “il termine per l'inizio dei lavori non
può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo”.
Ciò è stato del resto riconosciuto dallo stesso Comune di
Fano, che con nota in data 17.05.2007 prot. n. 34219 ha
accolto l’istanza della s.r.l. Domega di rimborso degli
oneri (prima rata) già corrisposti, dando atto che il P.d.C.
n. 818/2005 “è ormai decaduto”. Né, contrariamente a
quanto dedotto dalla difesa della società concessionaria, la
decadenza deve essere dichiarata mediante un provvedimento
formale, avendo la stessa natura dichiarativa (cfr. Cons.
St., Sez. IV, 18.06.2008, n. 3030).
In accoglimento della censura deve essere pertanto disposto
l’annullamento dell’atto di accertamento da ultimo
menzionato (TAR Marche,
sentenza 28.12.2009 n. 1475 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La sanatoria prevista dall'art. 37 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 può essere richiesta unicamente per gli
interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità
della denuncia di inizio attività (D.I.A.), previsti
dall'art. 22, commi primo e secondo, del d.P.R. citato e non
è estensibile anche agli interventi edilizi, di cui al comma
terzo della richiamata disposizione, per i quali la D.I.A.
si pone quale titolo abilitativo alternativo al permesso di
costruire (c.d. SuperDIA), applicandosi in tale ultima
ipotesi la sanatoria mediante procedura di accertamento di
conformità di cui all'art. 36 del medesimo d.P.R..
Il primo motivo è infondato perché la corte d'appello, con
un apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente
motivato, e quindi non censurabile in questa sede, ha
osservato che nella specie non poteva ritenersi intervenuta
alcuna sanatoria delle opere abusive dal momento che non era
stata presentata alcuna documentazione da cui risultasse che
era stato rilasciato il provvedimento conclusivo del
procedimento di sanatoria, ossia il permesso di costruire.
Il ricorrente continua anche in questa sede a sostenere che
le opere abusive sarebbero state sanate perché egli ha
presentato DIA in sanatoria ai sensi del D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, art. 37, comma 5. L'assunto è pero palesemente
infondato perché la sanatoria di cui al citato art. 37 può
essere chiesta solo per gli interventi edilizi di cui
all'art. 22, commi 1 e 2.
Nella specie si è invece chiaramente nell'ambito delle opere
di cui all'art. 22, comma 3, trattandosi dell'innalzamento
del solaio di copertura fino ad una quota di m. 3,15 circa,
della realizzazione di un porticato di 15 mq., e della
variazione del tetto da due ad una falda. Ai sensi dell'art.
36, comma 1, quindi, l'accertamento di conformità doveva
avvenire mediante richiesta di permesso di costruire in
sanatoria, richiesta che, ai sensi del medesimo art. 36,
comma 3, si intende rifiutata se non accolta con adeguata
motivazione entro 60 giorni, il che nella specie
pacificamente non è avvenuto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza
09.07.2009 n. 28048). |
EDILIZIA
PRIVATA: Non
sono legittimi, e pertanto sono inidonei ad estinguere il
reato di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del
2001, i provvedimenti amministrativi di sanatoria di
immobile abusivo che subordinano gli effetti del beneficio
alla esecuzione di specifici interventi finalizzati a
ricondurre l'immobile stesso nell'alveo di conformità agli
strumenti urbanistici, atteso che detta subordinazione è
ontologicamente contrastante con la "ratio" della sanatoria,
collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla
loro conformità agli strumenti urbanistici.
Il Proc. della Repubblica di Tivoli ricorreva per cassazione
avverso l'ordinanza (09.05.2007) del G.I.P. del Tribunale di
Tivoli, che aveva disposto la revoca del sequestro
probatorio dell'immobile identificato come in atti in
relazione ai reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art.
44, lett. B), e artt. 83, 93, 94 e 95, stesso Decreto, anche
con riguardo agli artt. 64, 65, 67, 71 e 72.
Il G.I.P. aveva argomentato rilevando come nella specie non
si fosse trattato di un'ipotesi di acquisizione del
manufatto sequestrato al patrimonio del Comune, atteso che
era intervenuto permesso in sanatoria relativamente a talune
difformità dei lavori e al rispetto di quelli assentiti; e
con il quale si era disposto, tra l'altro, la conservazione
di alcune opere difformi del predetto permesso: ove ritenute
non demolibili senza pregiudizio delle parti assentite, e
con prescrizione di previa demolizione della parte di
volumetria in eccedenza rispetto all'indice di piano.
Deduceva il procuratore ricorrente la violazione di legge,
osservando:
- che il Gip non aveva nulla osservato circa il documentato
contrasto con lo strumento urbanistico delle opere eseguite
e circa gli effetti che il provvedimento di sanatoria
avrebbe prodotto a riguardo delle violazioni concernenti la
normativa antisismica e quella sulle opere in conglomerato
cementizio;
- che, nella sostanza, la non condivisibile valutazione del
provvedimento di sanatoria spiegherebbe i suoi effetti anche
sulla procedura di acquisizione dell'immobile abusivo già
perfezionatosi a seguito dell'inottemperanza dell'ordinanza
di demolizione;
- mentre la natura e consistenza delle opere e la
complessità dei procedimenti amministrativi instaurati
rendevano necessario anche un diverso apprezzamento della
normativa di cui agli artt. 254 e 262 c.p.p.: stante il
fatto che il mantenimento del vincolo probatorio avrebbe
garantito la conservazione dell'intervenuto abusivo senza
alcuna alterazione e la possibilità di effettuare, anche in
sede dibattimentale, ogni attività necessaria per una
corretta valutazione della consistenza degli abusi.
Con memoria difensiva del 14.09.2007 il difensore degli
indagati ribadiva la correttezza del provvedimento
impugnato, richiamando, tra l'altro, la giurisprudenza
amministrativa che, con provvedimenti recenti aveva ritenuto
che l'istanza di sanatoria sospendesse nei fatti, anche a
prescindere dall'impugnativa dell'atto davanti al TAR,
l'efficacia del provvedimento che ordina la demolizione del
manufatto; nonché precisando come, nel caso concreto, al
momento del vaglio dell'istanza ex art. 36 si fosse
verificato il c.d. completamento funzionale della
costruzione, consentendo così agli uffici tecnici del Comune
una valutazione unitario delle opere edificate.
Sembra corretto osservare sulla falsa riga di quanto dedotto
dal procuratore ricorrente come non possa riconoscersi la
legittimità di quei provvedimenti di sanatoria che, come
quello in esame, subordinano gli effetti del beneficio
all'esecuzione di interventi finalizzati a ricondurre
l'immobile abusivo nell'alveo di conformità degli strumenti
urbanistici (Cass. Sez. 3^ n. 10601 del 30.5.2000).
La ragione del principio affermato è nel fatto che la
predetta subordinazione (...) non può che essere
ontologicamente contrastante con gli elementi essenziali e
la ratio della sanatoria: collegabile alla già
avvenuta esecuzione delle opere e alla loro conformità agli
strumenti urbanistici (per tutte, Sez. 3^ n. 986 del
27.09.2005).
Viene da sé, peraltro, come il GIP avrebbe dovuto valutare
l'efficacia di tale provvedimento, controllando i parametri
stabiliti dal legislatore per l'operatività della sanatoria:
spettando al Giudice penale il potere-dovere di espletare
ogni accertamento per stabilire l'applicabilità della causa
di estensione del reato: così da delibare inefficacia del
provvedimento e quindi l'inestinguibilità del reato -quando
non risulti la sussistenza dei requisiti che attengono alla
conformità dell'opera realizzata agli strumenti urbanistici.
L'altro punto dell'ordinanza impugnata sicuramente
discutibile riguarda il fatto che il provvedimento di
sanatoria rilasciato aveva presupposto la conservazione di
alcune opere e la demolizione "delle parti di volumetria
in eccedenza": quando, invece in presenza di un aumento
di volumetria (come nel caso di specie) non è regolare
contenere abusivi solo i volumi realizzati in eccedenza
rispetto all'intero manufatto (dovendosi; a questo punto,
ritiene abusivo l'intero immobile): anche perché l'incidenza
sull'assetto urbanistico del territorio dev'essere valutata
contenendo l'abuso del suo complesso.
Peraltro non va trascurato come le violazioni contestate
abbiano riguardato anche i reati commessi alla disciplina
antisismica e a quella relativa al conglomerato cementizio:
le cui finalità non sono quelle di regolare l'assetto e lo
sviluppo del territorio sotto il solo profilo urbanistico ma
anche di evitare possibili crolli (di conseguenza non sono
estinti da sanatoria alcuna)
(Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 11.11.2007
n. 41567). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La esecuzione in assenza o in difformità degli
interventi subordinati a denuncia di inizio attività (DIA)
ex art. 22, commi 1 e 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, allorché
non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia in vigore, comporta l'applicazione
della sanzione penale prevista dall'art. 44 lett. a), del
citato d.P.R. n. 380, atteso che soltanto in caso di
interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA, ma
conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione
amministrativa prevista dall'art. 37 dello stesso decreto n.
380 del 2001.
Il primo motivo è infondato. Il giudice del merito,
invero, ha accertato -e il punto non è stato contestato da
nessuno- che la scala in questione costituisce una
costruzione che non avrebbe avuto bisogno di permesso di
costruire ma che, in astratto, avrebbe potuto essere
realizzata mediante denunzia di inizio attività, ossia di un
intervento rientrante -sempre in astratto- tra quelli
previsti dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 22, comma 1,
(testo unico dell'edilizia).
Ciò pero non comporta necessariamente, come sostiene invece
il ricorrente, che la esecuzione della stessa senza alcun
titolo abilitativo determinerebbe l'applicazione delle sole
sanzioni amministrative previste dal D.P.R. 06.06.2001, n.
380, art. 37, primo 1, (testo unico dell'edilizia), per gli
interventi edilizi di cui all'art. 22, commi 1 e 2,
realizzati in assenza o in difformità della denunzia di
inizio attività (e sempre che, ovviamente, non si tratta di
interventi suscettibili di realizzazione mediante DIA ai
sensi dell'art. 22, comma 3, nel qual caso sono applicabili
le sanzioni penali di cui all'art. 44).
L'art. 22, comma 1, cit., infatti, dispone che sono
realizzabili mediante denuncia di inizio attività non già
tutti gli interventi non riconducibili all'elenco di cui
all'articolo 10 e all'articolo 6, bensì solo quegli
interventi di cui all'art. 10 ed all'art. 6 che siano anche
"conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia vigente". Solo se ricorre questa
condizione, quindi, si potrà applicare la disposizione
dell'art. 37 che prevede solo la sanzione amministrativa per
gli interventi realizzati in assenza o in difformità della
denunzia di inizio attività.
Qualora invece si tratti di interventi che siano non
conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei
regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia
vigente, la loro realizzazione (sempre che non si tratti di
interventi per i quali è richiesto il permesso di costruire
ai sensi dell'art. 10) comporterà comunque l'applicazione
della sanzione penale prevista dal D.P.R. 06.06.2001, n.
380, art. 44, lett. a), il quale appunto punisce con la pena
dell'ammenda "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e
modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto
applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti
urbanistici e dal permesso di costruire".
Nel caso di specie il giudice del merito ha appunto
accertato in punto di fatto -e anche questo accertamento non
è stato contestato- che l'intervento in questione era in
contrasto con lo strumento urbanistico comunale vigente, in
quanto insistente su area destinata a diventare pubblica e,
per questo motivo, non assentibile mediante denunzia di
inizio attività e non sanabile. Del tutto correttamente,
dunque, è stato ritenuto integrato il reato di cui al D.P.R.
06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. a)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza
20.12.2006 n. 41619). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei
lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della L.
28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato
sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi
dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i predetti
termini indicati nell'atto sono intesi a dare certezza
temporale all'attività edificatoria; detto istituto è
rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività
costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare
certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei
presupposti stabiliti dalla legge.
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è
suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è,
pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di
validità del titolo autorizzatorio, l'attività di
trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale
l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico,
la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento
assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che,
invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza
di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata
per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore.
---------------
L'orientamento giurisprudenziale sulla necessità di un
espresso provvedimento di decadenza non è costante.
Ed infatti una parte della giurisprudenza ritiene che la
decadenza della concessione edilizia per mancato inizio ed
ultimazione dei lavori non sia automatica e, pertanto, tale
decadenza debba essere necessariamente dichiarata con
apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non
vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo,
sicché non è configurabile nella specie un giudizio
d'accertamento e che, pertanto, affinché la concessione
edilizia perda, per decadenza , la propria efficacia occorre
un atto formale dell'amministrazione che renda operanti gli
effetti della decadenza accertata.
La decadenza avrebbe, pertanto, dovuto formare oggetto di un
apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato i
presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto
per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie,
considerato che la perdita di efficacia della concessione è
subordinata all'esplicazione di una potestà provvedimentale.
Il Collegio, in tale situazione, in aderenza
all’orientamento che appare prevalente nella materia da
ultimo, ritiene che debba farsi riferimento invece alla
lettera della legge, la quale fa dipendere la decadenza, non
da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma
dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, infatti, si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari della
concessione ma anche della Pubblica Amministrazione, ai fini
dell’accertamento con apposito atto amministrativa
dell’intervenuta decadenza della concessione edilizia per
l’inutile scadenza del termine di inizio lavori, con
probabili disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presentano identiche sul punto che interessa.
La decadenza della concessione edilizia per mancata
osservanza del termine di inizio dei lavori, pertanto, opera
di diritto, con la conseguenza che il provvedimento, ove
adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto
verificatosi "ex se" con l'inutile decorso del termine.
Segue da ciò che:
a) l'eventuale provvedimento di decadenza è sufficientemente
motivato con richiamo al termine ultimo previsto per
l'inizio dei lavori, senza che sia necessaria una
comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico,
essendo quest'ultimo "ope legis" prevalente sul primo;
b) non è necessaria la comunicazione di avvio del
procedimento, essendo la decadenza un effetto "ipso iure"
del mancato inizio dei lavori e non residuando
all'amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine
discrezionale.
La decadenza della concessione edilizia si determina,
pertanto, anche in assenza di un'espressa dichiarazione da
parte dell’amministrazione competente.
---------------
Ai fini della sussistenza, o meno dei presupposti per la
decadenza dalla concessione edilizia, l'effettivo inizio dei
lavori relativi deve essere valutato non in via generale ed
astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità
ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato
ed autorizzato, all'evidente scopo di evitare che il termine
prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e
simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo
intendimento del titolare della concessione stessa di
procedere alla costruzione dell'opera progettata.
L'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della
concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le
opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva
volontà da parte del concessionario di realizzare il
manufatto assentito, non essendo sufficiente il semplice
sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti
e materiali da costruzione.
Pertanto l'inizio dei lavori non si configura con la sola
esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento senza che sia
manifestamente messa a punto l'organizzazione del cantiere e
vi siano altri indizi che dimostrino il reale proposito del
titolare della concessione edilizia di proseguire i lavori
sino alla loro ultimazione ed al completamento dell'opera.
E la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per
mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è
illegittima solo ove il titolare della concessione abbia
eseguito "lo scavo ed il riempimento in conglomerato
cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del
piano di campagna entro il termine di legge" oppure lo
sbancamento interessi un'area di vaste proporzioni.
La decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio
dei lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della
L. 28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato
sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi
dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i predetti
termini indicati nell'atto sono intesi a dare certezza
temporale all'attività edificatoria; detto istituto è
rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività
costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare
certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei
presupposti stabiliti dalla legge (TAR Campania Napoli, sez.
IV, 29.04.2004, n. 7513).
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è
suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è,
pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di
validità del titolo autorizzatorio, l'attività di
trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale
l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico,
la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento
assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che,
invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza
di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata
per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore (TAR
Sardegna, 06.08.2003, n. 1001).
Ne consegue, ai fini che interessano, la assoluta
irrilevanza dello stato di salute della ricorrente, quale
manifestatosi successivamente al presunto inizio dei detti
lavori di realizzazione degli edifici e ritenuto causa della
predetta interruzione, indipendentemente dalla circostanza
che il predetto stato sia stato previamente portato a
conoscenza dell’amministrazione comunale interessata con
l’istanza di proroga della concessione e non invece dedotto,
esclusivamente, in un momento successivo, in sede di
richiesta di riesame del rigetto di rilascio della nuova
concessione edilizia.
Ed infatti, alla luce della citata interpretazione oggettiva
del suddetto termine di inizio lavori, la proroga dello
stesso non sarebbe giuridicamente configurabile per alcun
motivo, neppure quello inerente allo stato di salute del
titola del titolo edificatorio.
Peraltro la ricorrente, considerata l’inerzia del Comune nel
riscontrare la predetta istanza di proroga, presentata nelle
more di decorrenza del termine annuale di inizio dei lavori
(che si evidenzia non essere stata depositata nemmeno in
copia nel presente giudizio né a cura della ricorrente,
direttamente interessata, né a cura del Comune, che è
rimasto, nella sostanza, assolutamente inottemperante all’O.P.I.
n. 10/2005), avrebbe dovuto tempestivamente, e nei modi di
legge, attivarsi contro la predetta inerzia, ai fini di fare
valere, eventualmente, le proprie ragioni al riguardo nei
confronti dell’amministrazione comunale.
Ciò premesso, deve rilevarsi che l'orientamento
giurisprudenziale sulla necessità di un espresso
provvedimento di decadenza non è costante.
Ed infatti una parte della giurisprudenza ritiene che la
decadenza della concessione edilizia per mancato inizio ed
ultimazione dei lavori non sia automatica e, pertanto, tale
decadenza debba essere necessariamente dichiarata con
apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non
vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo,
sicché non è configurabile nella specie un giudizio
d'accertamento (TAR Abruzzo Pescara, 28.06.2002, n. 595) e
che, pertanto, affinché la concessione edilizia perda, per
decadenza, la propria efficacia occorre un atto formale
dell'amministrazione che renda operanti gli effetti della
decadenza accertata (Consiglio Stato, sez. V, 26.06.2000, n.
3612).
La decadenza avrebbe, pertanto, dovuto formare oggetto di un
apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato i
presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto
per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie (Cfr.
da ultimo V, 15.06.1998, n. 834), considerato che la perdita
di efficacia della concessione è subordinata
all'esplicazione di una potestà provvedimentale.
Il Collegio, in tale situazione, in aderenza
all’orientamento che appare prevalente nella materia da
ultimo, ritiene che debba farsi riferimento invece alla
lettera della legge, la quale fa dipendere la decadenza, non
da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma
dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, infatti, si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari della
concessione ma anche della Pubblica Amministrazione, ai fini
dell’accertamento con apposito atto amministrativa
dell’intervenuta decadenza della concessione edilizia per
l’inutile scadenza del termine di inizio lavori, con
probabili disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presentano identiche sul punto che interessa.
La decadenza della concessione edilizia per mancata
osservanza del termine di inizio dei lavori, pertanto, opera
di diritto, con la conseguenza che il provvedimento, ove
adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto
verificatosi "ex se" con l'inutile decorso del
termine. Segue da ciò che:
a) l'eventuale provvedimento di decadenza è sufficientemente
motivato con richiamo al termine ultimo previsto per
l'inizio dei lavori, senza che sia necessaria una
comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico,
essendo quest'ultimo "ope legis" prevalente sul
primo;
b) non è necessaria la comunicazione di avvio del
procedimento, essendo la decadenza un effetto "ipso iure"
del mancato inizio dei lavori e non residuando
all'amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine
discrezionale (TAR Basilicata, 23.05.2003, n. 471).
La decadenza della concessione edilizia si determina,
pertanto, anche in assenza di un'espressa dichiarazione da
parte dell’amministrazione competente.
Ai fini della verifica
dell’effettivo inizio dei suddetti lavori nei termini di
legge di cui sopra, in punto di fatto, non può che prendersi
dal contenuto essenziale del verbale di sopralluogo dell’U.T.C.
del 27.2.1998, che, sebbene non depositato in copia agli
atti del giudizio, nonostante apposita O.P.I. al riguardo,
tuttavia è stato riportato, nella sua parte motivazionale,
nel testo del provvedimento di cui al prot. n. 10466 del
05.11.1998, impugnato con il ricorso sub B), rileva la
consistenza dei lavori effettuati quali “modesti
sbancamenti di terreno oramai ricoperti di acqua e
vegetazione”;
Si ricorda, infatti, come tale attestazione debba
considerarsi veridica fino a prova contraria, prova che la
ricorrente non è riuscita a fornire nel presente giudizio.
Ed infatti anche dall’elencazione dei lavori effettuati,
come riportati nella richiesta di riesame, dette opere
consistono in “picchettatura del terreno interessato
dalla costruzione, livellamento del medesimo terreno al
livello delle fondazioni, creazione degli scavi per il getto
dei plinti di fondazione di entrambi gli assentiti edifici,
realizzazione della strada di accesso”.
Ne consegue che, nella sostanza, non appare esservi un reale
contrasto tra le parti in ordine alla natura dei detti
lavori, che, secondo entrambe le rappresentazioni dello
stato dei fatti, si sono fermati al livello dello
sbancamento dei terreni e della loro preparazione
all’edificazione, senza che, tuttavia, la edificazione in
senso stretto, come intesa dalla prevalente giurisprudenza
sul punto, possa effettivamente considerasi iniziata.
Ed infatti, ai fini della sussistenza, o meno dei
presupposti per la decadenza dalla concessione edilizia,
l'effettivo inizio dei lavori relativi deve essere valutato
non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale
riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento
edificatorio programmato ed autorizzato, all'evidente scopo
di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con
ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente
significativi di un effettivo intendimento del titolare
della concessione stessa di procedere alla costruzione
dell'opera progettata (Consiglio Stato, sez. V, 16.11.1998,
n. 1615).
L'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della
concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le
opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva
volontà da parte del concessionario di realizzare il
manufatto assentito, non essendo sufficiente il semplice
sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti
e materiali da costruzione (Consiglio Stato, sez. V,
22.11.1993, n. 1165).
Pertanto l'inizio dei lavori non si configura con la sola
esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento senza che sia
manifestamente messa a punto l'organizzazione del cantiere e
vi siano altri indizi che dimostrino il reale proposito del
titolare della concessione edilizia di proseguire i lavori
sino alla loro ultimazione ed al completamento dell'opera
(Consiglio Stato, sez. IV, 03.10.2000, n. 5242).
E la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per
mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è
illegittima solo ove il titolare della concessione abbia
eseguito "lo scavo ed il riempimento in conglomerato
cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del
piano di campagna entro il termine di legge" (Consiglio
Stato, sez. V, 15.10.1992, n. 1006) oppure lo sbancamento
interessi un'area di vaste proporzioni (Consiglio Stato,
sez. V, 13.05.1996, n. 535) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 28.06.2005 n. 5370 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
prova dell’effettiva e piena conoscenza del provvedimento
impugnato deve essere dimostrata in modo assolutamente
rigoroso da chi eccepisce la tardività dell’impugnazione,
sicché l’effettiva e piena conoscenza della concessione
edilizia rilasciata a terzi deve essere provata da chi
eccepisce la tardività della sua impugnazione in modo
rigoroso, e non meramente induttivo.
Ed invero, ai fini dell’inizio della decorrenza del termine
per l’impugnazione della concessione edilizia non basta la
semplice notizia del rilascio dell’atto o la vaga cognizione
del suo contenuto, oppure il mero inizio o lo svolgimento
dei lavori di costruzione, in quanto occorre la conoscenza
dei suoi elementi essenziali, conoscenza che può in via
presuntiva trarsi quando risulta da dati incontrovertibili
il completamento della costruzione.
D’altra parte, non può ritenersi acquisita la conoscenza
piena del provvedimento amministrativo lesivo, quando questa
avvenga nel corso del processo da parte del difensore,
occorrendo che la conoscenza piena sia acquisita
personalmente dal soggetto interessato.
Neppure può ritenersi acquisita la conoscenza piena degli
atti amministrativi da parte del soggetto interessato che
abbia presentato esposti o denunce per lamentarne la
lesività o l’eventuale illegittimità.
E’ noto che, secondo la giurisprudenza, la prova
dell’effettiva e piena conoscenza del provvedimento
impugnato deve essere dimostrata in modo assolutamente
rigoroso da chi eccepisce la tardività dell’impugnazione
(fra le tante: Cons. St., Sez. IV, 04.12.2000 n. 6486),
sicché l’effettiva e piena conoscenza della concessione
edilizia rilasciata a terzi deve essere provata da chi
eccepisce la tardività della sua impugnazione in modo
rigoroso, e non meramente induttivo (fra le tante: Cons.
St., Sez. VI, 14.03.2002 n.1533).
Ed invero, ai fini dell’inizio della decorrenza del termine
per l’impugnazione della concessione edilizia non basta la
semplice notizia del rilascio dell’atto o la vaga cognizione
del suo contenuto, oppure il mero inizio o lo svolgimento
dei lavori di costruzione, in quanto occorre la conoscenza
dei suoi elementi essenziali, conoscenza che può in via
presuntiva trarsi quando risulta da dati incontrovertibili
il completamento della costruzione (Cons. St., VI, n. 1533
del 2002 cit.).
D’altra parte, non può ritenersi acquisita la conoscenza
piena del provvedimento amministrativo lesivo, quando questa
avvenga nel corso del processo da parte del difensore,
occorrendo che la conoscenza piena sia acquisita
personalmente dal soggetto interessato (fra le tante: Cons.
St., Sez. IV, 07.09.2000 n. 4725).
Neppure può ritenersi acquisita la conoscenza piena degli
atti amministrativi da parte del soggetto interessato che
abbia presentato esposti o denunce per lamentarne la
lesività o l’eventuale illegittimità (fra le tante: Cons.
St., Sez. V, 17.12.1990 n.890) (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 28.06.2002 n. 595 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
provvedimento di decadenza della concessione edilizia ha
natura dichiarativa a carattere vincolato e il relativo
effetto estintivo non è disponibile per l’Amministrazione; pur dovendo essere adottato ogni volta
che ne sussistono i presupposti il provvedimento di decadenza,
tuttavia, non è automatico; pertanto, la decadenza deve essere
necessariamente dichiarata, ai sensi dell’art. 31 della legge
n. 1150 del 1942, con apposito provvedimento, nei cui
riguardi il privato non vanta che una posizione giuridica di
interesse legittimo, sicché non è configurabile nella specie
un giudizio d’accertamento, in quanto la competenza
esclusiva del G.A. ex art. 16 della legge n. 10 del 1977
lascia ferma, in soggetta materia, la distinzione tra
diritti soggettivi ed interessi legittimi e, quindi, per
questi ultimi il solo rito impugnatorio annullatorio.
Il Collegio considera
che, secondo la giurisprudenza, il provvedimento di
decadenza della concessione edilizia ha natura dichiarativa
a carattere vincolato e che il relativo effetto estintivo
non è disponibile per l’Amministrazione (Cons. St., Sez. V,
07.03.1997 n. 204); pur dovendo essere adottato ogni volta
che ne sussistono i presupposti (Cons. St., Sez. V, 03.02.2000 n. 597) il provvedimento di decadenza,
tuttavia, non è automatico (Cons. St., Sez. V, 23.11.1996 n. 1414); pertanto, la decadenza deve essere
necessariamente dichiarata, ai sensi dell’art. 31 della legge
n. 1150 del 1942, con apposito provvedimento, nei cui
riguardi il privato non vanta che una posizione giuridica di
interesse legittimo, sicché non è configurabile nella specie
un giudizio d’accertamento, in quanto la competenza
esclusiva del G.A. ex art. 16 della legge n. 10 del 1977
lascia ferma, in soggetta materia, la distinzione tra
diritti soggettivi ed interessi legittimi e, quindi, per
questi ultimi il solo rito impugnatorio annullatorio (Cons.
St., Sez. V, 15.06.1998 n.834).
Quest’ultima pronuncia appare attuale anche in seguito alla
devoluzione alla giurisdizione esclusiva del G. A. delle
controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e
i comportamenti delle Amministrazioni pubbliche in materia
urbanistica ed edilizia, disposta dall’art. 34 del D.Lgs.
n. 80 del 1998 come sostituito dall’art. 7, comma 1, lett. b),
della legge n. 205 del 2000, essendo ferma la disposizione
contenuta nell’art. 103, I comma, della Costituzione.
Tuttavia, il Collegio considera che l’art. 34 cit. estende la
giurisdizione del G. A. alle controversie sui
“comportamenti” delle Amministrazioni in materia
urbanistica ed edilizia. Pertanto, ben può essere sindacato,
ad avviso del Collegio, il comportamento
dell’Amministrazione che, pur sussistendo i presupposti per
dichiarare la decadenza di una concessione edilizia, non
adotti il relativo provvedimento (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 28.06.2002 n. 595 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e
costante dell’annullamento di un atto in sede
giurisdizionale, ma richiede la positiva verifica di tutti i
requisiti previsti dalla legge; pertanto, oltre alla lesione
della situazione soggettiva di interesse tutelata
dall’ordinamento (danno ingiusto), è indispensabile che
siano accertate la colpa (o il dolo) dell’Amministrazione e
l’esistenza di un danno al patrimonio con nesso causale tra
l’illecito ed il danno subito.
Resta da esaminare la domanda
di risarcimento danni proposta con i motivi aggiunti.
Al riguardo il Collegio deve rilevare che la domanda risulta
proposta in modo indeterminato, in quanto priva della
quantificazione del danno che si assume subito, sicché la
stessa appare inammissibile (Cons. St., Sez. V, 16.01.2002
n. 227).
Peraltro, il risarcimento del danno non è una conseguenza
automatica e costante dell’annullamento di un atto in sede
giurisdizionale, ma richiede la positiva verifica di tutti i
requisiti previsti dalla legge; pertanto, oltre alla lesione
della situazione soggettiva di interesse tutelata
dall’ordinamento (danno ingiusto), è indispensabile che
siano accertate la colpa (o il dolo) dell’Amministrazione e
l’esistenza di un danno al patrimonio con nesso causale tra
l’illecito ed il danno subito (Cons. St., Sez. IV,
14.06.2001 n.3169).
Nel caso in esame, la domanda proposta non risulta assistita
da sufficienti principi di prova in ordine alla sussistenza
di tutti i requisiti sopra indicati, sicché anche per questo
verso la stessa appare inammissibile (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 28.06.2002 n. 595 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
decadenza della concessione edilizia, per mancato inizio
lavori nel termine di legge, deve formare oggetto di un
apposito provvedimento sindacale, che ne accerti i
presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto
dalla giurisprudenza amministrativa per tutti i casi di
decadenza di concessioni edilizie.
Osserva la Sezione, innanzitutto, che l’art. 15 della legge
regionale ora citata non collega la decadenza della
concessione edilizia al mancato ritiro del documento ma al
mancato inizio dei lavori entro il termine di un anno
decorrente da quello del ritiro del titolo.
La disposizione stabilisce anche che l’interessato “è
tenuto” a prendere in consegna il documento nel termine
di sessanta giorni dal suo rilascio.
La norma è evidentemente diretta a dare certezza al termine
di validità della concessione edilizia ai fini di una
puntuale individuazione del termine di inizio dei lavori di
costruzione, non a sanzionarne la decadenza per il mancato
ritiro del titolo nel termine da essa fissato.
In ogni caso, la decadenza avrebbe dovuto formare oggetto di
un apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato
i presupposti rendendone operanti gli effetti, come
richiesto dalla giurisprudenza amministrativa per tutti i
casi di decadenza di concessioni edilizie (Cfr. da ultimo V,
15.06.1998, n. 834). Nel caso in esame, infine, la
concessione edilizia è stata ritenuta operante dalla stessa
amministrazione comunale, che, per l’appunto, l’ha annullata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.06.2000 n. 3612 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 17.09.2012 |
ã |
AVVISO AI NAVIGANTI |
Nell'ottica di migliorare ed arricchire sempre più i
contenuti del Portale PTPL, si chiede di volerci
segnalare (all'indirizzo
info.ptpl@tiscali.it) in quali regioni esiste il
servizio giuridico che fornisce risposte agli enti
locali in materia di edilizia, urbanistica, appalti
ed ambiente-ecologia.
Non solo, se esiste di segnalarci pure il link della
pagina web ove risultano già pubblicate tali
risposte.
Per quanto di nostra conoscenza, sappiamo già del
servizio reso dalle regioni Piemonte (attualmente
sospeso) e Friuli Venezia Giulia con relativa pagina
web, mentre la regione Lombardia risponde agli
ee.ll. ma non pubblica on-line le relative risposte
(e questa è una grandissima pecca istituzionale a
detrimento della crescita del "comune sapere"
...
Grazie per la collaborazione.
17.09.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Il riferimento ad “un atto di pianificazione”
contenuto nel co. 6 dell’art. 92 D.Lgs. 163/2006 è da
intendersi limitato ad atti che abbiano oggetto la
pianificazione collegata alla realizzazione di opere
pubbliche (ad es. variante necessaria per la localizzazione
di un’opera) e non ad atti di pianificazione generale quali
possono essere la redazione del Piano regolatore o di una
variante generale.
La norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad
ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la
redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere
pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio,
sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta
all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun
compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici
dell’Ente.
Con specifico riferimento alla figura del Responsabile del
procedimento occorre rilevare che normalmente, in base alle
previsioni contenute nei singoli Regolamenti predisposti
dalle Amministrazioni ai sensi del co. 5 dell’art. 92 del
d.lgs. n. 163 del 2006, partecipa alla ripartizione
dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di
pianificazione collegati alla realizzazione di opere
pubbliche. Occorre sottolineare, però, che la sua
partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, così come
accade nella fattispecie disciplinata dal co. 5 dell’art. 92
del Codice dei contratti, non avviene in ragione della sua
qualifica ma in relazione al complessivo svolgimento interno
dell’attività di progettazione.
In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente
tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano
hanno diritto, in base alle previsioni del Regolamento
dell’Ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo.
Qualora, al contrario, l’attività di pianificazione, come
sopra specificata, venga svolta all’esterno non sorgendo il
presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari
dipendenti dell’Ufficio non vi è neppure un autonomo diritto
del Responsabile del procedimento ad ottenere un compenso
per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi
compiti e doveri d’ufficio.
La richiesta di parere proveniente dal Sindaco del Comune di
Sestriere riguarda l’interpretazione dell’art. 92, del
D.lgs. 12.04.2006, n. 163, recante “Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18CE”, al
fine di verificare, in relazione alla previsione contenuta
nel co. 6 della norma in questione, se sia possibile
corrispondere l’incentivo ivi disciplinato al Responsabile
del procedimento in caso di progettazione esterna di un atto
di pianificazione urbanistica “(nel caso di specie
variante strutturale al PRG vigente)”.
L’art. 92 del D.lgs. n. 163 del 2006 disciplina i
corrispettivi e gli incentivi che possono essere erogati ai
dipendenti dell’Amministrazione che procedano alla
progettazione di opere pubbliche.
Lo scopo perseguito dal legislatore con le norme in esame è
stato quello di incentivare i dipendenti delle
Amministrazioni pubbliche ad eseguire attività di
progettazione internamente agli uffici, anche al fine di
diminuire i costi delle attività collegate alla
progettazione delle opere pubbliche.
In particolare, il co. 5 dell’art. 92 stabilisce, in linea
generale, l’ammontare massimo dell’incentivo, i casi nei
quali può essere erogato e la procedura che deve essere
seguita dagli Enti interessati.
A seguire, il co. 6, che forma oggetto della richiesta di
parere proveniente dal Sindaco del Comune di Sestriere,
prevede che “Il trenta per cento della tariffa
professionale relativa alla redazione di un atto di
pianificazione comunque denominato è ripartito, con le
modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al
comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice
che lo abbiano redatto”.
L’esame letterale della norma citata sopra evidenzia che ai
dipendenti dell’Amministrazione che hanno concorso a
redigere un “atto di pianificazione” compete
cumulativamente un corrispettivo pari al trenta per cento
della tariffa professionale prevista per la predisposizione
affidata a professionisti esterni dell’atto di
pianificazione.
Preliminarmente occorre rilevare che il riferimento ad “un
atto di pianificazione” contenuto nel co. 6 dell’art. 92
è da intendersi limitato ad atti che abbiano oggetto la
pianificazione collegata alla realizzazione di opere
pubbliche (ad es. variante necessaria per la localizzazione
di un’opera) (Corte conti, sez. contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213) e non ad atti di
pianificazione generale quali possono essere la redazione
del Piano regolatore o di una variante generale.
La norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad
ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la
redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere
pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio,
sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta
all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun
compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici
dell’Ente (come riconosciuto, in più occasioni, dalla
giurisprudenza contabile, in sede consultiva. Per tutte:
Corte conti, sez. contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259;
parere 06.03.2012 n. 57; Sez. contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1; Sez. contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213).
Con specifico riferimento alla figura del Responsabile del
procedimento occorre rilevare che normalmente, in base alle
previsioni contenute nei singoli Regolamenti predisposti
dalle Amministrazioni ai sensi del co. 5 dell’art. 92 del
d.lgs. n. 163 del 2006, partecipa alla ripartizione
dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di
pianificazione collegati alla realizzazione di opere
pubbliche. Occorre sottolineare, però, che la sua
partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, così come
accade nella fattispecie disciplinata dal co. 5 dell’art. 92
del Codice dei contratti, non avviene in ragione della sua
qualifica ma in relazione al complessivo svolgimento interno
dell’attività di progettazione.
In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente
tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano
hanno diritto, in base alle previsioni del Regolamento
dell’Ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo.
Qualora, al contrario, l’attività di pianificazione, come
sopra specificata, venga svolta all’esterno non sorgendo il
presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari
dipendenti dell’Ufficio non vi è neppure un autonomo diritto
del Responsabile del procedimento ad ottenere un compenso
per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi
compiti e doveri d’ufficio (Corte dei Conti, Sez. controllo
Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290).
---------------
Contratti pubblici/ delibera della corte
dei conti. Incentivi, responsabili all'asciutto.
Il responsabile del procedimento non ha diritto
all'incentivo previsto per i tecnici interni alla Pubblica
amministrazione sugli atti di pianificazione se l'atto è
affidato all'esterno; risulta irrilevante la qualifica di
responsabile del procedimento e le norme del regolamento
comunali che prevedono l'attribuzione dell'incentivo
previsto dal Codice dei contratti pubblici anche in questi
casi sono illegittime.
È quanto afferma la Corte dei conti con il
parere 30.08.2012 n. 290 della sezione regionale
piemontese.
La Corte era chiamata a fornire un parere
sull'interpretazione dell'art. 92, comma 6, del Codice dei
contratti pubblici, al fine di verificare se sia possibile
corrispondere l'incentivo al Responsabile del procedimento
in caso di progettazione esterna di un atto di
pianificazione urbanistica (si trattava di una variante
strutturale al Prg del Comune di Sestrière). In particolare,
il comma 6, sul quale verte la richiesta di parere, prevede
che «il 30% della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto».
La questione, che nasce dalla presenza nel regolamento
comunale di una norma che prevede comunque l'attribuzione
dell'incentivo, anche quindi se l'attività pianificatoria è
svolta all'esterno, è stata posta perché su questa norma
alcune recenti pronunce delle Sezioni regionali della Corte
dei conti hanno escluso l'applicabilità della norma per gli
atti di pianificazione urbanistica e per la funzione di Rup,
nel caso di progettazione esclusivamente esterna degli
stessi.
La sezione in primo luogo chiarisce quale sia l'ambito di
applicazione oggettivo della disposizione del Codice,
affermando che l'incentivo competete ai dipendenti
dell'Amministrazione rispetto alla redazione di un «atto
di pianificazione» e che in tale nozione rientrano gli
atti che abbiano ad oggetto la pianificazione collegata alla
realizzazione di opere pubbliche (ad es. variante necessaria
per la localizzazione di un'opera) e non atti di
pianificazione generale quali possono essere la redazione
del Piano regolatore o di una variante generale.
In secondo luogo la delibera chiarisce anche che il diritto
al compenso scatta rispetto al fatto che «la redazione
dell'atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e
non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta
all'interno dell'Ente». Diverso è il discorso laddove
l'atto di pianificazione sia stato svolto da terzi
(professionisti, società di professionisti, società di
ingegneria ecc.). In quest'ultimo caso –precisa la
magistratura contabile– «non sorge il diritto ad alcun
compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici
dell'Ente».
Venendo poi alla figura del responsabile del procedimento,
usualmente nei regolamenti comunali si prevede che egli
partecipi alla ripartizione dell'incentivo, nei limiti in
cui si tratti di una pianificazione collegata alla
costruzione di opere pubbliche, ma ciò avviene non tanto «in
ragione della sua qualifica, quanto in relazione al
complessivo svolgimento interno dell'attività di
progettazione».
Se invece l'attività di pianificazione viene svolta
all'esterno, non sorge il presupposto per la ripartizione di
un incentivo fra i vari dipendenti dell'Ufficio e, quindi,
neanche il responsabile del procedimento può ottenere un
compenso per un'attività che, al contrario, rientra fra i
suoi compiti e doveri d'ufficio. In sostanza, quindi, il
responsabile del procedimento è equiparato agli altri
tecnici e se i tecnici non hanno predisposto la
progettazione o l'atto di pianificazione, anche il Rup non
ha diritto all'incentivo (articolo ItaliaOggi del
14.09.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Determina un danno erariale l’illecita percezione degli
incentivi destinati alla progettazione dell’opera ai sensi
dell’art. 18 della legge n. 109/1994.
Le modifiche normative susseguitesi (D.L. 03.04.1995, n. 101, art. 6, conv. in legge n. 216 del 1995; L. 15.05.1997, n. 127,
art. 6; L. 17.05.1999, n. 144, art. 13), nell’introdurre
criteri (legali) di ripartizione degli incentivi per la
progettazione, ovvero nello stabilire il criterio della
permanenza dell’interesse pubblico alla realizzazione
dell’opera progettata o, ancora, nell’incrementare la quota
parte del costo preventivato di un’opera o di un lavoro da
destinare agli incentivi stessi, hanno mantenuto fermi i
presupposti per la corresponsione degli incentivi alla
progettazione, ossia il discendere l’attribuzione dei
corrispettivi in questione da una effettiva attività svolta
dal personale dell’Ente, e la natura premiale degli stessi,
indubbiamente collegata alla presenza di un’effettiva
utilità per l’amministrazione come attività propedeutica
alla realizzazione dell’opera pubblica.
Ne discende che non
possono considerarsi “utilmente corrisposte” le somme,
percepite dai dipendenti dell’Ufficio Tecnico a titolo di
incentivi per la progettazione che, come risulta dimostrato
per tabulas, è stata affidata a soggetti esterni
all’Amministrazione, di talché le stesse costituiscono danno
erariale [Si segnala altresì, in tema di c.d. “danno alla
concorrenza”, il principio secondo cui l'elusione delle
garanzie prescritte dalla legge, dettate a salvaguardia
dell'interesse pubblico e regolanti le procedure per
l'individuazione del contraente privato più affidabile e più
tecnicamente organizzato per l'espletamento dei lavori,
comporta un danno patrimoniale per l’Ente appaltante, nella
considerazione che dalla violazione di norme imperative
discende sempre la nullità del contratto, con il conseguente
obbligo, per l’Amministrazione, di erogare al privato
contraente un compenso limitato al solo arricchimento senza
causa, ai sensi dell’art. 2041 c.c., con esclusione di
quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro
cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed
efficace] (massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Sardegna,
sentenza
08.11.2011 n. 595 -
link a www.corteconti.it). |
UTILITA' |
INCARICHI
PROGETTUALI:
DISCIPLINARI-TIPO E MANSIONARI PER LE
PRESTAZIONI PROFESSIONALI DELL’INGEGNERE (committenti
pubblici e privati) (Quaderni del Centro Studi
Consiglio Nazionale Ingegneri, n. 135/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ristrutturazione
edilizia e detrazione fiscale, come fare per ottenerla?
Dall’Agenzia delle Entrate la nuova guida aggiornata.
La detrazione fiscale del 36%, la più diffusa fra le
agevolazioni concesse per la ristrutturazione, dopo continue
modifiche normative è entrata a regime ordinario dal primo
gennaio 2012.
Le procedure e gli adempimenti burocratici che occorre
soddisfare per usufruire della detrazione sono contenute
nella
nuova guida dell’Agenzia delle Entrate, aggiornata al mese
di agosto 2012, con tutte le novità in materia di
potenziamento della detrazione.
In particolare, con il Decreto Legge 83/2012 (Decreto
Crescita) si è intervenuti innalzando la percentuale di
detrazione IRPEF al 50% per le spese sostenute dal
26.06.2012 al 30.06.2013, per un massimo di spesa,
raddoppiato, pari a 96.000 euro per unità immobiliare.
Nella guida dell’Agenzia le indicazioni su come richiedere e
ottenere il beneficio fiscale, in dettaglio:
● Chi usufruisce della detrazione
●
La tipologia di immobile soggetto a detrazione
●
I lavori a cui spetta l’agevolazione
●
La documentazione tecnica da trasmettere
●
Le spese ammesse alla detrazione
●
Come si perde l’agevolazione
●
Cosa succede in caso di cambio possesso
●
Cumulabilità con detrazione Irpef per risparmio energetico
(13.09.2012 - link a www.acca.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Guida
e Vademecum sulla riforma delle professioni.
Il 12 settembre scorso il Consiglio Nazionale degli
Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori ha
messo in rete due documenti relativi alla riforma delle
professioni:
una guida, in riferimento al Decreto del
Presidente della Repubblica del 07.08.2012, ed
un vademecum con le domande più frequenti e le relative
risposte, come ad esempio:
►
Cos’è la riforma delle professioni?
►
È possibile farsi pubblicità?
►
I neo laureati dovranno effettuare un tirocinio per poter
fare l’esame di Stato?
►
Cosa cambia con la riforma?
►
Le tariffe rimangono abrogate?
In allegato a questo articolo il vademecum sulla riforma e
la guida in cui si fa riferimento ad alcuni articoli del DPR
137/2012 che hanno comportato i cambiamenti più
significativi allo sviluppo della riforma delle professioni,
in particolare:
● abrogazione delle tariffe professionali
●
obbligo di concordare preventivamente con i clienti il
compenso professionale
●
obbligo di indicare i dati della propria polizza
●
tirocinio per potere sostenere l’esame di Stato
(13.09.2012 - link a www.acca.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Determinazione della misura del tasso di
interesse di mora per l’anno 2012 da applicarsi ai sensi e
per gli effetti dell’art. 133 comma 1. del Codice dei
contratti e dell’art. 144 del DPR 207/2010 (ritardato
pagamento degli acconti e della rata di saldo) (ANCE di
Bergamo,
circolare 14.09.2012 n. 223). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
I Filippetti,
La Plenaria scioglie i dubbi sulle dichiarazioni ex art. 38
in caso di cessione di azienda (link a www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
C. Ruga Riva,
Reato di omessa bonifica e D.Lgs. n. 231/2001: la bonifica
giova (anche) all’ente? (link a www.ipsoa.it). |
APPALTI:
H. D’Herin,
La Plenaria fa luce sull’efficacia del DURC ai fini
dell’esclusione dalle gare di appalto (link a
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
P. Carbone,
Il certificato di agibilità nella contrattazione immobiliare
(03.09.2012 - link a www.altalex.com). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI
- VARI: G.U.
13.09.2012 n. 214 "Disposizioni urgenti per promuovere lo
sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela
della salute" (D.L.
13.09.2012 n. 158). |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
04.09.2012 n. 206 "Determinazione, per il periodo
01.01.2012–31.12.2012, della misura del tasso di interesse
di mora da applicare ai sensi dell’articolo 144 del decreto
del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207" (D.M.
28.08.2012).
---------------
Ritardi di pagamento da parte della PA.
Mora negli appalti, tasso allineato a quello sui c/c con
imprese non finanziarie.
Fissata al 5,25 per cento la misura del tasso di
interesse di mora da applicare per il periodo
01.01.2012-31.12.2012. Il tasso d'interesse è ora
identificato, per caratteristiche dello strumento e della
controparte, con il tasso sui conti correnti attivi con
imprese non finanziarie.
Ai sensi dell'art. 133, comma 1, del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163, la misura del tasso di interesse di mora
da applicare ai sensi dell'art. 144 del decreto del
Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, è fissata
per il periodo 01.01.2012-31.12.2012 al 5,27 per cento.
In precedenza, il decreto del Ministro delle infrastrutture
e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e
delle finanze, del 27.05.2011 (pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica italiana - Serie generale - n.
145 del 24.06.2011), aveva fissato al 4,08 per cento la
misura del predetto tasso d'interesse di mora, per il
periodo 01.01.2011-31.12.2011.
Con la nota n. 25129 del 28.03.2012 il Ministero
dell'economia e delle finanze, Dipartimento del Tesoro,
Direzione IV, Ufficio II, ha comunicato che, sentita la
Banca d'Italia, tale tasso d'interesse può ora
identificarsi, per caratteristiche dello strumento e della
controparte, con il tasso sui conti correnti attivi con
imprese non finanziarie.
Con la suddetta nota è stato precisato che tale tasso,
disponibile nel Supplemento al Bollettino Statistico della
Banca d'Italia, «Istituzioni Finanziarie Monetarie: Banche e
Fondi Comuni Monetari», riferito a dicembre 2011, è pari al
5,27 per cento.
Il codice dei contratti pubblici prevede infatti che in caso
di ritardo nella emissione dei certificati di pagamento o
dei titoli di spesa relativi agli acconti e alla rata di
saldo rispetto alle condizioni e ai termini stabiliti dal
contratto, spettano all'esecutore dei lavori gli interessi,
legali e moratori, questi ultimi nella misura accertata
annualmente con decreto del Ministro delle infrastrutture e
dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e
delle finanze, ferma restando la sua facoltà, trascorsi i
termini di cui sopra o, nel caso in cui l'ammontare delle
rate di acconto, per le quali non sia stato tempestivamente
emesso il certificato o il titolo di spesa, raggiunga il
quarto dell'importo netto contrattuale,di agire ai sensi
dell'articolo 1460 del codice civile, ovvero, previa
costituzione in mora dell'amministrazione aggiudicatrice e
trascorsi sessanta giorni dalla data della costituzione
stessa, di promuovere il giudizio arbitrale per la
dichiarazione di risoluzione del contratto (commento tratto da
www.ipsoa.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Legittimazione a intervenire in giudizio.
Domanda
In materia ambientale, la legittimazione a ricorrere in
giudizio può essere individuata con un'interpretazione
estensiva delle norme?
Risposta
In tema di legittimazione a intervenire o a ricorrere in un
giudizio in materia ambientale, la giurisprudenza è
abbastanza nutrita e, alle volte, di opinione diversa.
Il Tribunale regionale amministrativo del Piemonte (Tar),
con la sentenza del 25.09.2009, numero 2292, emessa
dalla sezione prima, ha rivisitato i principi affermati
dalla giurisprudenza in tema di legittimazione a ricorrere
in materia ambientale. Per i giudici amministrativi
piemontesi:
- la legittimazione a ricorrere delle associazioni
ambientaliste non riconosciute sussiste a condizione che
venga accertato in capo all'associazione stessa il requisito
del carattere non occasionale o strumentale della
proposizione dell'impugnativa; lo stabile collegamento con
il territorio, consolidatosi nel tempo; la rappresentatività
della collettività locale di riferimento. In materia,
infatti, la giurisprudenza ha superato il precedente
orientamento secondo il quale l'articolo 128, comma 5, della
legge 08.07.1986, numero 349, nell'attribuire la
legittimazione a ricorrere in sede giurisdizionale per
l'annullamento di atti illegittimi in materia ambientale
alle associazioni individuate con decreto del Ministero
dell'ambiente, esclude la legittimazione ad agire delle
associazioni non riconosciute;
- la legittimazione del singolo a ricorrere in materia
ambientale non trova conforto nel fatto che il fondo sia
frontista di un altro, per il quale esiste un provvedimento
autorizzativo di un'opera, ritenuta nociva. Devono esistere
elementi fondati che da detta opera derivi un danno per il
fondo del ricorrente. Per il Tar deve essere provata la
sussistenza di una propria posizione giuridica
differenziata, limitatamente all'impianto collegata al
verosimile danno che al lui potrebbe derivare a seguito
dell'esercizio dell'impianto medesimo;
- per le associazioni riconosciute, per il Tar, la
legittimazione a ricorrere sussiste in capo alla struttura
nazionale e non già in capo anche all'articolazione
territoriale (articolo ItaliaOggi
Sette del 10.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Vas e Vinca.
Domanda
Il procedimento di Valutazione di incidenza ambientale
(Vinca) può essere considerato equipollente della procedura
di Valutazione ambientale strategica (Vas)?
Risposta
Il Consiglio di stato, sezione sesta, con la sentenza del 10.05.2011, numero 2755, ha affermato che, in fase di
predisposizione del piano faunistico-venatorio, la regione
avrebbe dovuto avviare la procedura di Valutazione
ambientale strategica (Vas), relativamente al piano in
esame, con riferimento alla normativa statale entrata in
vigore già prima dell'emanazione del decreto legislativo
numero 4, del 2008.
I supremi giudici amministrativi hanno,
pure, puntualizzato che il procedimento di Valutazione di
incidenza ambientale (Vinca) non può essere considerato
equipollente, né una duplicazione, tenuto conto della
diversità delle regole procedimentali e sostanziali che
caratterizzano tale Valutazione di incidenza ambientale.
La Valutazione ambientale strategica (Vas) e la Valutazione
di incidenza ambientale (Vinca) sono due strumenti che hanno
lo scopo di misurare programmi e interventi sul comparto
ambiente.
La Valutazione ambientale strategica (Vas), che è
regolamentata dal decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, si riferisce agli effetti ambientali del piano,
in quanto tale, e ivi esplica i suoi effetti.
La normativa recepisce i principi, gli obiettivi e le
finalità della direttiva del parlamento europeo e del
consiglio, concernente la valutazione degli effetti di
determinati piani e programmi sull'ambiente, datata 27.06.2001–2001/42/Ce. Detta direttiva, all'articolo 1,
stabilisce che l'obiettivo di detta procedura è quello di
garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e
di contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali
all'atto dell'elaborazione e dell'adozione di piani e
programmi al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile,
assicurando che venga effettuata la valutazione ambientale
di determinati piani e programmi che possono avere effetti
significativi sull'ambiente.
La Valutazione di incidenza ambientale (Vinca), per il
Consiglio di stato, con la summenzionata sentenza, «ha un
rilevo settoriale, destinato alla particolare protezione di
siti di importanza comunitaria (e da tenere in
considerazione in sede di Vas, anch'essa divenuta necessaria
in base alla normativa sopravvenuta del 2006)». Essa è
disciplinata dal dpr 08.09.1997, numero 357, che contiene il
Regolamento recante attuazione della direttiva numero 92/43
Ce, relativa alla conservazione degli habitat naturali e
seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche.
Pertanto, la Valutazione di incidenza ambientale (Vinca)
riguarda piani, programmi pubblici e interventi pubblici e
privati che possono produrre effetti soltanto sulle aree
identificate e soggette a particolare tutela prevista dal
citato dpr 357/1997 (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.09.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Cava di marmo.
Domanda
A che condizioni una cava di marmo all'interno di una Zona
di protezione speciale (Zps) può essere edificata?
Risposta
Il Tribunale amministrativo regionale Sicilia (Tar Sicilia),
Palermo, sezione seconda, con la sentenza del 21.04.2011, numero 784, ha affermato che l'inclusione di una area
adibita a cava di marmo all'interno di una Zona di
protezione speciale (Zps) non comporta una condizione
giuridica di inedificabilità assoluta. Si ha nel caso, per i
giudici amministrativi di Palermo una condizione giuridica
di inedificabilità relativa, subordinata al giudizio
positivo di Valutazione di impatto ambientale (Via) e di
Valutazione di incidenza ambientale (Vinca).
Per quanto
sopra la pubblica amministrazione ha l'obbligo di
pronunciarsi in materia in modo espresso sulla compatibilità
ambientale del progetto e sulla significatività della sua
incidenza rispetto agli obiettivi di conservazione del sito
medesimo. Per il predetto Tribunale amministrativo regionale
la pubblica amministrazione: «è tenuta a una puntuale
motivazione, che non solo è immanente alla natura negativa
dell'atto, ma è normativamente specificata nel suo
contenuto».
La Valutazione di impatto ambientale (Via), alla luce del
decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, così come
novellato sia dal decreto legislativo del 16.01.2008,
numero 4, sia dal decreto legislativo del 29.06.2010,
numero 128, ha per finalità di proteggere la salute umana,
nonché contribuire, con un migliore ambiente, alla qualità
della vita. Ha pure lo scopo di provvedere al mantenimento
delle specie e di conservare la capacità di riproduzione
dell'ecosistema in quanto risorsa essenziale per la vita.
La Valutazione di incidenza ambientale (Vinca) ha un rilevo
settoriale, destinato alla particolare protezione di siti di
importanza comunitaria. Essa è disciplinata, come già
scritto, dal dpr 08.09.1997, numero 357, che contiene il
Regolamento recante attuazione della direttiva numero
92/43/Ce, relativa alla conservazione degli habitat naturali
e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche.
La Valutazione di incidenza ambientale (Vinca) riguarda,
quindi, piani, programmi pubblici e interventi pubblici e
privati che possono produrre effetti soltanto sulle aree
identificate e soggette a particolare tutela prevista dal
citato dpr 357/1997 (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Imposizione del vincolo.
Domanda
Ai fini dell'imposizione di un vincolo da parte
dall'Amministrazione dei beni culturali è necessario che il
bene vincolato debba necessariamente essere accessibile alla
collettività e da questa debba essere compiutamente
godibile?
Risposta
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione
Sicilia, sezione giurisdizionale, con la sentenza del 10.06.2011, numero 418, ha affermato che il giudizio
espresso dall'amministrazione dei beni culturali in ordine
all'imposizione di un vincolo, attesa la sua fisiologica
opinabilità, può essere suscettibile di sindacato soltanto
quando esso viene a collocarsi al di fuori di quei limiti di
naturale elasticità, che sono sottesi al concetto giuridico
indeterminato che l'Amministrazione è chiamata, dal punto di
vista istituzionale, ad applicare.
Infatti, per i giudici siciliani, il concetto di fruibilità
di beni culturali non deve essere inteso come concreta e
attuale possibilità per la collettività di godere del bene,
atteso che la fruibilità si colloca, sul piano logico, quale
momento successivo alla qualificazione del bene quale bene
di interesse culturale e alla sua conseguente tutela.
Pertanto, sempre per i suddetti giudici, l'imposizione del
vincolo non richiede una ponderazione degli interessi
privati con gli interessi pubblici connessi con
l'introduzione del regime di tutela, neppure allo scopo di
dimostrare che il sacrificio del privato sia stato contenuto
nel minimo possibile, sia perché la dichiarazione di
particolare interesse non è un vincolo a carattere
espropriativo sia perché comunque la disciplina
costituzionale del patrimonio storico e artistico della
Nazione, di cui all'articolo 9 della Carta costituzionale,
erige la sua salvaguardia a valore primario del vigente
ordinamento.
Pertanto, alla luce di detta sentenza, la fruibilità del
bene viene a costituire una finalità della tutela e non un
presupposto della stessa. Corollario è la conseguente,
eventuale, destinazione funzionale del bene tutelato.
Infatti, anche alla luce dell'articolo 4 del decreto
legislativo numero 42, del 2004, è restrittivo imporre, al
fine della conservazione e tutela del bene medesimo, che
esso debba necessariamente essere accessibile alla
collettività e da questa debba essere compiutamente godibile (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.09.2012). |
CONDOMINIO: Convocazione annullabile.
Domanda
L'amministratore condominiale ha convocato l'assemblea
annuale, che si è tenuta e ha deliberato, tra l'altro,
l'esecuzione di alcuni lavori.
Per errore, però, non è stato inviato l'avviso di
convocazione a uno dei condomini. Quali sono le conseguenze?
L'assemblea è nulla o annullabile? I contratti firmati
restano validi?
Risposta
Fino alla sentenza n. 4806/2005 delle Sezioni unite della
Corte di cassazione e in mancanza di una norma che regolasse
tale problematica condominiale, la questione risultava
dubbia.
La citata sentenza ha però chiarito che nel caso specifico
si verte in una ipotesi di delibera annullabile (e non
nulla), suscettibile di impugnazione entro il ristretto
termine di trenta giorni dalla deliberazione (per i
condomini presenti e dissenzienti) o dalla sua comunicazione
(per gli assenti) di cui all'art. 1137, 3° comma, del codice
civile.
La Cassazione ha chiarito che sono nulle le delibere prive
degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o
illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al
buon costume), con oggetto che non rientra nella competenza
dell'assemblea, che incidono sui diritti individuali sulle
cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva dei
condomini e quelle comunque invalide in relazione
all'oggetto.
Invece, sono solo annullabili le delibere con vizi circa la
regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con
maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal
regolamento condominiale, quelle con vizi formali, in
violazione di prescrizioni legali, convenzionali,
regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o
di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette
da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che
violano norme che richiedono qualificate maggioranze in
relazione all'oggetto.
Da quanto precisato consegue che in assenza di impugnazione
nel termine di 30 giorni la delibera non può più essere
contestata e restano validi i rapporti generati
conseguentemente (articolo ItaliaOggi
Sette del 10.09.2012). |
CONDOMINIO:
Ripartizione nulla.
Domanda
L'assemblea condominiale, su proposta e in accordo con
l'amministratore (lui stesso condomino), ha deliberato a
maggioranza di ripartire le spese di consolidamento e
ristrutturazione delle scale in base ai millesimi di
proprietà dei singoli condomini, anziché rispetto al
criterio legale di cui all'art. 1124 c.c, nella
considerazione che appare più equo nei riguardi di chi è
proprietario di appartamenti ai piani alti dato che comunque
le scale servono a tutti. Questo criterio ad alcuni
condomini sembra in contrasto con quanto previsto dalla
legge (il regolamento non dispone nulla).
Risposta
Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. p.es. la sent. n. 747/2009), si verte in ipotesi di nullità
solo nel caso l'assemblea consapevolmente modifichi i
criteri di ripartizione delle spese stabiliti dalla legge;
invece, le deliberazioni relative alla ripartizione delle
spese sono semplicemente annullabili nel caso in cui i
suddetti criteri siano violati o disattesi (in tal senso,
sent. n. 7708/2007 e n. 16793/2006).
Da quanto prospettato, nel caso specifico l'assemblea sembra
avere inteso modificare volutamente i criteri legali, non
ritenendoli equi o adeguati, senza raggiungere l'unanimità
dei consensi, cosicché sembra attanagliarsi al caso concreto
l'ipotesi più grave della nullità, anziché della semplice
annullabilità. Fermo restando che in presenza di dubbi, come
frequentemente accade nella materia in questione, il
criterio più cautelativo è quello di rivolgersi a un legale
specializzato con la massima tempestività e di cercare di
procedere comunque all'impugnazione nel più ristretto
termine di 30 giorni previsto per l'annullamento, il
ricorrere della causa di nullità fa invece venire meno
l'obbligo di rispettare il predetto termine (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.09.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La legge di conversione del decreto n. 74/2012 apporta
modifiche alle disposizioni già previste dal decreto? (10.09.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il fresato d’asfalto è rifiuto o sottoprodotto? (10.09.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Come devono essere trattati i RAEE raccolti separatamente?
(27.08.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Quale è il tasso di raccolta dei RAEE definito dalla nuova
direttiva? (27.08.2012 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Gli enti o imprese che trattano i RAEE che tipo di
autorizzazione devono ottenere? (21.08.2012 -
link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Quando entrerà in vigore la direttiva 2012/19/UE sui rifiuti
di apparecchiature elettriche ed elettroniche? Quali sono le
finalità? (21.08.2012 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La Direttiva RAEE 2012/19/UE si applica anche alle vendite
effettuate on-line? (21.08.2012 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Quali apparecchiature elettriche ed elettroniche non
ricadranno nell’ambito della Direttiva 2012/19/UE? (21.08.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Cosa si intende per produttore ai sensi della Direttiva RAEE
2012/19/UE? In che modo il produttore è responsabile? (21.08.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
NEWS |
URBANISTICA: CONSIGLIO
DEI MINISTRI/ Il governo vara il ddl contro il consumo di
suolo agricolo. Terreni agevolati, 5 anni di vincolo.
Dimezzato il tempo di blocco per i cambi di destinazione
d'uso.
Scende da 10 a 5 anni l'obbligo per i terreni agricoli che
hanno beneficiato di aiuti di stato o aiuti comunitari di
mantenere la stessa destinazione d'uso. Sarà, però,
possibile realizzare sul terreno interventi e costruzioni
strumentali alla attività agricola. Niente più incentivi per
i comuni e le province che recuperano i nuclei abitati
rurali, che mantengono però la priorità nella concessione
dei finanziamenti statali e regionali previsti in materia
edilizia. Priorità che viene estesa anche ai privati.
Sono
essenzialmente queste le novità presenti nel
testo del
disegno di legge sulla valorizzazione delle aree agricole e
di contenimento del consumo del suolo, proposto dal ministro
delle politiche agricole Mario Catania e approvato ieri dal
consiglio dei ministri. Relativamente al suo iter
parlamentare proprio Catania ha detto: «Non escludo che il
ddl possa essere approvato entro questa legislatura.
Potrebbe avvenire se il testo venisse esaminato in sede
deliberante».
Rispetto alla versione iniziale illustrata a
luglio (si veda ItaliaOggi 25/07/2012), il testo presenta
alcune limature e risulta più flessibile, in seguito ad una
serie di consultazioni avvenute in questi mesi. La novità
più rilevante riguarda il limite temporale per il divieto di
mutamento di destinazione dei terreni. Il ministro ha
spiegato che, fermo restando l'obiettivo di bloccare il
progredire dell'urbanizzazione in luoghi agricoli, la
riduzione a 5 anni dall'ultima erogazione di aiuto statale o
europeo è stata introdotta per non irrigidire troppo il
vincolo. Vengono però fatte salve eventuali disposizioni
esistenti più restrittive e, ad ogni modo, il vincolo dovrà
essere espressamente richiamato negli atti di compravendita
dei terreni, a pena di nullità dell'atto.
È stata inoltre
prevista la possibilità di realizzare, nel rispetto degli
strumenti urbanistici vigenti, interventi strumentali alla
coltivazione del fondo, all'allevamento del bestiame, alla
silvicoltura, nonché quelli funzionali alla conduzione
dell'impresa agricola e alle attività di trasformazione e
commercializzazione dei prodotti agricoli.
Per quanto
riguarda le misure di incentivazione, secondo quanto risulta
a ItaliaOggi, per evitare che la Ragioneria di Stato
muovesse eccezioni sulla copertura economico-finanziaria, è
stata eliminata la previsione degli incentivi per i comuni e
le province che procedono al recupero dei nuclei abitati
rurali. Tuttavia, resta per le amministrazioni locali che
effettuano opere di manutenzione, ristrutturazione,
restauro, risanamento conservativo di edifici esistenti e
conservazione ambientale del territorio, la priorità nella
concessione di finanziamenti statali e regionali previsti in
materia edilizia. Beneficio che viene esteso anche ai
privati singoli o associati, che intendano realizzare il
recupero di edifici nei nuclei abitati rurali.
Invariato il cuore del provvedimento, sul cui testo sarà
acquisito il parere della Conferenza unificata. Viene creato
un meccanismo di identificazione, a livello nazionale,
dell'estensione massima di terreni agricoli edificabili che
tiene conto dell'estensione e della localizzazione dei
terreni agricoli rispetto alle aree urbane, dell'estensione
del suolo che risulta già edificato, dell'esistenza di
edifici inutilizzati, dell'esigenza di realizzare
infrastrutture e opere pubbliche. L'estensione massima viene
determinata con decreto del ministro delle politiche
agricole d'intesa con quello dell'ambiente e delle
infrastrutture e la quota viene ripartita tra le Regioni
che, a loro volta, la ripartiscono tra i comuni.
Il provvedimento interviene infine sugli oneri di
urbanizzazione dei comuni abrogando la norma che consente
che i contributi di costruzione siano distolti dal
finanziamento delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria e che consente agli enti locali di utilizzare una
percentuale dei proventi delle concessioni edilizie e delle
sanzioni per il finanziamento delle spese correnti
(articolo ItaliaOggi del 15.09.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: CONSIGLIO
DEI MINISTRI/ Approvato in via definitiva il correttivo al dlgs 104/2010. Codice amministrativo, atti short.
Condanna alle spese per i ricorsi lunghi. Competenze rigide.
Condanna alle spese se l'atto è troppo lungo e incompetenza
per territorio sollevata d'ufficio dal Tar.
Queste le novità
più importanti del decreto correttivo al decreto legislativo
104/2010 (cpa, codice del processo amministrativo) approvato
definitivamente dal Consiglio dei ministri di ieri 14.09.2012. Il provvedimento si propone di ridurre i
tempi dei processi e di migliorare la funzionalità di alcuni
istituti processuali.
Competenza del giudice amministrativo.
Il difetto di
competenza territoriale può sempre essere rilevato d'ufficio
dal giudice amministrativo. La misura è finalizzata a
ridurre la durata del giudizio. Inoltre si argina un
malcostume della prassi giudiziaria, per cui le parti si
rivolgevano al Tar più propenso a concedere provvedimenti
cautelari favorevoli, violando le regole sulla competenza
territoriale. Il secondo correttivo (con modifica
all'articolo 13) prescrive che l'inderogabilità della
competenza territoriale del Tar (regola generale) vale anche
in ordine alle misure cautelari.
Anzi il giudice deve
decidere sulla competenza prima di provvedere sulla domanda
cautelare e, se non riconosce la propria competenza, non
deve nemmeno pronunciarsi sulla sospensiva. La domanda
cautelare può, peraltro, essere riproposta al giudice
dichiarato competente. Le parti hanno comunque la
possibilità di eccepire il difetto di competenza con una
richiesta espressa rivolta al giudice entro un tempo
determinato. In mancanza di domanda cautelare, infatti, il
difetto di competenza, può essere eccepito entro il termine
previsto per la costituzione in giudizio; a quel punto il
presidente fissa la camera di consiglio per la pronuncia
immediata sulla questione di competenza.
Atti difensivi sintetici e chiari.
Il codice del processo
amministrativo detta una disposizione rigorosa quanto a
rispetto del principio di sinteticità degli atti.
Richiamando il codice di procedura civile, l'articolo 26 del
codice del processo amministrativo dispone che il giudice
deve provvedere alla condanna alle spese del giudizio. La
regola è che chi perde paga e le spese, anche per i giudici
amministrativi, sono liquidati in base ai parametri del
decreto del ministero della giustizia n. 140/2012. Il
secondo correttivo prevede che la decisione sulle spese deve
essere presa tenendo conto dell'obbligo che le parti hanno
di redigere atti sintetici e chiari (articolo 3, comma 2 del cpa).
Questo significa che gli atti difensivi troppo lunghi o
troppo oscuri aumentano il rischio di dovere pagare un conto
salato di spese di soccombenza. Questo parametro non è
scritto nel decreto 140/2012, ma è direttamente applicabile.
Dunque le difese troppo prolisse, con riferimento alle spese
di lite sono un azzardo.
Ricorso.
Le singoli parti del ricorso devono essere indicate
distintamente. L'atto deve essere scritto separando in
maniera netta sette parti: 1) indicazione parti; 2) oggetto
della domanda; 3) fatti di causa; 4) motivi di ricorso; 5)
mezzi di prova; 6) provvedimenti chiesti al giudice; 7)
firme. Il decreto, poi, prevede una specifica causa di
inammissibilità in caso di violazione della regola della
indicazione di motivi specifici; il giudizio si chiuderà con
una pronuncia sul rito, senza passare alla valutazione di
merito.
Condanna ad adottare un provvedimento.
Il decreto correttivo
interviene, anche, sulle azioni proponibili al giudice
amministrativo (modifiche all'articolo 34 cpa). In
particolare si specifica che l'azione di condanna al
rilascio di un provvedimento richiesto deve essere proposta
contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento
di diniego o all'azione avverso il silenzio. Quindi
nell'atto di ricorso contro l'inerzia della pubblica
amministrazione o contro un provvedimento che respinge una
istanza si deve inserire la domanda di condanna specifica
dell'amministrazione resistente.
Il secondo correttivo, sul
punto, richiama l'articolo 31 del cpa: questo significa che
il giudice potrà pronunciare sulla fondatezza della pretesa
dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività
vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori
margini di esercizio della discrezionalità e non sono
necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti
dall'amministrazione. In caso di attività discrezionale il
giudice condannerà la p.a. a emanare un provvedimento.
Processo amministrativo telematico.
Tutti gli atti e i
provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale
degli uffici giudiziari e delle parti potranno essere
sottoscritti con firma digitale. Fa un passo avanti, quindi,
il processo amministrativo telematico.
Processo elettorale.
In materia elettorale (articolo 129 cpa)
il correttivo precisa che i provvedimenti immediatamente
lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al
procedimento elettorale preparatorio per le elezioni sono
impugnabili innanzi al tribunale amministrativo regionale
competente nel termine di tre giorni; mentre gli altri atti
sono impugnati alla conclusione del procedimento unitamente
all'atto di proclamazione degli eletti
(articolo ItaliaOggi del 15.09.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Ambiente,
un'autorizzazione al posto di sette.
Al posto di sette diverse autorizzazioni ambientali le Pmi
dovranno presentarne una sola. Utilizzando tutte lo stesso
interlocutore: lo sportello unico per le attività produttive
(il cosiddetto Suap).
A prevederlo è il
regolamento di
attuazione dell'articolo 23 del decreto «Semplifica Italia»,
che il Governo ha approvato ieri in via preliminare e che
comincerà ora la trafila di rito (Conferenza unificata,
Consiglio di Stato, commissioni parlamentari), prima di
tornare a Palazzo Chigi per l'ok definitivo.
Per la
soddisfazione del premier Mario Monti: questa misura, ha
detto, «renderà più semplice la vita delle imprese,
particolarmente per quelle piccole e medie» e «sarà di
grande aiuto per la crescita». Mentre il ministro della
Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, ha
insistito sugli 1,3 miliardi di risparmi che il
provvedimento consentirà al nostro sistema produttivo.
Che l'argomento gli stesse a cuore il presidente del
Consiglio lo aveva già dimostrato nell'intervista in
esclusiva al Sole 24 Ore del 29 agosto scorso quando aveva
indicato nella «certificazione unica ambientale» il primo
tassello attuativo da emanare dopo la pausa estiva. E così è
stato. Ma l'attuazione delle norme varate sin qui sta a
cuore anche a questo giornale che, con l'iniziativa «rating
24», ha deciso di monitorare passo passo il follow up delle
singole riforme.
Una circostanza a cui sembra essersi
riferito lo stesso Monti nella conferenza stampa post Cdm di
ieri quando ha dichiarato che «in quest'ultimo periodo si è
molto discusso della necessità di attuare fino in fondo
nella concretezza i provvedimenti di riforma che questo
Governo ha assunto». Nel ricordare che il visto unico
ambientale è stato introdotto dal «Semplifica-Italia», il
premier ha poi assicurato: «Sono passati tre o quattro mesi,
cerchiamo di abbreviare il tempo tra il varo delle riforme e
il loro impianto nel terreno».
Il Dpr messo a punto dall'Unità per la Semplificazione
amministrativa di Palazzo Vidoni, in coordinamento con
l'Ambiente e lo Sviluppo, ricalca quello anticipato sul Sole
24 ore di mercoledì. I 12 articoli che lo compongono
consentono alle Pmi di richiedere al Suap –al posto dei
sette «titoli abilitativi» attualmente rilasciati da Pa
diverse– la nuova autorizzazione unica ambientale (Aua).
Che affiancherà l'Aia per le grandi imprese e la Via.
Salvo
modifiche dell'ultim'ora, i sette documenti dovrebbero
riguardare gli scarichi, l'utilizzo di acque reflue, le
emissioni in atmosfera (anche di ...
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Diagnosi energetica
sugli immobili.
Nelle compravendite qualità testata da tecnici. Stop al
fai-da-te. In arrivo un decreto
interministeriale sulle autodichiarazioni e un sistema
omogeneo di certificazione.
Stop all'autodichiarazione dei proprietari di immobili di
cattiva qualità energetica al momento della compravendita.
Al suo posto arriverà una procedura semplificata, che
prevede una diagnosi energetica svolta da un tecnico. La
certificazione energetica sarà anche più omogenea ed estesa
a tutti gli edifici; ad eccezione di quelli per cui risulta
tecnicamente impossibile effettuarla.
Inoltre, verrà dato maggior ruolo ai tecnici di Cti, Enea e
Cnr per la qualificazione dei software commerciali volti al
calcolo della prestazione energetica.
È quanto prevede uno
schema di decreto interministeriale di modifica del dm 26.06.2009 sulle «Linee guida nazionali per la
certificazione energetica degli edifici», proposto dal
ministero dello sviluppo economico di concerto con quello
delle infrastrutture e dell'ambiente.
Composto da quattro articoli, il decreto, che non comporterà
maggiori oneri per l'erario, intende estendere in modo
omogeneo a tutti gli edifici del territorio nazionale la
certificazione energetica. Che diventa dunque obbligatoria
al momento dei trasferimenti di proprietà (non in caso di
locazione) per tutti gli immobili ad eccezione di box,
cantine, autorimesse, parcheggi multipiano, depositi,
strutture stagionali a protezione degli impianti sportivi.
Restano esclusi dall'obbligo di certificazione energetica
anche i ruderi, ma solo previa dichiarazione di tale stato
nell'atto notarile di trasferimento, e gli immobili venduti
nella stati di scheletro strutturale, privi cioè di pareti
verticali esterne, o al rustico. Vengono poi definite
specifiche indicazioni per il calcolo della prestazione
energetica di edifici sprovvisti di impianto di
climatizzazione invernale e di produzione di acqua calda.
La
possibilità per il proprietario di utilizzare, al momento
del trasferimento immobiliare, un'autodichiarazione in caso
di immobili di cattiva qualità energetica verrà sostituita
da una diagnosi energetica svolta da un tecnico. Inoltre, lo
schema di decreto specifica meglio i ruoli degli enti
tecnici Cti, Enea e Cnr per la qualificazione dei software
commerciali per il calcolo della prestazione energetica nel
caso utilizzino i metodi più rigorosi o quelli semplificati.
Gli strumenti di calcolo, secondo il dettato normativo,
dovranno garantire che i valori degli indici di prestazione
energetica abbiano uno scostamento massimo di più o meno il
5% rispetto ai corrispondenti parametri determinati con
l'applicazione dei sistemi di riferimento nazionali. Va
detto che il decreto risponde alla necessità di ovviare alla
procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea nei
confronti dell'Italia per incompleta e non conforme
attuazione della direttiva 2002/91/Ce sul rendimento
energetico in edilizia.
Tre gli obblighi disattesi secondo il parere motivato del
29.09.2011 della Commissione europea: la deroga concessa
nella legislazione nazionale all'obbligo di rendere
disponibile l'attestato di certificazione energetica al
momento della stipula del contratto nel caso di edifici non
ancora in possesso del certificato; la possibilità, inserita
nel dm 26.06.2009, dei proprietari di determinati immobili
di emettere un'autodichiarazione sulla classe energetica più
bassa; la mancata notifica alla Commissione delle misure
attuative riguardanti le ispezioni sugli impianti di
climatizzazione estiva
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2012). |
ENTI LOCALI: Piccoli
enti e servizi. La gestione associata non è una panacea per
i comuni. Vanno raggiunti elevati livelli di efficienza,
efficacia ed economicità. Sennò si passa all'unione.
I piccoli comuni possono utilizzare le convenzioni per la
gestione associata, uno strumento che offre occasioni di
flessibilità molto più ampi delle unioni, ma devono
preoccuparsi che esse raggiungano elevati livelli di
efficienza, efficacia ed economicità della gestione dei
servizi. Il mancato raggiungimento di tali risultati viene
sanzionato con il superamento della convenzione in favore
della unione.
In altri termini, il legislatore è preoccupato
di impedire che i comuni utilizzino questo strumento per
aggirare i vincoli stringenti dettati dalla normativa alla
attivazione delle gestioni associate, ma devono operare una
scelta consapevole che assuma comunque come proprio elemento
caratterizzante il raggiungimento di risultati di
miglioramento della qualità dei servizi e/o di riduzione dei
costi.
Occorre sottolineare che questo rischio, alla luce
delle disposizioni dettate dal dl n. 95/2012, è ancora
maggiore poiché i vincoli alla stipula di convenzioni sono
molto minori rispetto a quelli dettati per le unioni, per
cui i comuni sono più «stimolati» a preferire le
convenzioni. A favore del ricorso alle convenzioni si deve
ricordare che i municipi con popolazione inferiore a 5.000
abitanti, soglia che scende a 3.000 nei territori delle
comunità montane, devono raggiungere la cifra minima di
10.000 abitanti per le unioni, mentre il legislatore non
pone alcuna soglia minima obbligatoria di popolazione da
raggiungere nel caso di convenzioni. Ed ancora, si deve
ricordare che nel caso del conferimento della gestione di
una funzione amministrativa alle convenzioni non vi sono
obblighi di trasferimento del personale, mentre nel caso in
cui il destinatario sia una unione, diventa obbligatorio il
trasferimento del personale.
Il che costituisce un forte
incentivo a dare corso alle convenzioni, visto che il
personale dipendente ha una forte ostilità al trasferimento
alle dipendenze di altri soggetti, sia per il variare delle
condizioni di lavoro sia per la condizione di aumento della
incertezza del rapporto che si determina. E inoltre, si deve
sottolineare che i comuni mantengono una capacità di
controllo e di influenza molto maggiore verso le convenzioni
rispetto alle unioni: basta considerare che non nasce una
nuova amministrazione e che nel contenuto della intesa
devono essere necessariamente previste le forme di
coinvolgimento dei sindaci.
Ed infine, i margini di
flessibilità nella gestione sono molto maggiori nelle
convenzioni, sia per la durata sia per la possibilità di
dare vita alla istituzione di uffici unitari o alla delega o
all'avvalimento, nonché per la possibilità di limitazione
alla individuazione del solo responsabile. Si deve inoltre
ricordare che l'esperienza degli ultimi anni ci dice che il
numero delle convenzioni è molto più elevato delle altre
forme di gestione associata, sia come valore assoluto che
come rilievo delle funzioni.
Nella scelta che i comuni andranno ad effettuare entro la
fine del 2012 per la gestione associata di almeno tre
funzioni fondamentali e, entro la fine del 2013, delle altre
sei funzioni fondamentali, occorre scegliere con oculatezza
tra le convenzioni e le unioni. Senza farsi prendere dalla
«pancia», che va nella direzione della convenzione perché
gli amministratori dei singoli comuni contano di continuare
comunque ad avere una capacità di influenza maggiore, perché
i dipendenti si sentono più tutelati in quanto il loro
datore di lavoro continua a essere il municipio e in quanto
il «campanile» si può dire soddisfatto dal permanere della
titolarità della gestione di funzioni e servizi. La
eventuale scelta della convenzione per la gestione associata
di una o più funzioni fondamentali deve essere ancorata alla
realizzazione di un preciso e cadenzato programma di
obiettivi da raggiungere.
Tale programma deve
caratterizzarsi sul terreno della qualità dei servizi nuovi,
innovativi e/o aggiuntivi che ci si propone di attivare,
indicando i tempi di attuazione e descrivendo in modo
preciso le loro caratteristiche. Ma, per molti versi
soprattutto, essa deve indicare gli obiettivi di
contenimento della spesa ovvero del numero dei dipendenti
addetti che si conta di raggiungere. E questi obiettivi
devono essere strutturati in termini operativi, cioè con la
indicazione delle modalità e la fissazione delle scadenze
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Registrazioni senza segreti.
Accesso garantito alla sbobinatura della seduta.
C'è trasparenza in consiglio comunale ai
sensi della legge 241 del 1990.
Quesito: L'ente locale è tenuto a dare positivo riscontro
alla richiesta di accesso al c.d. «sbobinamento» della
registrazione sonora di una seduta di consiglio comunale?
Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. d), della legge n.
241/1990, deve intendersi per «documento amministrativo» di
cui può essere chiesto l'accesso «ogni rappresentazione
grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di
qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni
o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da
una pubblica amministrazione e concernenti attività di
pubblico interesse, indipendentemente dalla natura
pubblicistica o privatistica della loro disciplina
sostanziale».
A tale proposito, la giurisprudenza amministrativa si è più
volte pronunciata nel senso di ritenere che semplici
appunti, come devono essere considerate le registrazioni
effettuate dal segretario comunale a proprio uso, non ancora
tradotti in atti, «_ non assurgono alla qualificazione di
documento amministrativo». (Tar Veneto n. 60 del 2002, Tar
Lombardia, Milano, n. 1914 del 2009).
In senso contrario si è espresso recentemente il Tar
Piemonte ritenendo che «_ la registrazione sonora delle
sedute consiliari è suscettibile di essere inclusa nella
nozione di «documento amministrativo» rilevante, ai sensi
dell'art. 22, comma 1, lettera d), della legge n.241/90, ai
fini dell'esercizio del diritto di accesso_». (Tar Piemonte
sentenza 27/05/2011, n. 563).
Con parere reso in data 22 ottobre 2002 in riferimento alla
medesima problematica, la Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi, istituita nell'ambito della
presidenza del Consiglio dei ministri, ha precisato che
occorre «_ distinguere il caso in cui il segretario comunale
raccolga per proprio uso personale dei meri appunti
informali dell'adunanza consiliare, anche eventualmente su
supporto magnetico per la redazione del successivo verbale,
dall'ipotesi in cui la registrazione dello svolgimento della
seduta consiliare costituisca adempimento di una mansione
d'ufficio.
Nel primo caso, gli appunti raccolti dal segretario sono da
considerarsi alla stregua di una bozza strettamente
personale, che potendo essere liberamente modificata non ha
alcun carattere di documento amministrativo. Nel secondo
caso, invece, la registrazione non è modificabile, ed il
segretario o il personale espressamente incaricato di essa
rispondono della sua genuinità; sicché la registrazione,
dovendosi ritenere fedele riproduzione del dibattito
consiliare, costituisce documento amministrativo, come tale
accessibile da parte degli interessati.»
Nel parere del 25.11.2008, la medesima Commissione ha
ritenuto ostensibile la registrazione della seduta di un
consiglio comunale confermandone la natura di «documento
amministrativo» al quale è garantito il diritto di accesso
degli interessati, «_ senza che sia necessario fare richiamo
alla normativa di speciale favore prevista per i consiglieri
comunali».
Pertanto, nel caso in cui il comune si avvalga, in via
istituzionale, di un apposito servizio di trascrizione da
nastro di interventi delle sedute consiliari, sussistono i
presupposti oggettivi circa la natura di «documento
amministrativo» delle registrazioni in discorso, richiesti
dall'art. 22, comma 1, lett. d) della legge n. 241/1990 ai
fini dell'esercizio del diritto di accesso.
Per quanto concerne il requisito soggettivo previsto dalla
normativa in commento, si rammenta che ai sensi dell'art.
22, comma 1, lett. b), della legge n. 241/1990 si definiscono
«interessati» tutti i soggetti privati, compresi quelli
portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un
interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso.
Tale nozione è stata interpretata in giurisprudenza in senso
più ampio rispetto all'interesse all'impugnativa
qualificabile in termini di diritto soggettivo o di
interesse legittimo. «La legittimazione all'accesso,
conseguentemente, viene riconosciuta a chiunque possa
dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso
abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla
lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del
diritto d'accesso, inteso come interesse ad un bene della
vita distinto rispetto alla situazione legittimante alla
impugnativa dell'atto» (Cds, sez. VI, sent. n. 6440 del
27/10/2006, Tar Lazio, n. 3115 del 2008).
La sussistenza dell'interesse, quale requisito soggettivo ex
art. 22, comma 1, lett. b), citato, del soggetto richiedente
l'accesso dovrà essere valutata alla luce dei principi
giurisprudenziali sopra evidenziati ed in base alle
disposizioni regolamentari recanti la disciplina del diritto
di accesso adottate dall'ente locale
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Gli
impianti installati sugli edifici p.a. accedono agli
incentivi. Fotovoltaico, tariffe facili sui tetti dei pubblici
uffici.
Accesso diretto alle tariffe incentivanti del Quinto Conto
energia senza obbligo di iscrizione al Registro per gli
impianti fotovoltaici realizzati sugli edifici e sulle aree
della pubblica amministrazione (art. 1, 2 comma, dlgs
165/01). Non sono soggetti all'obbligo di iscrizione al
Registro e accedono direttamente alle tariffe incentivanti
(dm 05.05.2011) gli impianti realizzati sugli edifici
pubblici e sulle aree delle amministrazioni pubbliche, a
condizione che: l'edificio o l'area ove sono ubicati gli
impianti siano di proprietà delle p.a. già alla data di
entrata in esercizio dell'impianto e per tutta la durata del
periodo di incentivazione; gli impianti entrino in esercizio
entro il 31.12.2012.
Questa è una delle risposte fornite dal Gestore dei Servizi
energetici (Gse), in merito ai quesiti ricevuti per le
modalità procedurali da seguire per l'iscrizione al
Registro. Il Gse fornisce inoltre un secondo chiarimento
sulle cause di esclusione della graduatoria. La graduatoria
degli impianti rientranti nel limite di costo è formata
applicando i criteri di priorità previsti dal dm 05.07.2012, utilizzando i dati e le informazioni di cui alle
dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà (dpr
445/2000), della cui correttezza e veridicità il dichiarante
si assume piena ed esclusiva responsabilità.
Come previsto
dal dm 05.07.2012, il mancato inserimento dei documenti
previsti ai fini dell'iscrizione comporta l'esclusione dalla
graduatoria. Il Gse, al fine di sensibilizzare gli operatori
al caricamento corretto dei dati e dei documenti necessari,
ritiene utile segnalare di seguito le cause più frequenti di
possibile esclusione dalla graduatoria riscontrate nei
precedenti registri:
-
mancata allegazione del documento di identità del
sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà, in corso di validità;
-
assenza della dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà;
-
mancata sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva di
atto di notorietà;
-
presenza di modifiche, integrazioni e/o alterazioni
apportate manualmente alla dichiarazione sostitutiva di atto
di notorietà;
-
incertezza sul contenuto o sulla provenienza della
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà o del
documento di identità del sottoscrittore della
dichiarazione, per difetto di elementi essenziali o per
presenza di parti non leggibili.
Il Gse ricorda che l'applicazione informatica consente di
verificare i documenti inseriti e, se necessario, di
annullare la richiesta di iscrizione al Registro già inviata
e di ripresentarne una nuova purché tali operazioni
avvengano durante il periodo di apertura del Registro. Il
Gse ha inoltre redatto un documento nel quale vengono
forniti agli operatori alcuni chiarimenti da tenere in
considerazione per l'ammissione alle tariffe incentivanti,
relativi alla definizione di edificio energeticamente
certificabile e alle certificazioni/attestazioni richieste
per i moduli e gli inverter ai sensi del quinto Conto
energia
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Trasferimenti bloccati anche
con una disabilità non grave. La
sentenza della cassazione potrebbe richiedere la revisione
del contratto sulla mobilità.
Trasferimenti bloccati per chi assiste un parente disabile
anche se la disabilità non è grave.
Una recente sentenza in
materia di assistenza ai soggetti dichiarati disabili dalle
commissioni mediche dell'Asl, pronunciata dai giudici della
sezione lavoro della Corte di cassazione e depositata in
cancelleria lo scorso 7 giugno, se dovesse essere confermata
da altre sentenze della medesima Suprema Corte, renderebbe
necessaria una importante modifica della disposizione
contenuta nell'articolo 33, comma 5, della legge quadro per
l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle
persone handicappata n. 104/1992 e successive modificazioni,
Il predetto comma 5, nella formulazione attualmente in
vigore dispone che il lavoratore che assiste un parente con
handicap in situazione di gravità (coniuge, parente o affine
entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora
i genitori o il coniuge della persona con handicap in
situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni
di età oppure siano anche essi affetti da patologie
invalidanti o siano deceduti o mancanti) ha diritto a
scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al
domicilio della persona da assistere e non può essere
trasferito senza il suo consenso in altra sede.
Ad avviso dei giudici il diritto del lavoratore a non essere
trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso
non può, invece, subire limitazioni neppure allorquando la
disabilità del familiare non si configuri come grave.
L'inamovibilità del lavoratore è giustificata dalla cura e
dall'assistenza del familiare disabile, sempre che non
risultino provate da parte del datore di lavoro –a fronte
della natura e del grado di infermità psico-fisica del
familiare– specifiche esigenze datoriali che, in
equilibrato bilanciamento tra interessi, risultino
effettive, urgenti e comunque suscettibili di essere
diversamente soddisfatte.
Sempre ad avviso dei giudici della
sezione lavoro della Suprema Corte, la limitazione contenuta
nel comma 5, producendo l'effetto di privare i disabili di
una assistenza indispensabile alla loro esistenza e
finalizzata alla tutela psico-fisica e all'integrazione
nella famiglia e nella collettività, contrasterebbe anche
con quanto dispone la Convenzione Onu del 13.12.2006
sui diritti delle persone con disabilità recepita dalla
legge 15/2009. Fin qui la tesi dei predetti giudici. Una
estensione del diritto alla inamovibilità alle condizioni e
con le finalità indicate nella sentenza appare, tuttavia,
improbabile a meno che non si definiscano preliminarmente e
con chiarezza le cause che possono determinare lo stato di
disabilità e soprattutto il tipo di assistenza di cui il
disabile avrebbe bisogno.
Una eventuale modifica legislativa del comma 5, nel senso
ipotizzato dai giudici della Corte di Cassazione,
costringerebbe l'amministrazione scolastica e, per quanto di
competenza, anche le organizzazioni sindacali del comparto
scuola, a rivedere le norme sulla mobilità e soprattutto
quelle che disciplinano la formazione delle graduatorie
d'istituto da compilare annualmente per l'individuazione del
personale eventualmente in soprannumero che dovrà essere
trasferito ad altra sede.
La modifica, in particolare, di
queste ultime norme avrebbe peraltro conseguenze devastanti
tra il personale di ruolo sia docente che Ata il cui
mantenimento della sede di titolarità verrebbe ad essere
condizionato dalla presenza in tutte le scuole di numeroso
personale, anche di prima nomina, che assiste un parente
disabile non in situazione di gravità
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2012). |
CONDOMINIO:
Fotovoltaico, il condomino è
spa.
Con impianti oltre 20 kw o vendita scatta la società di
fatto. I chiarimenti delle Entrate a
un quesito del Gse. Nessuna rilevanza fiscale agli
incentivi.
Sconta l'Iva e la ritenuta alla fonte del 4% la cessione di
energia da fotovoltaico effettuata dai condomini a favore
del Gse (Gestore dei servizi energetici). Ciò perché, ove
vengano superati i limiti di potenza previsti per
l'autoconsumo, si è in presenza di una vera e propria
società di fatto tra i soggetti (condomini) che di comune
accordo intraprendono l'attività; resta invece del tutto
esclusa qualsiasi rilevanza per il condominio, inteso come
soggetto autonomo che non può mai esercitare attività
d'impresa.
È la soluzione che l'Agenzia delle entrate ha adottato, con
risoluzione 03.08.2012 n. 84/E, in merito a un
quesito avanzato dallo stesso Gse.
Il punto di partenza, condiviso, è che le somme percepite a
titolo di tariffa incentivante in relazione all'energia
prodotta con impianti di potenza fino a 20 kw asserviti al
condomino, non assumono rilevanza fiscale, al pari di quella
percepita dalle persone fisiche e dagli enti non commerciali
che gestiscono impianti fotovoltaici della stessa potenza
per soddisfare principalmente le esigenze domestiche.
Ma cosa succede quando il condominio utilizza un impianto,
di potenza superiore a 20 kw o in relazione al quale opti
per la cessione integrale o parziale alla rete dell'energia
prodotta?
Il problema attiene all'individuazione del soggetto che, in
sostanza, esercita l'attività imprenditoriale.
Il Gse, nella propria soluzione interpretativa aveva
individuato nel condominio il soggetto cui attribuire
l'attività e i relativi obblighi tributari.
Per l'Agenzia delle entrate, però, il condominio resta
estraneo, in ogni caso, all'attività di produzione di
energia, in quanto, gli effetti economici (percezione dei
proventi) e fiscali (tassazione dei proventi) conseguenti
allo svolgimento di questa attività, si producono
direttamente sui condòmini. Il condominio, infatti,
disciplinato dagli articoli 1117 e seguenti del codice
civile, rappresenta una particolare forma di comunione che
riguarda le parti comuni dell'edificio che necessita di
essere amministrata o dall'assemblea dei condòmini, che
decide in base al principio di prevalenza della maggioranza,
nel bene degli interessi comuni, oppure, per gli edifici
condominiali con più di quattro condòmini,
dall'amministratore, avente compiti di carattere
amministrativo, esecutivo e rappresentativo che permettono
al condominio di agire in modo unitario nei rapporti con i
terzi (fornitori, utenze, amministrazione finanziaria,
eccetera). In sostanza il condominio è un ente di gestione
che opera per conto dei condòmini limitatamente
all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza
interferire nei diritti autonomi di ciascun condòmino.
Nell'ipotesi in cui negli spazi condominiali venga
realizzato un impianto fotovoltaico che configura lo
svolgimento di un'attività commerciale abituale, il
condominio non può mai configurarsi come soggetto che svolge
l'attività di produzione e vendita dell'energia.
Ebbene, secondo l'Agenzia l'accordo tra i condomini per la
realizzazione dell'impianto individua una società di fatto
tra gli stessi. Più precisamente, poiché la realizzazione
dell'impianto fotovoltaico per fini commerciali rientra tra
le «Innovazioni» che i condomini possono disporre ai sensi
dell'art. 1120 del codice civile «(_) dirette al
miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento
delle cose comuni» sono considerati soci della società di
fatto i condòmini che hanno deliberato con la maggioranza
richiesta dall'art. 1136 del codice civile, la realizzazione
dell'investimento. Restano esclusi, dalla società di fatto i
condòmini che non hanno approvato la decisione e che non
intendono trarre vantaggio dall'investimento. In questo caso
gli stessi, sulla base di quanto disposto dall'art. 1121,
primo comma, ultima parte, del codice civile «sono esonerati
da qualsiasi contributo di spesa».
Cosicché da un lato la società di fatto tra condòmini che
gestisce un impianto fotovoltaico è commerciale e deve
emettere fattura nei confronti del Gse, in relazione
all'energia che immette in rete e dall'altro il Gse che
eroga la tariffa incentivante deve operare nei confronti
della società di fatto la ritenuta del 4% di cui all'art. 28
del dpr n. 600 del 1973 sulla tariffa relativa alla parte di
energia immessa in rete (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.09.2012). |
ENTI LOCALI -
VARI:
Pass disabili, conto
alla rovescia.
Entro tre anni sostituiti contrassegni arancioni e
segnaletica. Pubblicato sulla
G.U. il decreto n. 151 del 30 luglio, che disciplina il
rilascio del permesso Ue.
Entro tre anni dovrà essere rilasciato il nuovo contrassegno
per disabili conforme al modello europeo, che consentirà la
sosta nei paesi dell'Unione europea che si sono conformati
alla raccomandazione del consiglio dell'Unione europea n.
98/376/Ce del 04.06.1998. E dovrà essere adattata la
corrispondente segnaletica verticale. Per i titolari
scatterà l'obbligo di esporre il permesso in modo visibile
nella parte anteriore del veicolo.
Lo prevede il decreto del
presidente della repubblica n. 151 del 30.07.2012
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 203 del 31.08.2012.
Il contrassegno comunitario è già stato adottato da
tempo da molti stati dell'Unione europea in adesione alla
raccomandazione n. 98/376/Ce del 04.06.1998 del
consiglio, modificata dalla raccomandazione n. 2008/205/Ce
del 03.03.2008. Sul modello di colore azzurro chiaro, con
il simbolo bianco della sedia a rotelle su fondo azzurro
scuro, saranno trascritti e apposti la data di scadenza, il
numero di serie e il nome e il timbro dell'autorità
nazionale che rilascia il contrassegno e nella parte
retrostante, non visibile, il nominativo e la fotografia del
soggetto autorizzato.
Il titolare può fruire delle
facilitazioni di sosta in tutti gli stati membri dell'unione
europea che hanno aderito alla raccomandazione, comunque con
l'obbligo di rispettare le specifiche disposizioni di ogni
singolo paese. L'Italia non aveva finora dato seguito alla
raccomandazione 98/376/Ce. Tuttavia, grazie alla riforma
stradale del 2010, si erano poste le basi per adottare il
contrassegno uniforme europeo per la sosta dei disabili.
Infatti, l'art. 58 della legge n. 120 del 29.07.2010
aveva modificato l'art. 74 del decreto legislativo n. 196
del 30.06.2003 (codice in materia di protezione dei dati
personali), sopprimendo il divieto di usare diciture o
simboli, dai quali si possa desumere la speciale natura
dell'autorizzazione per effetto della sola visione del
contrassegno.
Queste nuove disposizioni, in vigore dal 13.08.2010, avevano eliminato gli ostacoli normativi
all'adozione in Italia del contrassegno europeo per
invalidi. Restava da compiere però un ultimo passo, ovvero
l'emanazione di un decreto del presidente della repubblica,
che, modificando l'art. 381 del regolamento di esecuzione e
attuazione del codice della strada, recepisca la
raccomandazione 98/376/Ce. Ora, il decreto del presidente
della repubblica n. 151/2012, in vigore dal 15.09.2012, oltre a introdurre nell'ordinamento interno il
contrassegno invalidi comunitario, prevede altre importanti
novità per i veicoli al servizio di persone invalide,
apportando modifiche all'art. 381 del regolamento di
esecuzione e attuazione del codice della strada).
Il nuovo
«contrassegno di parcheggio per disabili» (denominazione
diversa da quella finora usata di «contrassegno invalidi»),
dovrà essere conforme al modello previsto dalla
raccomandazione del consiglio dell'Unione europea del 04.06.1998, e sarà rilasciato a chi abbia capacita di
deambulazione sensibilmente ridotta o (e questa è la novità)
impedita. La sostituzione del vecchio contrassegno con
quello nuovo dovrà avvenire entro tre anni dalla data di
entrata in vigore del regolamento. I comuni potranno però
fissare tempi inferiori. Durante il periodo transitorio di
tre anni i permessi già rilasciati resteranno validi, ma in
sede di rinnovo dovrà essere rilasciato il nuovo modello.
Nell'ambito dell'art. 381 viene inserito l'obbligo di
esporre il permesso in originale nella parte anteriore del
veicolo in modo che sia chiaramente visibile per i
controlli. L'esposizione nella parte anteriore del mezzo è
già imposta dall'art. 12 del decreto del presidente della
repubblica n. 503 del 24.07.1996; viene però specificato
che si deve esporre l'originale in modo visibile. Resta
isolato e ampiamente contraddetto il parere prot. n.
300/A42756/103/48 del 05.05.1999 con il quale il
ministero dell'interno aveva affermato che la mancata
esposizione del contrassegno per disabili, dovuta a
dimenticanza o caso fortuito, non era sanzionabile.
Con la
modifica del comma 4 dell'art. 381 viene chiarito che,
scaduto il periodo di validità del contrassegno a tempo
determinato, potrà esserne emesso uno nuovo previa ulteriore
certificazione medica rilasciata dall'ufficio medico legale
dell'azienda sanitaria locale di appartenenza con la quale
si attesti che le condizioni della persona invalida danno
diritto all'ulteriore rilascio.
Viene introdotta
un'importante condizione per l'assegnazione a titolo
gratuito di uno spazio di sosta nei casi di particolare
invalidità, nelle zone ad alta densità di traffico. Infatti,
non occorre più che il titolare del contrassegno sia
abilitato alla guida e disponga di un autoveicolo, ma è
necessario che l'interessato dimostri di non avere la
disponibilità di uno spazio di sosta privato accessibile e
fruibile. Il comune potrà prevedere la gratuità della sosta
per gli invalidi nei parcheggi a pagamento, qualora
risultino già occupati o indisponibili gli stalli a loro
riservati.
Pur essendo pregevole l'intento del legislatore,
non sarà del tutto agevole per gli organi di polizia
stradale accertare se tali posti, a una certa ora e in un
dato momento, erano occupati da altri veicoli. Il comune
potrà stabilire, anche nelle aree a pagamento gestite in
concessione, un numero di posti destinati alla sosta
gratuita degli invalidi muniti di contrassegno superiore al
limite minimo di un posto ogni cinquanta o frazione di
cinquanta posti disponibili, previsto dal decreto del
presidente della repubblica n. 503 del 24.07.1996.
L'introduzione del nuovo modello di contrassegno invalidi
sarà accompagnata dall'aggiornamento della corrispondente
segnaletica stradale.
Entro tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto
del presidente della repubblica n. 151 del 30.07.2012 la
segnaletica riguardante la mobilità delle persone disabili
dovrà essere adatta recependo la rappresentazione grafica
del nuovo contrassegno. In dettaglio, per quanto riguarda la
segnaletica orizzontale, le strisce che delimitano lo stallo
di sosta restano gialle, ma il simbolo della carrozzella
diventa blu.
Con riferimento alla segnaletica verticale vengono
modificati il cartello che individua lo stallo di sosta e i
segnali di area pedonale e di zona a traffico limitato,
nella parte relativa alle eccezioni (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.09.2012). |
INCARICHI
PROFESSIONALI/PROGETTUALI:
Mandato professionale, mai
più senza l'accordo sul compenso.
Gli effetti del regolamento del Mingiustizia. Parametri
applicati solo in caso di dissenso.
Per il professionista è ormai indispensabile che il mandato
professionale contenga anche l'accordo sul compenso.
I parametri previsti dal regolamento emanato dal ministero
della giustizia verranno applicati dal giudice solo in caso
di mancato accordo tra le parti sul compenso stesso. Qualora
il professionista sia in grado di dimostrare che tra le
parti era stato raggiunto un accordo sul compenso il giudice
non potrà che prenderne atto e liquidare il compenso sulla
base dell'accordo sottoscritto.
Nell'ambito delle regole generali dettate dal regolamento,
viene precisato come nel compenso determinato con
l'applicazione dei parametri non siano ricomprese le spese
da rimborsare, «secondo qualsiasi modalità, compresa quella
concordata in modo forfettario», né tantomeno non vi sono
ricompresi oneri e contributi dovuti a qualsiasi titolo per
lo svolgimento dell'incarico. Sono a carico del
professionista i costi per le prestazioni rese dai suoi
collaboratori.
Il compenso così liquidato comprende l'intero corrispettivo
dovuto per la prestazione resa, ivi comprese le attività
accessorie alla stessa.
In caso di incarichi collegiali il compenso, che rimane
sempre unico, può essere aumentato fino al doppio; l'unicità
del compenso nel caso di incarico conferito a una società
tra professionisti, anche se la prestazione è stata resa da
più soci.
Per gli incarichi non portati a compimento ovvero per quelli
che sono prosecuzione di incarichi precedentemente affidati
ad altri si dovrà tener conto dell'opera effettivamente
svolta.
L'assenza di prova del preventivo di massima costituisce
elemento di valutazione negativa da parte del giudice per la
liquidazione del compenso.
In nessun caso le soglie numeriche indicate, sia come minimi
che come massimi, sono elementi vincolanti per la
liquidazione stessa: cioè i parametri costituiscono un mero
riferimento per il giudice, e quindi possono essere anche
disattesi.
Secondo quanto riportato dalla relazione ministeriale,
quest'ultima disposizione, si è resa necessaria, per evitare
che i parametri assurgessero al ruolo di tariffa.
Rimangono sul punto delle perplessità, soprattutto alla luce
delle prassi che sembrano ormai prevalere da alcuni anni in
alcuni tribunali, di liquidare sempre e comunque i compensi
minimi, quando non addirittura sotto i minimi, per gli
incarichi di ausiliario del giudice (ctu) o nelle procedure
concorsuali, e ciò indipendentemente dal lavoro
effettivamente svolto e dalle singole circostanze che
possono aver interessato lo svolgimento dell'incarico
stesso.
Sarà pertanto opportuno che l'accordo sul compenso sia
trasfuso nel mandato professionale, divenuto oramai sempre
più uno strumento indispensabile per il professionista e per
l'organizzazione del proprio lavoro.
Rileggendo con attenzione il 4 comma dell'art. 9, dl 1/2012,
nella parte che riguarda il preventivo di massima, si rileva
come l'attenzione della norma sia posta alla «misura» del
compenso, e non al compenso stesso inteso quale puntuale
riferimento a un univoca misura di valore: oggetto della pattuizione tra il cliente ed il professionista è quindi la
modalità di determinazione del compenso, cioè rendere noto
al cliente come verrà determinato il compenso per la
prestazione richiesta, esplicitando tutte le voci di costo
relative alle singole prestazioni che si rendono necessarie
o, per meglio dire, che si presume si rendano necessarie per
l'adempimento dell'incarico conferito (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Lavori in edilizia
semplificati.
Prevalgono le autocertificazioni al posto dei pareri degli
enti.
Alcune delle misure contenute nel
decreto crescita. Meno adempimenti per presentare la Scia.
Ancora più semplificazione in edilizia. L'autocertificazione
la fa da padrona, diventano libere le opere interne e i
mutamenti di destinazione d'uso per gli edifici non
abitativi. Lo sportello unico deve liberare da incombenza di
presentazione di certificati e nulla osta. E la Dia somiglia
sempre di più alla Scia.
Il decreto legge 83/2012, convertito nella legge 134/2012,
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 187 dell'11.08.2012 modifica alcune norme del T.u. dell'edilizia (dpr
380/2001) relative alla disciplina dei procedimenti
amministrativi relativi alla Scia e prevede che, nei casi
ordinari, per iniziare i lavori sarà sufficiente
accompagnare i due titoli abilitativi con autocertificazioni
o certificazioni di tecnici abilitati, anziché con i pareri
tecnici e gli altri atti preliminari.
Il comma 1 dell'articolo 13 del decreto 83/2012 semplifica
ulteriormente le modalità di presentazione della Scia.
Prevalgono l'autocertificazione e le attestazioni e le
asseverazioni di tecnici: sono sostitutivi dei pareri degli
enti o organi preposti e delle verifiche previsti non solo
dalla normativa di rango legislativo, ma anche di rango
regolamentare, salve le verifiche successive degli organi o
amministrazioni competenti. A livello regionale e locale,
continuano a essere in vigore passaggi procedimentali
previsti da atti regolamentari, formalmente non intaccati
dall'articolo 19 della legge 241/1990 (dedicato alla Scia),
che, nella versione ante dl 83/2012, dichiarava la
possibilità di sostituire pareri e nulla osta previsti dalla
«legge», lasciando in piedi quelli previsti da regolamenti.
Dell'allargamento dell'autocertificazione beneficeranno non
solo i procedimenti edilizi, ma anche l'attività
imprenditoriale, commerciale e artigianale.
Per completezza va ricordato che non possono essere
sostituiti dalla Scia e, rimangono, pertanto, soggetti a
pareri e verifiche preventive tutti gli interventi che
interferiscono con vincoli ambientali, paesaggistici,
culturali, di pubblica sicurezza, difesa nazionale,
costruzioni in zone sismiche, normativa comunitaria e gli
altri elencati nel primo periodo del comma 1 dell'articolo
19 della legge 241/1990.
La Scia consente di iniziare l'attività immediatamente e
senza necessità di attendere la scadenza di alcun termine;
mentre per la Dia bisogna attendere un termine iniziale,
entro il quale l'amministrazione può bloccare l'avvio
dell'attività.
Già con circolare del 16.09.2010 il ministero per la
semplificazione normativa ha chiarito che la Scia non si
applica solo all'avvio dell'attività di impresa, ma
sostituisce anche la Dia in edilizia, eccetto la Dia
alternativa al permesso di costruire (cosiddetta superDia) e
nei casi in cui le leggi regionali abbiano previsto
l'utilizzo della Dia per ulteriori tipi di intervento
rispetto a quelle previste dal T.u. dell'edilizia. La Scia
consente di avviare i lavori il giorno stesso della sua
presentazione, mentre con la Dia occorre attendere 30
giorni.
L'articolo 5 del decreto legge n. 70/2011 ha
precisato che la Scia deve essere corredata delle
dichiarazioni, attestazioni e asseverazioni dei relativi
elaborati tecnici a cura del professionista abilitato. Per
il settore edilizio sono stati esclusi dalla Scia i casi
relativi alla normativa antisismica e quelli in cui
sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali.
L'articolo 6 del decreto legge n. 138/2011 ha previsto che
la Scia venga corredata dalle attestazioni e asseverazioni
dei tecnici abilitati non più in via generale, ma solo se
previsto dalle norme di settore.
Il decreto 83/2012 estende alla Dia le semplificazioni
procedimentali prevista per la Scia, in relazione alla
possibilità di sostituire atti o pareri di enti o organi con
autocertificazioni o certificazioni di tecnici abilitati.
Anche per la Dia, analogamente alla Scia, le
autocertificazioni, attestazioni, asseverazioni o
certificazioni di tecnici abilitati sostituiscono gli atti o
pareri di organi o enti appositi o le verifiche preventive,
salve le verifiche successive degli organi e delle
amministrazioni competenti.
Conseguentemente i pareri preliminari di stampo tecnico
saranno sostituiti da attestazioni e asseverazioni di
professionisti abilitati, andandosi ad ampliare il sistema
delle autocertificazioni sostitutive del controllo pubblico
preventivo. Il controllo preventivo rimane sempre
obbligatorio nel caso di vincoli ambientali, paesaggistici,
pubblica sicurezza e negli altri casi previsti nello stesso
comma 1-bis dell'articolo 23 del Testo unico per l'edilizia.
Le certificazioni devono essere prodotte da tecnici
abilitati e attestare la sussistenza dei requisiti previsti
dalla legge, dagli strumenti urbanistici approvati o
adottati e dai regolamenti edilizi. Esse devono essere
prodotte a corredo della documentazione richiesta nel
momento della presentazione della Dia.
Con il dl 83/2012 Dia
e Scia si somigliano sempre di più, anche per le modalità di
presentazione. Innanzi tutto è prevista l'emanazione di un
regolamento per la presentazione della Dia con strumenti
telematici. Fino all'emanazione del regolamento, la Dia,
corredata dalle dichiarazioni e asseverazioni nonché dai
relativi elaborati tecnici, può essere presentata mediante
posta raccomandata con avviso di ricevimento, a eccezione
dei procedimenti per cui è previsto l'utilizzo esclusivo
della modalità telematica e, in tal caso, essa si considera
presentata al momento della ricezione da parte
dell'amministrazione.
Altri ritocchi apportati dal dl
83/2012 riguardano il caso in cui l'immobile oggetto
dell'intervento sia sottoposto a un vincolo la cui tutela
compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione
comunale: il termine di 30 giorni per l'effettivo inizio dei
lavori decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Se
tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di
effetti. Qualora l'immobile sia, invece, sottoposto a un
vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione
comunale, se il parere favorevole del soggetto preposto alla
tutela non sia allegato alla denuncia, l'ufficio comunale
deve convocare una conferenza di servizi e il termine di 30
giorni decorre dall'esito della conferenza. Le nuove
disposizioni si applicano entro il 12.02.2013.
---------------
Imprese, la modifica interna è senza
vincoli.
L'attività edilizia conquista spazi di libertà. Il decreto
83/2012 introduce un'ulteriore tipo di interventi per i
quali non è necessario alcun titolo abilitativo: le
modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie
coperta dei fabbricati adibiti a esercizio di impresa e le
modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti a
esercizio d'impresa (nuova lettera e-bis dell'articolo 6,
comma 2, del Testo unico per l'edilizia).
Inoltre, viene
eliminato l'obbligo generalizzato di allegare alla
comunicazione di inizio dei lavori le autorizzazioni
eventualmente obbligatorie ai sensi delle normative di
settore. Viene mantenuto, per gli interventi di manutenzione
straordinaria e per la nuova categoria di interventi
introdotti con la lettera e-bis), l'obbligo di allegare alla
comunicazione di inizio dei lavori i dati identificativi
dell'impresa alla quale si intende affidare la realizzazione
dei lavori, nonché una relazione tecnica con la quale un
tecnico abilitato asseveri che i lavori sono conformi agli
strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti e che
per essi la normativa statale e regionale non prevede il
rilascio di un titolo abilitativo.
Il tecnico deve inoltre
dichiarare di non avere rapporti di dipendenza con l'impresa
né con il committente. Viene introdotta una disposizione per
i nuovi interventi di cui alla lett. e-bis) per i quali si
prevede la trasmissione delle dichiarazioni di conformità,
che attestino la sussistenza dei requisiti previsti dalla
normativa, da parte delle agenzie per le imprese.
L'articolo 6 del c.d. T.u. dell'edilizia elenca gli
interventi rientranti nell'attività edilizia libera che
include la manutenzione ordinaria, l'eliminazione di
barriere architettoniche e le opere temporanee per attività
di ricerca nel sottosuolo, interventi di manutenzione
straordinaria, opere dirette a soddisfare obiettive esigenze
contingenti e temporanee, opere di pavimentazione e di
finitura di spazi esterni, pannelli solari, fotovoltaici e
termici, aree ludiche senza fini di lucro ed elementi di
arredo delle aree pertinenziali degli edifici. Questi
interventi sono realizzabili senza alcun titolo abilitativo
anziché mediante segnalazione certificata di inizio attività
(Scia).
La norma differenzia le tipologie di intervento in due
categorie, a seconda che occorra una previa comunicazione
all'amministrazione comunale dell'inizio dei lavori, anche
per via telematica, da parte dell'interessato, insieme con
le autorizzazioni eventualmente obbligatorie ai sensi delle
normative di settore.
Esclusivamente per i lavori di manutenzione straordinaria e
per le nuove categorie di intervento introdotte dal decreto
legge 83/2012 è prevista comunicazione e allegazione
documentale.
La mancata segnalazione di inizio attività o la mancata
trasmissione della relazione tecnica comportano la sanzione
pecuniaria di 258 euro, che può essere ridotta a due terzi
se la comunicazione è effettuata spontaneamente quando
l'intervento è in corso di esecuzione. L'articolo 6 del T.u.
edilizia, infine, prevede che le regioni a statuto ordinario
possono estendere la semplificazione a interventi edilizi
ulteriori rispetto a quelli previsti, individuare ulteriori
interventi edilizi per i quali è necessario trasmettere al
comune la relazione tecnica o stabilire ulteriori contenuti
per la medesima relazione tecnica (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.09.2012). |
CORTE DEI
CONTI |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Una “notizia di danno” è valida ai fini dell’avvio delle
indagini anche se da essa non emergono con certezza i
requisiti dell’attualità e concretezza del danno.
Invero gli elementi dell'attualità e concretezza del danno si configurano
come presupposti oggettivi necessari ai fini dell'esercizio
dell'azione di responsabilità amministrativa dovendo
sussistere al momento dell'emissione dell'invito a dedurre,
ma non anche al momento dell'avvio delle indagini da parte
dell'inquirente.
In tale fase, secondo l’art. 17, comma 30,
del decreto legge n. 78 del 2009 s.m.i., è sufficiente che
sussista l'indicazione attendibile di una condotta la quale,
nella sua specifica fattualità, sia idonea a determinare un
immediato effetto dannoso il cui concreto prodursi formerà,
anch’esso, oggetto di indagine da parte dell'inquirente e
degli organi di polizia giudiziaria [fattispecie in materia
di inquadramenti e assunzioni in mancanza di requisiti
previsti dalla legge] (massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. III giur. centrale d'appello,
sentenza 03.09.2012 n. 567 - link a
www.corteconti.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
La carenza di personale interno eventualmente idoneo a
svolgere il compito affidato all’esterno deve accertato per
mezzo di una reale ricognizione.
Invero, il conferimento di incarichi all’esterno, anche attraverso un co.co.co., è consentito solo allorquando nell’ambito della
dotazione organica non sia possibile reperire personale
competente ad affrontare problematiche di particolare
complessità od urgenza.
In altri termini la facoltà di
ricorrere a collaborazioni esterne non può considerarsi una
prerogativa arbitraria di chi amministra ma va collocata
nell’ambito del contesto normativo predisposto dal
legislatore il quale la consente solo in situazioni
assolutamente residuali e per un tempo assolutamente
limitato (massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. giur. Calabria,
sentenza
20.08.2012 n. 240 -
link a www.corteconti.it). |
APPALTI:
Il danno da “perdita di chance” o “danno alla concorrenza”
sussiste ogni qualvolta non vengano osservate le regole di
evidenza pubblica.
Premesso che con l’espressione danno da “perdita di chance” o “danno alla
concorrenza” si indica il danno subito dall’Amministrazione
nel caso in cui non vengano osservate le regole di evidenza
pubblica che subordinano la stipulazione dei contratti di
acquisto dei beni o servizi al previo espletamento di una
gara, qualora sia omessa qualsiasi procedura concorsuale,
anche nella forma di semplice gara informale tra più
operatori economici, la prova dell’effettività del danno può
essere individuata nel fatto notorio che il confronto
concorrenziale delle offerte di più operatori economici
avrebbe consentito all’amministrazione aggiudicatrice di
conseguire condizioni più vantaggiose di quelle ottenute
contrattando con un’unica ditta.
Ed invero, nei casi di
omissione delle prescritte procedure concorrenziali, la
perdita delle condizioni più favorevoli non costituisce una
mera ipotesi da provare, ma rappresenta una ragionevole
probabilità (massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei conti, Sez. giur. Liguria,
sentenza
31.07.2012 n. 187 - link a
www.corteconti.it). |
APPALTI:
La “perdita di chance” suscettibile di risarcimento deve
consistere in una rilevante probabilità di conseguire il
risultato utile sperato.
Premesso che la giurisprudenza intende la perdita di chances quale perdita
di un’occasione favorevole, il danno conseguente va
configurato come danno emergente concreto, attuale,
ricollegabile alla perdita di una prospettiva favorevole,
non commisurato alla perdita del risultato, ma alla
possibilità di conseguirlo.
Tuttavia, al fine di evitare che
la consistenza della chance sia talmente aleatoria da
permettere il risarcimento di qualsiasi possibilità di
risultato (anche esigua ed irrilevante), si richiede in ogni
caso che il ristoro del danno subito venga effettuato sulla
base di un giudizio di congruità e verosimiglianza.
Decisivo
diventa, quindi, distinguere tra probabilità di riuscita
(chance risarcibile) e mera possibilità di conseguire un
risultato utile (chance irrisarcibile) attraverso un’analisi
del caso concreto che, come è stato acutamente osservato
dalla dottrina, scandagli fra il livello della certezza e
quello della mera possibilità, l’ambito della c.d.
“probabilità relativa” consistente in un rilevante grado di
possibilità
(massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei conti, Sez. giur. Liguria,
sentenza
25.07.2012 n. 178 - link a
www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: La produzione di un falso diploma di laurea per assumere un
incarico da dirigente determina un danno pari agli
emolumenti illecitamente percepiti.
Invero, la giurisprudenza della Corte dei conti è ferma nel
ritenere che l’erogazione di compensi in favore di soggetti
che abbiano svolto un’attività senza il possesso del
prescritto titolo di studio costituisce danno a carico del
bilancio dell’ente interessato, a nulla rilevando la
circostanza che gli emolumenti percepiti abbiano corrisposto
a prestazioni effettivamente svolte; in questo quadro, e
soprattutto con riferimento alle delicate funzioni
dirigenziali, il possesso dei requisiti culturali e
professionali si pone come necessaria premessa per l’utile
svolgimento della relativa attività (massima tratta da
www.respamm.it - Corte
dei Conti, Sez. giur. Lazio,
sentenza
04.07.2012 n. 671 - link a www.corteconti.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
L’incarico esterno deve
essere necessariamente determinato nel suo oggetto.
Invero, l’oggetto dell’incarico costituisce il parametro di base per
valutare sia la rispondenza dell’incarico medesimo ai fini
istituzionali dell’ente, sia la reale sussistenza della
ineludibile necessità di fare ricorso a terzi (c.d.
“indefettibilità” della consulenza), sia la “congruità” e la
“proporzionalità” del compenso e sia, infine, il corretto
espletamento dell’attività commissionata
(massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. III giurisdiz. centrale
d'appello,
sentenza
28.03.2012 n. 263
- link a
www.corteconti.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: La violazione degli ormai
noti vincoli posti dalla legge al conferimento di incarichi
esterni fonda ipso facto la colpa grave degli
amministratori.
Nella fattispecie, deve in effetti ritenersi che fosse da tempo notoria,
presso gli enti locali, l’impossibilità di avvalersi
dell’onerosa collaborazione di personale esterno per compiti
che potevano essere ugualmente svolti dalle risorse umane
interne.
E questa notorietà comporta indubbiamente la
gravità delle colpe sia degli amministratori che approvarono
la deliberazione di conferimento dell’incarico e del
dirigente che espresse parere favorevole sul provvedimento,
che del dirigente che emanò la determinazione
(massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. II giurisdiz. centrale
d'appello,
sentenza
23.03.2012 n. 174
- link a
www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Lede il
rapporto sinallagmatico tra retribuzione e prestazione
lavorativa l’esercizio non autorizzato di attività
extralavorativa durante i periodi di congedo ordinario o di
assenza per permessi di vario tipo.
Nella specie vengono meno le ragioni sottostanti alla erogazione del
trattamento retributivo da parte dell’amministrazione di
appartenenza della convenuta durante i periodi contestati
dall’attore, poiché tutte le assenze autorizzate e
retribuite dal servizio non esonerano il dipendente
dall’obbligo di fedeltà e di esclusività. Il che vale anche
nelle ipotesi in cui l’attività professionale incompatibile
sia stata prestata presso terzi durante il congedo
ordinario, ovvero in occasione della fruizione di permessi
richiesti a vario titolo, fra cui quelli ex legge 104/1992.
Invero, gli obblighi sottostanti al rapporto di lavoro
pubblico permangono anche nei casi in cui il pubblico
dipendente si trovi temporaneamente esonerato dall’obbligo
di prestare attività lavorativa per ragioni di salute, anche
perché in tali circostanze -correlativamente alla
percezione della retribuzione durante il periodo di
sospensione dell’attività lavorativa, ed in applicazione del
principio di sinallagmaticità delle prestazioni- la
controprestazione dovuta dal lavoratore assente per malattia
si converte nell’obbligo di curarsi e di non prestare altre
attività anche solo assimilabili a quelle lavorative, anche
per non aggravare la durata e l’entità della malattia
stessa, in applicazione del principio di cui all’art. 2104
cod. civ. che prescrive l’obbligo di diligenza del
prestatore di lavoro, e comunque del più generale dovere di
eseguire il contratto in buona fede imposto dall’art. 1375
cod. civ.
(massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Trento,
sentenza
23.03.2012 n. 12 - link a
www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
L’adozione di una delibera di
indebitamento comporta il dovere, da parte dei votanti, di
informarsi adeguatamente sulla natura dell'operazione, in
tutti i suoi principali aspetti.
Al riguardo, la Sezione ritiene di dover far proprie le persuasive
considerazioni svolte in giurisprudenza (Sez. Umbria, sent.
128 dell’08.05.2007) secondo cui l’indagine sullo stato
soggettivo rilevante, nella fattispecie sanzionatoria in
esame, investe il particolare profilo del diligente
adempimento del dovere –funzionale alla corretta assunzione
della delibera stessa– che gli amministratori hanno di ben
comprendere l'operazione finanziaria posta in essere; in
quest'ottica, il grado della colpa va rapportato allo sforzo
di diligenza impiegato per conoscere la natura
dell'operazione deliberata e ne segue l’andamento in termini
proporzionalmente inversi.
Quanto maggiore, cioè, è lo
sforzo di diligenza dispiegato per conoscere la natura
dell'operazione da deliberare (sotto il duplice aspetto del
reperimento delle risorse finanziarie e dell'individuazione
delle spese da sostenere), tanto minore sarà il grado della
colpa e viceversa: il livello di massima gravità è
costituito dalla mancanza di una qualsivoglia iniziativa di
approfondimento della fattispecie
(massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz.
Abruzzo,
sentenza
21.03.2012 n. 85
- link a
www.corteconti.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Le difficoltà in termini di gestione ed
organizzazione del personale del Comune non giustificano il
conferimento di un incarico professionale esterno.
L’illegittimità della delibera comunale consegue, oltre che alla
genericità dell'incarico, anche al fatto che le
problematiche afferenti al personale costituiscono un
momento indefettibile dei poteri di organizzazione e di
ordinamento delle risorse professionali e umane del Comune,
e che, inoltre, costituisce un ingiustificato pregiudizio
economico, per la notevole spesa sostenuta, l’incarico al
consulente estraneo all'Amministrazione a fronte di non
identificati contributi consulenziali e legali (in assenza,
peraltro, della individuazione di questioni concrete e
contenziosi effettivi).
A conferma di ciò giova evidenziare
che l’espletamento dell’incarico risulta confermato solo da
una scarna dichiarazione, rilasciata dal Sindaco, formulata
in modo generico e unicamente con riferimento al periodo
della consulenza, senza la possibilità di concreti e
puntuali riscontri per mancanza di atti o pareri scritti del
consulente, avendo egli intrattenuto esclusivamente rapporti
verbali diretti con gli organi elettivi, a favore dei quali
veniva espletata dichiaratamente l’attività di consulenza (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti Sez.
Giurisdizionale per il Lazio, con
sentenza 18.11.2011 n. 1619 - link a
www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
mancata raccolta differenziata dei rifiuti genera un danno
erariale all'Amministrazione nel cui interesse il servizio
doveva essere svolto.
Tale danno - addebitabile all'ente affidatario del servizio e agli
amministratori e dirigenti che hanno omesso di vigilare
sulla sua corretta esecuzione - si compone di un lucro
cessante, individuabile nei mancati profitti che
l'Amministrazione avrebbe potuto conseguire dalla vendita
dei prodotti ricavabili dai rifiuti riciclati, e di un danno
emergente, conseguente ai maggiori costi subiti
dall'Amministrazione per lo smaltimento dei rifiuti (massima
tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti,
Sez. giurisdizionale Campania,
sentenza
10.06.2011 n. 1041 - link a
www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Cagiona un danno erariale all’ente di appartenenza il
funzionario comunale che fruisce di permessi retribuiti ex lege 104/1992 senza averne diritto.
La titolarità della legittimazione alla fruizione dei permessi in esame
può essere rinvenuta soltanto in capo a quel lavoratore che
effettivamente presti il suo ausilio non in maniera
saltuaria od occasionale ma con assiduità e costanza, in
modo tale da prestare un servizio adeguato e sistematico,
ossia regolare, alla persona diversamente abile (massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 08.06.2011 n. 203 - link a
www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Anche
il poliziotto omertoso che non denuncia il collega scoperto
a commettere reati contro la p.a. è perseguibile per il
danno all’immagine cagionato alla pubblica amministrazione.
L’art. 17, comma 30-ter, decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito
nella legge 03.08.2009, n. 102, va infatti interpretato
nel senso che, per effetto di esso, la tutela del danno
all’immagine della pubblica amministrazione per fatto dei
suoi dipendenti continua a sussistere sia nel caso di danno
all’immagine derivante da reati contro la pubblica
amministrazione che nel caso di danno all’immagine derivante
da ogni altro reato
(massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza
06.06.2011 n. 202 - link a
www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
carattere anonimo di un esposto non è di per sé di ostacolo
al legittimo avvio dell’istruttoria da parte del P.M.
contabile.
Ciò premesso va poi evidenziato che l’esposto che ha originato
l’istruttoria della Procura contabile, versato al fascicolo
di causa, presenta in maniera indubbia i caratteri della
specificità e concretezza in ordine ad un’ipotesi di danno
per le finanze della Fondazione
(massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Basilicata,
sentenza
06.06.2011 n. 114 - link a
www.corteconti.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
La
palese illegittimità dell’atto di conferimento di un
incarico professionale esterno (nella specie ad un
architetto) determina l’illiceità dell’esborso con
conseguente danno erariale.
Le lacune procedurali, rilevabili per il tramite della motivazione del
provvedimento, quindi, non sono meri vizi inficianti
l’azione amministrativa con rilevanza circoscritta alla
sfera di legittimità del provvedimento, ma si riverberano
anche sugli effetti economici prodotti da questo, rendendo,
automaticamente, dannosa per l’erario la conseguente spesa
(massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Veneto,
sentenza
20.05.2011 n. 284 - link a
www.corteconti.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Illegittimo e produttivo di danno erariale
l'incarico ad un avvocato per svolgere, in via continuativa,
l'incarico di consigliere giuridico del Sindaco.
Il ricorso a consulenze esterne non può essere finalizzato a
sopperire a presunte carenze di organico e, in ogni caso,
l'incarico deve essere conferito a persona di elevata
professionalità e per lo svolgimento di compiti specifici e
determinati (massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale Calabria,
sentenza 21.04.2011 n. 282
- link a www.corteconti.it). |
APPALTI:
La condanna del Comune per responsabilità
precontrattuale va riversata sul funzionario inerte.
Risponde del danno indiretto subito dall'ente di
appartenenze il funzionario che, dopo avere autorizzato una
ditta allo svolgimento di lavori di arredo urbano, ne
dispone la sospensione e rimane inerte dinanzi alle
legittime sollecitazioni di quest'ultima (massima tratta da
www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania,
sentenza
14.04.2011 n. 673 -
link a
www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Cagiona un danno da disservizio “in senso lato”
il pubblico dipendente che esercita le proprie funzioni in
modo illecito e penalmente irrilevante.
Il “disservizio da pubbliche funzioni” prescinde da
una valutazione parametrata ai criteri dell'efficacia,
efficienza ed economicità e si risolve nel mancato
collegamento tra il potere esercitato dal pubblico
dipendente ed il fine istituzionale che l'ordinamento gli
attribuisce (massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Piemonte,
sentenza
03.03.2011 n. 52 -
link a
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
In tema di jus superveniens, la P.A. è
tenuta ad applicare le regole fissate nel bando, atteso che
questo costituisce la lex specialis della procedura ad
evidenza pubblica, che non può essere disapplicata nel corso
del procedimento, neppure nel caso in cui talune delle
regole in essa contenute risultino non più conformi allo jus
superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del potere di
autotutela. Data la funzione regolatrice della gara propria
del bando, quale lex specialis, con vincoli cogenti
innanzitutto per la stazione appaltante, dottrina e
giurisprudenza escludono che le prescrizioni del bando
possano essere disapplicate sia dall'amministrazione, sia
dal giudice amministrativo. Dalla natura provvedimentale
deriva l'ulteriore conseguenza che il bando resiste allo jus
superveniens.
La Pubblica amministrazione è, quindi, tenuta ad applicare
le regole fissate nel bando, atteso che questo costituisce
la lex specialis della gara che non può essere disapplicata
nel corso del procedimento, neppure nel caso in cui talune
delle regole in essa contenute risultino non più conformi
allo jus superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del
potere di autotutela.
Tale soluzione è giustificata, si ripete, in base al rilevo
per cui il bando è atto amministrativo a carattere
normativo, lex specialis della procedura, rispetto alla
quale l'eventuale jus superveniens di abrogazione o di
modifica di clausole non ha effetti innovatori. Da siffatto
principio generale discende, quale logico corollario, quello
della indifferenza ed insensibilità del bando, e, quindi,
delle regole della gara, alle modifiche, sopravvenute, del
regime normativo vigente, ed osservato con la lex specialis,
al momento della sua emanazione.
Ne consegue che l'Amministrazione è tenuta, nella conduzione
della procedura selettiva, ad applicare le regole contenute
nel bando, anche nel caso di sopravvenuta abrogazione o
modifica della disciplina vigente al momento della sua
adozione, e che, al contempo, le è precluso di derogare al
regolamento di gara per come cristallizzato nella lex
specialis, quand'anche fosse divenuto medio tempore difforme
dallo jus superveniens.
---------------
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha precisato in
ambito simile (pubblici concorsi) che mentre le norme
legislative o regolamentari vigenti al momento
dell’indizione della procedura devono essere applicate anche
se non espressamente richiamate nel bando, le norme
sopravvenienti per le quali non è configurabile alcun rinvio
implicito nella lex specialis, non modificano, di regola, i
concorsi già banditi “a meno che diversamente non sia
espressamente stabilito dalle norme stesse”.
E’ così affermato il principio generale della inefficacia
delle norme sopravvenute a modificare le procedure
concorsuali in svolgimento, ma è altresì prevista la
possibilità che, in via speciale e particolare, tali
modifiche possano prodursi ad effetto di normative
sopravvenute il cui oggetto specifico sia quel medesimo
concorso, quando, evidentemente, il legislatore
ragionevolmente ravvisi la necessità di un tale intervento.
Per dirimere il dubbio interpretativo è, tuttavia,
necessario chiarire che il bando per l’erogazione dei
contributi di cui è causa è stato indetto con D.D.U.O. della
Regione Lombardia n. 7840 del 16.07.2008 e che le
determinazioni comunitarie che hanno provveduto a innalzare
il minimum erogabile sono certamente successive al bando di
gara.
Sul punto, la giurisprudenza ormai consolidata, che il
Collegio condivide, ha precisato che in tema di jus
superveniens (Cons. St., Sez. IV, 18.10.2002, n. 5714;
Sez. V, 22.04.2002, n. 2197; Sez. V, 03.09.1998,
n. 591; Sez. V, 11.07.1998, n. 224), la P.A. è tenuta ad
applicare le regole fissate nel bando, atteso che questo
costituisce la lex specialis della procedura ad evidenza
pubblica, che non può essere disapplicata nel corso del
procedimento, neppure nel caso in cui talune delle regole in
essa contenute risultino non più conformi allo jus
superveniens, salvo naturalmente l'esercizio del potere di
autotutela. Data la funzione regolatrice della gara propria
del bando, quale lex specialis, con vincoli cogenti
innanzitutto per la stazione appaltante, dottrina e
giurisprudenza escludono che le prescrizioni del bando
possano essere disapplicate sia dall'amministrazione, sia
dal giudice amministrativo. Dalla natura provvedimentale
deriva l'ulteriore conseguenza che il bando resiste allo
jus
superveniens.
La Pubblica amministrazione è, quindi, tenuta
ad applicare le regole fissate nel bando, atteso che questo
costituisce la lex specialis della gara che non può essere
disapplicata nel corso del procedimento, neppure nel caso in
cui talune delle regole in essa contenute risultino non più
conformi allo jus superveniens, salvo naturalmente
l'esercizio del potere di autotutela (Sez. V, 11.07.1998, n. 224; id.,
03.09.1998, n. 591).
Tale soluzione
è giustificata, si ripete, in base al rilevo per cui il
bando è atto amministrativo a carattere normativo, lex
specialis della procedura, rispetto alla quale l'eventuale
jus superveniens di abrogazione o di modifica di clausole
non ha effetti innovatori (Cons. Giust. Amm., 03.11.1999, n. 576; Cons. St., Sez. IV, 18.10.2002, n. 5714).
Da siffatto principio generale discende, quale logico
corollario, quello della indifferenza ed insensibilità del
bando, e, quindi, delle regole della gara, alle modifiche,
sopravvenute, del regime normativo vigente, ed osservato con
la lex specialis, al momento della sua emanazione (cfr.,
ex multis, Cons. St., Sez. IV, 29.12.1998, n. 1605).
Ne
consegue che l'Amministrazione è tenuta, nella conduzione
della procedura selettiva, ad applicare le regole contenute
nel bando, anche nel caso di sopravvenuta abrogazione o
modifica della disciplina vigente al momento della sua
adozione, e che, al contempo, le è precluso di derogare al
regolamento di gara per come cristallizzato nella lex
specialis, quand'anche fosse divenuto medio tempore difforme
dallo jus superveniens (Cons. St. sez. V, 23.06.2010, n.
3964, Cons. St., Sez. V, 15.11.2001, n. 5843; Cons.
St., Sez. V, 03.10.2002, n. 5206).
-------------
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n.
9/2011) ha precisato in ambito simile (pubblici concorsi)
che mentre le norme legislative o regolamentari vigenti al
momento dell’indizione della procedura devono essere
applicate anche se non espressamente richiamate nel bando,
le norme sopravvenienti per le quali non è configurabile
alcun rinvio implicito nella lex specialis, non modificano,
di regola, i concorsi già banditi “a meno che diversamente
non sia espressamente stabilito dalle norme stesse” (Sez. IV,
24.08.2009, n. 5032; 06.07.2004 n. 5018; Sez. VI,
12.06.2008, n. 2909).
E’ così affermato il principio generale della inefficacia
delle norme sopravvenute a modificare le procedure
concorsuali in svolgimento, ma è altresì prevista la
possibilità che, in via speciale e particolare, tali
modifiche possano prodursi ad effetto di normative
sopravvenute il cui oggetto specifico sia quel medesimo
concorso, quando, evidentemente, il legislatore
ragionevolmente ravvisi la necessità di un tale intervento (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 14.09.2012 n. 2343 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Nei
pubblici concorsi, le pubblicazioni scientifiche scritte dal
candidato che le produce in collaborazione con altri
studiosi possono essere oggetto di valutazione da parte
della commissione di concorso, in quanto risultino
scindibili ed individuabili i contributi dei singoli autori
e quindi si possa enucleare l’apporto del candidato e si
possa verificare che esso sia autonomamente apprezzabile sia
nella fase dello studio e della ricerca, sia nel momento di
redazione della pubblicazione con conseguente attribuzione
di punteggio solo se possibile scindere l’apporto dei
singoli autori.
----------------
E' sufficiente, in quanto conforme alla lettera dell’art. 38
del D.P.R. n. 445 del 2000, la circostanza della presenza
nella busta di una sola copia fotostatica dell’identità del
dichiarante, anche in presenza di un pluralità di
dichiarazioni sostitutive.
Secondo la costante giurisprudenza, “nei pubblici concorsi,
le pubblicazioni scientifiche scritte dal candidato che le
produce in collaborazione con altri studiosi possono essere
oggetto di valutazione da parte della commissione di
concorso, in quanto risultino scindibili ed individuabili i
contributi dei singoli autori (Consiglio Stato, sez. V, 01.10.2001, n. 5182) e quindi si possa enucleare l’apporto
del candidato e si possa verificare che esso sia
autonomamente apprezzabile sia nella fase dello studio e
della ricerca, sia nel momento di redazione della
pubblicazione (Consiglio Stato, sez. VI, 08.04.2000, n. 2045)
con conseguente attribuzione di punteggio solo se possibile
scindere l’apporto dei singoli autori” (TAR Lombardia,
Milano, IV, 11.09.2012, n. 2290).
---------------
Con la documentazione
depositata in data 12.01.2012 da parte dell’Avvocatura
erariale è stato attestato che il ricorrente ha prodotto a
corredo delle dichiarazioni sostitutive, sia nel plico
contenente la domanda, che nel plico contenente le
pubblicazioni, la copia della carta d’identità.
Ciò rende legittima l’ammissione del ricorrente alla
procedura e validamente attestato quanto prodotto in sede di
domanda. A tal fine non assume natura invalidante la
circostanza che a fronte di tre dichiarazioni sostitutive
siano state prodotte soltanto due copie della carte
d’identità, visto che la giurisprudenza è consolidata nel
ritenere che sia sufficiente, in quanto conforme alla
lettera dell’art. 38 del D.P.R. n. 445 del 2000, la
circostanza della presenza nella busta di una sola copia
fotostatica dell’identità del dichiarante, anche in presenza
di un pluralità di dichiarazioni sostitutive (Consiglio di
Stato, VI, 22.10.2010, n. 7608)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 14.09.2012 n. 2332 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
La valutazione di
impatto ambientale (V.I.A.) non si sostanzia in una mera verifica di
natura tecnica circa la astratta compatibilità ambientale
dell’opera, ma implica una complessa e approfondita analisi
comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto
rispetto all’utilità socio–economica, tenuto conto anche
delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d.
opzione–zero.
Pur essendo pacifico che il sindacato giurisdizionale sugli
apprezzamenti tecnici dell’amministrazione possa svolgersi
attraverso la verifica diretta dell’attendibilità delle
operazioni compiute da quest’ultima, sotto il profilo della
loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento
applicativo, è necessario precisare che il controllo del
giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve
essere svolto extrinsecus, nei limiti della rilevabilità
ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto
ad accertare il ricorrere di seri indici di invalidità e non
alla sostituzione dell’amministrazione.
Secondo la più recente giurisprudenza, “la valutazione di
impatto ambientale non si sostanzia in una mera verifica di
natura tecnica circa la astratta compatibilità ambientale
dell’opera, ma implica una complessa e approfondita analisi
comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto
rispetto all’utilità socio–economica, tenuto conto anche
delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d.
opzione–zero” (Consiglio di Stato, V, 31.05.2102, n.
3254).
Inoltre è consolidato l’orientamento che, pur essendo
pacifico che il sindacato giurisdizionale sugli
apprezzamenti tecnici dell’amministrazione possa svolgersi
attraverso la verifica diretta dell’attendibilità delle
operazioni compiute da quest’ultima, sotto il profilo della
loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento
applicativo, è necessario precisare che il controllo del
giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve
essere svolto extrinsecus, nei limiti della rilevabilità
ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo
diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di
invalidità e non alla sostituzione dell’amministrazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 14.09.2012 n. 2331 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La giurisprudenza ha sottolineato la necessità,
in sede di adozione di un atto in autotutela, della
comparazione tra interesse pubblico e quello privato, nel
caso in cui l’esercizio dell’autotutela discenda da errori
di valutazione dovuti alla P.A., cosicché, anche ad accedere alla
tesi per la quale il Comune avrebbe errato, in sede di
rilascio del permesso di costruire, a non tener conto della
data di scadenza dell’autorizzazione paesaggistica,
l’annullamento in autotutela del permesso stesso avrebbe
comunque dovuto essere subordinato ad un’attenta
comparazione dell’interesse pubblico e di quello privato:
comparazione che, nel caso di specie, non risulta
adeguatamente effettuata, poiché il provvedimento gravato si
limita a dar conto delle ragioni di interesse pubblico ad
esso sottese, ma non dà alcun conto delle ragioni del
privato e, soprattutto, dell’affidamento ingenerato in
questi dal contenuto del permesso di costruire (in specie,
dalla data di inizio dei lavori ivi specificata).
Ed invero, la giurisprudenza ha sottolineato la necessità, in sede di
adozione di un atto in autotutela, della comparazione tra
interesse pubblico e quello privato, nel caso in cui
l’esercizio dell’autotutela discenda da errori di
valutazione dovuti alla P.A. (TAR Liguria, Sez. I, 02.11.2011, n. 1509), cosicché, anche ad accedere alla
tesi per la quale il Comune avrebbe errato, in sede di
rilascio del permesso di costruire, a non tener conto della
data di scadenza dell’autorizzazione paesaggistica,
l’annullamento in autotutela del permesso stesso avrebbe
comunque dovuto essere subordinato ad un’attenta
comparazione dell’interesse pubblico e di quello privato:
comparazione che, nel caso di specie, non risulta
adeguatamente effettuata, poiché il provvedimento gravato si
limita a dar conto delle ragioni di interesse pubblico ad
esso sottese, ma non dà alcun conto delle ragioni del
privato e, soprattutto, dell’affidamento ingenerato in
questi dal contenuto del permesso di costruire (in specie,
dalla data di inizio dei lavori ivi specificata)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 14.09.2012 n. 649 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Si ravvisa la lottizzazione abusiva di terreni a
scopo edificatorio laddove vengano iniziate opere che
comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei
terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici vigenti o adottati, o comunque dettate
dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta
autorizzazione. Si ravvisa, inoltre, quando tale
trasformazione sia predisposta attraverso il frazionamento e
la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che,
per le loro caratteristiche (quali la dimensione in
relazione alla natura del terreno ed alla sua destinazione
secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o
la previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad
elementi riferiti agli acquirenti), denuncino in modo non
equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
La definizione di cui all’art. 30 dpr 380/2001, in cui è
stata trasfusa senza modificazioni quella contenuta
nell’art. 18 della l. n. 47/1985, prevede, quindi, due
distinte ipotesi di lottizzazione abusiva, l’una (cd.
materiale) posta in essere attraverso l’esecuzione di
opere che determinino una trasformazione edilizia od
urbanistica del territorio, in violazione degli strumenti
urbanistici vigenti od adottati o comunque di leggi statali
o regionali, l’altra (cd. cartolare) mediante il
compimento di attività negoziale che, tramite il
frazionamento dei terreni, ne determini in maniera
inequivocabile la destinazione d’uso a scopo edificatorio.
Per quanto riguarda la lottizzazione cd. materiale,
si è precisato che questa sussiste in presenza di
qualsivoglia tipo di opere concretamente idonee a
stravolgere l’assetto del territorio preesistente, a
realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in
definitiva, a determinare sia un concreto ostacolo alla
futura attività di programmazione (che viene posta di fronte
al fatto compiuto), sia un carico urbanistico necessitante
un adeguamento degli standards; che essa non richiede la
realizzazione di vere e proprie costruzioni abusive, essendo
sufficiente la sussistenza di opere le quali, sebbene nella
fase iniziale, denotino che è stato iniziato o è in corso un
procedimento di trasformazione urbanistica ed edilizia del
terreno, in contrasto con le norme vigenti; che per
verificarne l’esistenza appare necessaria una visione
d’insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso
dell’attività edilizia realizzata, giacché potrebbero anche
ricorrere modifiche rispetto all’attività assentita idonee a
conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto
di trasformazione.
Con riguardo, invece, alla lottizzazione cd. cartolare
–comportante anch’essa la trasformazione urbanistica od
edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni
urbanistiche– si è sottolineato che essa si verifica quando
la suddetta trasformazione venga predisposta mediante il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti i quali, per le loro caratteristiche, come la
dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua
destinazione sulla base degli strumenti urbanistici, il
numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di
urbanizzazione, denuncino in modo non equivoco la
destinazione a scopo edificatorio; ne discende che
l’elemento oggettivo della fattispecie è costituito dal
frazionamento di mappali seguito necessariamente da atti di
vendita, o da atti ad essi equiparati, sicché in mancanza di
detti atti non è possibile contestare legittimamente la
lottizzazione abusiva de qua. Infatti, l’attività negoziale
è presa in considerazione dalla norma quale strumento di
perseguimento dell’intento lottizzatorio e, quindi, come
indice della sussistenza di siffatto intento, il quale deve
però trovare conferma anche in altre circostanze, che
rendano evidente la non equivocità della destinazione a
scopo edificatorio sia del frazionamento, sia della vendita.
Anche la più recente giurisprudenza ribadisce che
l’accertamento della lottizzazione cd. negoziale,
intesa quale effetto del frazionamento contrattuale di un
vasto terreno, con la creazione di lotti sufficienti per la
costruzione di un singolo edificio, richiede la sussistenza
di indici di significato inequivoco, quali le dimensioni ed
il numero dei lotti, la natura del terreno, l’eventuale
revisione di opere di urbanizzazione, la loro destinazione a
scopo edificatorio.
Relativamente all’elemento oggettivo della lottizzazione
abusiva, si è sottolineato che si tratta di un illecito non
solo di danno (rispetto alle opere già eseguite), ma anche
di pericolo (rispetto alle urbanizzazioni ancora possibili),
qualora, pur a fronte dell’avvenuta ultimazione degli
edifici, strade od altri manufatti, vi sia la possibilità
che l’urbanizzazione del comprensorio, ancora incompleta,
sia condotta a termine per stati di avanzamento successivi.
Quanto, poi, all’elemento soggettivo, la giurisprudenza più
recente, in base all’affinità tra l’acquisizione delle aree
da parte dell’autorità amministrativa ex art. 30 del d.P.R.
n. 380/2001 e la confisca urbanistica disposta dall’autorità
giudiziaria ai sensi dell’art. 44 del medesimo decreto, ha
affermato la vigenza del principio della necessità, per
l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della
proprietà del bene, le quali non si presentino come
meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di
un elemento soggettivo di natura colposa da parte del
soggetto che subisce la sanzione: ne deriva che l’acquirente
di un lotto non può considerarsi, come tale, estraneo al
reato di lottizzazione abusiva, essendo tenuto a dimostrare
di aver agito in buona fede, senza cioè rendersi conto (pur
avendo adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento
dei doveri di informazione e conoscenza) di partecipare ad
un’opera di illecita lottizzazione.
---------------
La giurisprudenza ha ritenuto idonee a comportare detta
trasformazione anche opere in fase iniziale, denotanti
l’inizio del procedimento di trasformazione e ciò, sia che
si tratti di opere di urbanizzazione, sia che si tratti
invece di opere edilizie, sempreché in grado di conferire
alla zona un’articolazione apprezzabile in termini di
trasformazione edilizia ed ai terreni l’attitudine ad
accogliere insediamenti non consentiti o programmati. Si è
già visto che la fattispecie lottizzatoria è integrata
mediante l’esecuzione di ogni tipo di opere in concreto
idonee a stravolgere l’assetto del territorio preesistente,
a realizzare un nuovo insediamento abitativo ed, in
definitiva, a determinare sia un concreto ostacolo alla
futura attività di programmazione –che viene posta di fronte
al cd. fatto compiuto–, sia un carico urbanistico,
necessitante un adeguamento degli standards.
La giurisprudenza ha interpretato il concetto di opere che
comportino una trasformazione urbanistica od edilizia
dell’area in maniera funzionale rispetto alla ratio della
norma in esame, il cui bene giuridico tutelato consiste
nella necessità di preservare la potestà programmatoria
della P.A., nonché l’effettivo controllo del territorio da
parte del Comune, quale Ente titolare della funzione di
pianificazione, al fine di garantire l’ordinata
pianificazione urbanistica, il corretto uso del territorio
ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei
correlativi standards urbanistici compatibile con la finanza
pubblica.
Va premesso che il quadro normativo di riferimento è dato dall’art. 30
del d.P.R. n. 380/2001, il quale, al comma 1, ravvisa la
lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio
laddove vengano iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o
adottati, o comunque dettate dalle leggi statali o regionali
o senza la prescritta autorizzazione. La ravvisa, inoltre,
quando tale trasformazione sia predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti che, per le loro caratteristiche (quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l’ubicazione o la previsione di opere di urbanizzazione ed
in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti), denuncino
in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
La definizione di cui all’art. 30 cit., in cui è stata
trasfusa senza modificazioni quella contenuta nell’art. 18
della l. n. 47/1985, prevede, quindi, due distinte ipotesi
di lottizzazione abusiva, l’una (cd. materiale) posta in
essere attraverso l’esecuzione di opere che determinino una
trasformazione edilizia od urbanistica del territorio, in
violazione degli strumenti urbanistici vigenti od adottati o
comunque di leggi statali o regionali, l’altra (cd.
cartolare) mediante il compimento di attività negoziale che,
tramite il frazionamento dei terreni, ne determini in
maniera inequivocabile la destinazione d’uso a scopo
edificatorio (C.d.S., Sez. IV, 03.08.2010, n. 5170).
Per quanto riguarda la lottizzazione cd. materiale, si
è precisato che questa sussiste in presenza di qualsivoglia
tipo di opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto
del territorio preesistente, a realizzare un nuovo
insediamento abitativo e, quindi, in definitiva, a
determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di
programmazione (che viene posta di fronte al fatto
compiuto), sia un carico urbanistico necessitante un
adeguamento degli standards (TAR Liguria, Sez. I, 20.01.2012, n. 161); che essa non richiede la
realizzazione di vere e proprie costruzioni abusive, essendo
sufficiente la sussistenza di opere le quali, sebbene nella
fase iniziale, denotino che è stato iniziato o è in corso un
procedimento di trasformazione urbanistica ed edilizia del
terreno, in contrasto con le norme vigenti (TAR Lazio,
Latina, Sez. I, 12.10.2011, n. 798); che per
verificarne l’esistenza appare necessaria una visione
d’insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso
dell’attività edilizia realizzata, giacché potrebbero anche
ricorrere modifiche rispetto all’attività assentita idonee a
conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto
di trasformazione (TAR Lazio, Roma, Sez. I, 09.10.2009, n. 9859).
Con riguardo, invece, alla lottizzazione cd. cartolare
–comportante anch’essa la trasformazione urbanistica od
edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni
urbanistiche– si è sottolineato che essa si verifica quando
la suddetta trasformazione venga predisposta mediante il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti i quali, per le loro caratteristiche, come la
dimensione in relazione alla natura del terreno ed alla sua
destinazione sulla base degli strumenti urbanistici, il
numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di
urbanizzazione, denuncino in modo non equivoco la
destinazione a scopo edificatorio; ne discende che
l’elemento oggettivo della fattispecie è costituito dal
frazionamento di mappali seguito necessariamente da atti di
vendita, o da atti ad essi equiparati, sicché in mancanza di
detti atti non è possibile contestare legittimamente la
lottizzazione abusiva de qua. Infatti, l’attività negoziale
è presa in considerazione dalla norma quale strumento di
perseguimento dell’intento lottizzatorio e, quindi, come
indice della sussistenza di siffatto intento, il quale deve
però trovare conferma anche in altre circostanze, che
rendano evidente la non equivocità della destinazione a
scopo edificatorio sia del frazionamento, sia della vendita
(C.d.S., Sez. IV, 20.07.2009, n. 4578). Anche la più
recente giurisprudenza (C.d.S., Sez. V, 12.03.2012, n.
1374) ribadisce che l’accertamento della lottizzazione cd.
negoziale, intesa quale effetto del frazionamento
contrattuale di un vasto terreno, con la creazione di lotti
sufficienti per la costruzione di un singolo edificio,
richiede la sussistenza di indici di significato inequivoco,
quali le dimensioni ed il numero dei lotti, la natura del
terreno, l’eventuale revisione di opere di urbanizzazione,
la loro destinazione a scopo edificatorio.
Relativamente all’elemento oggettivo della
lottizzazione abusiva, si è sottolineato che si tratta di un
illecito non solo di danno (rispetto alle opere già
eseguite), ma anche di pericolo (rispetto alle
urbanizzazioni ancora possibili), qualora, pur a fronte
dell’avvenuta ultimazione degli edifici, strade od altri
manufatti, vi sia la possibilità che l’urbanizzazione del
comprensorio, ancora incompleta, sia condotta a termine per
stati di avanzamento successivi (TAR Toscana, Sez. III,
28.02.2012, n. 392). Quanto, poi, all’elemento
soggettivo, la giurisprudenza più recente, in base
all’affinità tra l’acquisizione delle aree da parte
dell’autorità amministrativa ex art. 30 del d.P.R. n.
380/2001 e la confisca urbanistica disposta dall’autorità
giudiziaria ai sensi dell’art. 44 del medesimo decreto, ha
affermato la vigenza del principio della necessità, per
l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della
proprietà del bene, le quali non si presentino come
meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di
un elemento soggettivo di natura colposa da parte del
soggetto che subisce la sanzione: ne deriva che l’acquirente
di un lotto non può considerarsi, come tale, estraneo al
reato di lottizzazione abusiva, essendo tenuto a dimostrare
di aver agito in buona fede, senza cioè rendersi conto (pur
avendo adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento
dei doveri di informazione e conoscenza) di partecipare ad
un’opera di illecita lottizzazione (TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 04.08.2011, n. 4210).
---------------
In ordine alla pretesa
irrilevanza delle opere eseguite nell’area de qua, vista la
loro modestia, ai fini della trasformazione urbanistica ed
edilizia dell’area, è agevole replicare che la
giurisprudenza ha ritenuto idonee a comportare detta
trasformazione anche opere in fase iniziale, denotanti
l’inizio del procedimento di trasformazione e ciò, sia che
si tratti di opere di urbanizzazione, sia che si tratti
invece di opere edilizie, sempreché in grado di conferire
alla zona un’articolazione apprezzabile in termini di
trasformazione edilizia ed ai terreni l’attitudine ad
accogliere insediamenti non consentiti o programmati (TAR
Campania, Napoli, Sez. IV, 10.11.2006, n. 9458). Si è
già visto che la fattispecie lottizzatoria è integrata
mediante l’esecuzione di ogni tipo di opere in concreto
idonee a stravolgere l’assetto del territorio preesistente,
a realizzare un nuovo insediamento abitativo ed, in
definitiva, a determinare sia un concreto ostacolo alla
futura attività di programmazione –che viene posta di
fronte al cd. fatto compiuto–, sia un carico urbanistico,
necessitante un adeguamento degli standards.
La
giurisprudenza ha interpretato il concetto di opere che
comportino una trasformazione urbanistica od edilizia
dell’area in maniera funzionale rispetto alla ratio della
norma in esame, il cui bene giuridico tutelato consiste
nella necessità di preservare la potestà programmatoria
della P.A., nonché l’effettivo controllo del territorio da
parte del Comune, quale Ente titolare della funzione di
pianificazione, al fine di garantire l’ordinata
pianificazione urbanistica, il corretto uso del territorio
ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei
correlativi standards urbanistici compatibile con la finanza
pubblica (C.d.S., Sez. IV, 06.10.2003, n. 5849):
esigenze, queste, non rispettate dalla condotta serbata nel
caso di specie dal sig. Maisto, che –si ripete– non poteva,
né doveva ignorare l’assetto complessivo dell’area in cui
l’intervento da lui realizzato (a prescindere dalla sua
modestia o meno) si è andato ad inserire
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 14.09.2012 n. 647 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
La comunicazione di avvio
del procedimento di individuazione (e di repressione) della
fattispecie di lottizzazione abusiva risulta superflua ove
il contenuto dell’atto non possa essere diverso da quello in
concreto adottato e, più precisamente, laddove la
partecipazione del privato a detto procedimento sia inutile
(ed egli non possa fornire alcun apporto conoscitivo e/o
documentale rilevante), sussistendo la certezza assoluta
della finalità edificatoria della lottizzazione.
I provvedimenti in materia di sanatoria edilizia operano
nell’ambito di uno schema procedimentale che prevede
interventi, adempimenti e termini specificamente modellati
sulla fattispecie della singola costruzione sprovvista di
titolo abilitativo, la quale non può essere pedissequamente
trasposta alla diversa fattispecie delle costruzioni
eseguite in comprensori abusivamente lottizzati, trattandosi
di differenti tipologie di illecito edilizio, connotate da
un differente grado di illiceità: la lottizzazione abusiva,
infatti, incide sulla conservazione delle destinazioni
impresse dallo strumento urbanistico ad un certo
comprensorio, nonché sulla corretta urbanizzazione del
territorio, ed è suscettibile di condizionare indebitamente
le scelte pianificatorie future della P.A. e quindi appare
ledere la prerogativa comunale della programmazione
urbanistica, mentre il singolo abuso edilizio non assume una
così estesa potenzialità lesiva. In questa ottica, si è
perciò ritenuto che i manufatti abusivamente eseguiti
nell’ambito dell'attività lottizzatoria possano essere
recuperati alla legalità solo in presenza delle condizioni
che legittimano l’approvazione di un piano di lottizzazione
(artt. 29 e 35, comma 13, della l. n. 47/1985), dunque
previa adozione di una variante allo strumento urbanistico
generale.
Del pari infondato e da
respingere è, poi, il primo motivo di ricorso, mosso avverso
sia il diniego di condono edilizio, sia avverso
l’accertamento della fattispecie lottizzatoria e riguardante
la violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, in quanto,
come già osservato da questa Sezione in una fattispecie
analoga (TAR Lazio, Latina, Sez. I, ord. 21.04.2011,
n. 184), è applicabile il principio di cui all’art.
21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990, atteso il
carattere vincolato e non discrezionale dei provvedimenti
repressivi di lottizzazioni edilizie.
Ciò, in accordo,
altresì, con l’insegnamento della più recente giurisprudenza
(cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. II, 09.09.2011, n.
4363), secondo cui la comunicazione di avvio del
procedimento di individuazione (e di repressione) della
fattispecie di lottizzazione abusiva risulta superflua ove
il contenuto dell’atto non possa essere diverso da quello in
concreto adottato e, più precisamente, laddove la
partecipazione del privato a detto procedimento sia inutile
(ed egli non possa fornire alcun apporto conoscitivo e/o
documentale rilevante), sussistendo la certezza assoluta
della finalità edificatoria della lottizzazione.
...
Più in particolare, la
giurisprudenza ha sottolineato che i provvedimenti in
materia di sanatoria edilizia operano nell’ambito di uno
schema procedimentale che prevede interventi, adempimenti e
termini specificamente modellati sulla fattispecie della
singola costruzione sprovvista di titolo abilitativo, la
quale non può essere pedissequamente trasposta alla diversa
fattispecie delle costruzioni eseguite in comprensori
abusivamente lottizzati, trattandosi di differenti tipologie
di illecito edilizio, connotate da un differente grado di
illiceità: la lottizzazione abusiva, infatti, incide sulla
conservazione delle destinazioni impresse dallo strumento
urbanistico ad un certo comprensorio, nonché sulla corretta
urbanizzazione del territorio, ed è suscettibile di
condizionare indebitamente le scelte pianificatorie future
della P.A. e quindi appare ledere la prerogativa comunale
della programmazione urbanistica, mentre il singolo abuso
edilizio non assume una così estesa potenzialità lesiva. In
questa ottica, si è perciò ritenuto che i manufatti
abusivamente eseguiti nell’ambito dell'attività
lottizzatoria possano essere recuperati alla legalità solo
in presenza delle condizioni che legittimano l’approvazione
di un piano di lottizzazione (artt. 29 e 35, comma 13, della
l. n. 47/1985), dunque previa adozione di una variante allo
strumento urbanistico generale (TAR Campania, Napoli,
Sez. II, 09.09.2011, n. 4378)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 14.09.2012 n. 647 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Qualora
la partecipazione a una pubblica gara avvenga in R.T.I., i
requisiti generali di partecipazione, in quanto relativi
alla regolarità della gestione delle singole imprese sotto
gli aspetti dell’ordine pubblico e della moralità, devono
essere posseduti da tutte le imprese raggruppate, data la
preminenza dell’interesse pubblico all’affidabilità del
soggetto chiamato a eseguire l’appalto.
---------------
Per quanto riguarda invece la definitività delle suddette
pendenze tributarie e previdenziali occorre rilevare che
l’avvenuta rateizzazione o la previsione di un piano di
riordino non può attribuire alcun carattere di precarietà
alla suddetta pendenza quando gli atti di accertamento del
debito siano divenuti definitivi per mancata impugnazione
nei termini dei relativi accertamenti.
A ciò si aggiunge che la rateizzazione del debito tributario
è stata richiesta tardivamente in quanto presentata ad
ottobre 2011, mentre l’esclusione dalla gara è stata
disposta nel gennaio dello stesso anno. La stessa
giurisprudenza citata dai ricorrenti chiarisce puntualmente
che “deve escludersi la rilevanza di un eventuale
adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva,
quand’anche ricondotto retroattivamente, quanto ad
efficacia, al momento della scadenza del termine di
pagamento”.
---------------
Il mancato possesso dei requisiti di partecipazione, sia di
quelli cd. di ordine generale, previsti dall’art. 38 del
D.lgs. n. 163 del 2006, sia di quelli specifici di cui al
successivo art 48, comporta oltre alla esclusione dalla
procedura di gara anche la escussione della cauzione
provvisoria.
Infatti, la possibilità di incamerare la cauzione
provvisoria discende direttamente dall’art. 75, comma 6, del
D.lgs. n. 163/2006 e riguarda tutte le ipotesi di mancata
sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario,
costituito da qualunque ostacolo alla stipulazione a lui
riconducibile; pertanto non rilevano ai suddetti fini solo
il rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali,
ma anche la carenza di requisiti generali di cui all’art. 38
del D.lgs. n. 163.
Il primo motivo di ricorso deve essere disatteso
nella parte in cui contesta la mancanza della comunicazione
di avvio del procedimento in quanto nell’effettuare il
controllo disposto dalla stazione appaltante ai sensi
dell’art. 48 del D.Lgs. 163/2006 la stazione appaltante ha
richiesto all’interessato di comprovare i requisiti indicati
nelle dichiarazioni sostitutive con la conseguenza che
nessun altro obbligo comunicativo gravava in capo
all’amministrazione.
E’ infondato anche nella parte in cui allega che la mancanza
dei requisiti di uno dei partecipanti al R.T.I. possa
comportare l’esclusione di tutto il raggruppamento in quanto
la giurisprudenza ha chiarito che qualora la partecipazione
a una pubblica gara avvenga in R.T.I., i requisiti generali di
partecipazione, in quanto relativi alla regolarità della
gestione delle singole imprese sotto gli aspetti dell’ordine
pubblico e della moralità, devono essere posseduti da tutte
le imprese raggruppate, data la preminenza dell’interesse
pubblico all’affidabilità del soggetto chiamato a eseguire
l’appalto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.06.2012, n.
3339).
Per quanto riguarda invece la definitività delle suddette
pendenze tributarie e previdenziali occorre rilevare che
l’avvenuta rateizzazione o la previsione di un piano di
riordino non può attribuire alcun carattere di precarietà
alla suddetta pendenza quando gli atti di accertamento del
debito siano divenuti definitivi per mancata impugnazione
nei termini dei relativi accertamenti. A ciò si aggiunge che
la rateizzazione del debito tributario è stata richiesta
tardivamente in quanto presentata ad ottobre 2011, mentre
l’esclusione dalla gara è stata disposta nel gennaio dello
stesso anno. La stessa giurisprudenza citata dai ricorrenti
(Cons. Stato, VI, 06.04.2010, n. 1930) chiarisce puntualmente
che “deve escludersi la rilevanza di un eventuale
adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva,
quand’anche ricondotto retroattivamente, quanto ad
efficacia, al momento della scadenza del termine di
pagamento (Cons. Stato, sez. IV, n. 1458/2009; v. anche
Consiglio Stato, Sez. V, 26.06.2012, n. 3738)”.
Da ultimo occorre rilevare che la valutazione di gravità
dell’inadempimento effettuata dalla stazione appaltante deve
considerarsi corretta e non richiedeva specifica motivazione
in considerazione del fatto che la gravità risulta ictu
oculi: infatti le irregolarità fiscali ammontavano ad €
150.000,00 e quelle previdenziali a diverse migliaia di
euro.
Anche il secondo è infondato, in quanto il mancato
possesso dei requisiti di partecipazione, sia di quelli cd.
di ordine generale, previsti dall’art. 38 del D.lgs. n. 163
del 2006, sia di quelli specifici di cui al successivo art
48, comporta oltre alla esclusione dalla procedura di gara
anche la escussione della cauzione provvisoria. Infatti, la
possibilità di incamerare la cauzione provvisoria discende
direttamente dall’art. 75, comma 6, del D.lgs. n. 163/2006 e
riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del
contratto per fatto dell’affidatario, costituito da
qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile;
pertanto non rilevano ai suddetti fini solo il rifiuto di
stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma anche la
carenza di requisiti generali di cui all’art. 38 del D.lgs.
n. 163 (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 04.08.2009, n. 4907)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.09.2012 n. 2319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
sistema di valutazione della congruità dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, così come delineato dal
codice dei contratti pubblici, è ancorato ad una previa
individuazione di eventuale anormalità del ribasso contenuto
nell’offerta stessa.
Qualora sia ritenuto necessario verificare la congruità
dell’offerta, come nel caso di specie, la stazione
appaltante, ottenute dalle offerenti le giustificazioni
relative alle voci di prezzo che concorrono a formare
l’importo complessivo posto a base di gara, nonché le
giustificazioni relative agli altri elementi (tecnici) di
valutazione dell’offerta, all’esito del procedimento di
verifica, dichiara le eventuali esclusioni di ciascuna
offerta che, in base all’esame degli elementi forniti,
risulta, nel suo complesso, inaffidabile (artt. 87, comma 1,
e 88, comma 7, del d.lgs. n. 163/2006).
In sede di controllo giurisdizionale, il giudice
amministrativo può certamente sindacare le valutazioni
compiute dalla pubblica amministrazione sotto il profilo
della loro logicità e ragionevolezza (al fine di verificare
la presenza delle relative figure sintomatiche di eccesso di
potere), così come insegna l’indirizzo tradizionale della
giurisprudenza, ma può procedere anche alla verifica
funditus della congruità dell’istruttoria all’esito della
quale l’amministrazione ha proceduto alle proprie
valutazioni. In tali sensi e limiti, il giudice può anche
considerare i singoli elementi o voci dell’offerta, ma non
già al fine di valutarne l’eventuale anomalia, bensì solo
come elementi concreti suffraganti la verifica della
suddetta sussistenza dei profili di completezza
dell’istruttoria, nonché di ragionevolezza e logicità della
valutazione effettuata dalla pubblica amministrazione.
Peraltro, in ordine alla possibilità che il giudice
amministrativo disponga una verificazione ovvero una
consulenza tecnica d’ufficio sulle valutazioni compiute
dalla stazione appaltante in sede di riscontro di eventuali
anomalie nelle offerte presentate, deve rilevarsi che dette
valutazioni sono state considerate, secondo una risalente
corrente di pensiero, espressione di un ampio potere
tecnico–discrezionale, insindacabili in sede
giurisdizionale, salva l’ipotesi in cui esse siano
palesemente illogiche, irrazionali o fondate su
insufficiente motivazione o su errori di fatto.
L’assunto per il quale nella materia de qua il sindacato
giurisdizionale possa esplicarsi in un ambito di per sé
molto limitato, non potendo giammai giungersi alla
sostituzione della valutazione operata dall’amministrazione
con quella del giudice (pena la violazione dello stesso
fondamentale principio della separazione dei poteri), deve
ad ogni modo contemperarsi con il principio di effettività
della tutela giurisdizionale, cui si è ispirato il nuovo
codice del processo amministrativo, e spingersi fino a
verificare, nel caso di utilizzo di regole tecniche tratte
da discipline scientifiche od economiche, se le valutazioni
operate siano attendibili; il che trae meditatamente le
mosse dalla ulteriore premessa, che il Collegio ha già in
precedenza condiviso, secondo la quale le materie governate
in via esclusiva da regole diverse da quelle giuridiche non
si collocano all’interno dell’area della riserva
amministrativa.
In ogni caso, l’attendibilità dell'offerta va valutata nella
sua globalità, poiché l’art. 88, comma 7, del d.lgs. n.
163/2006 -quando statuisce che, all’esito del procedimento
di verifica dell’anomalia dell’offerta, la stazione
appaltante dichiara l'eventuale esclusione dell’offerta che
risulta, “nel suo complesso”, inaffidabile- va inteso nel
senso che la valutazione della stazione appaltante deve
appuntarsi sull’affidabilità globale dell'offerta mediante
un giudizio sintetico sulla serietà o meno dell’offerta
stessa nel suo insieme.
Al riguardo, pare opportuno rammentare che il sistema di
valutazione della congruità dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, così come delineato dal codice dei contratti
pubblici, è ancorato ad una previa individuazione di
eventuale anormalità del ribasso contenuto nell’offerta
stessa.
Qualora sia ritenuto necessario verificare la congruità
dell’offerta, come nel caso di specie, la stazione
appaltante, ottenute dalle offerenti le giustificazioni
relative alle voci di prezzo che concorrono a formare
l’importo complessivo posto a base di gara, nonché le
giustificazioni relative agli altri elementi (tecnici) di
valutazione dell’offerta, all’esito del procedimento di
verifica, dichiara le eventuali esclusioni di ciascuna
offerta che, in base all’esame degli elementi forniti,
risulta, nel suo complesso, inaffidabile (artt. 87, comma 1,
e 88, comma 7, del d.lgs. n. 163/2006).
In sede di controllo giurisdizionale, il giudice
amministrativo può certamente sindacare le valutazioni
compiute dalla pubblica amministrazione sotto il profilo
della loro logicità e ragionevolezza (al fine di verificare
la presenza delle relative figure sintomatiche di eccesso di
potere), così come insegna l’indirizzo tradizionale della
giurisprudenza, ma può procedere anche alla verifica
funditus della congruità dell’istruttoria all’esito
della quale l’amministrazione ha proceduto alle proprie
valutazioni (Cons. Stato, sez. V, 23.02.2010, n. 1040). In
tali sensi e limiti, il giudice può anche considerare i
singoli elementi o voci dell’offerta, ma non già al fine di
valutarne l’eventuale anomalia, bensì solo come elementi
concreti suffraganti la verifica della suddetta sussistenza
dei profili di completezza dell’istruttoria, nonché di
ragionevolezza e logicità della valutazione effettuata dalla
pubblica amministrazione (cfr., tra le altre, Consiglio di
Stato, Sezione V - Sentenza 23/06/2011 n. 3807).
Peraltro, in ordine alla possibilità che il giudice
amministrativo disponga una verificazione –come nel caso di
specie è avvenuto- ovvero una consulenza tecnica d’ufficio
sulle valutazioni compiute dalla stazione appaltante in sede
di riscontro di eventuali anomalie nelle offerte presentate,
deve rilevarsi che dette valutazioni sono state considerate,
secondo una risalente corrente di pensiero, espressione di
un ampio potere tecnico–discrezionale, insindacabili in sede
giurisdizionale, salva l’ipotesi in cui esse siano
palesemente illogiche, irrazionali o fondate su
insufficiente motivazione o su errori di fatto (ex multis,
C.d.S., sez. V, 23.11.2010, 22.06.2010, n. 3890, 18.03.2010,
n. 1589, 29.01.2009, 08.07.2008, n. 8 luglio 2008).
L’assunto per il quale nella materia de qua il sindacato
giurisdizionale possa esplicarsi in un ambito di per sé
molto limitato, non potendo giammai giungersi alla
sostituzione della valutazione operata dall’amministrazione
con quella del giudice (pena la violazione dello stesso
fondamentale principio della separazione dei poteri), deve
ad ogni modo contemperarsi con il principio di effettività
della tutela giurisdizionale, cui si è ispirato il nuovo
codice del processo amministrativo, e spingersi fino a
verificare, nel caso di utilizzo di regole tecniche tratte
da discipline scientifiche od economiche, se le valutazioni
operate siano attendibili (C.d.S., sez. IV, 11.04.2007, n.
1658; sez. V, 03.12.2005, n. 7059; sez. VI, 09.11.2006, n.
6607); il che trae meditatamente le mosse dalla ulteriore
premessa, che il Collegio ha già in precedenza condiviso,
secondo la quale le materie governate in via esclusiva da
regole diverse da quelle giuridiche non si collocano
all’interno dell’area della riserva amministrativa.
In ogni caso, l’attendibilità dell'offerta va valutata nella
sua globalità, poiché l’art. 88, comma 7, del d.lgs. n.
163/2006 -quando statuisce che, all’esito del procedimento
di verifica dell’anomalia dell’offerta, la stazione
appaltante dichiara l'eventuale esclusione dell’offerta che
risulta, “nel suo complesso”, inaffidabile- va inteso
nel senso che la valutazione della stazione appaltante deve
appuntarsi sull’affidabilità globale dell'offerta mediante
un giudizio sintetico sulla serietà o meno dell’offerta
stessa nel suo insieme (cfr., tra le altre, Consiglio di
Stato, Sezione V 29/03/2011 n. 1925) (TAR Lombardia-Milano,
Sez. I,
sentenza 13.09.2012 n. 2318 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sotto la vigenza dell'art. 10 della legge n.
47/1985, la sanzione della demolizione non opera nei
riguardi di un'opera edilizia eseguita senza la necessaria
autorizzazione ovvero in difformità da essa, dovendosi
applicare esclusivamente la sanzione pecuniaria prevista
dalla predetta disposizione legislativa.
Con l'unico motivo di censura, il ricorrente ha denunciato che per le
opere abusivamente realizzate (tettoia costituita da
intelaiatura metallica sormontata da onduline in plastica)
non poteva essere ingiunta la demolizione, trattandosi di
opere non soggette a concessione, bensì a mera
autorizzazione. Invero, nella medesima ordinanza impugnata,
l’amministrazione –senza fare menzione dell’esistenza di
alcun vincolo paesaggistico- riconosce che le opere sono
state realizzate “in assenza di autorizzazione edilizia”,
per cui essa si palesa affetta dal denunciato vizio di
violazione di legge.
Costituisce, infatti, indirizzo
giurisprudenziale consolidato, che -sotto la vigenza
dell'art. 10 della legge n. 47/1985- la sanzione della
demolizione non opera nei riguardi di un'opera edilizia
eseguita senza la necessaria autorizzazione ovvero in
difformità da essa, dovendosi applicare esclusivamente la
sanzione pecuniaria prevista dalla predetta disposizione
legislativa (cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.06.2003, n.
3652; TAR Campania Napoli, sez. IV, 08.11.2005, n. 18670) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 13.09.2012 n. 2158 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L'Amministrazione gode in materia urbanistica di
ampi margini di discrezionalità nel determinare l'assetto
del territorio, con la conseguenza che le scelte in concreto
operate, che possono valorizzare alcune aree mortificando le
prospettive di utilizzazione di altre, costituiscono
apprezzamenti che restano tendenzialmente soggetti a un mero
sindacato esterno per l'eventuale individuazione di errori
di fatto, contraddizioni, incoerenze o manifeste illogicità.
Le scelte dell'Amministrazione riguardo alla destinazione
dei suoli in sede di pianificazione generale del territorio,
non necessitano una particolare motivazione al di là di
quella ricavabile dai criteri e principi generali che
ispirano il P.R.G., derogandosi a tale regola solo in
presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato
del privato a una specifica destinazione del suolo.
Al riguardo, il Collegio osserva che alla stregua di una
consolidata giurisprudenza, l'Amministrazione gode in
materia urbanistica di ampi margini di discrezionalità nel
determinare l'assetto del territorio, con la conseguenza che
le scelte in concreto operate, che possono valorizzare
alcune aree mortificando le prospettive di utilizzazione di
altre, costituiscono apprezzamenti che restano
tendenzialmente soggetti a un mero sindacato esterno per
l'eventuale individuazione di errori di fatto,
contraddizioni, incoerenze o manifeste illogicità (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 09.06.2008, n. 2837).
Con riguardo alle doglianze concernenti le scelte
urbanistiche compiute con gli atti impugnati rispetto alla
destinazione delle aree di proprietà dei ricorrenti va,
inoltre, richiamato il consolidato indirizzo
giurisprudenziale in base al quale le scelte
dell'Amministrazione riguardo alla destinazione dei suoli in
sede di pianificazione generale del territorio, non
necessitano una particolare motivazione al di là di quella
ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il
P.R.G. (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.02.2011, nr.
1222 e 18.10.2010, nr. 7554), derogandosi a tale regola
solo in presenza di specifiche situazioni di affidamento
qualificato del privato a una specifica destinazione del
suolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.01.2011, nr. 352;
e, 12.01.2011, nr. 133) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 13.09.2012 n. 2152 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’art.
11 del DPR 327/2001 stabilisce che al proprietario del bene
sul quale si intende apporre il vincolo preordinato
all'esproprio, che risulti dai registri catastali, va
inviato l'avviso dell'avvio del procedimento:
a) nel caso di adozione di una variante al piano regolatore
per la realizzazione di una singola opera pubblica, almeno
venti giorni prima della delibera del Consiglio comunale;
b) nei casi di vincoli derivanti dagli atti diversi dai
piani urbanistici generali di cui all'art. 10, comma 1,
almeno venti giorni prima dell'emanazione dell'atto se ciò
risulti compatibile con le esigenze di celerità del
procedimento.
La norma costituisce una delle più importanti novità del
T.U. espropriazioni in quanto ha esteso la partecipazione al
momento della scelta dell'area da espropriare.
Prima della riforma solo una parte della giurisprudenza di
merito aveva riconosciuto la diretta applicabilità dell'art.
7 della L. 241/1990, indipendentemente dall'esistenza della
dichiarazione di pubblica utilità, in considerazione del
fatto che la variante si iscrive comunque in un procedimento
espropriativo. La norma riprende quella giurisprudenza della
Corte costituzionale che ha riconosciuto che gli atti di
imposizione di vincoli possono avere carattere non solo
urbanistico ma anche espropriativo, ogni volta che siano
sostanzialmente tali, e quindi sono soggetti al regime
costituzionale proprio degli atti espropriativi.
---------------
Mentre il piano regolatore e la variante generale trovano
sufficiente motivazione nei criteri posti a base del piano
stesso e che sono indicati nella relazione allegata ad esso,
in caso di variante limitata il Comune è obbligato ad
effettuare una ponderazione comparativa in ordine alla
destinazione di zona delle singole aree. La motivazione vale
in tal caso a mettere in evidenza le ragioni del mutamento
delle originarie valutazioni generali di piano e degli
obiettivi da perseguire, in modo che la specifica previsione
risulti coerente con le linee di sviluppo dello strumento
urbanistico.
Spesso, inoltre, quando viene inserito nel piano regolatore
un vincolo preordinato all'espropriazione che ha per oggetto
una singola opera si anticipano scelte discrezionali che
sono di regola proprie della pianificazione
particolareggiata. Poiché ciò dispensa l'Amministrazione dal
dover motivare nella fase attuativa ed in particolare nella
dichiarazione di pubblica utilità le scelte discrezionali
già effettuate, la giurisprudenza afferma che l'onere della
motivazione deve risalire al momento in cui tali scelte sono
fatte, cioè il momento della variante specifica.
La motivazione vale in tal caso a mettere in evidenza le
ragioni del mutamento delle originarie valutazioni generali
di piano e degli obiettivi da perseguire, in modo che la
specifica previsione risulti coerente con le linee di
sviluppo dello strumento urbanistico. Nel caso in cui,
invece, il privato abbia effettuato proposte alternative
l'onere di motivazione si intende assolto solo mediante una
comparazione con l'interesse del privato.
L’art. 11 del DPR 327/2001 stabilisce che al proprietario
del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato
all'esproprio, che risulti dai registri catastali, va
inviato l'avviso dell'avvio del procedimento:
a) nel caso di adozione di una variante al piano regolatore
per la realizzazione di una singola opera pubblica, almeno
venti giorni prima della delibera del Consiglio comunale;
b) nei casi di vincoli derivanti dagli atti diversi dai
piani urbanistici generali di cui all'art. 10, comma 1,
almeno venti giorni prima dell'emanazione dell'atto se ciò
risulti compatibile con le esigenze di celerità del
procedimento.
La norma costituisce una delle più importanti novità del
T.U. espropriazioni in quanto ha esteso la partecipazione al
momento della scelta dell'area da espropriare.
Prima della riforma solo una parte della giurisprudenza di
merito aveva riconosciuto la diretta applicabilità dell'art.
7 della L. 241/1990 (TAR Lazio, sez. II-bis, 08.10.2001, n.
827), indipendentemente dall'esistenza della dichiarazione
di pubblica utilità, in considerazione del fatto che la
variante si iscrive comunque in un procedimento
espropriativo. La norma riprende quella giurisprudenza della
Corte costituzionale che ha riconosciuto che gli atti di
imposizione di vincoli possono avere carattere non solo
urbanistico ma anche espropriativo, ogni volta che siano
sostanzialmente tali (Corte cost., 20.05.1999, n. 179), e
quindi sono soggetti al regime costituzionale proprio degli
atti espropriativi.
Per quanto riguarda l’ambito di applicabilità la norma
positivizza l’orientamento giurisprudenziale che riconosceva
l’applicazione delle garanzie partecipative esclusivamente
ai casi di variante limitata o ad oggetto specifico, che ha
per oggetto un'area limitata del territorio e per scopo la
realizzazione di una singola opera pubblica.
Il riconoscimento normativo delle garanzie partecipative è
la conseguenza di quell’orientamento giurisprudenziale oggi
prevalente (Cons. Stato, Ad. Plen., 21.10.1980, n. 37; Cons.
stato, sez. V, 23.05.2000, n. 2982 ) secondo il quale la
limitatezza territoriale dell'intervento urbanistico e degli
scopi perseguiti, impone l'obbligo di una motivazione
specifica; infatti la partecipazione procedimentale ha senso
solo in quanto il Comune si faccia carico delle osservazioni
dei privati mediante una congrua motivazione.
Mentre il piano regolatore e la variante generale trovano
sufficiente motivazione nei criteri posti a base del piano
stesso e che sono indicati nella relazione allegata ad esso,
in caso di variante limitata il Comune è obbligato ad
effettuare una ponderazione comparativa in ordine alla
destinazione di zona delle singole aree. La motivazione vale
in tal caso a mettere in evidenza le ragioni del mutamento
delle originarie valutazioni generali di piano e degli
obiettivi da perseguire, in modo che la specifica previsione
risulti coerente con le linee di sviluppo dello strumento
urbanistico.
Spesso, inoltre, quando viene inserito nel piano regolatore
un vincolo preordinato all'espropriazione che ha per oggetto
una singola opera si anticipano scelte discrezionali che
sono di regola proprie della pianificazione
particolareggiata. Poiché ciò dispensa l'Amministrazione dal
dover motivare nella fase attuativa ed in particolare nella
dichiarazione di pubblica utilità le scelte discrezionali
già effettuate, la giurisprudenza afferma che l'onere della
motivazione deve risalire al momento in cui tali scelte sono
fatte, cioè il momento della variante specifica (Cons.
Stato, sez. IV, 19.02.1988, n. 79).
La motivazione vale in tal caso a mettere in evidenza le
ragioni del mutamento delle originarie valutazioni generali
di piano e degli obiettivi da perseguire, in modo che la
specifica previsione risulti coerente con le linee di
sviluppo dello strumento urbanistico (TAR Lazio, sez. I,
26.11.1986, n. 2044; Cons. Stato, Ad. Plen., 21.10.1980, n.
37). Nel caso in cui, invece, il privato abbia effettuato
proposte alternative l'onere di motivazione si intende
assolto solo mediante una comparazione con l'interesse del
privato (Cons. Stato, sez. IV, 13.05.1991, n. 357; C.G.A.
Sicilia, sez. consult., 14.06.1999, n. 271) (TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 13.09.2012 n. 386 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ai fini della legittimità di un atto
amministrativo, ove questo sia sorretto da una pluralità di
motivi autonomi, è sufficiente che uno solo di essi sia
riconosciuto idoneo a sorreggere l'atto stesso.
Ne consegue che, poiché il provvedimento di diniego impugnato si
fonda su una pluralità di motivi autonomi, essendo fondate
alcune delle contestazioni sollevate dal Comune nei
confronti del progetto dei ricorrenti, il provvedimento
stesso è legittimamente supportato da tali osservazioni, in
ossequio al principio per cui ai fini della legittimità di
un atto amministrativo, ove questo sia sorretto da una
pluralità di motivi autonomi, è sufficiente che uno solo di
essi sia riconosciuto idoneo a sorreggere l'atto stesso (
cfr. ex multis TAR Sicilia Catania, Sez. IV, 25.07.2012, n. 1918; TAR Campania Napoli, sez. VII,
14.01.2011, n. 164) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 12.09.2012 n. 2144 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per regola generale, l'Amministrazione ha la più
ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute
idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e
anche nel rivedere le proprie precedenti previsioni
urbanistiche) e non deve fornire motivazione specifica delle
singole scelte urbanistiche.
La giurisprudenza è, infatti, uniforme nel ritenere che la
scelta di imprimere una particolare destinazione urbanistica
ad una zona non necessiti di particolare motivazione,
giacché le stesse trovano giustificazione nei criteri
generali d’impostazione del piano.
Le osservazioni formulate dai proprietari interessati
costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione
degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari
aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non
richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente
che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano regolatore o della
sua variante.
Tuttavia, la regola generale della non necessità di puntuale
onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche
conferite dallo strumento urbanistico subisce delle
eccezioni in alcune situazioni specifiche in cui il
principio della tutela dell'affidamento impone che lo
strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata
effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano
state operate le scelte di pianificazione: ciò si verifica
nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto
alla precedente va ad incidere su singole posizioni,
connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione
dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni
degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione, in tali
casi, ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità
di modificare la precedente destinazione urbanistica di
un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare
tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti
coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno
portato a tale nuova scelta pianificatoria. Si tratta di
tutti i casi di affidamento qualificato del privato,
riconducibili a convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, e alle aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione.
---------------
Il sovradimensionamento degli standard non necessita di
apposita, specifica motivazione ove lo scostamento dai
minimi legali risulti contenuto, mentre il notevole
superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968
deve essere congruamente motivato, con la precisazione che
la motivazione va riferita esclusivamente alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree.
Osserva il Collegio che, per regola generale, l'Amministrazione ha
la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte
ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio
territorio (e anche nel rivedere le proprie precedenti
previsioni urbanistiche) e non deve fornire motivazione
specifica delle singole scelte urbanistiche.
La giurisprudenza è, infatti, uniforme nel
ritenere che la scelta di imprimere una particolare
destinazione urbanistica ad una zona non necessiti di
particolare motivazione, giacché le stesse trovano
giustificazione nei criteri generali d’impostazione del
piano (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 07.04.2010, n.
1986; TAR Sicilia Catania, sez. I, 15.04.2010, n.
1089; Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 23.11.2010,
n. 8074).
Inoltre, sempre in tema di obbligo motivazionale, va posto
in rilievo che le osservazioni formulate dai proprietari
interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla
formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a
peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro
rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo
sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente
ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni
generali poste a base della formazione del piano regolatore
o della sua variante (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
19.03.2009, n. 1652).
Tuttavia, la regola generale della non necessità di puntuale
onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche
conferite dallo strumento urbanistico subisce delle
eccezioni in alcune situazioni specifiche in cui il
principio della tutela dell'affidamento impone che lo
strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata
effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano
state operate le scelte di pianificazione: ciò si verifica
nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto
alla precedente va ad incidere su singole posizioni,
connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione
dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni
degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione, in tali
casi, ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità
di modificare la precedente destinazione urbanistica di
un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare
tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti
coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno
portato a tale nuova scelta pianificatoria. Si tratta di
tutti i casi di affidamento qualificato del privato,
riconducibili a convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, e alle aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione.
È altresì pacifico in giurisprudenza che il
sovradimensionamento degli standard non necessiti di
apposita, specifica motivazione ove lo scostamento dai
minimi legali risulti contenuto, mentre il notevole
superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968
deve essere congruamente motivato, con la precisazione che
la motivazione va riferita esclusivamente alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 12.09.2012 n. 2142 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Se in linea generale le scelte operate
dall'Amministrazione in ordine alla destinazione delle
singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre
quella che può evincersi dai criteri generali seguiti
nell'impostazione del piano, tuttavia, la regola generale
della non necessità di puntuale onere motivazionale delle
nuove destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento
urbanistico subisce delle eccezioni in alcune situazioni
specifiche, nelle quali il principio della tutela
dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia
conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione
degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di
pianificazione.
Ciò si verifica nei casi in cui la nuova destinazione
urbanistica rispetto alla precedente va ad incidere su
singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa
sulla destinazione dell'area, che per questo si
differenziano dalle posizioni degli altri soggetti
interessati; l'Amministrazione, in tali casi, ha il dovere
di valutare con attenzione l'opportunità di modificare la
precedente destinazione urbanistica di un'area e, se ritiene
di dover diversamente disciplinare tale area e sacrificare
comunque gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare
le ragioni logiche che hanno portato a tale nuova scelta
pianificatoria.
A tale riguardo, il Collegio osserva che, se in linea generale le scelte
operate dall'Amministrazione in ordine alla destinazione
delle singole aree non necessitano di apposita motivazione,
oltre quella che può evincersi dai criteri generali seguiti
nell'impostazione del piano (Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2010, n. 1986; sez. IV, 26.04.2006, n. 2297 e 22.06.2004, n. 4466; TAR Sicilia Catania, sez. I, 15.04.2010, n. 1089), tuttavia, la regola generale della non
necessità di puntuale onere motivazionale delle nuove
destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento
urbanistico subisce delle eccezioni in alcune situazioni
specifiche, nelle quali il principio della tutela
dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia
conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione
degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di
pianificazione.
Ciò si verifica nei casi in cui la nuova
destinazione urbanistica rispetto alla precedente va ad
incidere su singole posizioni, connotate da una fondata
aspettativa sulla destinazione dell'area, che per questo si
differenziano dalle posizioni degli altri soggetti
interessati; l'Amministrazione, in tali casi, ha il dovere
di valutare con attenzione l'opportunità di modificare la
precedente destinazione urbanistica di un'area e, se ritiene
di dover diversamente disciplinare tale area e sacrificare
comunque gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare
le ragioni logiche che hanno portato a tale nuova scelta pianificatoria (Cons. Stato, sez. IV,
26.10.2007, n. 5601 e 06.10.2003, n. 5869) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 12.09.2012 n. 2141 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: AVVOCATI/
Ordinanza del Tar Lombardia-Brescia sul nuovo regolamento
sulle tariffe. Il compenso è onnicomprensivo.
Nessuna distinzione tra diritti e onorari per il difensore
La determinazione del compenso professionale dovuto ai
difensori a seguito dell'entrata in vigore del decreto del
ministero della giustizia 20 luglio 2012 n.140 è
onnicomprensiva: è venuta meno, cioè, la distinzione fra
diritti e onorari.
Questo è quanto ha chiarito il Tar Lombardia-Brescia, con l'ordinanza 10.09.2012 n. 1528 la quale fornisce
una prima linea interpretativa dei criteri per liquidare gli
onorari di giudizio previsti dal decreto del ministero della
giustizia 20.07.2012, n. 140 (in Gazzetta Ufficiale n.
195 del 22.08.2012; in vigore dal 23.08.2012)
«Regolamento recante la determinazione dei parametri per la
liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei
compensi per le professioni regolarmente vigilate dal
Ministero della giustizia, ai sensi dell'articolo 9 del
decreto legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27».
Nel caso
in esame un avvocato difensore di uno straniero, ammesso al
gratuito patrocinio, aveva presentato istanza per la
liquidazione del compenso a lui spettante davanti al giudice
amministrativo.
In merito alla domanda i giudici amministrativi lombardi
precisano, innanzitutto, che la materia è disciplinata dal
sopra citato decreto ministeriale che ai sensi dell'art. 42
è entrato in vigore dal giorno successivo alla propria
pubblicazione e deve essere applicato a tutte le
liquidazioni eseguite dopo la sua entrata in vigore.
Inoltre, con questa ordinanza, si sancisce l'applicabilità
del decreto per analogia a tutti i casi di liquidazione del
compenso di professionisti, compresa la fattispecie di
gratuito patrocinio.
In secondo luogo il Tribunale amministrativo regionale
afferma il criterio generale del compenso unico ovvero fa
venir meno la pregressa distinzione fra diritti e onorari:
mentre precedentemente il tariffario forense comprendeva
diritti (fissi) relativi all'attività meramente esecutiva e
onorari (compresi tra un minimo ed un massimo) relativi
all'attività squisitamente professionale ed intellettuale,
tale differenziazione viene sostituita da una liquidazione
onnicomprensiva.
Altro aspetto peculiare dell'interpretazione del Tar
concerne la possibilità di diminuire il compenso sotto il
minimo tariffario nei casi in cui la causa sia di minima
complessità dal momento che i criteri contenuti dal decreto
ministeriale devono essere ritenuti solamente indicativi.
Viene ad assumere così particolare rilevanza, ai fini della
liquidazione del compenso professionale in favore degli
avvocati, la difficoltà o meno delle questioni giuridiche
trattate.
E tale complessità deve essere valutata, come nel caso
oggetto dell'ordinanza, anche con riferimento all'esistenza
di un orientamento giurisprudenziale costante ed univoco.
Tale liquidazione, ai sensi dell'art. 10 del medesimo
decreto, nel caso di sentenze di rito comporta un compenso
ulteriormente ridotto del 50%
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2012). |
ESPROPRIAZIONE:
La dichiarazione di pubblica utilità priva di
termini iniziali e finali per l'avvio e compimento dei
lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla,
onde l'occupazione costituisce mero comportamento materiale
in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei
poteri della Pubblica amministrazione; di conseguenza spetta
al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda
risarcitoria proposta dal privato perché in tal caso essa è
da ritenere emessa in carenza ovvero in difetto assoluto di
attribuzione del potere stesso, che comporta nullità del
provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli
atti conseguenti della procedura ablatoria.
---------------
Prima dell’entrata in vigore del T.U. sulle espropriazioni
non esisteva alcuna norma che consentisse alla PA, in caso
di illegittimità della procedura espropriativa e di
realizzazione dell’opera pubblica, di evitare la
restituzione dell’area.
L’istituto giurisprudenziale dell’accessione avvertita,
creato dalla Cassazione per colmare tale lacuna
nell’ordinamento giuridico allora vigente, non può più
essere condiviso, per contrasto con il principio di
legalità, come ripetutamente affermato anche dalla Corte
CEDU in numerose sentenze, tra le quali la n. 36813/1597 del
2006 (Scordino c. Italia) non potendo la giurisprudenza
consentire l’acquisto della proprietà sulla base di un fatto
illecito.
In ogni caso, l’accertamento dell’irreversibile
trasformazione del suolo e della perdita del diritto di
proprietà privata in favore della PA, dovrebbe essere
riservato al Giudice e non certo alla pubblica
amministrazione, alla quale non è mai stato attribuito né
dalla legge, né tanto meno dalla giurisprudenza, tale,
inesistente, potere.
---------------
L'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa
venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al
privato il bene illegittimamente appreso. Ciò sulla base di
un superamento dell'interpretazione, prima richiamata, che
riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e
all'irreversibile trasformazione del suolo effetti
preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del
privato.
Partendo dall'esame della giurisprudenza della Corte Europea
dei diritti dell'uomo, il Consiglio di Stato ha ritenuto che
il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente
non fosse aderente alla Convenzione europea e, in
particolare, al Protocollo addizionale n. 1. La Corte aveva
ritenuto che la realizzazione dell'opera pubblica non fosse
di impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente
espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità
-occupazione acquisitiva o usurpativa- di acquisizione del
terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo
illegittimamente occupato dall'amministrazione, ottenuta la
declaratoria di illegittimità dell'occupazione e
l'annullamento dei relativi provvedimenti, può
legittimamente domandare sia il risarcimento, sia la
restituzione del fondo e la sua riduzione in pristino.
La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo
illegittimamente occupato è, dunque, in sé un mero fatto,
non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale
inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per
cui solo il formale atto di acquisizione
dell'amministrazione può essere in grado di limitare il
diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia)
della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
---------------
Nessun risarcimento è dovuto per il periodo di occupazione
legittima del suolo, in quanto, sebbene il procedimento
espropriativo non sia stato definito nel termine previsto,
la fase relativa all'occupazione risulta legittima ed
efficace sino alla scadenza del termine previsto nei singoli
decreti di occupazione; infatti l'iniziale occupazione,
qualora non siano stati annullati tutti gli atti a decorrere
dalla dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima
solo dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in
ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente
collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di
esproprio; ne consegue che per il periodo di occupazione
legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del
danno, ma l'ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro,
sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, confermata
dall'art. 53, comma 2, t.u. 08.06.2001 n. 327.
Come ritenuto da recente e condivisibile giurisprudenza, la dichiarazione
di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per
l'avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da
ritenere radicalmente nulla, onde l'occupazione costituisce
mero comportamento materiale in nessun modo ricollegabile ad
un esercizio abusivo dei poteri della Pubblica
amministrazione; di conseguenza spetta al giudice ordinario
la giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dal
privato perché in tal caso essa è da ritenere emessa in
carenza ovvero in difetto assoluto di attribuzione del
potere stesso, che comporta nullità del provvedimento
dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti
della procedura ablatoria (Consiglio di Stato sez. IV, 28.02.2012, n. 1133).
---------------
Prima dell’entrata in
vigore del T.U. sulle espropriazioni (DPR 327 del 2001, il
cui termine di entrata in vigore è stato prorogato prima al
30.06.2002, dall'art. 5, D.L. 23.11.2001, n. 411,
poi al 31.12.2002 dall'art. 5, comma 3, L. 01.08.2002, n. 166 e successivamente ulteriormente prorogato al 30.06.2003 dall'art. 3, D.L. 20.06.2002, n. 122, nel
testo modificato dalla relativa legge di conversione) non
esisteva alcuna norma che consentisse alla PA, in caso di
illegittimità della procedura espropriativa e di
realizzazione dell’opera pubblica, di evitare la
restituzione dell’area (Consiglio di Stato, Ad. Plen. N. 2
del 2005).
L’istituto giurisprudenziale dell’accessione avvertita,
creato dalla Cassazione per colmare tale lacuna
nell’ordinamento giuridico allora vigente, non può più
essere condiviso, per contrasto con il principio di
legalità, come ripetutamente affermato anche dalla Corte
CEDU in numerose sentenze, tra le quali la n. 36813/1597 del
2006 (Scordino c. Italia) non potendo la giurisprudenza
consentire l’acquisto della proprietà sulla base di un fatto
illecito.
In ogni caso, anche secondo l’orientamento giurisprudenziale
richiamato, l’accertamento dell’irreversibile trasformazione
del suolo e della perdita del diritto di proprietà privata
in favore della PA, dovrebbe essere riservato al Giudice e
non certo alla pubblica amministrazione, alla quale non è
mai stato attribuito né dalla legge, né tanto meno dalla
giurisprudenza, tale, inesistente, potere.
---------------
Deve premettersi che la
giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV,
02.09.2011, n. 4970) ha più volte chiarito che
l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa
venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al
privato il bene illegittimamente appreso. Ciò sulla base di
un superamento dell'interpretazione, prima richiamata, che
riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e
all'irreversibile trasformazione del suolo effetti
preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del
privato.
Partendo dall'esame della giurisprudenza della Corte Europea
dei diritti dell'uomo, il Consiglio di Stato ha ritenuto che
il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente
non fosse aderente alla Convenzione europea e, in
particolare, al Protocollo addizionale n. 1 (sentenza 30.05.2000, ric. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera).
Nella sentenza citata, la Corte aveva ritenuto che la
realizzazione dell'opera pubblica non fosse di impedimento
alla restituzione dell'area illegittimamente espropriata, e
ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione
acquisitiva o usurpativa- di acquisizione del terreno. Per
tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente
occupato dall'amministrazione, ottenuta la declaratoria di
illegittimità dell'occupazione e l'annullamento dei relativi
provvedimenti, può legittimamente domandare sia il
risarcimento, sia la restituzione del fondo e la sua
riduzione in pristino.
La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo
illegittimamente occupato è, dunque, in sé un mero fatto,
non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale
inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per
cui solo il formale atto di acquisizione
dell'amministrazione può essere in grado di limitare il
diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti
estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia)
della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
---------------
Nessun risarcimento,
infatti, è dovuto per il periodo di occupazione legittima
del suolo, in quanto, sebbene il procedimento espropriativo
non sia stato definito nel termine previsto, la fase
relativa all'occupazione risulta legittima ed efficace sino
alla scadenza del termine previsto nei singoli decreti di
occupazione; infatti l'iniziale occupazione, qualora non
siano stati annullati tutti gli atti a decorrere dalla
dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima solo
dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in
ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente
collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di
esproprio (TAR Catania Sicilia sez. II, 28.05.2012,
n. 1350); ne consegue che per il periodo di occupazione
legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del
danno, ma l'ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro,
sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, confermata
dall'art. 53, comma 2, t.u. 08.06.2001 n. 327 (TAR
Catanzaro , sez. II, 01.02.2012, n. 132)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 10.09.2012 n. 923 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
destinazione d’uso di un immobile non si identifica con
l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma
con la destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò
in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente rilevante è
ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale
individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa
essere influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al
contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori.
Va premesso che, secondo un costante orientamento
giurisprudenziale, la destinazione d’uso di un immobile non
si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il
soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal
titolo abilitativo (v., ex multis, Cons. Stato, Sez.
V, 09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2005 n.
85), e ciò in quanto la nozione di “uso”
urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia
strutturale dell’immobile –quale individuata nel titolo
edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da
utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti
autorizzatori e/o pianificatori (v., tra le altre, TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992 n. 219) (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 07.09.2012 n. 537 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONI:
Ai fini delle procedure espropriative,
l'Amministrazione non è tenuta ad alcuna indagine ulteriore
finalizzata ad accertare l'identità di coloro che sono
effettivamente proprietari dei terreni, ma deve limitarsi a
prendere in considerazione quanto viene indicato nei
registri catastali, senza che per ciò risulti compromessa la
legittimità della procedura.
Il principio, invero pacifico, trova oggi conferma nell'art.
3 del D.P.R. n. 327 del 2001. Il soggetto passivo della
procedura è sempre l'intestatario catastale del bene, in
quanto la necessità di provvedere celermente
all'approvazione del progetto ed all'acquisizione dell'area
mal si concilia con le indagini sulla proprietà effettiva, e
ciò tanto più vale quando si rendano necessari complessi
accertamenti sulla successione ereditaria, come nella
fattispecie.
Dispone in proposito l’art. 3, comma 2, del TU
espropriazioni, che «Tutti gli atti della procedura
espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di
esproprio, sono disposti nei confronti del soggetto che
risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che
l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia
dell'eventuale diverso proprietario effettivo…»; l’art. 25,
comma 2, dello stesso TU dispone poi che «Le azioni reali e
personali esperibili sul bene espropriando non incidono sul
procedimento espropriativo e sugli effetti del decreto di
esproprio…».
Sul punto, condivisibilmente, la giurisprudenza
amministrativa ha avuto modo di affermare che
«…L'Amministrazione non è infatti tenuta ad alcuna indagine
ulteriore finalizzata ad accertare l'identità di coloro che
sono effettivamente proprietari dei terreni, ma deve
limitarsi a prendere in considerazione quanto viene indicato
nei registri catastali, senza che per ciò risulti
compromessa la legittimità della procedura (si veda, tra
molte, Cons. Stato, sez. V, 10.07.2000, n. 3850; Id.,
sez. IV, 28.02.2002, n. 1200; Id., sez. IV, 30.11.2006, n.
7014). Il principio, invero pacifico, trova oggi conferma
nell'art. 3 del D.P.R. n. 327 del 2001. Il soggetto passivo
della procedura è sempre l'intestatario catastale del bene,
in quanto la necessità di provvedere celermente
all'approvazione del progetto ed all'acquisizione dell'area
mal si concilia con le indagini sulla proprietà effettiva, e
ciò tanto più vale quando si rendano necessari complessi
accertamenti sulla successione ereditaria, come nella
fattispecie…» (TAR Puglia–Bari, Sez. I, 05.04.2011, n.
548; sul punto, anche Cass. civ. Sez. I, 06.07.2012, n.
11407) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2099 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’informativa prefettizia antimafia “tipica”
costituisce una misura preventiva volta a colpire l’azione
della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti
contrattuali con la pubblica amministrazione, configurandosi
come tipica misura cautelare di polizia, preventiva ed
interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione
antimafia di natura giurisdizionale.
Come tale, essa, prescinde dall’accertamento di singole
responsabilità penali nei confronti di soggetti che,
nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti
con la pubblica amministrazione e si fonda sugli
accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia
valutati, per la loro rilevanza, dal prefetto
territorialmente competente.
Ai fini della sua legittima adozione, dunque, non occorre la
prova di fatti di reato, né la prova della effettiva
infiltrazione mafiosa nell’impresa né la prova del reale
condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di
associazioni o soggetti mafiosi; essendo il potere
esercitato espressione della logica di anticipazione della
soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una
tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della
criminalità organizzata, la misura interdittiva non deve
necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di
carattere definitivo e certi sulla esistenza della
contiguità dell’impresa con organizzazioni malavitose e,
quindi, nel condizionamento in atto dell’attività di
impresa.
Quanto ai parametri di legittimità del provvedimento, si
afferma, pertanto, che non occorre che sia provata
l’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, essendo,
invece, sufficiente, secondo un giudizio prognostico,
latamente discrezionale, la mera possibilità di interferenza
della criminalità organizzata, richiedendosi la concomitanza
di un quadro di oggettiva rilevanza dal quale desumere
elementi che, secondo un giudizio probabilistico, o anche
secondo comune esperienza, possano far presumere non una
attuale ingerenza delle organizzazioni mafiose negli affari,
ma una effettiva possibilità che tale ingerenza sussista o
possa sussistere. Si ritiene, invero, sufficiente il
“tentativo di infiltrazione” avente lo scopo di condizionare
le scelte dell’impresa, anche se tale scopo non si è in
concreto realizzato.
La misura interdittiva, di conseguenza, può essere
legittimamente sorretta da elementi sintomatici e indiziari
da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa
verificarsi il tentativo di ingerenza della criminalità
organizzata nella attività imprenditoriale, costituendo
presupposto sufficiente la rilevazione di elementi
indizianti idonei a configurare nell’attualità l’oggettiva e
qualificata probabilità del tentativo di infiltrazione
mafiosa per il condizionamento dell’attività di impresa pur
senza attingere il grado di prova proprio dell’accertamento
penale; non è, invero, ritenuto necessario un grado di
dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per
provare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di
tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi
su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario
e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad
eventi verificatisi a distanza di tempo.
Ferma, dunque, la sufficienza (nei sensi sopra esposti) di
meri elementi sintomatici ed indiziari a sorreggere la
legittimità della interdittiva antimafia, va rilevato che la
giurisprudenza ne ha ulteriormente precisato (e così
delimitato) l’ambito di rilevanza, dovendosi comunque
ragionevolmente contemperare la finalità di tutela
preventiva dell’istituto con esigenze di tutela del
principio di legalità, di certezza del diritto e dei valori
costituzionalmente rilevanti (libertà di iniziativa
economica privata) da esso incisi.
Si è, di conseguenza, affermato:
- che non possono ritenersi sufficienti il solo sospetto o
mere congetture prive di alcun riscontro fattuale;
- che occorre, invece, l’individuazione e l’esternazione di
idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente
sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili
collegamenti con le organizzazioni malavitose che
sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con
la pubblica amministrazione;
- che, invero, la necessaria coerenza costituzionale di tale
forma avanzata di tutela impone di non prescindere da un
riscontro oggettivo dell’intuizione prognostica, risultando
doverosa la oggettiva individuazione di un coerente,
ancorché non perfezionato, quadro indiziario, idoneo a
supportare il paventato pericolo di inquinamento
camorristico;
- che gli elementi raccolti non vanno considerati
separatamente o atomisticamente, dovendosi piuttosto
stabilire se sia configurabile un quadro indiziario
complessivo dal quale possa ritenersi attendibile
l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità
organizzata e nel quale ogni elemento acquista valenza nella
sua connessione con gli altri.
Va premesso che la valutazione riservata al Prefetto è espressione di
ampia discrezionalità, onde può essere assoggettata al
sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo
della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti
accertati (cfr. Cons. Stato, III; 14-09-2011, n. 5130;
19-01-2012, n. 254); il controllo in sede giurisdizionale può
attestarsi, quindi, nei limiti della assenza di eventuali
vizi della funzione che possano essere sintomo di un non
corretto esercizio del potere quanto alla completezza dei
dati acquisiti, alla non travisata valutazione dei fatti ed
alla logicità delle conclusioni (cfr. Cons. Stato, V,
01-10-2010, n. 7260).
L’informativa prefettizia antimafia “tipica” costituisce una
misura preventiva volta a colpire l’azione della criminalità
organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con
la pubblica amministrazione (cfr. Cons. Stato, III;
14-09-2011, n. 5130; III, 19-01-2011, n. 254), configurandosi
come tipica misura cautelare di polizia, preventiva ed interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione
antimafia di natura giurisdizionale (cfr. Tar Campania,
Napoli, I, 03-05-2012, n. 2016).
Come tale, essa, prescinde dall’accertamento di singole
responsabilità penali nei confronti di soggetti che,
nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti
con la pubblica amministrazione e si fonda sugli
accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia
valutati, per la loro rilevanza, dal prefetto
territorialmente competente (cfr. Cons. Stato, III, n.
5130/2011 e n. 254/2012 cit.; Tar Piemonte, I, 02-04-2012, n.
373).
Ai fini della sua legittima adozione, dunque, non occorre la
prova di fatti di reato, né la prova della effettiva
infiltrazione mafiosa nell’impresa né la prova del reale
condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di
associazioni o soggetti mafiosi (TAR Campania, n.
2016/2012, cit.; Tar Lazio, I, 06-12-2010, n. 35388); essendo
il potere esercitato espressione della logica di
anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad
assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle
attività della criminalità organizzata, la misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad
accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi
sulla esistenza della contiguità dell’impresa con
organizzazioni malavitose e, quindi, nel condizionamento in
atto dell’attività di impresa.
Quanto ai parametri di legittimità del provvedimento,
si afferma, pertanto, che non occorre che sia provata
l’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, essendo,
invece, sufficiente, secondo un giudizio prognostico, latamente discrezionale, la mera possibilità di interferenza
della criminalità organizzata (cfr. Cons. Stato, III,
06-09-2011, n. 5019; Tar Campania, I, 17-06-2011, n. 3242),
richiedendosi la concomitanza di un quadro di oggettiva
rilevanza dal quale desumere elementi che, secondo un
giudizio probabilistico, o anche secondo comune esperienza,
possano far presumere non una attuale ingerenza delle
organizzazioni mafiose negli affari, ma una effettiva
possibilità che tale ingerenza sussista o possa sussistere (cfr. Tar Calabria, Reggio Calabria, I,
01-02-2012, n. 91). Si
ritiene, invero, sufficiente il “tentativo di infiltrazione”
avente lo scopo di condizionare le scelte dell’impresa,
anche se tale scopo non si è in concreto realizzato (Cons.
Stato, IV, 30-05-2005, n. 2796 e 13-10-2003, n. 6187).
La misura interdittiva, di conseguenza, può essere
legittimamente sorretta da elementi sintomatici e indiziari
da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa
verificarsi il tentativo di ingerenza della criminalità
organizzata nella attività imprenditoriale (cfr. Cons.
Stato, III, n. 254/2012 e n. 5019/2011, cit.), costituendo
presupposto sufficiente la rilevazione di elementi
indizianti idonei a configurare nell’attualità l’oggettiva e
qualificata probabilità del tentativo di infiltrazione
mafiosa per il condizionamento dell’attività di impresa pur
senza attingere il grado di prova proprio dell’accertamento
penale (Cons. Stato, VI, 27-07-2011, n. 4468); non è,
invero, ritenuto necessario un grado di dimostrazione
probatoria analogo a quello richiesto per provare
l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo
camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su
fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e
con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad
eventi verificatisi a distanza di tempo (Cons. Stato, III,
n. 254/2012, cit.).
Ferma, dunque, la sufficienza (nei sensi sopra esposti) di
meri elementi sintomatici ed indiziari a sorreggere la
legittimità della interdittiva antimafia, va rilevato che la
giurisprudenza ne ha ulteriormente precisato (e così
delimitato) l’ambito di rilevanza, dovendosi comunque
ragionevolmente contemperare la finalità di tutela
preventiva dell’istituto con esigenze di tutela del
principio di legalità, di certezza del diritto e dei valori
costituzionalmente rilevanti (libertà di iniziativa
economica privata) da esso incisi.
Si è, di conseguenza, affermato:
- che non possono ritenersi sufficienti il solo sospetto o
mere congetture prive di alcun riscontro fattuale;
- che occorre, invece, l’individuazione e l’esternazione di
idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente
sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili
collegamenti con le organizzazioni malavitose che
sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con
la pubblica amministrazione (cfr. Cons. Stato, III, n.
5130/2011, Tar Campania, I, n. 2016/2012, Tar Piemonte, I,
n. 373/2012, cit.);
- che, invero, la necessaria coerenza costituzionale di tale
forma avanzata di tutela impone di non prescindere da un
riscontro oggettivo dell’intuizione prognostica, risultando
doverosa la oggettiva individuazione di un coerente, ancorché non perfezionato, quadro indiziario, idoneo a
supportare il paventato pericolo di inquinamento
camorristico (cfr. Cons. Stato, III, 09-05-2012, n. 2678);
- che gli elementi raccolti non vanno considerati
separatamente o atomisticamente, dovendosi piuttosto
stabilire se sia configurabile un quadro indiziario
complessivo dal quale possa ritenersi attendibile
l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità
organizzata (cfr. Cons. Stato, III, n. 254/2012; n.
5995/2011; n. 5130/2011; n. 5019/2011) e nel quale ogni
elemento acquista valenza nella sua connessione con gli
altri (Tar Campania, Napoli, I, 17-06-2011, n. 3242).
---------------
Il richiamo -operato dalla citata giurisprudenza-
alla necessaria presenza di un quadro indiziario ed alla
coerenza ed idoneità dello stesso, riveniente dalla
necessità di riscontrare la compatibilità costituzionale
dell’istituto in ragione della avanzata soglia di
anticipazione di tutela del bene giuridico protetto in esso
presente, induce il Tribunale ad ulteriori precisazioni.
L’utilizzazione dello strumento indiziario richiede il
rispetto dei parametri di validità dello stesso
concordemente riconosciuti.
Il riferimento alla necessità di un “quadro” indiziario ed
alla valutazione unitaria e non atomistica costituisce,
pertanto, conferma della regola generale secondo cui gli
indizi devono essere precisi e concordanti.
Dunque, non appare sufficiente un unico elemento di fatto
dalla valenza non direttamente ed immediatamente probatoria,
ma occorre la pluralità di essi.
Di poi, tali elementi devono essere concordanti, cioè
condurre, nella loro valenza induttiva, alla medesima
conclusione, corroborandone la bontà, sia pure nella sua
valenza possibilistica e probabilistica.
In buona sostanza, la valutazione sulla esistenza di
tentativi di infiltrazione mafiosa deve essere fondata su
plurimi elementi di fatto che logicamente e ragionevolmente
vanno nella medesima direzione, così fondando una
conclusione sulla configurabilità in concreto di elementi
relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa.
Va, peraltro , sottolineato che la legittimità di tale
conclusione non è in assoluto e sempre esclusa dalla
esistenza, nella vicenda oggetto di valutazione, di elementi
di segno opposto ovvero di dubbia connotazione. E’, però, in
tutta evidenza necessario che questi ultimi siano isolati,
di contenuto e valenza non rilevante, assolutamente
minoritari, sia quantitativamente che qualitativamente,
rispetto a quelli che inducono a conclusioni positive circa
la presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa.
L’esistenza di fattori dissonanti obbliga, peraltro,
l’amministrazione ad approfondimenti istruttori e, comunque,
ad una ponderazione più attenta ed approfondita del residuo
quadro indiziario a disposizione, al fine di confermarne (con adeguata esternazione) la valenza verso la conclusione interdittiva, attraverso una analisi che tenga conto (e dia
adeguatamente ragione) non solo della sua rilevanza positiva
ma anche dei motivi per i quali esso non è vinto o posto
incisivamente in discussione dall’elemento di segno
contrario.
Le sopra esposte considerazioni in ordine ai necessari
contenuti e caratteri del quadro indiziario sufficiente ed
idoneo a fondare una legittima informazione interdittiva
trovano significativa conferma in un ulteriore aspetto della
normativa di riferimento.
Questa opera richiamo a “tentativi” di infiltrazione
mafiosa.
Pur nella consapevolezza del carattere amministrativo della
misura in esame, la sua spiccata valenza “anticipatoria”
della funzione di tutela del bene protetto e la già
evidenziata rilevante incidenza su valori costituzionalmente
tutelati inducono il Tribunale a ritenere pertinente, nella
esegesi del citato dato normativo, anche il riferimento agli
elementi che connotano il “tentativo” nel diritto penale.
La ratio garantista, tendente, nel rispetto del principio
costituzionale di offensività, alla individuazione di una
indefettibile connotazione offensiva del fatto verso il bene
giuridico protetto (sia pur sub specie di mero pericolo) –e
ciò a giustificazione della limitazione della altrui libertà– appare, invero, comune ad entrambi gli istituti.
Orbene, l’articolo 56 del codice penale connota il tentativo
in termini di “idoneità” ed "univocità” degli atti.
L’idoneità evidenzia l’adeguatezza degli atti alla
realizzazione del risultato, ovvero la capacità degli stessi
di causarne o favorirne la realizzazione; la univocità di
direzione ne connota, invece, un grado di sviluppo che
lascia verosimilmente prevedere la realizzazione del
risultato medesimo.
Riassumendo e sintetizzando le esposte considerazioni, va,
dunque, affermato, ai fini della legittima adozione di una interdittiva antimafia, che:
- l’amministrazione deve compiere una istruttoria completa e
non parziale, attraverso l’acquisizione e la valutazione di
tutti gli elementi fattuali esistenti ed a disposizione, al
fine di verificare l’esistenza di un quadro indiziario
idoneo ed adeguato a supportare un giudizio di esistenza (
certa o probabile) di tentativi di infiltrazione mafiosa;
- il richiamato requisito della completezza dell’istruttoria
comporta che debba esservi esame della totalità dei dati
fattuali a disposizione, che è necessaria la valutazione di
tutti gli elementi esistenti nella attualità, che, ove
vengono considerati fatti risalenti nel tempo, tale
circostanza impone un doveroso approfondimento che ne
giustifichi la utilizzazione attuale per la mancanza di
rilevanti elementi di novità atti ad inficiarne la portata,
che, ove emergano elementi nuovi, questi devono essere
necessariamente oggetto di valutazione;
- i dati fattuali costituenti il quadro indiziario devono
essere plurimi e concordanti in relazione alla conclusione interdittiva;
- l’esistenza di elementi dissonanti o di segno contrario non
esclude, di per sé sola, la legittimità della conclusione
interdittiva, ma impone comunque un valutazione più
approfondita dei dati a disposizione;
-in particolare, la presenza di elementi di segno contrario,
non esclude l’esistenza di un quadro indiziario concordante
tutte le volte in cui essi siano di scarsa rilevanza e
risultino comunque vinti dal peso preponderante,
quantitativo e qualitativo, degli altri a disposizione
dell’amministrazione.
La necessaria esistenza di un quadro indiziario idoneo
ed adeguato, quale presupposto per la legittima adozione di
una interdittiva antimafia, richiede al Collegio un
ulteriore approfondimento in ordine alle questioni relative
alla risalenza temporale dei dati fattuali utilizzati , alla
rilevanza delle sopravvenienze ed alla efficacia temporale
delle interdittive antimafia.
L’articolo 2, comma 1, del dpr 03-06-1998, n. 252 ha stabilito
che “La documentazione prevista dal presente regolamento è
utilizzabile per un periodo di sei mesi dalla data del
rilascio, anche per altri procedimenti riguardanti i
medesimi soggetti”.
Oggi l’articolo 86 del d.lgs. n. 159/2001 prevede, al comma
1, che “la comunicazione antimafia è utilizzabile per un
periodo di sei mesi dalla data del rilascio, anche per altri
procedimenti riguardanti i medesimi soggetti”; il successivo
comma 2 dispone che “L’informazione antimafia è
utilizzabile per un periodo di dodici mesi dalla data del
rilascio, qualora non siano intervenuti mutamenti
nell’assetto societario e gestionale dell’impresa oggetto
dell’informazione. Esso è utilizzabile anche per altri
procedimenti riguardanti i medesimi soggetti“.
Al riguardo, la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, VI,
30-12-2011, n. 7002; V, 28-02-2006, n. 851; V, 12-06-2007,
n. 3126) ha avuto modo di affermare che l’attualità dei fatti
e del rischio, che deriva dall’emersione di tentativi di
infiltrazione della criminalità organizzata in organismi
imprenditoriali, va intesa nel senso che, se non vi sono
fatti nuovi rispetto ad una precedente valutazione di
presenza di tentativi siffatti, non è ragionevole, per ciò
solo, concludere per il suo venir meno.
Non si deve, invero, dimenticare che la ratio delle
disposizioni normative in materia riflette non già una
funzione sanzionatoria, ma di prevenzione, finalizzata a
costituire efficaci argini alla penetrazione criminale negli
appalti pubblici. E’ perciò ragionevole, e conforme a
proporzionalità, considerare a questi fini che la situazione
di rischio di infiltrazioni, che non è costituita ma solo
manifestata da singoli e rilevati episodi, si può
considerare davvero fugata non già per il mero e formale
successivo trascorrere di un breve lasso di tempo
dall’ultima verifica fatta, quanto per la necessità che
siano sopravvenuti e accertati fatti positivi, idonei a dar
conto di un nuovo e consolidato operare dei soggetti cui era
stato collegato il pericolo, che persuasivamente e
fattivamente dimostri un avvenuto discostamento dalla
situazione prima rilevata.
E’ stato, pure, sottolineato (cfr. Tar Campania, Napoli, I,
08-04-2010, n. 1835) che, se è vero che determinati
accadimenti non possono, in linea di principio,
rappresentare dei vincoli ostativi permanenti al
reinserimento dell’impresa colpita da precedente interdittiva, è altresì vero che il mero trascorrere del
tempo non può in quanto tale automaticamente fungere da
fattore di riabilitazione.
Ciò può ritenersi di certo in situazioni in cui il periodo
di tempo che si colloca tra l’evento indiziario e la sua
rilevazione sia effettivamente tale da neutralizzarne la
sintomaticità, come si verifica ad esempio in relazione ad
eventi passati rispetto ai quali il nesso di causalità
indiziante appare non più sussistente perché è mutato
l’assetto societario o è venuta meno la pericolosità del
gruppo criminale ritenuto contiguo all’impresa.
Invece, nella ipotesi in cui gli indizi addotti, sebbene non
attuali ratione temporis, ma comunque non eccessivamente
lontani, esprimano una non lieve compromissione rispetto ad
ambienti o logiche malavitose, rispetto alle quali,
nonostante il trascorrere del tempo, non sia fornita alcuna
riprova di una successiva dissociazione, non vi è ragione di
ritenere implausibile una valutazione di permanenza di una
condizione di contiguità mafiosa.
Dai richiamati principi sono stati, poi, ricavati,
importanti corollari:
- la previsione normativa (art. 2, comma 1, del dpr 03-06-1998, n. 252 ; oggi, art. 86, commi 1 e 2 , del d.lgs.
n. 159/2011), affermante la limitata utilizzabilità
temporale della documentazione antimafia , intende riferirsi
ai soli casi di documentazioni negative, vale a dire che
attestino che non risultano infiltrazioni della criminalità
organizzata, e non già anche ai casi di documentazioni
positive, le quali conservano la loro capacità interdittiva
anche oltre quel termine (cfr. Cons. Stato, VI, n.
7002/2011, cit.);
- la valenza interdittiva nell’attualità di un precedente
accertamento non è scalfito da sopravvenienze meramente
formali, obiettivamente non comprovanti un reale e
sostanziale discostamento da ambienti e logiche malavitose,
quali il mero trasferimento di sede ovvero il trasferimento
di quote ad un familiare (cfr. Consiglio di Stato, VI,
20.05.2011, n. 2996); sul punto va, in particolare rilevato
che la sopravvenuta normativa, con evidente intento
dissuasivo al loro ricorso, ha trasformato tali elementi
sopravvenuti da meri elementi irrilevanti ad excludendum
in fattori positivi da cui ricavare la sussistenza di
tentativi di infiltrazione mafiosa (si veda l’art. 84,
comma 4, lett. f, del d.lgs. n. 159/2011) (TAR Campania-Salerno,
sentenza 05.09.2012 n. 1624 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Stante l’obbligo per l’ente locale di esternare
le ragioni per le quali ritiene l’opera compatibile con i
valori protetti dal vincolo, risulta evidente che, nel caso
di avvenuta enunciazione dei motivi, l’autorità
amministrativa che pronunci l’annullamento deve specificare
diffusamente le ragioni della riscontrata illegittimità, con
riferimento a quanto affermato dall’ente locale. Al
contrario, quando l’ente regionale o subregionale siano
venuti meno all’obbligo di motivazione, risulta sufficiente
il rilievo da parte del Ministero della suddetta mancanza,
non essendo stata in concreto esternata alcuna verifica di
compatibilità dell’opera con il valore paesistico protetto,
accertamento che costituisce funzione e contenuto essenziale
del nulla osta.
Se è vero che l’Amministrazione Statale non può disporre
l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica o del
parere paesaggistico adottato in sede regionale per ragioni
di merito, né ha il potere di modificare il contenuto
dell’autorizzazione o di imporre modifiche progettuali, essa
non esprime un giudizio di merito sovrapponendo il proprio
giudizio di compatibilità paesaggistica a quello
dell’Amministrazione competente nel caso in cui rilevi che
l’autorità amministrativa che ha emesso il nulla osta o il
parere non abbia esternato alcuna congrua motivazione dalla
quale evincere le ragioni che la inducevano a concludere per
la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo
paesaggistico.
L’ente delegato o sub–delegato deve effettuare la
valutazione di propria competenza motivando adeguatamente la
compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera
assentita, prendendo in considerazione le specifiche
circostanze di fatto, sussistendo, in caso contrario,
l’illegittimità del nulla osta o dell’autorizzazione per
carenza di motivazione o di istruttoria. Pertanto,
l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto
oggetto del suo esame, nel proprio provvedimento, può
motivare sulla non compatibilità dell’intervento edilizio
programmato rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel
vincolo.
---------------
Il preavviso di provvedimento negativo di cui all’art.
10-bis, l. n. 241 del 1990 (introdotto dalla l. 11.02.2005
n. 15) non si applica al procedimento volto
all’annullamento, in tempi stretti e perentori,
dell’autorizzazione paesaggistica sub specie di riesame di
quell’atto da parte dell’autorità statale, e che si
configura come una fase di riscontro della già ritenuta
possibilità giuridica di mutare lo stato dei luoghi.
Il preavviso di diniego istituto finalizzato ad aprire una
fase, anche non breve, di confronto endoprocedimentale è
invero di suo incompatibile con la stretta tempistica del
vaglio delle condizioni di legittimità di un atto
legittimamente già rilasciato e produttivo di taluni
effetti.
Si tratta, del resto, di uno strumento partecipativo che la
legge prevede solo «nei procedimenti ad istanza di parte» e
che non trova applicazione per questa sequenza di secondo
grado, che è avviata d’ufficio e che, pur configurando un
secondo tratto di un’unica vicenda amministrativa di
cogestione del vincolo, segue la cesura procedimentale del
già avvenuto rilascio del provvedimento di base che conclude
la fase ad istanza di parte (mentre la successiva fase
soprintendizia concreta una sequenza officiosa, avviata con
la trasmissione degli atti da parte del Comune).
Il decreto dell’08.02.2008, a firma del Soprintendente B.A.P.P.S.A.E. di Salerno ed Avellino, di annullamento
dell’autorizzazione paesaggistica, rilasciata dal Comune di Centola, propedeutica al rilascio della concessione edilizia
in sanatoria, richiesta dalla ricorrente ai sensi della l.
47/1985, è fondato, tra le altre circostanze, su quella,
secondo cui il provvedimento comunale è motivato
esclusivamente –“per relationem”– con riferimento al
parere, espresso dalla Commissione comunale per il Paesaggio
in data 06.12.2005, del seguente testuale tenore:
“Considerato che l’intervento non appare tale da risultare
pregiudizievole per l’ambiente circostante, né tale da
incidere sostanzialmente sui valori paesistici; Presa in
esame la pratica di condono edilizio, la Commissione dal
punto di vista paesistico–ambientale, per le sole opere
oggetto di sanatoria, esprime il seguente parere: Favorevole–Condizionato: alla installazione di gronde e pluviali in
rame; adeguata sistemazione dell’area esterna al fabbricato;
il tutto fatti salvi eventuali pareri e/o nulla osta di
organi sovra comunali”.
Riguardo a tale motivazione, il Soprintendente ne rilevava,
nel decreto impugnato, la natura “stereotipata”, denotante
“una carenza d’istruttoria, nella parte in cui non ha
neanche rilevato che le facciate sono parzialmente
intonacate, la copertura è a lastrico solare con presenza di
ferri d’attesa, etc.”.
Osservava in proposito la difesa erariale come l’effettiva
sussistenza del prefato difetto di motivazione
dell’autorizzazione paesaggistica fosse “idoneo da solo a
legittimare l’annullamento”.
Orbene, il Tribunale conviene circa il dedotto carattere
“apparente e tautologico” della giustificazione fornita –attraverso il richiamo al parere della Commissione per il
Paesaggio– dal Responsabile del Servizio Tutela Beni
Ambientali del Comune di Centola (“Considerato che
l’intervento non appare tale da risultare pregiudizievole
per l’ambiente circostante, né tale da incidere
sostanzialmente sui valori paesistici”), concepito in
maniera tale, da non rendere affatto percepibile la concreta
ragione del positivo apprezzamento, manifestato riguardo
all’intervento abusivo in questione.
Di conseguenza, non può condividersi l’assunto della
ricorrente, secondo cui l’assenso paesistico comunale,
oggetto dell’impugnato annullamento, sarebbe viceversa
“adeguatamente motivato attraverso la pedissequa
trascrizione dell’articolato parere della Commissione per il
Paesaggio”; il Collegio, in particolare, ritiene non
particolarmente significative, a fronte del rilevato
carattere anodino della motivazione de qua, le condizioni,
concernenti l’uso di determinati materiali e l’esecuzione di
opere esterne di completamento, apposte dalla stessa
Commissione (“installazione di gronde e pluviali in rame;
adeguata sistemazione dell’area, esterna al fabbricato”).
La soluzione prescelta è conforme a giurisprudenza pacifica,
per la quale si leggano, ex multis, le seguenti massime:
“Stante l’obbligo per l’ente locale di esternare le ragioni
per le quali ritiene l’opera compatibile con i valori
protetti dal vincolo, risulta evidente che, nel caso di
avvenuta enunciazione dei motivi, l’autorità amministrativa
che pronunci l’annullamento deve specificare diffusamente le
ragioni della riscontrata illegittimità, con riferimento a
quanto affermato dall’ente locale. Al contrario, quando
l’ente regionale o subregionale siano venuti meno
all’obbligo di motivazione, risulta sufficiente il rilievo
da parte del Ministero della suddetta mancanza, non essendo
stata in concreto esternata alcuna verifica di compatibilità
dell’opera con il valore paesistico protetto, accertamento
che costituisce funzione e contenuto essenziale del nulla
osta” (TAR Lazio Roma sez. II, 12.10.2010, n.
32758); “Se è vero che l’Amministrazione Statale non può
disporre l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica o
del parere paesaggistico adottato in sede regionale per
ragioni di merito, né ha il potere di modificare il
contenuto dell’autorizzazione o di imporre modifiche
progettuali, essa non esprime un giudizio di merito
sovrapponendo il proprio giudizio di compatibilità
paesaggistica a quello dell’Amministrazione competente nel
caso in cui rilevi che l’autorità amministrativa che ha
emesso il nulla osta o il parere non abbia esternato alcuna
congrua motivazione dalla quale evincere le ragioni che la
inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti
realizzati con il vincolo paesaggistico” (TAR Campania
Napoli sez. VI, 07.12.2011, n. 5729); “L’ente delegato
o sub–delegato deve effettuare la valutazione di propria
competenza motivando adeguatamente la compatibilità con il
vincolo paesaggistico dell’opera assentita, prendendo in
considerazione le specifiche circostanze di fatto,
sussistendo, in caso contrario, l’illegittimità del nulla
osta o dell’autorizzazione per carenza di motivazione o di
istruttoria. Pertanto, l’autorità statale, se ravvisa un
tale vizio nell’atto oggetto del suo esame, nel proprio
provvedimento, può motivare sulla non compatibilità
dell’intervento edilizio programmato rispetto ai valori
paesaggistici compendiati nel vincolo” (Consiglio di Stato
sez. VI, 23.04.2012, n. 2395).
Le considerazioni che precedono, con il ritenere condizione
sufficiente, per l’esercizio del potere d’annullamento
statale, il rilievo della carenza motivazionale che affligge
l’autorizzazione dell’ente subdelegato, privano di pregio le
censure, esposte dalla ricorrente nei motivi rubricati sub
1) e 2), inidonee a scalfire il profilo sopra enunciato, in
sé idoneo a fondare il provvedimento impugnato.
Per ciò che concerne, invece, la terza doglianza, imperniata
sulla dedotta violazione dell’art. 10-bis l. 241/1990, la
stessa è parimenti infondata, aderendo il Tribunale
all’orientamento giurisprudenziale espresso, da ultimo,
nella seguente massima: “Il preavviso di provvedimento
negativo di cui all’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990
(introdotto dalla l. 11.02.2005 n. 15) non si applica
al procedimento volto all’annullamento, in tempi stretti e
perentori, dell’autorizzazione paesaggistica sub specie di
riesame di quell’atto da parte dell’autorità statale, e che
si configura come una fase di riscontro della già ritenuta
possibilità giuridica di mutare lo stato dei luoghi. Il
preavviso di diniego istituto finalizzato ad aprire una
fase, anche non breve, di confronto endoprocedimentale è
invero di suo incompatibile con la stretta tempistica del
vaglio delle condizioni di legittimità di un atto
legittimamente già rilasciato e produttivo di taluni
effetti. Si tratta, del resto, di uno strumento
partecipativo che la legge prevede solo «nei procedimenti ad
istanza di parte» e che non trova applicazione per questa
sequenza di secondo grado, che è avviata d’ufficio e che,
pur configurando un secondo tratto di un’unica vicenda
amministrativa di cogestione del vincolo, segue la cesura
procedimentale del già avvenuto rilascio del provvedimento
di base che conclude la fase ad istanza di parte (mentre la
successiva fase soprintendizia concreta una sequenza
officiosa, avviata con la trasmissione degli atti da parte
del Comune)” (Consiglio di Stato sez. VI, 21.09.2011, n.
5293) (TAR Campania-Salerno,
sentenza 05.09.2012 n. 1621 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Secondo
un indirizzo interpretativo «nell’impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono
configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia
necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in
cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe
per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso».
Secondo un diverso e preferibile orientamento tale principio
non opera nel caso in cui il denunciate sia un soggetto il
cui diritto di proprietà risulta direttamente leso
dall’opera edilizia.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha seguito
orientamenti differenti in ordine alla qualificazione, quali
controinteressati, dei soggetti che denunciano abusi edilizi
ai fini dell’esercizio dei poteri officiosi
dell’amministrazione.
In particolare, secondo un indirizzo interpretativo
«nell’impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono
configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia
necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in
cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe
per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso»
(Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2011 n. 3380; Id., sez. V, 03.07.1995, n. 991).
Secondo un diverso e preferibile orientamento tale principio
non opera nel caso in cui il denunciate sia un soggetto il
cui diritto di proprietà risulta direttamente leso
dall’opera edilizia (Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2007,
n. 2742)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.09.2012 n. 4684 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Si
ha concessione quando l'operatore si assume in
concreto i rischi economici della gestione del servizio,
rifacendosi essenzialmente sull'utenza per mezzo della
riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa, mentre
si ha appalto quando l'onere del servizio stesso viene a
gravare sostanzialmente sull'Amministrazione.
Quando l'operatore privato si assume i rischi della gestione
del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull'utente
mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone,
tariffa o diritto, allora si ha concessione, ragione
per cui può affermarsi che è la modalità della remunerazione
il tratto distintivo della concessione dall'appalto di
servizi. Pertanto, si avrà concessione quando l'operatore si
assuma in concreto i rischi economici della gestione del
servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si
avrà appalto quando l'onere del servizio stesso venga a
gravare sostanzialmente sull'amministrazione.
Emerge con evidenza che assume un rilievo
determinante ai fini del decidere la corretta qualificazione
giuridica dell’affidamento per cui è causa (affidamento che
il Tribunale ha ritenuto di ascrivere al genus dell’appalto
di servizi ai sensi del comma 10 dell’art. 3 del d.lgs. n.
163 del 2006).
Ad avviso del Collegio, l’appello in epigrafe è meritevole
di accoglimento laddove afferma, al contrario, che
l’affidamento in questione è qualificabile come concessione
di servizi la quale –come è noto– viene definita come “un
contratto che presenta le stesse caratteristiche di un
appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il
corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente
nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto
accompagnato da un prezzo, in conformità all’articolo 30”
(art. 3, comma 12, d.lgs. n. 163 del 2006).
Ai fini della qualificazione in parola risultano dirimenti
da un lato la circostanza per cui il rischio della gestione
del servizio all’origine dei fatti di causa resta
interamente in capo al soggetto affidatario, il quale –oltretutto– è anche tenuto a corrispondere un importo
pecuniario piuttosto cospicuo in favore
dell’Amministrazione, e dall’altro lato la circostanza che
il servizio viene erogato non in favore della Università, ma
della collettività di utenti universitari (studenti,
docenti, personale).
Nel caso di specie deve, quindi, trovare puntuale
applicazione il consolidato orientamento giurisprudenziale
(conforme peraltro al paradigma comunitario di riferimento)
secondo cui si ha concessione quando l'operatore si assume
in concreto i rischi economici della gestione del servizio,
rifacendosi essenzialmente sull'utenza per mezzo della
riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa, mentre
si ha appalto quando l'onere del servizio stesso viene a
gravare sostanzialmente sull'Amministrazione (in tal senso
–ex plurimis -: Cons. St., sez. V, 09.09.2011, n.
5068).
Si è precisato, al riguardo, che quando l'operatore privato
si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi
sostanzialmente sull'utente mediante la riscossione di un
qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha
concessione, ragione per cui può affermarsi che è la
modalità della remunerazione il tratto distintivo della
concessione dall'appalto di servizi. Pertanto, si avrà
concessione quando l'operatore si assuma in concreto i
rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi
essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà appalto quando
l'onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente
sull'amministrazione (Cons. St., sez. V, 06.06.2011, n.
3377)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.09.2012 n. 4682 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio sussiste
l’obbligo per il comune di verificare il rispetto da parte
dell’istante dei limiti privatistici, a condizione che tali
limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente
conoscibili e/o non contestati, di modo che il controllo da
parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa
d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad
un’accurata e approfondita disanima dei rapporti
civilistici.
Se, dunque, l’amministrazione normalmente non è tenuta a
svolgere indagini particolari in presenza di una richiesta
edificatoria, al contrario, qualora uno o più
controinteressati (siano essi comproprietari o, come nel
caso di specie, confinanti) si attivino per denunciare il
proprio dissenso rispetto al rilascio del titolo
edificatorio, il comune dovrà verificare se, a base
dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile l’effettiva
sussistenza della disponibilità del bene oggetto
dell’intervento edificatorio.
Giova premettere, in linea di diritto, che
secondo l’orientamento prevalente di questo Consiglio di
Stato, condiviso da questo Collegio, in sede di rilascio del
titolo abilitativo edilizio sussiste l’obbligo per il comune
di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti
privatistici, a condizione che tali limiti siano
effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili e/o
non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente
locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti
medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e
approfondita disanima dei rapporti civilistici (v., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 10.12.2007, n. 6332;
C.d.S., Sez. IV, 11.04.2007, n. 1654).
Se, dunque,
l’amministrazione normalmente non è tenuta a svolgere
indagini particolari in presenza di una richiesta
edificatoria, al contrario, qualora –come nel caso di
specie– uno o più controinteressati (siano essi
comproprietari o, come nel caso di specie, confinanti) si
attivino per denunciare il proprio dissenso rispetto al
rilascio del titolo edificatorio, il comune dovrà verificare
se, a base dell’istanza edificatoria, sia riconoscibile
l’effettiva sussistenza della disponibilità del bene oggetto
dell’intervento edificatorio, limitando invero l’art. 70 l.
prov. 11.08.1997, n. 13 (nella versione all’epoca in
vigore), la legittimazione attiva all’ottenimento della
concessione edilizia “al proprietario dell’area o a chi
abbia il titolo per richiederla” (disposizione normativa
emanata dalla Provincia autonoma di Bolzano nell’esercizio
della potestà legislativa primaria in materia di
urbanistica, cui nell’ordinamento statale corrisponde la
previsione contenuta nell’art. 11 d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
di tenore sostanzialmente eguale)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.09.2012 n. 4676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
muro medesimo, assolvendo a mere finalità di recinzione e
non eccedendo i 3 metri (ma, anzi, essendo di altezza
considerevolmente inferiore a tale misura), non può essere
configurato quale “costruzione” al fine della disciplina
regolamentare ec art. 9, comma 2, del D.M. 1444/1968.
Per quanto attiene alla dedotta violazione
dell’art. 29-bis delle N.T.A. del P.R.G., già illustrata in
primo grado e riproposta in appello, va evidenziato che il
Della Giovampaola afferma che il muro costruito dal Comune
al fine di delimitare l’area dove è sta realizzata la
stazione ecologica dista dal confine della proprietà del
medesimo appellante ricorrente soltanto m. 1,5 e non già m.
5.
Come emerso in sede di giudizio di primo grado, ad una
determinata distanza da tale muro sono in effetti i
cassonetti di raccolta dei rifiuti.
L’art. 29-bis delle N.T.A., che ha per oggetto “Attrezzature
e servizi speciali a gestione pubblica e privata (S4),”
prevede che “in tali aree possono insediarsi, su iniziativa
pubblica, privata o mista, attività di servizio (compresa la
commercializzazione) per il deposito, il trattamento ed il
trasporto di rifiuto liquidi e solidi.”, con contestuale
obbligo per gli edifici ivi realizzati, sia per servizi che
per le residenze di servizio per il gestore o il custode
dell’attività insediata, di articolarsi in due piani al
massimo, di avere un’altezza massima di m. 12, di avere una
copertura a capanna, a padiglione, o piana, di collocarsi ad
una distanza dai confini di zona e di proprietà privata di
m. 5, di rispettare la distanza dalle strade prevista dal
Codice della Strada e –da ultimo– di estendersi per una
superficie territoriale coperta massima del 40%.
Come rettamente rilevato da giudice di primo grado, la
surriportata disciplina di piano contempla distanze dai
confini e dalla proprietà previste che ragionevolmente non
possono che riferirsi alle costruzioni e non già ai muri di
cinta, quale è -per l’appunto- quello la cui realizzazione
è segnatamente contestata da Della Giovampaola.
In tal senso, deve pertanto concludersi che la realizzazione
del muro medesimo è comunque conforme a quanto disposto
dall’art. 878 cod. civ., in forza del quale –per l’appunto– “il muro di cinta e ogni altro muro isolato che non abbia
un’altezza superiore ai tre metri non è considerato per il
computo della distanza indicata dall’articolo 873” dello
stesso codice: e, poiché il muro di cui trattasi è alto
soltanto m. 1,20, ne consegue l’irrilevanza, nell’economia
della presente causa, di tutta la giurisprudenza della Corte
di Cassazione che il medesimo Della Giovampaola cita a
preteso conforto delle proprie tesi.
Va anche respinto il motivo d’appello con il quale il
Della Giovampaola afferma che “il muro funzionale alla
stazione ecologica” sarebbe stato realizzato a distanza
minore di dieci metri dal capannone di proprietà del
ricorrente stesso (posto a sette metri dal detto muro), così
violando la distanza tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti prevista in dieci metri dall’art. 9, comma
2, del D.M. n. 1444 del 1968: e ciò in quanto il muro
medesimo, assolvendo a mere finalità di recinzione e non
eccedendo i 3 metri (ma, anzi, essendo di altezza
considerevolmente inferiore a tale misura), non può essere
configurato quale “costruzione” al fine della disciplina
regolamentare testé richiamata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.09.2012 n. 4672 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Gli
oneri urbanizzativi devono essere determinati con riguardo
alla disciplina vigente al momento della presentazione della
d.i.a..
La denuncia di inizio attività non è un
provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà
luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce
un atto privato volto a comunicare l'intenzione di
intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge.
Tale lettura, in senso non provvedimentale, è stata peraltro
immediatamente fatta propria dal legislatore il quale,
introducendo il comma 6-ter dell’art. 19 della legge
07.08.1990, n. 241 “Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi” tramite l'articolo 6, comma 1, lettera c),
del D.L. 13.08.2011, n. 138, ha espressamente qualificato
tali atti come “non costituiscono provvedimenti taciti
direttamente impugnabili”.
In questo senso, appare consequenziale e condivisibile la
ricostruzione della natura del silenzio tenuto
dall’amministrazione (sempre come ritenuto dalla citata
Consiglio di Stato ad. plen. 29.07.2011 n. 15), per cui “il
passaggio del tempo non produce un titolo costitutivo avente
valore di assenso ma impedisce l'inibizione di un'attività
già intrapresa in un momento anteriore”.
In tal modo, appare chiaro che l’efficacia del titolo
formatosi in base all’atto del privato (rectius, la modalità
abilitativa alla realizzazione dell’intervento edilizio) si
determina indipendentemente dal mancato esercizio del potere
di interdizione da parte della pubblica amministrazione,
trattandosi di fattispecie che operano su piani giuridici
diversi.
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Sussiste l’immediato sorgere dell’obbligo di corrispondere
gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione in
relazione alla situazione esistente al momento della
presentazione della d.i.a..
Tra l'altro, la vicenda deve ritenersi confermata anche
dalla particolare disciplina della d.i.a. contenuta nella
l.r. 12/2005 (art. 42, commi 2 e 3) che prevede, da un lato,
che il calcolo dei dovuti oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione sia allegato già al momento della presentazione
della denuncia di inizio attività e, in secondo luogo,
disponendo che il pagamento sia effettuato con le modalità
previste dalla vigente normativa che, per gli oneri di
urbanizzazione, impone l’adempimento entro trenta giorni
successivi alla presentazione della denuncia di inizio
attività, rendendo quindi impermeabile la disciplina ai
mutamenti disciplinari successivi.
Con ricorso iscritto al n. 2569 del 2010, Nova Domus Italia
s.r.l. propone appello avverso la sentenza del Tribunale
amministrativo regionale per la Lombardia, sezione seconda,
n. 13 del giorno 11 gennaio 2010 con la quale è stato
respinto il ricorso proposto contro il Comune di Milano per
l'annullamento della nota pg. 90611/2008 del Comune di
Milano, Sportello Unico dell’Edilizia, in data 30.01.2008,
avente ad oggetto: “Denuncia di inizio attività per
ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione in
via Carbonera Azzo n. 1, pratica n. 10740/2007, P.G.
1111435000/2007 – Integrazione del contributo di costruzione”.
Dinanzi al giudice di prime cure, la Nuova Domus Italia
s.r.l. aveva impugnato il provvedimento con il quale il
Comune aveva disposto il conguaglio del contributo di
costruzione relativo alla d.i.a., presentata in data
30.01.2008, relativa ad un intervento via Carbonera Azzo n.
1, in esecuzione della deliberazione del consiglio comunale
n. 73/2007, divenuta esecutiva in data 08.01.2008, che aveva
aggiornato in aumento gli oneri di urbanizzazione dovuti per
gli interventi edilizi.
La ricorrente riteneva che l’integrazione richiesta fosse
illegittima per violazione degli artt. 42, 44 e 48 della
L.R. 12/2005 e degli artt. 16 e 23 del D.P.R. 380/01 ed
eccesso di potere in quanto gli oneri urbanizzativi
dovrebbero essere determinati con riguardo alla disciplina
vigente al momento della presentazione della domanda.
Chiedeva quindi il risarcimento dei danni per la
stipulazione della fideiussione richiesta dal Tribunale in
sede cautelare.
La difesa comunale ha invece sostenuto la legittimità del
provvedimento comunale in quanto, dovendo ritenersi che la
d.i.a. produca effetti decorsi trenta giorni dalla sua
presentazione al Comune, tutte le sopravveninenze normative
intercorse tra la presentazione e l’efficacia debbono essere
applicate al procedimento.
Il ricorso veniva deciso con la sentenza appellata. In essa,
il TAR riteneva infondate le censure proposte, considerando
la DIA, indifferentemente alla considerazione della sua
natura come atto di autorizzazione implicita o come atto
privato, fosse comunque soggetta alle modifiche normative
fino al momento della compiuta efficacia, ossia fino alla
data di possibile esercizio del potere interdittivo
dell’amministrazione.
...
Il giudice di prime cure ha affrontato il tema delle
sopravvenienze normative intercorse tra la presentazione
della DIA e la sua efficacia evidenziando come “la DIA,
indipendentemente dalla qualifica giuridica assegnata –punto
su cui come noto si contrappongono due differenti
orientamenti che sostengono rispettivamente la natura di
autorizzazione implicita (Cons. Stato sez IV 5811/2008) e di
atto privato (Cons. Stato sez. VI 717/2009)– produce effetti
al trentesimo giorno dalla sua presentazione, purché, come
già affermato da questa Sezione, sia completa di tutti gli
elementi richiesti dalla legge (sentenza n. 5737/2008).
Nello spatium deliberandi dei trenta giorni dalla
presentazione della denuncia, periodo durante il quale
l’Amministrazione ha un compito di controllo, a conclusione
del quale può esercitare poteri inibitori dei lavori non
ancora avviati, le eventuali modifiche normative devono
trovare applicazione, in quanto il procedimento non è ancora
perfezionato e la DIA non può produrre effetti: vige allora
il principio del tempus regit actum, per cui
l'Amministrazione è tenuta ad applicare la normativa in
vigore al momento dell'adozione del provvedimento
definitivo, quand'anche sopravvenuta, e non già, salvo che
espresse norme statuiscano diversamente, quella in vigore al
momento dell'avvio del procedimento.
Tale posizione è stata ampiamente espressa da questa Sezione
nella sentenza richiamata dalla difesa comunale (n.
588/2006), in cui si è affermato il principio secondo cui
“le innovazioni normative introdotte medio tempore non sono
irrilevanti, giacché un intervento edilizio, ancorché
conforme alla normativa vigente al tempo della denuncia, ben
può essere interdetto ove non sia più in linea con la
normativa sopravvenuta, entrata in vigore (o destinata a
entrare in vigore) prima del compimento del trentesimo
giorno dalla presentazione della denuncia stessa.”
E il principio della “sensibilità” della DIA alle modifiche
legislative nei trenta giorni tra la presentazione e
l’inizio dell’efficacia, deve trovare applicazione anche
rispetto ad eventuali variazioni delle disposizioni
regolamentari, tra cui la disciplina pianificatoria e le
tariffe degli oneri. Pare quindi corretta la posizione
dell’Amministrazione Comunale laddove ritiene che la nuova
disciplina introdotta con un atto deliberativo che produce
effetti dall'08.01.2008 vada applicato anche alle DIA per le
quali non è decorso il termine di trenta giorni”.
L’impostazione seguita dal giudice di prime cure non appare
però in linea con i più recenti arresti giurisprudenziali e
con le disposizioni legislative successive che, sebbene non
applicabili ratione temporis, servono a meglio
illuminare il tema della disciplina applicabile alla
fattispecie.
Occorre, infatti, rilevare come questo Consiglio abbia posto
fine al dibattito sulla natura dei titoli abilitativi non
provvedimentali in edilizia con la sentenza dell’Adunanza
plenaria 29.07.2011 n. 15 dove, a seguito di un’attenta
ricostruzione delle diverse posizioni sostenute, raffrontate
al quadro normativo in evoluzione, si è affermato che “la
denuncia di inizio attività non è un provvedimento
amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni
caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto
privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere
un'attività direttamente ammessa dalla legge”.
Tale lettura, in senso non provvedimentale, è stata peraltro
immediatamente fatta propria dal legislatore il quale,
introducendo il comma 6-ter dell’art. 19 della legge
07.08.1990, n. 241 “Nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai
documenti amministrativi” tramite l'articolo 6, comma 1,
lettera c), del D.L. 13.08.2011, n. 138, ha espressamente
qualificato tali atti come “non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili”.
In questo senso, appare consequenziale e condivisibile la
ricostruzione della natura del silenzio tenuto
dall’amministrazione (sempre come ritenuto dalla citata
Consiglio di Stato ad. plen. 29.07.2011 n. 15), per cui “il
passaggio del tempo non produce un titolo costitutivo avente
valore di assenso ma impedisce l'inibizione di un'attività
già intrapresa in un momento anteriore”. In tal modo,
appare chiaro che l’efficacia del titolo formatosi in base
all’atto del privato (rectius, la modalità
abilitativa alla realizzazione dell’intervento edilizio) si
determina indipendentemente dal mancato esercizio del potere
di interdizione da parte della pubblica amministrazione,
trattandosi di fattispecie che operano su piani giuridici
diversi.
Deve quindi convenirsi con l’appellante in merito
all’immediato sorgere dell’obbligo di corrispondere gli
oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione in
relazione alla situazione esistente al momento della
presentazione della domanda, vicenda che deve ritenersi
confermata anche dalla particolare disciplina della denuncia
di inizio attività contenuta nella legge regionale (art. 42,
commi 2 e 3, della legge regionale Lombardia n. 12 del
giorno 11.03.2005 “Legge per il governo del territorio”)
che prevede, da un lato, che il calcolo dei dovuti oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione sia allegato già al
momento della presentazione della denuncia di inizio
attività e, in secondo luogo, disponendo che il pagamento
sia effettuato con le modalità previste dalla vigente
normativa che, per gli oneri di urbanizzazione, impone
l’adempimento entro trenta giorni successivi alla
presentazione della denuncia di inizio attività, rendendo
quindi impermeabile la disciplina ai mutamenti disciplinari
successivi
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.09.2012 n. 4669 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Modifica di destinazione ed aggravio del carico
urbanistico.
L'aggravio
urbanistico va considerato in relazione alla interezza della
condotta ed alle finalità perseguite con le realizzazioni
abusive. Il mutamento di destinazione dell'area attraverso
la realizzazione delle opere contestate comporta
evidentemente l'inadeguatezza delle strutture (strade,
fognature, elettrificazione, ecc.) che non possono non
essere diverse tra un'area “verde" ed una adibita a
scopo produttivo per le diverse esigenze delle stesse
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.08.2012 n. 33353 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: La
giurisprudenza prevalente, formatasi in tema di
localizzazione di discariche o comunque di localizzazione di
impianti per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti, è
infatti orientata nel senso di ritenere che l’associazione
ambientale locale sia priva di legittimazione attiva, in
quanto carente del riconoscimento ministeriale previsto
dall’art. 13 della legge 08.07.1986, n. 349.
Più precisamente, si afferma che la speciale legittimazione
delle associazioni a protezione ambientale a ricorrere in
sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di
atti illegittimi ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge
n. 349 del 1986 riguardi l’associazione ambientalistica
nazionale formalmente riconosciuta e non le sue strutture
territoriali, le quali non possono ritenersi munite di
autonoma legittimazione processuale neppure per
l’impugnazione di un provvedimento ad efficacia
territorialmente limitata.
In altri termini, o l’articolazione costituisce un soggetto
a sé stante, ed in tale caso rientra nella sfera di
previsione dell’art. 18 già citato, oppure rappresenta
un’articolazione territoriale dell’associazione, ed in
quanto tale il presidente del club o comitato locale non ha
la rappresentanza dell’associazione nazionale, la sola
legittimata ex lege, né il potere di promuovere la lite per
suo conto ed in suo nome. Secondo un siffatto orientamento,
dunque, il carattere nazionale od ultra regionale
dell’associazione costituisce al tempo stesso presupposto
del riconoscimento e limite della legittimazione speciale,
la quale ha dunque carattere ontologicamente unitario.
Si è anche evidenziato che ove la legittimazione ad agire
discenda direttamente dalla legge, con carattere dunque
eccezionale, neppure la previsione statutaria può assegnare
ad articolazioni interne dell’ente associativo la
contitolarità della predetta legittimazione, che resta in
capo all’ente di carattere nazionale accreditato in sede
ministeriale; ciò in quanto lo statuto non può conferire una
legittimazione che la legge non ha previsto.
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La giurisprudenza prevalente ritiene che la mera vicinanza
di un fondo ad una discarica o ad un impianto di trattamento
di rifiuti non legittimi di per sé il proprietario frontista
ad insorgere avverso il provvedimento od il contegno
autorizzativo dell’opera, essendo necessaria anche la prova
del danno che egli da questa possa ricevere, che,
esemplificativamente, può essere connesso al fatto che la
localizzazione dell’impianto riduce il valore economico del
fondo situato nelle sue vicinanze, od al fatto che le
prescrizioni dettate dall’Autorità competente in ordine alle
modalità di gestione dell’impianto sono inidonee a
salvaguardare la salute di chi vive nelle vicinanze, od
anche all’incremento del traffico veicolare.
La vicinitas, intesa quale stabile e significativo
collegamento del ricorrente con la zona il cui ambiente si
intende proteggere, può fondare la legittimazione al ricorso
(in quanto enuclea la titolarità di una posizione giuridica
differenziata rispetto alla collettività indifferenziata),
ma non anche l’interesse al ricorso, inteso come utilità
concreta ritraibile dall’eventuale accoglimento del ricorso.
La giurisprudenza prevalente, formatasi in
tema di localizzazione di discariche o comunque di
localizzazione di impianti per il trattamento e lo
smaltimento dei rifiuti, è infatti orientata nel senso di
ritenere che l’associazione ambientale locale sia priva di
legittimazione attiva, in quanto carente del riconoscimento
ministeriale previsto dall’art. 13 della legge 08.07.1986, n. 349.
Più precisamente, si afferma che la speciale legittimazione
delle associazioni a protezione ambientale a ricorrere in
sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di
atti illegittimi ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge
n. 349 del 1986 riguardi l’associazione ambientalistica
nazionale formalmente riconosciuta e non le sue strutture
territoriali, le quali non possono ritenersi munite di
autonoma legittimazione processuale neppure per
l’impugnazione di un provvedimento ad efficacia
territorialmente limitata.
In altri termini, o
l’articolazione costituisce un soggetto a sé stante, ed in
tale caso rientra nella sfera di previsione dell’art. 18 già
citato, oppure rappresenta un’articolazione territoriale
dell’associazione, ed in quanto tale il presidente del club
o comitato locale non ha la rappresentanza dell’associazione
nazionale, la sola legittimata ex lege, né il potere di
promuovere la lite per suo conto ed in suo nome. Secondo un
siffatto orientamento, dunque, il carattere nazionale od
ultra regionale dell’associazione costituisce al tempo
stesso presupposto del riconoscimento e limite della
legittimazione speciale, la quale ha dunque carattere
ontologicamente unitario (in termini, tra le tante, Cons.
Stato, Sez. IV, 14.04.2006, n. 2151; Sez. VI, 09.03.2010, n. 1403; Sez. VI,
07.04.2010, n. 1960).
Si è anche
evidenziato, richiamando il precedente di Cons. Stato, Ad. Plen., 11.01.2007, n. 2 (in tema di associazioni di
consumatori, tematica distinta, ma contenutisticamente
simmetrica), che ove la legittimazione ad agire discenda
direttamente dalla legge, con carattere dunque eccezionale,
neppure la previsione statutaria può assegnare ad
articolazioni interne dell’ente associativo la contitolarità
della predetta legittimazione, che resta in capo all’ente di
carattere nazionale accreditato in sede ministeriale; ciò in
quanto lo statuto non può conferire una legittimazione che
la legge non ha previsto (TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
19.10.2011, n. 1481).
Obietta parte ricorrente, nei propri scritti difensivi, che,
al di là della legittimazione legale ex artt. 13 e 18 della
legge n. 349 del 1986, vi sia spazio per riconoscere anche
una legittimazione ordinaria alle associazioni
ambientalistiche che godano di un adeguato grado di
stabilità e rappresentatività in un ambito territorialmente
limitato.
Su tale questione si registra in giurisprudenza qualche
oscillazione, nel senso che talune pronunce affermano che il
giudice amministrativo può riconoscere, caso per caso,
legittimazione ad impugnare atti amministrativi incidenti
sull’ambiente anche ad associazioni a carattere locale, che
perseguano, conformemente al loro statuto, in modo non
occasionale, obiettivi di tutela ambientale, avendo altresì
un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in
un’area di afferenza riconducibile alla zona ove si colloca
il bene a fruizione collettiva che si asserisce leso (Cons.
Stato, Sez. IV, 08.11.2010, n. 7907).
Al contrario, altra parte della giurisprudenza afferma che
dopo l’entrata in vigore della legge n. 349 del 1986 non vi
è più spazio per il riconoscimento della legittimazione
processuale in capo ad associazioni diverse da quelle
rientranti nella previsione dell’art. 13 della legge stessa,
in quanto la pregressa costruzione giurisprudenziale è stata
elaborata per risolvere il problema della tutela processuale
dei ridetti interessi “diffusi”, per i quali all’epoca non
esistevano meccanismi normativi che autorizzassero
particolari soggetti ad invocare tale tutela; una volta che
il legislatore è intervenuto con la previsione di una
legittimazione ex lege, si esaurisce l’ambito della tutela
processuale riconosciuta dall’ordinamento (Cons. Stato, Sez.
IV, 28.03.2011, n. 1876).
Entrambe le soluzioni presentano profili di coerenza
sistematica.
Nel caso di specie, peraltro, anche a volere seguire
l’indirizzo meno restrittivo, osserva il Collegio che in
capo al ricorrente Club della Teverina difettano i requisiti
per riconoscergli autonoma legittimazione, e non già come
articolazione territoriale di un’associazione nazionale. A
questo riguardo, la giurisprudenza richiede che le
associazioni locali perseguano statutariamente, in modo non
occasionale, obiettivi di tutela ambientale, e posseggano un
adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un’area
di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il
bene che si assume leso (Cons. Stato, Sez. VI, 26.07.2001, n. 4123).
L’Associazione Amici della Terra-Club della Teverina non
possiede il carattere di ente esponenziale in via stabile e
continuativa di interessi diffusi radicati sul territorio,
essendo sorto solamente nel marzo 2010, cioè circa due mesi
prima della proposizione del presente ricorso, per effetto
della confluenza in esso del comitato spontaneo “Salviamo il
basso Tevere”; e non basta il mero scopo associativo a
rendere differenziato un interesse diffuso od adespota,
facente capo alla popolazione nel suo complesso, quale la
salvaguardia dell’ambiente (cfr. art. 2 dello Statuto), in
quanto, diversamente, si eluderebbe il divieto di azione
popolare (in termini Cons. Stato, Sez. V, 14.06.2007, n.
3192).
Al difetto di legittimazione attiva dell’associazione
ricorrente si accompagna quella, anche in proprio, del suo
legale rappresentante dr. Claudio Cesaretti, che non ha
allegato la titolarità di alcuna situazione giuridica
soggettiva specifica.
Si deve ora procedere allo scrutinio dell’eccezione di
difetto di legittimazione e di interesse al ricorso dei sigg.ri Morresi e Tata, argomentata dalle parti resistenti
nella considerazione dell’inadeguatezza della mera
allegazione di essere residenti a Giove e proprietari di
terreni situati nelle immediate vicinanze del sito ove è in
corso di realizzazione il biodigestore (la cui opera,
peraltro, gli stessi ricorrenti, con la memoria di
discussione, precisano essere interrotta, ed il cantiere
abbandonato da più di un anno e mezzo), senza provare il
danno arrecato nella loro sfera giuridica.
Anche tale eccezione appare meritevole di positiva
valutazione.
Occorre infatti considerare come la giurisprudenza
prevalente ritenga che la mera vicinanza di un fondo ad una
discarica o ad un impianto di trattamento di rifiuti non
legittima di per sé il proprietario frontista ad insorgere
avverso il provvedimento od il contegno autorizzativo
dell’opera, essendo necessaria anche la prova del danno che
egli da questa possa ricevere, che, esemplificativamente,
può essere connesso al fatto che la localizzazione
dell’impianto riduce il valore economico del fondo situato
nelle sue vicinanze, od al fatto che le prescrizioni dettate
dall’Autorità competente in ordine alle modalità di gestione
dell’impianto sono inidonee a salvaguardare la salute di chi
vive nelle vicinanze, od anche all’incremento del traffico
veicolare (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2012, n. 2460; Sez. V, 16.06.2009, n. 3849; Sez.
V, 20.05.2002, n. 2714).
I ricorrenti, nella memoria di discussione, deducono che la
prova del pregiudizio non può essere fornita a priori,
essendo celata dal lamentato difetto di istruttoria,
dovendosi dunque radicare l’interesse nel solo criterio
della vicinitas.
Tale assunto non è peraltro condivisibile, in quanto la
vicinitas, intesa quale stabile e significativo collegamento
del ricorrente con la zona il cui ambiente si intende
proteggere (così Cons. Stato, Sez. V, 26.02.2010, n.
1134), può fondare la legittimazione al ricorso (in quanto
enuclea la titolarità di una posizione giuridica
differenziata rispetto alla collettività indifferenziata),
ma non anche l’interesse al ricorso, inteso come utilità
concreta ritraibile dall’eventuale accoglimento del ricorso.
Sotto questo profilo, anch’esso attinente ad una condizione
dell’azione, il sindacato di legittimità su di un
provvedimento preordinato alla cura di interessi generali
che nel territorio trovano la loro esplicazione può essere
provocato da un soggetto che agisce uti singulus solo
prospettando il pregiudizio specifico che astrattamente
viene prodotto nella sfera giuridica del ricorrente, senza,
ovviamente, dover provare l’effettività del danno subendo.
Si consideri, in questa prospettiva, che l’impianto
contestato, per il quale è stata presentata la D.I.A. n.
162/2010, ha una capacità di generazione inferiore a 1 MW (è
dunque un impianto di piccola cogenerazione), il che ne
giustifica la sottoposizione, per l’installazione e per
l’esercizio, al regime semplificato della D.I.A. ai sensi
dell’art. 27, comma 20, della legge n. 99 del 2009.
Inoltre l’area in cui l’impianto dovrà essere collocato è
classificata dal piano regolatore come “area agricola
marginale”, compatibile dunque con l’intervento finalizzato
alla produzione di energia da fonti rinnovabili.
Ed, ancora, si può evincere dalla documentazione tecnica in
atti, ed inoltre è ribadito costantemente negli scritti
difensivi della Tiber Eko S.r.l., con riferimento tanto allo
statuto societario, quanto alle caratteristiche tecniche
dell’impianto progettato, che lo stesso produce energia
elettrica ed energia termica da prodotti agricoli.
Di qui la conseguenza che il nuovo impianto non appare in
grado di determinare un deterioramento ambientale (e,
conseguentemente, un significativo deprezzamento di valore
economico) dell’area in misura non proporzionata alla
vocazione urbanistica della stessa
(TAR Umbria,
sentenza 28.08.2012 n. 334 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Rifiuti plastici.
Anche i teloni e i film di protezione dei prodotti agricoli
non costituiscono “imballaggio" bensì oggetti a
composizione plastica destinati a supportare le attività
agricole produttive; con la conseguenza che tali oggetti,
indipendentemente dalla operatività del decreto 02/05/2006
del Ministero dell'Ambiente e del Territorio, una volta
cessato il loro ciclo di impiego, vanno considerati rifiuti
destinati possibilmente al recupero.
Il mancato conferimento ai consorzio Polieco di rifiuti
plastici non può allo stato essere considerato condotta
antigiuridica e valutabile come “abusiva" nei termini
integrativi della fattispecie incriminatrice ex art. 260
d.lgs. 152/2006.
I trasporti di rifiuti plastici non pericolosi destinati a
impianti di recupero operanti all'interno della Repubblica
popolare cinese debbono rispettare le formalità e le
garanzie richieste, con conseguente illiceità anche per
l'ordinamento italiano delle relative violazioni
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.07.2012 n. 30793 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Soggetto danneggiato e persona offesa.
Con riguardo
alla materia edilizio-urbanistica, stante la natura
monooffensiva del reato edilizio-urbanistico, unico soggetto
che può assumere la veste di persona offesa dal reato è la
Pubblica Amministrazione in quanto soggetto titolare di
interessi attinenti alla tutela del territorio protetti
norma incriminatrice, mentre il privato che dalla
costruzione possa subire un danno assume la veste di persona
danneggiata dal reato.
Da qui la mancanza di legittimazione alla opposizione
avverso la richiesta di archiviazione in capo al soggetto
privato danneggiato dal reato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.07.2012 n. 30483 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Veicoli fuori uso.
I veicoli
fuori uso devono essere inutilizzabili come tali per poter
essere assoggettati alla disciplina normativa sui rifiuti,
anche qualora non siano ancora privi di valore economico (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.07.2012 n. 30128 -
tratto da www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Gare, sulle false dichiarazioni Autorità LL.PP.
senza poteri investigativi.
Nelle gare d'appalto l'Autorità di vigilanza può soltanto
accertare se la notizia comunicata dalla Stazione appaltante
sia conferente ovvero se la falsità sia innocua o se la
stessa abbia ad oggetto fatti e circostanze irrilevanti ai
fini della aggiudicazione della selezione.
Con
sentenza 16.07.2012 n. 4160,
la VI Sez. del Consiglio di Stato ha affermato che nelle
gare d'appalto l'art. 48 comma 2 D.L.vo 12.04.2006 n. 163
non impone all’Autorità di vigilanza di svolgere
accertamenti ulteriori, rispetto alla falsità della
dichiarazione, finalizzati a verificare la sussistenza del
requisito oggettivo della gravità della violazione e a
prendere in esame la «situazione soggettiva del
dichiarante».
Per i giudici di Palazzo Spada l’Authority può soltanto
accertare se la notizia comunicata dalla Stazione appaltante
sia inconferente ovvero se la falsità sia innocua o se la
stessa abbia ad oggetto fatti e circostanze irrilevanti ai
fini della aggiudicazione della selezione.
Al riguardo, è stato rilevato che l’art. 48, secondo comma,
del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede, in particolare, che le
stazioni appaltanti richiedono, tra gli altri,
all’aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria
di comprovare il possesso dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e tecnico organizzativa eventualmente
richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione
indicata in detto bando o nella lettera di invito.
Qualora tale prova non sia fornita ovvero non confermi le
dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o
nell’offerta l’Autorità può adottare determinati
provvedimenti sanzionatori.
In particolare, può disporre la sospensione dell’impresa,
per un periodo da uno a dodici mesi, dalla partecipazione
alle procedure di affidamento, nonché irrogare una sanzione
amministrativa fino ad euro 25.822,00 ovvero, in presenza di
informazioni o documenti falsi, fino ad euro 51.545,00.
Nel caso deciso con sentenza n 4160/2012, il provvedimento
sanzionatorio conteneva una articolata motivazione relativa
all’accertamento della falsità della dichiarazione e della
sua oggettiva rilevanza.
Pertanto, il giudice amministrativo non ha ritenuto che
fosse necessario svolgere ulteriori accertamenti a cura
dell’Autorità di vigilanza (commento tratto da www.ispoa.it
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Risarcimento danni per occupazione abusiva:
dipende dalla colpa della PA.
L'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in
sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica
la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla
luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e
della gravità delle violazioni imputabili
all'Amministrazione.
Con
sentenza 10.07.2012 n. 4089, la IV Sez. del
Consiglio di Stato ha affermato i seguenti principi.
L'azione di risarcimento conseguente all'annullamento in
sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo implica
la valutazione dell'elemento psicologico della colpa, alla
luce dei vizi che inficiavano il provvedimento stesso e
della gravità delle violazioni imputabili
all'Amministrazione, secondo l'ampiezza delle valutazioni
discrezionali rimesse all' organo amministrativo, nonché
delle condizioni concrete in cui ha operato la P.A, non
essendo il risarcimento una conseguenza automatica della
pronuncia del giudice della legittimità.
Affinché possa configurarsi la responsabilità della pubblica
amministrazione è sufficiente la colpa, anche lieve,
dell'apparato amministrativo.
Ai fini della responsabilità risarcitoria
dell'Amministrazione a seguito di annullamento di un
provvedimento amministrativo illegittimo, il privato
danneggiato può invocare l'illegittimità del provvedimento
quale indice presuntivo della colpa o anche allegare
circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato
di un errore non scusabile, spettando poi
all'Amministrazione dimostrare che si è invece trattato di
errore scusabile.
Il giudice investito della domanda per il conseguimento del
risarcimento del danno da fatto illecito non può condannare
il convenuto al pagamento di un indennizzo per atto
legittimo, in quanto in tal modo non si opera una mera
qualificazione della domanda, ma si pronuncia su domanda
diversa per "causa petendi" e "petitum",
tenendo presente che il potere-dovere del giudice di
qualificare correttamente la domanda non consente di
sostituire la domanda proposta con una diversa, fondata su
altra "causa petendi", e dunque di introdurre nel
tema controverso nuovi elementi di fatto, trattandosi di
passare da una fattispecie incentrata sul fatto colposo o
doloso a una riguardante un fatto esente da colpa.
In caso di danno illegittimo per spossessamento di un bene,
rileva l’elemento soggettivo della condotta, tenendo
presente che nella materia non vige un sistema
indifferenziato di responsabilità, tale per cui si può
giungere alla qualificazione del fatto generatore del danno
quale illecito prescindendosi, al contempo dall’accertamento
del requisito della colpa ai fini della risarcibilità del
medesimo, dovendosi precisare che il principio contenuto
nell'art. 1147 Cod. civ., in forza del quale la buona fede è
presunta, vige in tema di responsabilità contrattuale ma non
nell'ipotesi di danno da occupazione appropriativa, con
conseguente trasformazione del bene del privato, che
costituisce fatto illecito e conseguente operatività delle
regole della responsabilità extracontrattuale le quali
implicano che:
a) provata l’illegittimità della condotta, debba, tuttavia,
sussistere anche la prova dell’elemento soggettivo;
b) la prova è “facilitata” dalla oggettiva
circostanza dell’avvenuto illegittimo spossessamento, ed al
privato danneggiato non pertiene l’onere di dimostrare che
l’amministrazione abbia agito con negligenza, imprudenza
imperizia;
c) tuttavia, in ossequio ai principi generale espresso
dall'art. 2043 Cod. civ. la stessa Amministrazione può non
soggiacere a conseguenze risarcitorie laddove dimostri che
nessuna ipotesi di condotta colposa può esserle ascritta
(commento tratto da www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
ORDINE DI DEMOLIZIONE NON APPLICABILE PER LA
VIOLAZIONE DELL’ART. 44, LETT. A), D.P.R. N. 380/2001.
L’art. 31, comma 9, D.P.R. n. 380/2001,
nell’imporre al giudice l’obbligo di ordinare, con la
sentenza di condanna, la demolizione delle opere di cui al
presente articolo, si riferisce esclusivamente al tipo di
abusi edilizi previsti dall’intitolazione dell’articolo
medesimo, meglio descritti nel primo comma con riferimento
all’ipotesi della totale difformità dal permesso di
costruire; ne consegue che non rientrano nella predetta
previsione normativa gli abusi minori (puniti ai sensi
dell’art. 44, comma 1, lett. a), del citato decreto) per i
quali le sanzioni amministrative, costituite dal ripristino
dello stato dei luoghi o dalla irrogazione di una sanzione
pecuniaria sostitutiva, ai sensi dell’art. 34 del Testo
Unico, restano di esclusiva competenza della pubblica
Amministrazione, mentre l’autorità giudiziaria può solo
irrogare la pena dell’ammenda comminata dalla norma.
Particolare il tema affrontato dalla Suprema Corte con la
sentenza
in esame, riguardante l’esistenza o meno di un obbligo
per il giudice penale di disporre l’ordine di demolizione
del
manufatto abusivo in relazione alla violazione ‘‘semplice’’,
punita solo con l’ammenda, di cui all’art. 44, comma 1,
lett.
a), del T.U. edilizia.
La vicenda processuale segue ad una
sentenza di condanna nei confronti di un imputato cui era
stato contestato di avere realizzato un manufatto in zona
sismica,
ubicandolo su un terrapieno in posizione diversa da
quella prevista dal permesso di costruire, senza avere
denunciato
l’inizio dei lavori alle competenti autorità e senza
avere ottenuto la prescritta autorizzazione dall’Ufficio
Tecnico
Regionale in relazione alla diversa ubicazione
dell’immobile;
per l’effetto, unitamente alla condanna era stata ordinata
dal giudice la demolizione del manufatto abusivo.
La difesa
censurava la sentenza, muovendo doglianza per violazione
di legge, in particolare sostenendo che il giudice di
merito,
avendo derubricato l’imputazione di cui all’art. 44, comma
1,
lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001 nella fattispecie di cui
alla
lett. a) del citato articolo non avrebbe potuto disporre la
demolizione
del manufatto abusivo ai sensi dell’art. 31, comma
9, del Testo Unico.
La tesi è stata accolta dai giudici di Piazza Cavour i
quali, in
particolare, hanno affermato che l’art. 31, comma 9, T.U.
edilizia, nell’imporre al giudice l’obbligo di ordinare, con
la
sentenza di condanna, la demolizione delle opere di cui al
presente articolo, si riferisce esclusivamente al tipo di
abusi
edilizi previsti dall’intitolazione dell’articolo medesimo,
meglio
descritti nel primo comma con riferimento all’ipotesi della
totale difformità dal permesso di costruire.
Non rientrano,
pertanto, nella previsione normativa dell’art. 31 gli abusi
minori,
puniti ai sensi della lett. a) dell’art. 44 citato; per tali
violazioni,
infatti, le sanzioni amministrative costituite dal
ripristino
dello stato dei luoghi o dalla irrogazione di una sanzione
pecuniaria sostitutiva, ai sensi dell’art. 34 del Testo
Unico,
restano di esclusiva competenza della pubblica
amministrazione,
mentre l’autorità giudiziaria può solo irrogare la pena
dell’ammenda comminata dalla norma (in precedenza,
sull’illegittimità dell’ordine di demolizione in tale
ipotesi, v.:
Cass. pen., sez. III, 14.11.2011, n. 41423, in Ced.
Cass., n. 251326) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.06.2012 n. 21274
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 7-8/2012). |
URBANISTICA:
LOTTIZZAZIONE ABUSIVA E PERMANENZA DELL’ILLECITO
LOTTIZZATORIO NELL’IPOTESI DI REATO PLURISOGGETTIVO.
Nell’ipotesi di carattere
plurisoggettivo del reato di lottizzazione abusiva, che
implica nella quasi totalità dei casi la partecipazione di
un venditore lottizzatore e di vari acquirenti, occorre
applicare i principi generali vigenti in materia, per cui la
permanenza continua per ogni concorrente sino a che perdura
la sua condotta volontaria e la sua possibilità di far
cessare la condotta antigiuridica dei concorrenti. Ne
consegue che:
a) il concorso del venditore lottizzatore permane sino a
quando continua l’attività edificatoria eseguita dagli
acquirenti nei singoli lotti edificatori;
b) il concorso degli acquirenti dei singoli lotti proseguirà
nella sua permanenza sino a quando continuerà l’attività
edificatoria nel proprio lotto e la realizzazione di opere
di urbanizzazione nell’area interessata alla lottizzazione,
non potendo, invece, il singolo acquirente rispondere
dell’ulteriore attività edificatoria realizzata negli altri
lotti.
Sicuramente di estremo interesse la questione giuridica
affrontata dalla Suprema Corte in relazione alla
individuazione
del momento di cessazione della permanenza dell’illecito
lottizzatorio
per il singolo concorrente, in ipotesi di realizzazione
concorsuale del reato di lottizzazione abusiva. La vicenda
processuale segue ad un sequestro preventivo interessante
un’area che -secondo gli strumenti urbanistici vigenti
nella
zona- era classificata in parte come F, zona turistica ed
in
parte come zona agricola, parte della quale ricadeva nella
fascia
di 300 metri dalla linea della battigia marina.
La predetta
area, in origine, era di proprietà in prevalenza di
un’unica persona,
poi trasferita per successione, a seguito della morte di
quest’ultimo, ai propri figli. In epoca prossima agli anni
1970
e successivi, la famiglia aveva iniziato a frazionare
l’intera
proprietà, vendendo singoli lotti a terzi acquirenti che
avevano
poi realizzato manufatti ad uso residenziale, il tutto senza
essere muniti dei prescritti titoli abilitativi, ossia
permesso di
costruire ed autorizzazione paesaggistica.
L’indagata, con
atto
di compravendita del 2003, aveva acquistato un terreno
nell’area de qua ed aveva realizzato un immobile tipo
abitativo,
con veranda e lastrico, di circa 60 mq, manufatto del tutto
abusivo. Detto immobile si inseriva nelle opere abusive
che avevano contribuito alla trasformazione, urbanistica ed
edilizia del territorio in esame, in violazione delle
prescrizioni
degli strumenti urbanistici vigenti nella zona (D.P.R. n.
380
del 2001, art. 31), con conseguente sussistenza degli
elementi
costitutivi del reato di lottizzazione abusiva tipo mista,
realizzata a partire dagli anni 1970-1980 all’attualità.
Il Tribunale
del riesame -quanto all’eccezione di prescrizione del
reato de quo, dedotta dalla difesa della ricorrente, secondo
cui la realizzazione dell’immobile sarebbe stata ultimata in
epoca remota- respingeva la stessa affermando che la
lottizzazione
abusiva, tipo ‘‘mista’’ (come quella in esame) costituiva
un reato permanente a carattere progressivo nell’evento,
che non si esauriva con il primo atto con cui veniva
frazionata
l’area, bensì proseguiva nelle successive fasi in cui
si evolveva, sino alla ultimazione di tutti gli immobili
realizzati
nei singoli lotti in cui era stata frazionata l’area.
La
difesa
contestava in Cassazione l’ordinanza di rigetto dell’istanza
di
riesame, sostenendo come necessitasse accertare -ai fini
dell’individuazione della cessazione o meno della permanenza
del reato di lottizzazione abusiva nei confronti
dell’indagata,
quale acquirente del lotto acquistato dall’originario
venditore
lottizzatore- in modo concreto ed esaustivo, l’epoca
non solo dell’ultimazione dell’immobile edificato
dall’indagata,
ma anche la data di realizzazione (se realizzate) delle
opere
di urbanizzazione interessanti la zona in questione.
La tesi ha convinto i giudici della Suprema Corte che hanno
accolto il ricorso della difesa, affermando come
nell’ipotesi
di carattere plurisoggettivo del reato (come nella specie),
che implica nella quasi totalità dei casi la partecipazione
di
un venditore lottizzatore e di vari acquirenti, occorre
applicare
i principi generali vigenti in materia, per cui la
permanenza
continua per ogni concorrente sino a che perdura la sua
condotta
volontaria e la sua possibilità di far cessare la condotta
antigiuridica dei concorrenti.
Ne deriva, quindi, che:
a) il
concorso
del venditore lottizzatore permane sino a quando continua
l’attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei
singoli
lotti edificatori;
b) il concorso degli acquirenti dei
singoli lotti
proseguirà nella sua permanenza sino a quando continuerà
l’attività edificatoria nel proprio lotto e la
realizzazione di opere
di urbanizzazione nell’area interessata alla lottizzazione.
Non può, invece, il singolo acquirente rispondere
dell’ulteriore
attività edificatoria realizzata negli altri lotti (v., da
ultimo,
sulla natura permanente del reato: Cass. pen., sez. III, 20.05.2011, n. 20006, in Ced. Cass., n. 250387) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.06.2012 n. 21714
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 7-8/2012). |
URBANISTICA:
LOTTIZZAZIONE EDILIZIA E NOZIONE DI
TRASFORMAZIONE EDILIZIA.
Per ‘‘trasformazione edilizia’’ idonea
ad integrare il reato di lottizzazione abusiva (artt. 30 e
44, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 380/2001) deve intendersi
il conferimento all’area di un diverso assetto territoriale,
attraverso impianti di interesse privato e di interesse
collettivo, in modo da creare una nuova maglia di tessuto
urbano.
La Corte di Cassazione si pronuncia, con la sentenza in
esame,
sul tema della configurabilità del reato di lottizzazione
abusiva di terreni a scopo edificatorio, chiarendo, in
particolare,
cosa debba intendersi per ‘‘trasformazione edilizia’’ di
un terreno ai fini della configurabilità dell’illecito
lottizzatorio.
La vicenda processuale vedeva imputati il committente dei
lavori (nonché proprietario e comodatario dei terreni
interessati
dall’attività edilizia) nonché l’amministratore unico
della
società che, quale dante causa della proprietaria attuale
dei
terreni, aveva ottenuto i titoli abilitativi necessari alla
realizzazione
di alcune opere.
Le opere abusive che avevano determinato la
lottizzazione abusiva -secondo la contestazione-
erano consistite:
a) nella realizzazione di un rimessaggio
all’aperto
per mezzi agricoli;
b) nella realizzazione di un autoparco
con annesso autolavaggio e costruzione di servizi (ossia,
box in latero-cemento ed alloggio per custode) in relazione
ad altro terreno.
I giudici di merito avevano ritenuto la
sussistenza del reato di lottizzazione abusiva, per tre
ragioni:
1) che gli imputati avevano conferito alle due porzioni del
territorio
un assetto diverso da quello pianificato dal PRG con
modalità non consentite neanche attraverso la
predisposizione
di un piano di lottizzazione;
2) che le aree destinate a
parcheggio
ricadevano in una maglia destinata dalle NTA alle attività
primarie;
3) che la trasformazione dei due terreni agricoli,
estesi oltre 20.000 mq ciascuno, in rimessaggi industriati
(veicoli agricoli e commerciali) uno dei quali dotato anche
degli impianti tecnologici per il lavaggio dei mezzi, aveva
determinato la necessità di predisporre opere di
urbanizzazione
primaria.
Contro la sentenza di condanna proponevano
ricorso per cassazione i due imputati, sostenendo, in
particolare,
la non configurabilità dell’illecito lottizzatorio.
La Corte ne ha condiviso le argomentazioni. Ed infatti, ha
affermato
che per trasformazione edilizia si deve intendere il
conferimento all’area di un diverso assetto territoriale,
attraverso
impianti di interesse privato e di interesse collettivo, in
modo da creare ‘‘una nuova maglia di tessuto urbano’’. Detta
ipotesi concreta, secondo gli Ermellini, non si era
verificata
nella fattispecie in esame, con conseguente esclusione di
una specifica autorizzazione alla lottizzazione o di piano
esecutivo
di urbanizzazione.
Invero, si afferma, la realizzazione
del parcheggio e del rimessaggio privato (non pubblico) per
veicoli industriali e civili (in base alle opere sino ad
allora realizzate),
non implicava vere e proprie opere di nuova urbanizzazione,
non essendo univocamente funzionale ad un nuovo
assetto urbanistico e non era perciò tale da interferire
con la
riserva pubblica di programmazione territoriale (sulla
nozione
di ‘‘trasformazione edilizia’’, rilevante ex art. 30, comma
1, D.P.R. n. 380 del 2001, non constano precedenti) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.06.2012 n. 21698
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 7-8/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
NOZIONE DI COSTRUZIONE EDILIZIA E
CONFIGURABILITA` DEL REATO URBANISTICO.
Sono assoggettati al regime del permesso
di costruire tutti gli interventi che incidono sull’assetto
del territorio, comportando una trasformazione urbanistica
ed edilizia del territorio comunale, rientrando nella figura
giuridica di costruzione (per la quale occorre, ex art. 10,
comma 1, lett. a), D.P.R. n. 380/2001, il premesso di
costruire), le opere di ogni genere con le quali
s’intervenga sul suolo o nel suolo, senza che abbia
rilevanza la circostanza che i manufatti non siano costruiti
in muratura oppure che abbiano modesta consistenza e ancora
che non comportino incremento del carico insediativo, se
idonei a modificare lo stato dei luoghi.
Certamente interessante la questione giuridica affrontata
dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento, con
cui la Corte si sofferma sul tema della configurabilità
dell’illecito edilizio, in presenza di interventi sulla cui
qualificazione come ‘‘costruzioni’’ sarebbe lecito
dubitare.
La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario di un
immobile per avere, senza permesso di costruire e in zona
sismica e vincolata, previa demolizione della copertura a
falda inclinata del primo piano di una palazzina, costruito
un muro perimetrale al secondo piano sovrastato da un nuovo
solaio di copertura sì da ricavare un’unità abitativa di
circa 13 mq. Condannato in sede di merito, questi proponeva
ricorso per cassazione, sostenendo:
a) che il realizzato manufatto, esteso appena 13 mq, aveva
dimensioni modeste e non aveva mutato la sagoma e il volume
dell’edificio;
b) che la soprintendenza BBCCAA aveva riscontrato che la
sagoma esterna dell’edificio non era stata modificata e che
non era pregiudicato l’assetto urbanistico della zona;
c) che l’intervento, definibile di manutenzione
straordinaria, era stato eseguito per eliminare
infiltrazioni d’acqua piovana;
d) che l’intervento costituiva recupero a fini abitativi di
un sottotetto ai sensi della legge regionale di riferimento,
essendo state rispettate le altezze di colmo e di gronda.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che hanno
rigettato il ricorso, osservando come la prescrizione
dell’obbligo di munirsi della concessione edilizia a
costruire persegue le finalità di controllo del territorio e
di corretto uso dello stesso ai fini urbanistici e edilizi,
sicché sono assoggettati al regime del permesso di costruire
tutti gli interventi che incidono sull’assetto del
territorio, comportando una trasformazione urbanistica e
edilizia del territorio comunale.
Il manufatto in questione, a giudizio della Cassazione,
rientra nella figura giuridica di ‘‘costruzione’’,
occorrendo il permesso di costruire per le opere di ogni
genere con le quali s’intervenga sul suolo o nel suolo,
senza che rilevi la circostanza secondo cui i manufatti non
siano costruiti in muratura oppure che abbiano modesta
consistenza e ancora che non comportino incremento del
carico insediativo, se idonei a modificare lo stato dei
luoghi (in precedenza, sulla questione, v.: Cass. pen., sez.
III, 23.12.1997, n. 12022, in Ced. Cass., n. 209199) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.05.2012 n.
20884 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 7-8/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: (NON) DISAPPLICAZIONE DELL’ATTO AMMINISTRATIVO E RILEVANZA
DELL’ABUSIVITA` DELL’INTERVENTO.
Gli strumenti normativi urbanistici, ed,
in particolar modo, le norme tecniche di attuazione del
piano regolatore generale (come pure il regolamento edilizio
o la concessione edilizia) costituiscono il parametro
organico per l’accertamento della liceità o meno dell’opera
edilizia.
Ne consegue che, a fronte di un’accertata aporia dell’opera
edilizia rispetto agii strumenti normativi urbanistici
ovvero alle norme tecniche di attuazione del piano
regolatore generale, il giudice penale deve ugualmente
concludere per la illiceità penale anche se sia stato
rilasciato il permesso di costruire, perché quest’ultimo,
nel suo contenuto, nonché per le caratteristiche strutturali
e formali dell’atto, non è idoneo a definire
esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio
dell’opera realizzanda senza rinviare al quadro delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle stesse
rappresentazioni grafiche del progetto, a seguito della cui
approvazione, tale atto amministrativo viene emesso.
Senza alcun dubbio di particolare interesse la questione
affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame,
relativa alla esistenza o meno del potere di disapplicazione
da parte del giudice penale in presenza di un titolo
abilitativo illegittimo.
La vicenda processuale vedeva
indagato un soggetto
per violazioni edilizie verificatesi in una vicenda alquanto
complessa che aveva avuto origine nel 1983 quando,
nell’ambito
di un progetto di ampliamento di una via comunale,
era stato disposto l’esproprio di vari fabbricati tra i
quali quello
appartenente alla famiglia dell’indagato. Solo per uno era
prevista la ricostruzione integrale, mentre, per gli altri,
era
stata disposta la corresponsione di un indennizzo che, però
,
non venne confermata in sede di consiglio comunale. Per tale
ragione, si instaurò un lungo contenzioso tra il comune e
gli eredi del proprietario originario, all’esito del quale,
tra le
parti, intervenne un accordo transattivo secondo cui gli
eredi
avrebbero rinunciato alla retrocessione della parte di fondo
espropriata ed avrebbero, in cambio, accettato la
corresponsione
di una somma pari a circa 900.000 euro a titolo di
risarcimento
danni.
Nonostante ciò , in base ad una norma delle
IM.T.A. al PRG, venne prevista anche la possibilità di
ricostruzione
nel rispetto della cubatura e del numero dei piani
originari del fabbricato preesistente di mc. 1308,56, a suo
tempo demolito nell’ambito dei piano di esproprio;
conseguentemente,
gli eredi ottennero di poter edificare, in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico ex art. 131, D.Lgs. n.
42/2004, tre villette ad uso residenziale per mc. 1308,56, con
suddivisione in tre autonomi lotti di cui due complete e, la
terza, in corso di costruzione. Dal momento che, però , il
fabbricato
residenziale preesistente aveva una cubatura minore,
pari a 900 mc., venne aperto procedimento penale per
costruzione
edilizia abusiva che portò all’emissione di un primo
decreto di sequestro preventivo da parte del GIP con cui fu
sottoposto a vincolo parte dell’immobile, in misura pari a
mc.
408,56, vale a dire, quella eccedente i 900 mc. consentiti.
Successivamente, il PM chiese ed ottenne dal GIP nuovo
provvedimento ablatorio relativamente ai rimanenti 900 mc.;
la decisione muoveva dal presupposto che il permesso di
costruire dovesse essere considerato illegittimo in quanto
fondato su una norma di PRG che gli stessi consulenti
tecnici
del PM avevano definito norma ‘‘anomala’’ e che, sulla base
delle indagini, doveva essere considerata frutto di accordo
illecito perché inserita su esplicita richiesta degli
amministratori
e verosimilmente del responsabile dell’ufficio tecnico
dell’epoca. Il tribunale del riesame aveva, invece, disposto
il dissequestro e la restituzione agli aventi diritto.
Contro
tale provvedimento, pertanto, proponeva ricorso il PM
censurando,
per quanto qui di interesse, la decisione del tribunale,
ritenuta erronea in quanto la stessa si fonderebbe
sull’equiparazione
tra atto non disapplicabile ed atto, dunque,
esistente e legittimo laddove, per contro, anche la
giurisprudenza
di legittimità si è orientata verso una tutela sostanziale
del territorio conferendo, cioè, al giudice penale un
potere
accertativo circa la illegittimità del permesso di
costruire che
costituisce un elemento normativo della fattispecie penale.
La prospettazione accusatoria è stata ritenuta fondata
dalla
Cassazione. In particolare, i giudici di legittimità hanno
affermato
che gli strumenti normativi urbanistici, ed, in particolar
modo, le norme tecniche di attuazione del piano regolatore
generale (come pure il regolamento edilizio o il permesso di
costruire) costituiscono il parametro organico per
l’accertamento
della liceità o meno dell’opera edilizia, sicché a fronte
di un’accertata aporia dell’opera edilizia rispetto agli
strumenti
normativi urbanistici ovvero alle norme tecniche di
attuazione
del piano regolatore generale, il giudice penale deve
ugualmente concludere per la illiceità penale anche se
sia stato rilasciato il permesso di costruire, perché
quest’ultimo,
nel suo contenuto, nonché per le caratteristiche
strutturali
e formali dell’atto, non è idoneo a definire
esaurientemente
lo statuto urbanistico ed edilizio dell’opera realizzanda
senza rinviare ai quadro delle prescrizioni degli strumenti
urbanistici
ed alle stesse rappresentazioni grafiche del progetto,
a seguito della cui approvazione, tale atto amministrativo
viene emesso (v., sul punto, per tutte, la celeberrima:
Cass.
pen., Sez. Un., 21.12.1993, n. 11635, in Ced. Cass., n.
195359) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.05.2012 n. 20673
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 7-8/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
INIZIO DEI LAVORI DI COSTRUZIONE E MOMENTO
IDENTIFICATIVO.
Si configura inizio di lavori di
costruzione ogni volta che le opere intraprese, di qualsiasi
tipo esse siano e quale che sia lo loro entità , manifestino
oggettivamente un’effettiva volontà di realizzare un
manufatto. Il proposito criminoso si realizza anche nella
fase, necessariamente prodromica e funzionale, dell’armatura
dei pilastri con l’installazione delle gabbie di ferro e
della carpenteria di contenimento.
La Cassazione si pronuncia, con la sentenza in commento,
sulla questione dell’individuazione del momento in cui può
affermarsi, senza rischio di errore percettivo, che siano
effettivamente iniziati i lavori di costruzione di un
immobile abusivo.
La vicenda processuale segue al decreto di sequestro
preventivo di un cantiere e di una rampa di collegamento
stradale; in particolare, al titolare di una s.r.l. era
stato contestato di avere proseguito i lavori, mediante
accumulo di un rilevato di mq. 4.000, alto in media metri
2.5 e costituito da materiale da scavo, nonostante
l’ordinanza di sospensione immediata dei lavori adottata dal
responsabile del Settore servizi tecnici del Comune e di
altra ordinanza di sospensione immediata dei lavori
notificatagli a distanza di pochi mesi dalla prima.
Si contestava, ancora, di avere realizzato, in zona
vincolata, una rampa di collegamento tra due comparti senza
avere conseguito il permesso di costruire e il nullaosta
paesaggistico procedendo anche al taglio di essenze non
protette, non rilevando la presentazione di una SCIA perché
i lavori erano stati eseguiti in zona sottoposta a vincolo
d’inedificabilità e paesaggistico; in particolare, era
irrilevante se la SCIA presentata fosse sostitutiva o
integrativa di quella presentata precedentemente; infine,
era infondata la tesi difensiva che la prodotta
documentazione valesse a caducare l’ordinanza di sospensione
dei lavori, stante la sua reiterazione.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione,
censurando le argomentazioni dei giudici di merito, in
particolare osservando -per quanto qui di interesse- come la
SCIA successivamente presentata era autonoma e sganciata da
quella presentata in precedenza e che, ancora, non era
ipotizzabile il reato paesaggistico per la natura temporanea
e provvisoria della rampa di collegamento, che al termine
dei lavori sarebbe stata eliminata.
La doglianza difensiva non è stata però accolta dalla
Cassazione.
In particolare, i Supremi Giudici hanno osservato come non
potesse ritenersi fondata l’osservazione del ricorrente,
secondo cui il disvalore penale del costruito va valutato
sul risultato finale perché, per la configurazione del reato
di abuso edilizio, è irrilevante che la costruzione sia
stata completata in ogni sua parte essendo sufficiente il
solo inizio delle opere e delle relative attività
prodromiche (v., in termini: Cass. pen., sez. III,
07.10.1998, n. 10505, in Ced. Cass., n. 211984) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.05.2012 n.
19659 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 7-8/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
RISANAMENTO CONSERVATIVO ED ESCLUSIONE DEL
PERMESSO DI COSTRUIRE.
L’opera edilizia qualificabile come
intervento di risanamento conservativo ex art. 3, lett. c),
D.P.R. n. 380 del 2001, non richiede, in virtù del combinato
disposto degli artt. 9 e 10 del citato decreto, il
preventivo rilascio del permesso a costruire anche nelle
zone vincolate.
La decisione in commento affronta la questione inerente la
necessità o meno del massimo titolo abilitativo edilizio
(permesso di costruire) in relazione ad interventi edilizi
qualificabili come di restauro o risanamento conservativo.
La vicenda processuale segue ad una pronuncia di condanna
emessa dal tribunale nei confronti di un imputato cui era
stato contestato di avere realizzato uno scavo di fondazione
lungo m. 13 e largo m. 50 e profondo m. 50 nel quale era
stata posizionata un’armatura in ferro priva del getto di
calcestruzzo. A seguito della condanna in sede di merito,
proponeva ricorso per cassazione l’imputato, dolendosi,
anzitutto, del fatto che l’opera doveva essere considerata
come intervento di risanamento conservativo per il quale non
è prescritto il permesso a costruire anche nelle zone
vincolate.
Diversamente, i giudici di merito, pur avendo ritenuto la
natura conservativa dell’opera considerata finalizzata a
garantire la statica di un tratto di muro di circa tredici
metri, avevano ritenuto la necessità del permesso stante
l’avvenuta trasformazione urbanistica del territorio, attesa
la natura, le dimensioni ed il carattere stabile e
permanente dell’intervento. In realtà, aggiungeva la difesa,
lo zoccolo sotterraneo adiacente al vecchio muro e
realizzato per imbrigliare lo stesso non poteva avere altra
funzione se non quella di ‘‘consolidarne’’ la
statica.
La tesi è stata ritenuta fondata dai giudici di legittimità,
che hanno accolto il ricorso. In particolare -ha osservato
la Cassazione- l’imputato, a fronte dell’argomentazione
della sentenza di primo grado con cui si escludeva la natura
delle opere poste in essere quale restauro o risanamento
conservativo in ragione della natura delle stesse, delle
loro dimensioni e del carattere evidentemente stabile e
permanente, aveva presentato un atto di appello con
cui aveva dedotto motivi specifici, in particolare
evidenziando che il carattere stesso del risanamento
conservativo doveva ritenersi riferibile ad opere stabili
sicché tale ultima connotazione non poteva di per sé valere
ad escludere la qualificazione dell’intervento nei termini
invocati; né poteva parlarsi di trasformazione del
territorio giacché l’opera era adiacente ed attaccata ad un
muro preesistente che si doveva preservare proprio con essa.
Da ciò , dunque, avrebbe dovuto dedursi, la non necessità
del permesso a costruire in base a quanto previsto dal
combinato disposto degli artt. 9 e 10, D.P.R. n. 380 del
2001 (In precedenza, in giurisprudenza, nel senso che gli
interventi di restauro e di risanamento conservativo
necessitano del preventivo rilascio del permesso di
costruire solo ogni qual volta comportino mutamento di
destinazione d’uso tra categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico e, qualora debbano essere
realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui
comportino mutamento di destinazione d’uso all’interno di
una categoria omogenea, v.: Cass. pen., sez. III,
15.01.2007, n. 594, in Ced. Cass., n. 235870) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.05.2012 n.
19243 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 7-8/2012). |
AGGIORNAMENTO AL 10.09.2012 |
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GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
07.09.2012 n. 209, suppl. ord. n. 182, "Linee guida per
la gestione della sicurezza delle infrastrutture stradali ai
sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 15.03.2011, n.
35"
(Ministero delle Infrastrutture ed ei Trasporti,
decreto 02.05.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 36 del 05.09.2012, "Modalità
di versamento degli oneri istruttori per i procedimenti di
competenza regionale di cui alla l.r. 02.02.2010 n. 5 “Norme
in materia di valutazione di impatto ambientale” (decreto
D.U.O. 04.09.2012 n. 7600). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: CORTE
CONTI/ Personale, i tagli sono un
obbligo.
Ridurre la spesa non è un semplice obiettivo per gli enti.
La sezione del Veneto avverte:
niente premi di risultato se non ci sono risparmi.
L'obbligo di riduzione della spesa di personale non è un
semplice obiettivo, bensì un vero e proprio vincolo alle
autonomie locali, giacché non è più la mera espressione di
un principio di buona gestione al quale tendere, ma
rappresenta un vero e proprio obiettivo vincolato dalla cui
violazione discende, a titolo di sanzione, il divieto di
assunzione.
Parte da questo assunto il
parere 16.08.2012 n. 513 con cui la sezione regionale di controllo per il
Veneto della Corte dei conti propone una serie di
chiarimenti circa la riduzione delle spese di personale e
gli effetti che la violazione di tale obbligo comporta.
La prima questione è se, nel caso di mancato rispetto
dell'obbligo di riduzione della spesa del personale rispetto
a quella dell'anno precedente, previsto dall'art. 1, comma
557, della legge n. 296/2006, le conseguenti sanzioni
previste dal comma 557-ter e dall'art. 76, comma 4, del dl
n. 112/2008 siano da riferirsi solamente all'anno successivo
lo sforamento o si protraggono di anno in anno fino al
rispetto dell'anno iniziale.
La sezione chiarisce che il divieto è operante nel solo anno
successivo a quello della violazione.
La seconda questione è se la mancata integrazione del fondo
per le risorse decentrate nell'anno del mancato rispetto di
riduzione della spesa riguardi anche le risorse ex art. 15,
comma 1, lett. k), del Ccnl del 01.04.1999
(incentivazione di prestazioni o risultati). Netta la
chiusura della Corte, secondo cui non è possibile
incrementare il trattamento economico in caso di mancata
riduzione della spesa di personale alla luce dell'art. 9,
comma 2-bis, del dl n. 78/2010, che cristallizza al 2010
l'ammontare complessivo delle risorse destinate al
trattamento accessorio del personale.
La terza questione è se, ai fini del rispetto del limite di
cui all'art. 9, comma 2-bis, cit. si debbano considerare
anche le economie realizzate con l'attuazione dei «piani di
razionalizzazione» che, secondo quanto previsto dall'art.
16, commi 4-6, del dl n. 98/2011, le p.a. possono adottare
entro il 31 marzo di ogni anno. I piani devono indicare la
spesa sostenuta per ciascuna delle voci di spesa interessate
e i correlati obiettivi in termini fisici e finanziari; le
economie realizzate possono essere utilizzate, nell'importo
massimo del 50%, per la contrattazione integrativa.
In questo caso, la sezione afferma che le risorse derivanti
dalle economie non sono soggette al vincolo di cui all'art.
9, comma 2-bis, in quanto assumono una sorta di «autonomia»
rispetto al vincolo stesso, per tre motivi: un primo è di
ordine letterale, dato che è la norma stessa a consentire
l'utilizzazione delle risorse per la contrattazione
integrativa; vi è poi una questione di ordine cronologico
legata al principio lex posterior derogat priori; il terzo è
correlato all'art. 6, comma 1, del dlgs n. 141/2011, che
consente l'utilizzo di queste economie fino alla tornata di
contrattazione collettiva successiva a quella del
quadriennio 2006-2009.
Queste economie sono dunque sottratte al vincolo dell'art.
9, comma 2-bis, ma non possono essere destinate al fondo per
le risorse decentrate qualora l'ente non abbia conseguito la
riduzione della spesa di personale rispetto agli anni
precedenti.
L'ultima questione concerne il computo delle spese per
lavoro straordinario e altri oneri di personale connessi
alle elezioni comunali che, a differenza delle altre
consultazioni elettorali, non sono soggetti a rimborso. La
sezione si limita a ricordare che le spese correlate
all'attività elettorale rappresentano componenti da
sottrarre all'ammontare della spesa del personale
limitatamente alle somme per le quali è previsto il rimborso
da parte del ministero degli interni
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO
IMPIEGO: Esodati, il provvedimento non serve.
Basta il parere. Nota della Funzione
pubblica sulla deroga al pensionamento dei dipendenti della p.a..
Esodati anche se non «autorizzati» formalmente all'esonero
al 04.12.2011. Per essere incluso tra gli aventi
diritto ad andare in pensione con le vecchie regole (i cd esodati), infatti, all'impiegato pubblico non serve
necessariamente che l'amministrazione da cui dipende abbia
formalmente adottato il provvedimento di concessione
dell'esonero entro il 04.12.2011; può farlo anche
successivamente.
Perché è sufficiente anche solo che a tale data il
lavoratore sia in possesso della domanda di richiesta
dell'esonero, con su espresso il parere favorevole del
segretario generale pro-tempore.
A precisarlo, tra l'altro,
è la
nota
03.09.2012 n. 35430 di prot. della presidenza del
consiglio dei ministri, dipartimento della funzione
pubblica, che fa proprio un parere del Consiglio di stato.
La novità, di fatto, amplia la platea dei potenziali
beneficiari della deroga ai nuovi requisiti di pensione
introdotti dalla riforma Fornero.
Basta il «sì». La nota della funzione pubblica affronta due
questioni relative alla disciplina dei cosiddetti esodati,
ossia dei lavoratori (in mobilità, con contributi volontari
ecc.) che conservano il diritto ad andare in pensione con le
vecchie regole (quelle cioè previgenti alla riforma Fornero)
anche successivamente al 01.01.2012 (data di entrata in
vigore della riforma Fornero).
In particolare, si tratta di
due questioni attinenti alla posizione degli impiegati
pubblici «che alla data del 04.12.2011 hanno in corso
l'istituto dell'esonero dal servizio» e che, per tale
ragione, hanno diritto a essere inclusi nel novero degli esodati e nel limite di 950 unità ad andare in pensione in
base ai vecchi requisiti (la domanda si presenta entro il 21
novembre).
Peraltro, in tal caso, l'istituto dell'esonero
«si considera comunque in corso qualora il provvedimento di
concessione sia stato emanato prima del 04.12.2011». La
prima questione concerne dunque la possibilità, per
un'amministrazione, di adottare un provvedimento ricognitivo
di riconoscimento dell'esonero. Nella precedente circolare
n. 2/2012, la funzione pubblica ha chiarito che l'esonero
s'intende concesso anche «se l'amministrazione nelle veste
del dirigente competente... abbia adottato una determina
formale dalla quale si desuma la volontà di accoglimento
dell'istanza dell'interessato».
Il Consiglio di stato,
invece, ha espresso differente orientamento, ritenendo che
il «parere favorevole espresso dal segretario generale
pro-tempore abbia la stessa valenza del provvedimento di
accoglimento della domanda». Pertanto, spiega la funzione
pubblica, l'adozione del provvedimento ricognitivo diventa
in questo caso necessario, per consentire ai potenziali
beneficiari di poter regolarmente presentare l'istanza per
la richiesta dei benefici pensionistici (in essa, infatti,
vanno indicati gli estremi del provvedimento).
La decorrenza dell'esonero.
La seconda questione riguarda l'individuazione della data di
decorrenza dell'esonero. La funzione pubblica spiega che
tale data va individuata nel quinquennio precedente la data
di decorrenza della pensione dell'interessato calcolata in
base alle vecchie regole (comprendendo finestra e speranza
di vita).
Un esempio. Lavoratrice con diritto ad andare in pensione
con «quota 97» (vecchie regole), che compie 61 anni
(età minima per maturare quota 97) il 18.02.2016.
Aggiungendo i 12 mesi per la finestra (18.02.2017) e i tre
mesi (per ora) della speranza di vita, si ottiene l'epoca di
pensionamento: 19.05.2017. Andando a ritroso di cinque anni,
viene a fissarsi la data di decorrenza dell'esonero:
18.05.2012
(articolo ItaliaOggi dell'08.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Agli uffici tecnici comunali il rilascio del certificato di
idoneità. Circolare Funzione pubblica-Interno
spiega le novità. Niente
autocertificazione per il documento. Ricongiungimenti, la casa
è tutto.
Agli uffici tecnici comunali il compito di rilasciare il
certificato di idoneità abitativa per gli extracomunitari,
necessario per i ricongiungimenti familiari: è un documento
tecnico, sottratto al regime dell'autocertificazione.
È quanto previsto dalla
circolare 17.04.2012 n. 3/2012 a doppia
firma del ministro per la pubblica amministrazione Filippo
Patroni Griffi e del ministro dell'interno Anna Maria
Cancellieri, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 05.09.2012 n. 207.
La circolare definisce l'ambito di applicazione della
novella introdotta dall'articolo 15, legge n. 183 del 2011
in materia di certificazione e procedimenti per la
cittadinanza.
Il primo problema riguarda i certificati necessari per
ottenere il permesso di soggiorno e in particolare
l'attestato di idoneità abitativa relativo all'alloggio
occupato, requisito necessario per potersi ricongiungere ai
propri familiari.
L'articolo 15 della legge n. 183 del 2011 ha introdotto la
cosiddetta «decertificazione»: certificati sostituiti a
tappeto da autocertificazioni e impossibilità di usare i
certificati presentandoli ad una pubblica amministrazione
(come da apposito dicitura su timbro da apporre sui
certificati stessi).
In un primo momento non è stata toccata la norma del dpr
445/2000 (relativo alla documentazione amministrativa), che
salvava le speciali disposizioni contenute nelle leggi e nei
regolamenti concernenti la disciplina dell'immigrazione e la
condizione dello straniero (articolo 3, comma 2, dpr
445/2000).
Di conseguenza ai cittadini stranieri regolarmente
soggiornanti in Italia le amministrazioni possono continuare
a chiedere la produzione di certificati ai fini dei
procedimenti disciplinati dal Testo unico dell'immigrazione.
Inoltre sulle certificazioni da produrre ai soggetti privati
non deve essere apposta la dicitura che blocca la produzione
agli organi della pubblica amministrazione o ai privati
gestori di pubblici servizi. Sui certificati deve essere
apposta la diversa dicitura: «Certificato rilasciato per i
procedimenti disciplinati dalle norme sull'immigrazione».
In materia è, poi, sopravvenuto il decreto-legge n. 5 del
2012, che ha soppresso, a partire dal 01.01.2013,
dall'articolo 3, comma 2, dpr 445/2000 la clausola di
salvezza delle speciali disposizioni contenute nelle leggi e
nei regolamenti concernenti la disciplina dell'immigrazione
e la condizione dello straniero. La conseguenza è che, a
decorrere dal 2013, sulle certificazioni da produrre ai
soggetti privati deve essere apposta, a pena di nullità, la
dicitura sull'impossibilità di utilizzo per la presentazione
ad altri uffici pubblici.
Attenzione, però, quanto sopra non vale per l'attestato di
idoneità abitativa dell'alloggio occupato
dall'extracomunitario, previsto dall'articolo 29 del dlgs
286/1998, quale requisito per ottenere il ricongiungimento
dei propri familiari.
L'idoneità deve essere attestata dagli uffici comunali a
seguito di accertamenti di carattere prettamente tecnico.
Dunque, anche se si parla di certificato, l'atto non è
proprio un certificato, ma un'attestazione di conformità
tecnica resa dagli uffici tecnici comunali; la circolare
conclude che non ha, quindi, natura di certificato e non
può, pertanto, essere sostituita da un'autocertificazione.
Sugli attestati di idoneità abitativa non deve quindi essere
apposta, a pena di nullità, la dicitura, prevista per i
certificati.
Con altro chiarimento la circolare precisa che al
procedimento relativo alla cittadinanza si applicano le
norme sull'acquisizione d'ufficio della documentazione;
inoltre i cittadini extracomunitari possono utilizzare le
dichiarazioni sostitutive limitatamente agli stati, alle
qualità personali e ai fatti certificabili o attestabili da
parte di soggetti pubblici italiani; se il dato richiesto
attenga ad atti formati all'estero e non registrati in
Italia o presso un consolato italiano deve procedersi
all'acquisizione della certificazione prodotta dal paese
straniero, legalizzata e tradotta all'estero nei termini di
legge
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2012). |
QUESITI &
PARERI |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
OGGETTO: Comune di Tortolì: accesso procedimentale:
modalità.
Con nota del 29.07.2011 il Segretario comunale di Tortolì ha
riferito:
- che le ditte X ed Y hanno entrambe presentato un progetto
di pianificazione urbanistica relativo anche ad aree di
proprietà della ditta X;
- che la ditta X ha presentato osservazioni avverso il
progetto della ditta Y;
- che esso segretario comunale, acquisita una relazione con
cui il tecnico comunale esprimeva il parere che le suddette
osservazioni erano prive di fondamento, ha trasmesso queste
ultime agli amministratori del Comune con una propria nota
con cui ha espressamente condiviso detta relazione, peraltro
non allegata;
- che la ditta X ha chiesto l’accesso all’indicata
relazione, senza indicare alcun tipo di interesse.
Ciò premesso il Segretario Comunale ha chiesto di conoscere:
a) se la relazione di un tecnico può essere equiparata ad un
parere legale, ai fini di un eventuale diniego di accesso;
b) se dal fatto che è stata presentata una domanda d’accesso
deve o può desumersi l’esistenza di una situazione
precontenziosa, suscettibile di precludere l’accesso;
c) se, qualora l’accesso possa essere consentito, debbano
essere preventivamente informati i controinteressati;
d) se la comunicazione ai controinteressati debba essere
effettuata dall’accedente o dall’Amministrazione.
Al riguardo la Commissione esprime il parere:
a) che l’indicata nota del Segretario Comunale, che è
documento amministrativo sicuramente accessibile, è
dichiaratamente fondata sul parere del tecnico comunale; il
che ai sensi dell’art. 7 del d.P.R. n. 184/2006, rende
accessibile anche il parere del tecnico comunale;
b) che in ogni caso, trattandosi di progetti connessi ed
alternativi che vanno quindi esaminati in unico contesto, la
disciplina applicabile è quella dell’art. 10 della legge n.
241/1990, relativa all’accesso procedimentale; con la
conseguenza che tutti gli atti del procedimento devono
essere considerati liberamente accessibili –salvo specifiche
esigenze di tutela di dati sensibili, che nel caso in esame
non risulta che ricorrano- da parte di ciascuno dei
partecipanti;
c) che, ai sensi dell’art. 3 del citato d.P.R. n. 184/2006,
la domanda d’accesso va comunicata ai controinteressati, a
cura dell’Amministrazione (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta dell'11.10.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri comunali.
Diffida di annullamento o disapplicazione di norme
statutarie e regolamentari in contrasto con disposizioni
legislative.
Il Sig. ..., consigliere comunale del Comune di Cerveteri,
ha presentato diffida allo stesso Comune perché, in via di
autotutela, annulli o disapplichi alcune disposizioni
contenute nello Statuto del Comune (art. 53, comma 3), nel
Regolamento del Consiglio (artt. 39, comma 3, e 40, commi 1
e 2) e nel Regolamento sul diritto di accesso ai documenti
amministrativi (art. 5, comma 3), che limitano o
sottopongono a condizione o regolano in maniera restrittiva
il diritto di accesso agli atti comunali da parte dei
consiglieri.
Sottolinea il ... nel proprio atto di diffida il contrasto
di dette disposizioni con la legge (in particolare, l’art.
43, TUEL) e la prevalente giurisprudenza. Sul contenuto
della diffida e sulle sue considerazioni chiede il parere di
questa Commissione.
Sulla questione questa Commissione non può che ribadire il
proprio orientamento giurisprudenziale, alla luce del quale
la pretesa del Consigliere comunale istante appare
pienamente condivisibile.
Infatti, in conformità al consolidato orientamento
giurisprudenziale amministrativo (cfr., fra le molte,
C.d.S., Sez. V, 22.05.2007, n. 929), riguardo le modalità di
accesso alle informazioni e alla documentazione richieste
dai consiglieri comunali ex art 43 TUEL, il diritto di
accesso agli atti di un consigliere comunale –nell’esercizio
del proprio munus publicum- non può subire
compressioni di alcun genere, tali da ostacolare l’esercizio
del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter
esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa
gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare
interruzione alle altre attività di tipo corrente: ciò in
ragione del fatto che il consigliere comunale non può
abusare del diritto all’informazione riconosciutogli
dall’ordinamento pregiudicando la corretta funzionalità
amministrativa dell’ente civico con richieste non contenute
entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza
che possano aggravare l’ordinaria attività amministrativa.
Ricorda, per completezza, questa Commissione che l’eventuale
esito negativo della diffida potrà essere contestato,
trattandosi di applicazione di norme regolamentari, soltanto
dinanzi il giudice amministrativo (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta dell'11.10.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - VARI:
OGGETTO: Richiesta di copia cartacea dell’intervento in
seduta “aperta” di rappresentante politico locale.
Notifica al controinteressato.
L’amministrazione comunale di Matelica ha ricevuto da parte
di un cittadino presente ad una seduta “aperta” del
Consiglio comunale la richiesta di accesso e la consegna di
copia cartacea dell’intervento di un rappresentante politico
locale in quanto, ad avviso del richiedente, nelle parole
pronunciate potrebbero esserci gli estremi per una eventuale
denuncia.
In ordine a tale richiesta la Città di Matelica chiede a
questa Commissione se l’accesso non possa essere escluso
essendo motivato da finalità giudiziarie e, in caso
positivo, si debba procedere alla notifica (rectius,
alla comunicazione) al controinteressato, il quale potrebbe
opporsi all’accesso solo per motivi inerenti alla privacy.
Per quanto riguarda i cittadini residenti (siano essi
persone fisiche, associazioni o persone giuridiche), il
principio fondamentale che informa l’orientamento
consolidato della Commissione sull’applicazione dell’art.
10, TUEL è quello di “specialità”: si ritiene cioè
che il legislatore abbia adottato una disciplina specifica
per gli enti locali versata nel TUEL approvato con il d.lgs.
n. 267/2000.
Tale specialità comporta, in linea generale, che le norme
contenute nella l. n. 241/1990 si applicano al TUEL solo in
via suppletiva, ove necessario, e nei limiti in cui siano
con esso compatibili. E mentre, per l’accesso agli atti di
amministrazioni centrali dello Stato (e sue articolazioni
periferiche) l’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990
prevede che la legittimazione all’accesso spetti soltanto ai
soggetti titolari di un “interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”,
l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece alcuna restrizione
e si limita a prevedere l’esistenza di un’area di atti (non
precisata) il cui accesso o è assolutamente precluso per
legge o è differibile (tale essendo l’effetto pratico della
necessaria dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti da
un apposito regolamento, a tutela della riservatezza.
Secondo la Commissione i diversi contenuti delle due
disposizioni citate caratterizzano la specificità del
diritto di accesso dei cittadini comunali configurandolo
alla stregua di un’azione popolare che non deve essere
accompagnata né dalla titolarità di una situazione
giuridicamente rilevante né da un’adeguata motivazione.
L’accesso, nella specie, come sottolineato dalla stessa
amministrazione comunale, motivato dalla eventualità di una
difesa giudiziale non può essere certamente negato e ad esso
non può opporsi il controinteressato (al quale va comunque
comunicata l’esistenza dell’istanza, ex art. 3, d.P.R. n.
184/2006) nemmeno ricorrendo all’esigenza di tutela della
privacy (nella specie, difficilmente fondata, attesa la
pubblicità dell’intervento in Consiglio comunale) che
risulta recessiva rispetto a quella giudiziaria.
Militano a favore di tali considerazioni l’esistenza nel
cittadino-residente di un diritto generale all’informazione
(art. 10, comma 2, ult. parte) e, più in particolare, il
diritto ad avere copia di un documento (verbale dei lavori
consiliari) che può qualificarsi “atto interno” di un
procedimento amministrativo, come tale ammesso all’accesso
secondo la consolidata giurisprudenza del giudice
amministrativo (Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta dell'11.10.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Albo pretorio comunale on-line. Pubblicazione
limitata ad alcuni atti. Assunta violazione del principio
della trasparenza di cui alla l.n. 15/2009 e al d.lgs. n.
150/2009.
Il Circolo istante lamenta che sul sito on-line del
Comune di Nocera Terinese non sono pubblicate tutte le
delibere comunali. Tale comportamento dell’amministrazione
comunale violerebbe i principi sulla trasparenza
amministrativa introdotti dalla legge delega n. 15 del 2009
e dal successivo decreto legislativo di attuazione n.
150/2009 che fanno riferimento al concetto di “accessibilità
totale”.
I principi sulla trasparenza amministrativa introdotti dai
due testi normativi citati sottolineano effettivamente (art.
4, commi 6 e 7, l. n. 15/2009, ripresi dall’art. 11, comma
1, d.lgs. n. 150/2009), da un lato, che la trasparenza
costituisce livello essenziale delle prestazioni erogate
dalle amministrazioni pubbliche a norma dell’art. 117,
secondo comma, lett. m. della Cost. e, dall’altro, che la
trasparenza è intesa come “accessibilità totale”. I
successivi commi dell’art. 11 del d.lgs. n. 150/2009
stabiliscono, poi, le modalità con le quali ogni pubblica
amministrazione dovrebbe attuare tali principi: fra questi
l’adozione di un Programma triennale per la trasparenza e
l’integrità, da aggiornare annualmente, che indica le
iniziative previste per garantire l’attuazione di tali
principi.
In particolare, il comma 8 dell’art. 11 cit. stabilisce
quali siano gli atti che ogni amministrazione ha l’obbligo
di pubblicare sul proprio sito istituzionale, ma l’eventuale
inadempimento non influisce direttamente sul diritto di
conoscenza del cittadino, nel senso che l’amministrazione
non è obbligata per legge a rendere trasparente ciò che non
ha reso tale, ma ha soltanto ricadute sulla performance dei
dirigenti preposti agli uffici coinvolti, nei confronti dei
quali è fatto divieto di erogazione della retribuzione di
risultato (art. 11, comma 9).
La legge, in sostanza, non ha previsto un meccanismo di
reazione alla violazione del principio della trasparenza che
automaticamente restituisca al cittadino il diritto alla
conoscenza dell’atto o del documento cui lo stesso è
interessato obbligando l’amministrazione ad un facere,
diritto che può essere esercitato, invece, attraverso il
ricorso all’accesso così come regolato dalla l. n. 241/1990
e dal d.P.R. n. 184/2006 (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi,
risposta del Plenum in seduta dell'11.10.2011 -
link a www.commissioneaccesso.it). |
NEWS |
INCARICHI
PROGETTUALI:
Appalti, stop ai
ribassi selvaggi.
Il compenso del progettista deve salvaguardare l'interesse
pubblico. In arrivo un dm
giustizia-infrastrutture che rivede le liberalizzazioni in
materia di tariffe.
Appalti con tariffe professionali in chiaro. Si avvia al
tramonto l'era in cui le stazioni appaltanti si presentavano
alle gare offrendo progettazione ed esecuzione delle opere a
prezzi stracciati (con ribassi anche del 90% rispetto al
prezzo iniziali) svilendo così il ruolo del professionista.
Sta, infatti, per arrivare un decreto con nuovi parametri
precisi: il corrispettivo del tecnico dovrà, infatti, essere
composto da compenso, spese ed oneri accessori, essere
congruo, salvaguardare l'interesse pubblico e garantire la
qualità delle opere.
Dopo la definizione dei parametri (dm 01/08/2012) per la liquidazione dei corrispettivi in caso di
contenzioso, un altro provvedimento si occuperà di comporre
lo scenario complessivo di riforma delle professioni che,
tra i suoi capisaldi ha visto l'abolizione delle tariffe
professionali e un nuovo sistema per la definizione dei
compensi: si tratta del decreto interministeriale
giustizia-infrastrutture (ora all'attenzione di
quest'ultimo) che dovrà definire i parametri da utilizzare
per la determinazione dell'importo da porre a base di gara
nell'ambito dei contratti pubblici dei servizi di ingegneria
e architettura.
Un passaggio necessario dopo che il decreto
legge sulle liberalizzazioni (1/12) aveva di fatto
cancellato ogni riferimento tariffario, privando le stazioni
appaltanti di regole per calcolare gli importi e per
determinare, di conseguenza, le procedure per l'affidamento.
Un'assenza di regole denunciata a gran voce dalle
professioni tecniche che, tra le altre cose, rischiava di
alimentare un'eccessiva discrezionalità delle stazioni
appaltanti che, invece, con il nuovo regolamento avranno a
disposizione un riferimento sulla base del quale impostare
le gare. Ma l'assenza di riferimenti tariffari per i servizi
di ingegneria e di architettura non è uno scenario nuovo per
il settore già colpito in questo senso da modifiche
significative nel 2006 con l'eliminazione delle tariffe
minime obbligatorie, introdotta dalle lenzuolate Bersani.
Questa abolizione pur con delle eccezioni (giacché il
ricorso alle tariffe non era vietato del tutto se utilizzate
come parametri di riferimento) non contemplava comunque più
l'obbligo per le stazioni appaltanti di applicare tariffe
fisse o minime con il risultato di avere ribassi delle
offerte nelle gare pubbliche anche del 90% del loro valore
iniziale. Una situazione che il decreto in questione punta a
correggere, pur avendo dall'altra parte abolito le tariffe
per i compensi.
Il corrispettivo, si legge infatti nel dm, composto da
compenso, spese ed oneri accessori, deve essere congruo,
salvaguardare l'interesse pubblico e garantire la qualità
delle opere. Il provvedimento richiama nella valutazione del
compenso quanto stabilito nel decreto relativo ai parametri
giudiziali prevedendo anche la classificazione dei servizi
professionali, tenendo conto della categoria dell'opera e
del grado di complessità. All'interno della stessa categoria
d'opera sono qualificanti «le destinazioni funzionali
delle opere con grado di complessità uguale o maggiore a
quello di base di gara».
Si ottiene così un metodo che quantifica il prezzo in base
alla complessità dell'incarico, all'importanza dell'opera e
alle voci di costo. L'importo delle spese e degli oneri
accessori, invece si legge sul dm, è determinato «forfettariamente»
in una percentuale del compenso pari al 25% per importo
delle opere fino a 1 milione di euro e pari al 10% per
importo di opere pari o superiore a 25 mila euro; per gli
importi intermedi infine dicono i ministeri le percentuali
si applicano per interpolazione lineare»
(articolo ItaliaOggi dell'08.09.2012). |
VARI: Patenti
al compleanno, la Motorizzazione si adegua.
Dal 17 settembre chi otterrà la patente o ne richiederà il
rinnovo in tempo si vedrà allungare la scadenza normale fino
al giorno del compleanno. Ma questo riordino generale varrà
solo per le patenti di categoria A e B con scadenza
ordinaria.
Lo ha confermato il Ministero dei trasporti con
la
nota 07.09.2012 n. 23907 di prot. che abroga la precedente
disposizione contraria 05.03.2012 n. 6193 (si veda ItaliaOggi del 21/08/2012).
L'art. 7 del dl 5/2012 dispone
che i documenti di identità e di riconoscimento di cui
all'art. 1 del dpr n. 445 del 28.12.2000 sono
rilasciati o rinnovati con validità allungata fino alla data
del compleanno del titolare immediatamente successiva alla
scadenza che sarebbe altrimenti prevista per il documento
stesso.
Da subito erano stati avanzati dubbi sulla
possibilità di ricomprendere le patenti fra i documenti
soggetti alla semplificazione imposta dalla novella (ItaliaOggi
del 21/02/2012). E immediatamente il ministero dei trasporti,
con la circolare n. 6193 del 05.03.2012 aveva precisato
che alla patente di guida non si applica l'allineamento
della scadenza al compleanno dell'interessato (ItaliaOggi
del 07/03/2012) trattandosi di normativa speciale.
Con la
circolare n. 7 del 20.07.2012 (pubblicata sulla G.U. n.
207 del 05/09/2012) la presidenza del consiglio di ministri
interpreta invece in senso estensivo la portata dell'art. 7
del dl 5/2012, affermando che la nuova regola che fissa la
scadenza dei documenti in coincidenza con la data del
compleanno si applica anche alle patenti di guida. Peraltro
la novella non si applica alle patenti rilasciate per le
categorie superiori C e D, a quelle la cui durata è fissata
in misura ridotta, rispetto alla durata ordinaria, dalla
commissione medica legale, e alla carta di qualificazione
del conducente.
Per correre ai ripari la motorizzazione ha
quindi diramato le istruzioni operative di ieri. Le nuove
procedure informatiche che consentiranno l'adeguamento
entreranno in linea dal 17.09.2012. In pratica da
quella data in occasione del primo rilascio o del primo
rinnovo tempestivo della patente di guida AM, A1, A2, A, B1,
B e BE con scadenza ordinaria «la scadenza di validità
della stessa è prorogata alla data del compleanno del
titolare». Restano escluse dalla riforma le patenti
superiori (C, D ecc.) e quelle rilasciate con limitazioni
mediche
(articolo ItaliaOggi dell'08.09.2012). |
TRIBUTI - VARI: Tarsu, lo
spettro dell'illegittimità. Ctp
grosseto: prelievo non dovuto dal 2010 in avanti.
A partire dal 31.12.2009, la Tassa sui rifiuti solidi
urbani non esiste più e, pertanto, la pretesa avanzata dai
comuni per gli anni 2010 e seguenti è illegittima; la
conseguenza è che i comuni che non sono ancora passati alla Tia (attualmente la maggior parte) potrebbero trovarsi alle
prese con richieste di rimborso di quanto versato dai
cittadini per il 2010 e seguenti, e contestazioni relative
agli atti di riscossione per questi stessi anni.
Con la
sentenza 19.04.2012 n. 124/4/12, solo ora resa nota,
la Ctp Grosseto ha disposto la non legittimità della Tarsu
dopo il 31.12.2009, rendendo di fatto illegittima la
richiesta del Comune di Castiglione della Pescaia. Questi
effetti derivano dalla soppressione della Tarsu, disposta
dal primo comma dell'art. 49 del dlgs 22/1997 (decreto
Ronchi), efficace, in mancanza di ulteriori proroghe, sin
dal 31/12/2009.
Lo stesso art. 49 prevedeva un regime
transitorio da disciplinarsi mediante un regolamento
attuativo (dpr 158/1999), in base al quale i comuni avrebbero
dovuto raggiungere la piena copertura dei costi di gestione
del servizio rifiuti urbani introducendo la Tariffa di
igiene ambientale (cosiddetta Tia/1) in sostituzione della
Tarsu, in un lasso temporale di 8 anni (termine poi esteso
sino al 01.01.2010).
Col successivo dlgs 152/2006, art.
238, la stessa Tia/1 è stata soppressa e sostituita dalla
Tariffa integrata ambientale (Tia/2); tuttavia, la
disciplina della nuova tariffa resta sospesa sino
all'emanazione di un regolamento ministeriale (che avrebbe
dovuto essere emanato entro il 30.06.2010), in mancanza
del quale «continuano ad applicarsi le discipline
regolamentari vigenti» (comma 10 dell'art. 238 cit.), ossia
le disposizioni previste dal dpr 158/99 (regolamento
attuativo della Tia/1).
Al momento, dunque, a prescindere
dalle difficoltà interpretative legate all'applicazione
della nuova Tia, il prelievo che la maggior parte dei comuni
opera per la copertura del servizio di gestione dei rifiuti
è ancora basato sulla vecchia Tarsu; ed è proprio qui che si
prospetta il problema, in quanto non esiste più dal 2010 una
normativa primaria a sostegno di questa tassa, che i comuni
continuano a richiedere sulla base dei regolamenti
(normativa secondaria).
Per cui, ogni pretesa avanzata dai comuni a titolo di Tarsu,
non trovando riscontro in alcuna normativa primaria
attualmente vigente, potrebbe ritenersi illegittima anche in
ragione dell'art. 23 della Costituzione, secondo cui
«nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere
imposta se non in base alla legge». Il tutto assume una
rilevanza ancora maggiore se si considera che i comuni
continuano a vedere nella Tarsu l'unico strumento
chiaramente applicabile e idoneo a garantire quell'entrata
necessaria alla copertura del servizio rifiuti, in assenza
di una disciplina ben delineata della nuova Tia (ed è anche
per questo che circa l'80% di essi rimane ancorato alla
vecchia tassa).
La risposta dei comuni potrebbe volgere nel
senso che, a prescindere dalla tipologia di strumento di
riscossione adottato, il servizio di gestione rifiuti è
obbligatorio e deve obbligatoriamente essere coperto (in
parte o in tutto) mediante tassa o tariffa; per cui, a
fronte della obbligatorietà ed esecutività del servizio
fornito, l'eventuale illegittimità del tributo potrebbe
avere natura meramente formale, non potendo essere messa in
discussione la piena debenza dei versamenti da parte dei
cittadini. Tale interpretazione troverebbe però un preciso
limite proprio nel precitato art. 23 della Costituzione.
La
stessa posizione della Cassazione sul punto verte in una
direzione poco favorevole alle amministrazioni: per esempio,
nella sentenza n. 23583/2009 (ItaliaOggi del 17.11.2009), gli ermellini, esprimendosi circa la legittimità
della Tarsu nelle aree portuali, ne affermavano la non
debenza anche in considerazione del fatto che «il potere
impositivo deve trovare la sua fonte necessariamente nella
legge e non può pertanto rinvenirsi in ragione dello
svolgimento di una mera attività di fatto da parte di un
soggetto»
(articolo ItaliaOggi dell'08.09.2012). |
ENTI LOCALI -
VARI: Se il
semaforo è rotto responsabilità al 50%.
In caso di incidenti il comune risponde col gestore.
Sono responsabili in egual misura dell'incidente stradale
provocato dal semaforo mal funzionante il comune e la
società che gestisce la manutenzione stradale.
Lo ha sancito
la Corte di Cassazione che, con sentenza 06.09.2012 n. 14927, ha
respinto il ricorso della società di manutenzione che
rivendicava l'esclusione da ogni responsabilità per il
sinistro.
Sulla base del rapporto della polizia stradale, al
momento dell'incidente, l'impianto semaforico comunale posto
all'incrocio era mal funzionante: mostrava
contemporaneamente la luce verde nei confronti della
direzione di marcia di entrambi i conducenti coinvolti.
Dunque in sentenza è stato ricostruito che il
malfunzionamento del semaforo è stata la causa esclusiva
dell'incidente. Questa circostanza è stata anche confermata
nella testimonianza di uno degli agenti che, raggiunto il
luogo del sinistro, ha redatto il verbale.
Il giudice di
pace, cui gli automobilisti hanno presentato ricorso i primo
grado, aveva escluso la corresponsabilità di comune e
società. Poi il Tribunale di Roma ha ribaltato il verdetto.
La terza sezione civile, in linea con il Tribunale di Roma,
ha sancito la responsabilità concorrente e solidale della
società e del comune, accogliendo la richiesta di
risarcimento dei danni riportati dopo lo scontro tra due
veicoli perché il semaforo segnalava costantemente la luce
verde verso entrambe le direzioni opposte.
Piazza Cavour ha
ritenuto erronea la linea sostenuta dalla difesa dell'ente
locale e della società aggiudicataria dell'appalto di
manutenzione secondo cui solo l'ente proprietario ha
l'obbligo del controllo del funzionamento degli impianti
semaforici e tale obbligo non è estensibile alla società cui
affidata i lavori, non incombendo alcun obbligo di vigilanza
in capo all'impresa manutentrice.
La Suprema corte, invece,
ha riconosciuto contestualmente la responsabilità del comune
quale proprietario dell'impianto semaforico e della società
in quanto contrattualmente responsabile a provvedere alla
manutenzione e al controllo dell'efficienza tecnica dei
dispositivi di accensione a fasi alterne delle lanterne
semaforiche veicolari. Quindi all'azienda non resta che
risarcire i due automobilisti rimasti coinvolti
nell'incidente
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: SPENDING
REVIEW/ Caos stipendi nei comuni.
Convenzioni Mef obbligatorie. Ma incomplete.
Gli enti brancolano nel buio. Rischio danno erariale.
C'è grande incertezza, fra i comuni, sulla portata dell'art.
5, comma 10, del dl 95/2012. Tale disposizione impone a
tutte le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1 del
dlgs 165/2001 (ivi compresi, quindi, gli enti locali) di
stipulare convenzioni con il ministero dell'economia e delle
finanze per la fruizione dei servizi connessi al pagamento
delle retribuzioni ai dipendenti, ovvero, in alternativa, di
utilizzare i parametri di qualità e di prezzo stabiliti
dallo stesso Mef per l'acquisizione dei medesimi servizi sul
mercato di riferimento. Ove non si ricorra alle convenzioni,
il mancato rispetto di tali standard determina nullità dei
contratti, illecito disciplinare e responsabilità erariale.
Per i contratti già in essere, inoltre, è previsto un
obbligo di rinegoziazione che garantisca un abbattimento
degli attuali costi non inferiore al 15%.
A ben vedere, la formulazione di tali norme non è
chiarissima: i servizi cui esse fanno riferimento, infatti,
sono individuati mediante un rinvio ad altre precedenti
disposizioni (art. 1, comma 447, della l. 296/2006 e art. 2,
comma 197, della legge 191/2009) che riguardavano le sole
amministrazioni statali. Ma al di là di tali aspetti
formali, la questione è di merito. La «Convenzione per
l'utilizzo dei servizi stipendiali», resa disponibile sul
sito del Mef nello scorso mese di luglio, infatti, non
contempla tutta una serie di servizi indispensabili che per
gli enti locali sono gestiti in forma integrata con quelli
(gestione dipendenti a tempo determinato e indeterminato,
cedolini paga, versamenti contributivi ed erariali, altri
adempimenti contributivi, fiscali e normativi, cessioni del
quinto, riscatti e ricongiunzioni, monitoraggio assenze
mensile, dichiarativi annuali) prettamente riferiti alla
corresponsione degli emolumenti. I servizi non inclusi
riguardano tutte le attività svolte tipicamente dagli uffici
del personale degli enti, o, presso quelli più piccoli, da
esperti/service esterni (per esempio, immissione di
giustificativi di assenza, aggiornamenti anagrafici,
comunicazione ai centri per l'impiego).
Rimangono fuori, inoltre, tutte le attività relative alle
tipologie di reddito non elaborate dal Mef quali redditi
assimilati, autonomi e diversi (dipendenti altra p.a.,
amministratori locali, collaboratori coordinati e
continuativi, Lsu cantieri di lavoro, borse di lavoro, borse
di studio, forestali, professionisti, indennità di
esproprio, contributi ad enti e associazioni ecc.). Un
problema ulteriore nasce dal fatto che, nella maggior parte
dei casi, gli enti hanno acquistato sul mercato un
«pacchetto» onnicomprensivo, il che rende assai complessa la
comparazione fra i relativi prezzi e quelli fissati dal Mef.
Non è chiaro, inoltre, come si possa garantire il
collegamento fra il programma paghe del Mef e i diversi
programmi di contabilità in uso presso i singoli comuni, né
è precisato come avverrà l'interscambio di dati fra il nuovo
sistema e gli attuali rilevatori (che sono centinaia, di cui
alcuni fuori commercio).
Più in generale, l'adesione alla convenzione imporrebbe di
adeguare la struttura procedurale di ogni ente ai tempi e
modi per l'invio dei dati utili all'elaborazione delle
retribuzioni, e per la ricezione degli elaborati imposti dal
Mef, con complessità e costi tutti da stimare e tutti a
carico delle singole amministrazioni.
Infine, per la gestione del sistema, la convezione quadro
richiede la nomina, da parte di ciascuna amministrazione, di
un referente tecnico-informatico e di un referente tecnico
amministrativo. È evidente che molti enti, e specialmente i
piccoli comuni, sono sprovvisti di simili figure, in quanto
si avvalgono perlopiù di consulenti esterni, ne potrebbero
agevolmente procurarsele, visti i limiti al turnover e alle
spese per la formazione specialistica
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Referendum non vincolanti.
L'ente resta autonomo e può discostarsi dall'esito.
Secondo la giurisprudenza la consultazione non
incide sull'azione di governo.
È possibile indire un referendum popolare al fine di
annullare le scelte adottate dall'amministrazione comunale
con deliberazione avente per oggetto una variante a un piano
particolareggiato?
L'istituto dei referendum locali, contemplato dall'art. 8,
comma 3 del Tuel, costituisce un tipico istituto di
democrazia diretta, una forma di partecipazione popolare di
carattere opzionale, in quanto si configura quale elemento
meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale.
Rispetto alla normativa previgente è stata ampliata la
valenza dell'istituto del referendum popolare, attualmente
configurabile non solo più come consultivo (unica tipologia
prevista nell'originale formulazione della legge n. 142 del
1990 e volta a consentire la consultazione della popolazione
su rilevanti questione di interesse locale), ma anche come
abrogativo (di provvedimenti a carattere generale degli
organi istituzionali e burocratici dell'ente), propositivo
(per approvare proposte di atti avanzate dalla stessa
amministrazione o da altri soggetti), confermativo, di
indirizzo e oppositivo-sospensivo.
Come sottolineato dalla prevalente dottrina, il dlgs n.
267/2000 nulla dice circa l'effetto dell'esito del
referendum consultivo e gli statuti comunali tendono a
escludere che l'esito sia vincolante per l'amministrazione,
preferendo precisare che l'ente locale possa discostarsi
dallo stesso, con adeguata motivazione, al fine di tutelare
la piena autonomia politica del consiglio.
In tal senso, si è anche affermato che il potere statutario
in materia resta ampio con riguardo all'oggetto del
referendum (che è sufficiente che rientri tra le materie di
competenza esclusiva dell'ente), alla determinazione del
numero dei partecipanti per la sua validità, alla
possibilità di prevedere effetti consequenziali per
l'amministrazione locale legati all'esito del referendum con
il solo limite della conservazione del potere decisionale in
capo agli organi di governo.
La giurisprudenza amministrativa, inoltre, ha affermato che
«il referendum consultivo impone solo all'amministrazione
che l'ha indetto di tener conto della volontà popolare, ma
non esplica alcun effetto sull'azione amministrativa che ne
è stato oggetto, né tanto meno su vicende successive o di
altre amministrazioni, né la volontà popolare espressa con
il referendum è idonea ad attribuire all'ente locale poteri
estranei alla sfera di attribuzione fissate con legge»
(Consiglio di stato, sez. VI, 20.05.2004, n. 3263 e Tar
Puglia, Bari, sez II, 10.03.2003, n. 1098).
Tale orientamento è stato confermato da successive pronunce
(Consiglio di stato, sez IV, 29.07.2008, n. 3769 e Tar
Veneto, Venezia, sez. II 21.03.2007, n. 807), nelle quali si
legge che «le consultazioni costituiscono strumento di
partecipazione popolare all'elaborazione delle scelte
amministrative, non strumento di verifica a posteriori da
parte dei cittadini di scelte già definite con formali
provvedimenti amministrativi (_). L'attività consultiva, per
propria natura, deve precedere l'attività decisionale, non
seguirla»
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2012). |
APPALTI SERVIZI: Alle cooperative sociali affidamenti senza
gara. L'authority di vigilanza sui
contratti pubblici detta i chiarimenti sulla procedura.
Pubblicate dall'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture le linee guida per
gli affidamenti a cooperative sociali ai sensi dell'art. 5,
comma 1, della legge n. 381/1991.
Con la
determinazione 01.08.2012
n. 3 l'Authority, a
conclusione del procedimento di consultazione avviato
nell'aprile scorso, fornisce chiarimenti riguardo alle
deroghe applicabili alle procedure di affidamento ex dlgs
163/2006 per gli appalti di importo sotto soglia comunitaria
in caso di convenzioni stipulate con cooperative sociali di
tipo B.
L'art. 5 della legge 381/1991, contenente la disciplina
delle cooperative sociali, dispone, infatti, che gli enti
pubblici, inclusi quelli economici, e le società a
partecipazione pubblica possono stipulare, in deroga al
principio generale della gara, direttamente con le
cooperative sociali convenzioni per la fornitura di beni e
servizi diversi da quelli socio-sanitari e educativi al
verificarsi di determinate condizioni.
Per prima cosa ai fini dell'applicabilità della
disposizione, come ricorda l'Autorità, i soggetti
beneficiari delle convenzioni devono essere ascrivibili alla
tipologia delle cooperative sociali di tipo B, vale a dire
quelle che, ai sensi dell'art. 1, comma 1, lettera b) della
legge 381/1991, svolgono attività diverse (agricole,
industriali, commerciali o di servizi) finalizzate
all'inserimento lavorativo di «persone svantaggiate» così
come definite dall'art. 4 della stessa legge 381/1991; in
tali cooperative, inoltre, le «persone svantaggiate», sempre
come previsto dal predetto art. 4, devono costituire almeno
il 30% dei lavoratori.
È necessario, inoltre, per la stipula delle convenzioni che
le cooperative sociali risultino iscritte all'albo regionale
introdotto dallo stesso articolo 5. In caso di mancata
istituzione dell'albo da parte delle regioni le cooperative
sociali devono, comunque, attestare il possesso dei
requisiti previsti dai citati articoli 1 e 4 della legge n.
381/1991. Le convenzioni, inoltre, potranno essere stipulate
anche con operatori avente sede in altri stati dell'Unione
europea a condizione che siano in possesso dei requisiti
equivalenti per l'iscrizione all'albo e siano iscritte nelle
liste regionali dei soggetti idonei per la stipula delle
stesse (art. 5, commi 2 e 3, legge 381/1991).
Le convenzioni in esame dovranno avere ad oggetto, come
disciplinato dallo stesso articolo 5, la fornitura di beni e
servizi diversi da quelli socio-sanitari e educativi il cui
importo contrattuale al netto dell'Iva sia inferiore alle
soglie comunitarie previste per gli appalti pubblici e
dovranno essere finalizzate a creare opportunità di lavoro
per «le persone svantaggiate».
Come sottolineato dall'Autorità, per la deroga alle regole
previste dal dlgs 163/2006 per gli appalti sotto soglia,
«l'oggetto della convenzione non si esaurisce nella mera
fornitura di beni e servizi, ma è qualificato dal
perseguimento di una peculiare finalità di carattere
sociale, consistente nel reinserimento lavorativo di
soggetti svantaggiati. Occorre, pertanto, che il profilo del
reinserimento lavorativo, unitamente al successivo
monitoraggio dello stesso in termini quantitativi e
qualitativi, sia posto al centro della convenzione e, a
monte, della determina a contrarre adottata dalla stazione
appaltante ex art. 11, comma 2, del Codice dei contratti».
Sempre dal punto di vista dell'oggetto contrattuale l'organo
di vigilanza rileva come l'ambito di operatività delle
convenzioni riguardi in linea generale la fornitura di beni
e servizi strumentali agli enti affidanti; non è ammissibile
il ricorso alle convenzioni per l'esecuzione di lavori
pubblici o per la gestione di servizi pubblici locali a
rilevanza economica.
Sotto il profilo temporale, le amministrazioni dovranno
definire «adeguatamente la durata delle convenzioni,
affinché non sia di fatto preclusa ad altre cooperative la
possibilità di presentare domanda di convenzionamento,
nonché verificare che gli obiettivi stabiliti siano
effettivamente perseguiti ed attuati».
Sul fronte delle modalità di affidamento l'Autorità,
richiamandosi all'orientamento della giurisprudenza
amministrativa (Tar Lazio Roma, sez. III-quater, 09.12.2008, n. 11093; n. 3767 del 26.04.2012), «secondo cui
non può ammettersi che l'utilizzo dello strumento
convenzionale si traduca in una deroga completa al generale
obbligo di confronto concorrenziale», suggerisce alle
stazioni appaltanti di procedere all'individuazione delle
forniture di beni e servizi che possono essere oggetto di
convenzioni ex art. 5 e, conseguentemente, alla
pubblicazione di un avviso pubblico volto a comunicare la
volontà di ricorrere per tali appalti alle cooperative
sociali in questione per la finalità di reinserimento
lavorativo di «persone svantaggiate»; in caso di più
soggetti interessati consiglia all'ente di promuovere una
procedura competitiva di tipo negoziato specificando nella
lettera di invito «gli obiettivi di inserimento sociale e
lavorativo che intende perseguire mediante la stipula della
convenzione e i criteri in base ai quali verranno comparate
le diverse soluzioni tecniche presentate da parte delle
cooperative».
L'organo di vigilanza precisa, poi, che la deroga al Codice
dei contratti è relativa soltanto alle procedure di
aggiudicazione restando, quindi, applicabili la disciplina
in materia di requisiti di partecipazione, comunicazioni
all'Autorità, specifiche tecniche per l'esecuzione delle
prestazioni e tutte le altre disposizioni normative previste
per gli appalti sotto soglia.
Si sofferma anche sui controlli da compiere in sede di
esecuzione delle prestazioni volti a verificare la
permanenza delle condizioni necessarie per la stipula delle
convenzioni e il perseguimento della finalità di
reinserimento lavorativo
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Pmi,
arriva a fine mese il visto unico ambientale.
La banca dati per gli appalti attiva entro l'anno.
Attuazione delle semplificazioni. È il dossier più corposo
nel fascicolo del ministero della Pa che sta ancora limando
la griglia dei provvedimenti da portare al Cdm di oggi
pomeriggio. Uno dei primi regolamenti in agenda è
l'autorizzazione unica ambientale per le Pmi. Il nuovo visto
(da adottare insieme ai ministeri dell'Ambiente e dello
Sviluppo) eviterà le sovrapposizioni di passaggi tra comuni,
province e altre strutture pubbliche, con un'unica
autorizzazione per acque reflue, emissioni inquinanti e
impatto acustico, da parte dello sportello unico per le
imprese.
Doveva essere approvato entro il 10 agosto, in
attuazione del Dl Semplifica Italia. Arriverà entro fine
mese. Così come la direttiva che sancisce l'obbligo di
pubblicare la modulistica di tutte le autorizzazioni
amministrative, con l'indicazione del responsabile del
procedimento. Atteso entro settembre anche il decreto sullo
scambio di pratiche per via telematica da parte delle
pubbliche amministrazioni (in questo caso palazzo Vidoni ha
un ruolo di concerto con il Viminale) che garantirà tempi
più rapidi nella trascrizione degli atti di stato civile,
nella cancellazione e iscrizione alle liste elettorali e nei
cambi di residenza.
Nell'agenda del ministero guidato da
Filippo Patroni Griffi è fissato a ottobre il via libera ai
decreti di semplificazione in materia di autorizzazioni per
l'esercizio delle attività economiche e di controlli sulle
imprese. Entro fine anno sarà invece avviata la banca dati
sugli appalti. Mentre, sul fronte della spending review,
entro il 31 ottobre sarà approvata la direttiva sul riordino
delle province. A seguire (entro il 2012) il trasferimento
delle risorse e delle funzioni dalla province soppresse.
Non ci sono però solo i regolamenti attuativi di leggi già
entrate in vigore. Sono in cantiere anche nuove misure, da
realizzare soprattutto insieme con il ministero dello
Sviluppo. A partire dal provvedimento finalizzato alla
nascita della Isrl (dove la "i" sta per innovazione): una
società semplificata, che potrà adottare uno statuto
standard e costituirsi online con una comunicazione
direttamente alla Camera di commercio. E dalla creazione di
un "Desk investitori esteri" presso uffici dell'Ice nelle
principali piazze internazionali. Insieme ai Beni culturali
si lavora invece alla semplificazione delle procedure per i
via libera paesaggistici.
Mentre nell'ambito del processo
collegato all'Agenda digitale, appannaggio dello Sviluppo
economico, i tecnici di palazzo Vidoni lavorano al lancio
della nuova carta di identità elettronica: documento
unificato in cui far confluire carta d'identità, carta
nazionale dei servizi, compreso il codice fiscale, e tessera
sanitaria. Una card che entrerà in vigore non appena saranno
sciolti i nodi sulla copertura finanziaria e sull'eventuale
contributo da chiedere ai cittadini
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.09.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Non
disturbano le farmacie con insegne vivaci e bizzarre.
Le insegne luminose delle farmacie possono anche essere di
colore vivace e bizzarro ma quando sono posizionate vicino
ai segnali non devono creare interferenze. In ogni caso
vanno sempre rispettate le distanze minime previste dal
regolamento e il comune può imporre agli esercenti il
rispetto di particolari prescrizioni finalizzate a elevare
la sicurezza della circolazione.
Lo ha evidenziato il Ministero dei trasporti con il
parere 27.08.2012 n. 4761 di prot..
Un comune ha richiesto chiarimenti circa il corretto
posizionamento di insegne luminose sulla strada statale, in
prossimità di impianti semaforici, stante la particolare
tecnologia a led che rende molto brillanti le nuove insegne
farmaceutiche. A parere del ministero oltre all'art. 23 del
codice della strada occorre prestare particolare attenzione
al regolamento comunale e agli artt. 50 e 51 del regolamento
stradale. In particolare l'art. 23 del codice specifica che
qualsiasi insegna non deve arrecare disturbo alla
circolazione ovvero deve essere evitata qualsiasi
interferenza con la guida.
Stante l'obbligatorietà dell'insegna farmaceutica da un lato
e la necessità di salvaguardare la sicurezza della
circolazione stradale dall'altro il comune ha richiesto
istruzioni di dettaglio. L'art. 50 del regolamento del
codice stradale, specifica la nota centrale, prevede che
dentro ai centri abitati trovi applicazione il locale
regolamento anche in riferimento all'apposizione delle
insegne farmaceutiche.
In buona sostanza è nella piena facoltà del comune adottare
provvedimenti che limitino l'intensità e la direzionalità
dei fasci luminosi emessi dall'impianto pubblicitario. In
pratica per garantire la sicurezza della circolazione il
primo cittadino può sempre imporre ulteriori restrizioni
all'esercente anche in considerazione della resa cromatica
degli impianti. Ma prima di tutto andrà verificata la
corrispondenza delle installazioni con le previsioni del
codice stradale e in particolare con le distanze minime
previste dall'art. 51 del regolamento stradale.
Queste distanze, prosegue il parere ministeriale, potranno
essere derogate solo nel caso in cui l'insegna di esercizio
sia collocata parallelamente al senso di marcia e in
aderenza a un fabbricato esistente. In buona sostanza se
l'insegna è perpendicolare al traffico la sua posizione è
strettamente vincolata alle distanze
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2012). |
VARI: Dpr
in Gazzetta. Si parte il 15/09. Al via il restyling dei pass
invalidi.
Dal 15 settembre gli interessati al rilascio o al rinnovo
del nuovo contrassegno invalidi europeo possono rivolgersi
al comune che però ha tre anni di tempo per regolarizzare
tutta la modulistica e la segnaletica stradale in
circolazione. Di certo però i vecchi tagliandi arancioni in
scadenza dovranno essere sostituiti in fretta mentre per
adeguare i segnali e gli stalli di sosta è comprensibile che
gli enti impiegheranno più tempo.
Sono queste le conseguenze immediate con ricadute anche sui
bilanci degli enti derivanti dall'avvenuta pubblicazione
sulla G.U. n. 203 del 31.08.2012 del dpr 151/2012
«regolamento recente modifiche al decreto del presidente
della repubblica 16.12.1992, n. 495, concernente il
regolamento di esecuzione e attuazione del nuovo codice
della strada, in materia di strutture, contrassegno e
segnaletica per facilitare la mobilità delle persone
invalide» (si veda ItaliaOggi del 01/09/2012).
Con un semplice colpo di penna che modifica quasi
integralmente l'art. 381 del regolamento stradale l'Italia
entra in Europa anche per quanto riguarda i permessi
invalidi, con un ritardo clamoroso di tanti anni.
Anni complicati per gli utenti titolari del pasticciato
contrassegno arancione a causa dell'avvento delle regole
sulla privacy che invece di favorire hanno finito per
penalizzare le persone disabili.
Torna, finalmente, il simbolo della carrozzella su sfondo
azzurro, con un nuovo modulo standard europeo che sul retro
ospiterà la fotografia dell'interessato e tutti i suoi dati.
Questa autorizzazione dovrà essere sempre apposta in
originale nella parte anteriore del veicolo per non
incorrere in sanzioni.
Non cambiano sostanzialmente le istruttorie per accedere al
titolo ma muta aspetto oltre al contrassegno anche la
segnaletica. Innanzitutto per quanto riguarda la
sostituzione del vecchio contrassegno invalidi con il nuovo
«contrassegno di parcheggio per disabili» europeo, l'art. 3
del dpr 151 prevede un termine massimo di tre anni, salvo
che i comuni ritengano di accelerare. Alla progressiva
scadenza dei titoli però i comuni dovranno garantire il
rinnovo dei tagliandi con il nuovo modello. Almeno nelle
intenzioni del legislatore quindi per la sostituzione
massiva dei tagliandi in circolazione il comune ha a
disposizione un lasso di tempo lungo ma in caso di rinnovo
singolo sembra che sia opportuno procedere con il rilascio
dei nuovi permessi già dal 15.09.2012, data di
entrata in vigore della novella.
Per quanto riguarda la segnaletica stradale i comuni
potranno prevedere la gratuità della sosta per gli invalidi
nei parcheggi a pagamento, qualora risultino già occupati o
indisponibili gli stalli a loro riservati. Inoltre, i
medesimi enti locali potranno stabilire, anche nelle aree a
pagamento gestite in concessione, un numero di posti
destinati alla sosta gratuita degli invalidi muniti di
contrassegno superiore al limite minimo di un posto ogni
cinquanta o frazione di cinquanta posti disponibili,
previsto dal dpr 503 del 24.07.1996.
Mentre queste
disposizioni però sono innovative e quindi andranno
evidenziate con la nuova segnaletica resta sul tappeto il
problema dell'adeguamento della segnaletica ai nuovi simboli
grafici. Anche per questa sistemazione i comuni hanno a
disposizione un periodo transitorio di tre anni ma,
specifica il dpr, se nel frattempo verrà sostituito qualche
segnale le nuove installazioni dovranno già essere a norma
di legge
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
VARI: Parere
Autovelox, box liberi nelle città.
I diffusi armadietti porta autovelox possono essere
posizionati anche in centro abitato per svolgere attività
preventiva e all'occorrenza ospitare i severi controllori
elettronici della velocità con la presenza dei vigili.
Lo ha ribadito il Ministero dei trasporti con il parere
27.07.2012 n. 4295 di prot..
Molti comuni hanno disseminato sul territorio gli armadietti
colorati porta autovelox con evidenti finalità dissuasive.
Questa pratica però non risulta molto gradita a tutti e per
questo motivo una prefettura ha richiesto chiarimenti al
ministero.
I manufatti porta autovelox, specifica la nota, «non sono
inquadrabili in alcuna delle categorie previste dal nuovo
codice della strada e dal connesso regolamento di esecuzione
e di attuazione e dunque per essi non risulta concessa
alcuna approvazione ai sensi dell'art. 45, comma 6, del codice
e dell'art. 193, comma 3, del regolamento».
Neppure la nuova direttiva in corso di approvazione se ne
occuperà, prosegue il ministero, trattandosi di manufatti
non classificabili né come impianti né come segnaletica.
L'unico impiego consentito è quindi quello di ospitare i
vigili elettronici in sede fissa o saltuaria
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sospensione feriale agli
sgoccioli.
Termini processuali ancora congelati fino al 17 settembre.
Come cambia l'agenda per gli atti
della giustizia civile, tributaria e amministrativa.
Ancora due settimane di stop per i termini processuali, in
stand by fino al 17 settembre prossimo (il 16 è domenica).
La sospensione feriale dei termini (articolo 1, legge
742/1969) opera dal 1° agosto al 15 settembre e interessa
tutti gli atti relativi a processi civili, amministrativi e
tributari. Durante la pausa i termini processuali restano
sospesi e il conto dei giorni entro i quali le parti in
causa possono procedere al deposito di atti e documenti,
previsti dai singoli riti, riparte, appunto, dal 17
settembre. Se poi i suddetti termini dovessero iniziare nel
periodo di sospensione, gli stessi vengono differiti
direttamente alla fine del periodo di sospensione.
In particolare, la pausa determina un allungamento delle
scadenze entro le quali le parti possono procedere al
deposito di atti e documenti. I termini così congelati
riprendono a decorrere dalla fine del periodo di
sospensione. Se l'inizio del decorso dei termini processuali
cade durante il periodo di sospensione feriale, i termini
iniziano a decorrere alla fine del periodo di sospensione.
Così, con riferimento al 2012, se il termine iniziale di
decorrenza processuale cade prima del 01.08.2012: si ha
la sospensione feriale dei termini processuali dal 1° agosto
al 15.09.2012, con ripresa della decorrenza dei
termini dal 16 settembre compreso anche se il 15 cade di
sabato e il 16 di domenica (periodo di sospensione di 46
giorni); se invece il termine iniziale di decorrenza
processuale cade all'interno del periodo 1° agosto - 15.09.2012: il decorso dei termini parte dal 16
settembre, anche se il 15 cade di sabato e il 16 di domenica
(periodo di sospensione di 46 giorni), salvo che il 16
rappresenti l'ultimo giorno per il compimento di un atto
processuale; in quest'ultimo caso, infatti, il termine per
il compimento dell'atto slitta dal 16 settembre al 17.09.2012 (periodo di sospensione di 47 giorni).
Nell'ordinamento tributario, la sospensione interessa, in
primis, le scadenze relative alla presentazione del ricorso
contro gli atti impositivi, sia introduttivo sia
costitutivo, in tutti i gradi di giudizio, dal primo alla
Cassazione, ma anche, per esempio, i depositi di documenti
e/o memorie illustrative.
Ne deriva, per esempio, che nel caso in cui la notifica
dell'atto di accertamento sia intervenuta prima del periodo
di sospensione feriale, ossia prima del 01.08.2012, il
computo dei 60 giorni utili per la proposizione del ricorso
si ottiene sommando il periodo decorso anteriormente al 1°
agosto a quello successivo al 15.09.2012.
Nel caso, invece, in cui la notifica dell'atto di
accertamento sia intervenuta tra il 01.08.2012 e il 15.09.2012, ossia durante il periodo feriale, il computo
del termine di 60 giorni inizierà dal 16.09.2012,
salvo che il 16 rappresenti l'ultimo giorno per il
compimento di un atto processuale; in quest'ultimo caso,
infatti, il termine per il compimento dell'atto slitta dal
16 settembre al 17.09.2012 (il periodo di sospensione
diventa di 47 giorni). Particolare attenzione deve essere
posta alla gestione degli strumenti deflattivi del
contenzioso; in generale i termini previsti per la
definizione con adesione godono della sospensione feriale.
Così si cumulano i giorni previsti per il perfezionamento
dell'adesione con quelli relativi alla sospensione feriale.
In generale lo stop si applica a tutti quegli atti avverso i
quali le parti possono proporre ricorso (o resistere) entro
un certo termine; in determinate circostanze la sospensione
interessa anche i termini per il pagamento degli importi
indicati negli atti impositivi; ciò avviene quando gli
stessi atti fanno riferimento, per il versamento, al termine
per la proposizione del ricorso. È il caso dei nuovi
accertamenti esecutivi (articolo 29, dl 78/2010) per i quali
si prevede che l'avviso contenga anche l'intimazione ad
adempiere «entro il termine di presentazione del ricorso,
all'obbligo di pagamento degli importi negli stessi
indicati, ovvero, in caso di tempestiva proposizione del
ricorso e a titolo provvisorio, degli importi stabiliti
dall'articolo 15 del dpr 29.09.1973, n. 602».
Al di
là dei casi appena visti, la sospensione feriale non
riguarda gli altri adempimenti previsti dalla disciplina
tributaria, primi fra tutti i termini di versamento delle
imposte. E la sospensione non si applica per i procedimenti
cautelari, relativi alla concessione di ipoteca o sequestro
conservativo (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.09.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti, in
autunno si cambia.
Nuove regole su Sistri, sottoprodotti e sostanze pericolose.
Con tre provvedimenti il legislatore
di agosto ha riformulato le principali norme ambientali.
Conferma dell'attuale sospensione del Sistri, ma con
parallelo rinnovo delle regole operative in vista del suo
futuro funzionamento e «querelle» sul pagamento del
contributo per l'anno 2012. Queste, insieme alla
rivisitazione delle norme su sottoprodotti, rifiuti
agricoli, export di sostanze pericolose e recupero dei
vapori di benzina nei distributori di carburanti, le novità
ambientali che caratterizzeranno l'autunno di imprese e
operatori del settore.
A veicolare le numerose novità tre
provvedimenti: la legge 134/2012 di conversione del cd. «dl
crescita» (in tema di sospensione Sistri, sottoprodotti,
rifiuti agricoli, export di «Cov»), il dm Minambiente
141/2012 (di riformulazione delle regole Sistri), il dlgs
125/2012 (sul recupero dei vapori di benzina).
Sistri. La legge 134/2012 (Supplemento ordinario n. 171 alla
G.U. 11.08.2012 n. 187) di conversione del dl 83/2012 ha
confermato la sospensione del sistema di tracciamento
telematico dei rifiuti così come prevista dall'originaria
formulazione del decreto d'urgenza, ossia fino al nuovo
termine iniziale di operatività che sarà stabilito dal Minambiente con proprio decreto all'esito delle verifiche
amministrative e funzionali del sistema (verifiche affidate
allo stesso dicastero dal precedente dl 138/2011) e comunque
non oltre il 30.06.2013.
La stessa legge 134/2012 ha
confermato la sospensione dell'obbligo di pagamento del
contributo Sistri per l'anno 2012 prevista dal dl 83/2012.
Ma il dm ambiente 25.05.2012, n. 141 recante modifiche
al Tu Sistri (G.U. 23.08.2012 n. 196) ne ha invece
previsto il suo ripristino, mediante una disposizione che
fissa quale termine ultimo per il pagamento quello del
prossimo 30.11.2012. Disposizione che, allo stato
attuale, appare priva di un fondamento di legittimità, per
essere veicolata da un provvedimento (il decreto
ministeriale in parola) in contrasto con l'opposta e citata
disposizione recata invece da fonte di diritto
gerarchicamente superiore (la legge 134/2012).
Obblighi e responsabilità operatori Sistri. Il nuovo e
citato dm ambiente 141/2012 opera la rivisitazione di alcuni
punti nodali del dm ambiente 18.02.2011, n. 52 (c.d.
Testo unico Sistri) relativi a procedure di iscrizione al
sistema, responsabilità dei produttori dei rifiuti,
adempimenti procedurali nella gestione dei medesimi.
In
relazione all'obbligo di iscrizione viene introdotta la
facoltà per gli enti titolari dell'autorizzazione di
impianti pubblici di trattamento di rifiuti di delegare, in
attesa della voltura dell'autorizzazione, iscrizione e
procedure Sistri a terzi soggetti in possesso dei requisiti
per la gestione impianti in conto terzi, ai quali è affidata
la gestione dell'impianto, dandone comunicazione al Sistri.
In relazione, invece, alla responsabilità dei produttori di
rifiuti, il nuovo dm 141/2012 prevede un ulteriore onere a
loro carico per evitare la diretta responsabilità in caso di
mala gestione dei rifiuti operata a valle.
I produttori di
rifiuti operanti in regime telematico Sistri che
consegneranno a terzi i rifiuti per la loro gestione, nel
caso in cui non riceveranno dal cervellone Sistri la (già)
prevista email che conferma la ricezione dei rifiuti da
parte dell'impianto di destinazione, dovranno infatti, per
essere esentati da ogni responsabilità, darne immediata
comunicazione al Sistri e alla provincia territorialmente
competente.
Il nuovo dm di riformulazione del T.u. Sistri
ritocca infine, e per l'ennesima volta, le regole
procedurali relativa all'interazione tra operatori e
cervellone informatico dello stato in relazione alla
gestione di rifiuti pericolosi, sanitari, rifiuti di
apparecchiature elettriche ed elettroniche.
Nuovi sottoprodotti. Per effetto della citata legge 134/2012
di conversione del «dl crescita» esordisce nel novero dei
sottoprodotti (ossia delle materie non sottoposte alle
regole sui rifiuti ex dlgs 152/2006) il digestato ottenuto
da effluenti di allevamento o residui vegetali in impianti
aziendali e utilizzato per fini agronomici secondo, però, i
parametri che saranno individuati da un futuro Minambiente.
Gestione rifiuti agricoli. Non solo il trasporto verso una
cooperativa agricola, ma dal 12.08.2012 (data di entrata
in vigore della legge di conversione del dl crescita) anche
quello verso il consorzio agrario effettuato
dall'imprenditore agricolo socio e finalizzato al
raggiungimento del deposito temporaneo non è più considerato
tecnicamente un «trasporto di rifiuti».
La legge 134/2012
allarga, infatti, il novero delle ipotesi (già) previste dal dlgs 152/2006 per le quali non è giuridicamente «trasporto
di rifiuti» (con il conseguente venir meno degli obblighi di
tenuta del formulario di trasporto e del tracciamento
telematico Sistri, ove previsto) la movimentazione dei
rifiuti agricoli.
Export extra Ue di «Cov». È diventata definitiva dal 12.08.2012 la deroga al divieto di vendita a paesi extra Ue
di pitture, vernici e prodotti per carrozzeria con limiti di
composti organici volatili (c.d. «Cov») superiori a quelli
previsti nell'allegato II del dlgs 27.03.2006, n. 161.
Mediante la diretta modifica del decreto legislativo in
parola, la legge 134/2012 ha infatti eliminato ogni termine
finale alla deroga in parola, rendendo lecita l'esportazione
verso Paesi diversi da quelli Ue pitture, vernici e prodotti
per carrozzeria con concentrazioni di sostanze pericolose
superiori ai limiti citati.
Recupero vapori benzina. Scattato, invece, il 21.08.2012
per i grandi impianti di distribuzione di benzina l'obbligo
di dotarsi dei nuovi sistemi di recupero dei vapori dei
carburanti emessi in atmosfera durante il rifornimento dei
veicoli.
L'adeguamento ai nuovi sistemi di cd. «Fase II»
(che consentono un recupero dell'85% degli inquinanti) è
imposto attraverso la modifica del dlgs 152/2006 (cd.
«Codice ambientale») dal nuovo dlgs 30.07.2012 n. 125
(G.U. 06.08.2012 n. 182) sia agli impianti autorizzati
dopo 01/01/2012 (c.d. impianti «nuovi») che a quelli
preesistenti ma ristrutturati dopo tale data che hanno un
flusso anno di erogazione di carburante superiore a 500
metri cubi annui (100 se localizzati in prossimità di
edifici residenziali o lavorativi).
L'adeguamento ai sistemi
di «Fase II» sarà obbligatorio (entro però il più lontano
termine finale del 31/12/2018) anche per i vecchi impianti
con flusso superiore a 3000 metri cubi annui. Per tutti gli
altri e diversi impianti di distribuzione è invece
sufficiente un allineamento dei sistemi di recupero
esistenti ai nuovi requisiti di efficienza stabiliti dallo
stesso dlgs 125/2012 (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.09.2012). |
VARI:
La telefonata
viaggia via internet.
I vantaggi: niente canone e costi al minuto molto ridotti.
Crescono gli utenti che ricorrono a
Google, Messagenet e
Skype per chiamare verso fissi e cellulari.
Telefonare a basso costo sfruttando la connessione a
internet. Sono in costante aumento gli utenti che per
chiamare o ricevere telefonate verso fissi e cellulari
ricorrono a piattaforme come Skype, Google o Messagenet.
Costi al minuto decisamente inferiori rispetto agli
operatori tradizionali e l'assenza del canone rendono,
infatti, il Voip (Voice over internet protocol) molto
vantaggioso in numerose situazioni come, per esempio, la
necessità di effettuare lunghe telefonate di lavoro o
chiamate all'estero.
Vediamo le offerte degli operatori.
Chiamate Voip in aumento. Secondo una ricerca di TeleGeography, osservatorio di ricerca specializzato nel
mercato delle telecomunicazioni, nel 2011 il traffico delle
chiamate internazionali effettuate attraverso il servizio
Skype to Skype è aumentato del 48% rispetto all'anno
precedente, contro il 4% registrato dagli operatori
telefonici tradizionali. Un fenomeno che, secondo gli
analisti, è destinato a prendere sempre più piede e che
nell'immediato futuro potrebbe soppiantare definitivamente
le chiamate telefoniche tradizionali.
Per questo, gli
operatori si stanno muovendo nel tentativo di limitare i
danni: entro fine anno dovrebbe, infatti, essere lanciata Joyn, una nuova piattaforma per chiamate via internet e
messaggistica istantanea, sponsorizzata dalle maggiori
compagnie telefoniche europee, tra cui Vodafone e Deutsche
telekom.
Le offerte degli operatori. Uno dei maggiori programmi per
parlare via internet è Skype che può essere scaricato
gratuitamente. La compagnia offre diversi pacchetti
tariffari: a consumo in cui il prezzo per una chiamata verso
fissi e cellulari parte da 2,2 centesimi di euro al minuto
oppure con abbonamento mensile che permette di effettuare
chiamate illimitate a partire da 1,02 euro al mese.
Le
chiamate vengono arrotondate al minuto successivo ed è
previsto un costo aggiuntivo legato allo scatto alla
risposta. Skype propone, inoltre, i pacchetti «Senza Limiti
Europa», che prevede chiamate illimitate verso i fissi di 20
paesi europei (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.09.2012). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
Le forniture. Spetta al responsabile della spesa il
monitoraggio sugli appalti.
Contratti da aggiornare dopo i limiti agli acquisti.
I decreti sulla spending review comportano per i
responsabili di servizio degli enti locali un percorso con
alcuni passaggi preliminari obbligatori per la corretta
formalizzazione degli acquisti di beni e servizi.
Il soggetto che ha i poteri di spesa deve anzitutto
verificare che il bene o il servizio da acquisire non
rientri tra queste categorie merceologiche: energia
elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra-rete,
combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia
mobile. Perché se vi rientra l'amministrazione deve
approvvigionarsi attraverso le convenzioni o gli accordi
quadro messi a disposizione da Consip e dalle centrali di
committenza regionali di riferimento.
L'ente può comunque esperire proprie procedure di acquisto
utilizzando i mercati elettronici di Consip o delle centrali
regionali.
Il responsabile di servizio può sviluppare anche una
procedura di gara «in proprio», secondo modalità
tradizionali o ricorrendo ad altre centrali di committenza
pubbliche, ma l'affidamento dovrà avvenire a prezzi
inferiori a quelli delle convenzioni di Consip e delle
centrali regionali. E i contratti dovranno contenere una
clausola risolutiva che scatta se sopravvengono convenzioni
centralizzate con prezzi più convenienti.
Per tutte le altre tipologie di beni e servizi, il
responsabile di servizio di un ente locale può sviluppare
un'autonoma procedura di acquisto (sia con gara sia in
economia), ma deve utilizzare i parametri di qualità e
prezzo delle convenzioni Consip come basi d'asta e di
riferimento, in prospettiva migliorativa.
In base al comma 13 dell'articolo 1 del Dl 95/2012 il
responsabile di servizio può recedere da un appalto per beni
o servizi con contratto in essere, se sopravvengono
convenzioni Consip o delle centrali regionali con prezzi più
vantaggiosi (tenendo conto di quanto già eseguito e di
quanto da eseguire) e se l'appaltatore non vuole adeguarsi a
questi prezzi.
La clausola di recesso (che si inserisce automaticamente nei
contratti in corso in base all'articolo 1339 del Codice
civile) deve essere specificata in tutti i contratti di
appalto e ogni patto contrario è nullo.
Il responsabile delle procedure di acquisto deve ricorrere
invece al mercato elettronico della Pa (Mepa), sia di Consip
che delle altre centrali o di altre amministrazioni, per
beni o servizi di valore inferiore alla soglia comunitaria,
in base a quanto previsto dall'articolo 1, comma 450 della
legge 296/2006.
Se l'amministrazione ha strutturato un proprio mercato
elettronico questo diventa lo strumento prioritario di
acquisto per beni e servizi sotto la soglia comunitaria.
Lo sviluppo di procedure di gara sottosoglia o l'affidamento
mediante procedure in economia sono possibili solo per i
beni e i servizi non acquisibili mediante il Mepa (articolo Il Sole 24 Ore
del 03.09.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: Risulta carente di
motivazione il diniego di concessione [o autorizzazione
edilizia] fondato su un generico contrasto dell’opera con
leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il
diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si
assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni
di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in
modo da consentire all’interessato da un lato di rendersi
conto degli impedimenti che si frappongono alla
[realizzazione dell’opera], dall’altro di confutare in
giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la
legittimità del provvedimento impugnato.
... per l’annullamento del provvedimento negativo del 09.10.1998, prot. n. 4903, con il quale il Sindaco di
Castelseprio non ha autorizzato la posa di una struttura
rimovibile aperta in ferro all’interno dello stabilimento
industriale della ricorrente, respingendo in tal modo
l’istanza di autorizzazione edilizia presentata in data 28.05.1998, prot. n. 2606.
...
Il provvedimento impugnato non richiama, a
sostegno di quanto affermato nello stesso, alcuna normativa
in materia edilizia, né indica in modo specifico una
prescrizione contenuta negli strumenti urbanistici o edilizi
che impedirebbe la realizzazione del manufatto, secondo
quanto richiesto dalla ricorrente.
Ciò si pone in contrasto con quell’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale risulta “carente di
motivazione il diniego di concessione [o autorizzazione
edilizia] fondato su un generico contrasto dell’opera con
leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il
diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si
assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni
di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in
modo da consentire all’interessato da un lato di rendersi
conto degli impedimenti che si frappongono alla
[realizzazione dell’opera], dall’altro di confutare in
giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la
legittimità del provvedimento impugnato” (TAR Lombardia,
Milano, IV, 17.01.2012, n. 153; TAR Liguria, I, 11.07.2011, n. 1086).
Inoltre risultano del tutto apodittiche e immotivate le
affermazioni in ordine alla temporaneità e rimovibilità
dell’opera, visto che dal progetto emerge con evidenza che
si tratta di una copertura mobile da utilizzare al fine di
far fronte alle variabili condizioni meteorologiche ed è
indicata con chiarezza la tipologia costruttiva dello stesso
(si veda il progetto allegato alla domanda di
autorizzazione, unitamente alla restante documentazione
prodotta: all. 2, 3, 4 e 6 al ricorso).
Infine, appare contraddittoria e illogica la
determinazione comunale che, in prima battuta, ritiene
inammissibile la realizzazione del manufatto (l’incoerenza
del progetto e l’estraneità al contesto locale della
soluzione tipo-morfologico) e, poi, sembra adombrare una
possibile positiva soluzione di riesame, attraverso la sola
revisione della tipologia di copertura, da parametrare su
quelle previste per il centro storico, pur dovendosi
realizzare il manufatto in una zona industriale e in aperta
campagna
(TAR Lombardia-Milano, Se. IV,
sentenza 07.09.2012 n. 2259 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: La comunicazione [di avvio del procedimento] è
superflua –con prevalenza dei principi di economicità e
speditezza dell’azione amministrativa– quando l’interessato
sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono
comunque all’apertura di un procedimento con effetti lesivi
nei suoi confronti.
---------------
L’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, comma 3, stabilisce
che “chiunque violi i doveri di cui ai commi 1 e 2 [ovvero
abbandoni di rifiuti o compia attività simili] è tenuto a
procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo
smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato luoghi
in solido con il proprietario e con i titolari di diritti
reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale
violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base
agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente tali
accertamenti sono necessari e non possono essere omessi.
Allorquando tali accertamenti non siano effettuati l’ordine
di rimozione risulta illegittimo per mancanza di
responsabilità imputabile del proprietario del bene su cui i
rifiuti sono stati abbandonati.
Va premesso che nessuna violazione della
normativa sul procedimento è stata compita dal Comune,
atteso che la ricorrente era stata già avvisata in ordine
alle possibili conseguenze di una sua inerzia nell’attività
di rimozione e di smaltimento dei rifiuti abbandonati sulla
sua proprietà, come emerge dalle premesse del provvedimento
impugnato. Pur nella ristrettezza dei tempi procedimentali,
comunque giustificata dalla tipologia di intervento da
effettuare, la parte privata ha potuto interloquire con
l’Amministrazione e prospettare la sua posizione.
Difatti
secondo una recente giurisprudenza, condivisa da questo
Collegio, “la comunicazione [di avvio del procedimento] è
superflua –con prevalenza dei principi di economicità e
speditezza dell’azione amministrativa– quando l’interessato
sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono
comunque all’apertura di un procedimento con effetti lesivi
nei suoi confronti” (Consiglio di Stato, IV, 15.12.2011, n. 6618).
Tuttavia, proprio in ragione dei contatti intercorsi
con l’odierna ricorrente, il Comune avrebbe dovuto
provvedere a porre in essere una istruttoria effettiva e
approfondita, attraverso la quale verificare se l’abbandono
dei rifiuti nella proprietà della ricorrente fosse alla
stessa imputabile a qualche titolo, oppure non vi fosse
alcuna responsabilità colpevole della proprietaria
nell’accumulo incontrollato dei rifiuti.
Tale indagine è assolutamente mancata e quindi il Comune ha
provveduto ad ordinare alla ricorrente la rimozione dei
rifiuti soltanto perché proprietaria del sito in cui si è
verificato l’abbandono.
La determinazione comunale non appare legittima proprio
sulla base della norma richiamata nelle premesse
dell’ordinanza impugnata, ovvero l’art. 192 del D.Lgs. n.
152 del 2006, che al comma 3 stabilisce che “chiunque violi
i doveri di cui ai commi 1 e 2 [ovvero abbandoni di rifiuti
o compia attività simili] è tenuto a procedere alla
rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato luoghi in solido con il
proprietario e con i titolari di diritti reali o personali
di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia
imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo” (Consiglio
di Stato, V, 25.06.2010, n. 4073).
Secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente tali
accertamenti sono necessari e non possono essere omessi
(TAR Puglia, Lecce, I, 13.04.2012, 642; TAR
Lombardia, Milano, IV, 07.06.2011, n. 1408).
Appare opportuno precisare, altresì, che ben sarebbe stato
possibile che, in seguito alle predette indagini, fosse
stata accertata una responsabilità dolosa o colposa, anche
di tipo omissivo, in capo al proprietario, come adombrato
dal Comune resistente nelle sue difese: nel caso di specie,
però tale accertamento non è stato affatto effettuato e
quindi l’ordine di rimozione risulta illegittimo per
mancanza di responsabilità imputabile del proprietario del
bene su cui i rifiuti sono stati abbandonati (Consiglio di
Stato, V, 16.07.2010, n. 4614)
(TAR Lombardia-Milano, Se. IV,
sentenza 07.09.2012 n. 2254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: E'
illegittimo, per difetto di motivazione, il diniego di un
accertamento di conformità che non indichi i concreti
elementi ostativi all’accoglimento della domanda;
l’Amministrazione, infatti, è tenuta a illustrare nel
provvedimento i presupposti di fatto e le motivazioni
giuridiche sulle quali si fonda l’esercizio del potere, in
relazione alle risultanze dell’istruttoria, sia al fine di
rendere edotti i destinatari dell’attività amministrativa
del percorso seguito per giungere alla predetta decisione,
sia per consentire al giudice, eventualmente investito della
questione, di sindacarne lo svolgimento e l’esito finale.
Il ricorso è fondato.
Il diniego di concessione edilizia non è stato accolto
semplicemente: “perché l’intervento non è regolamentare”,
formula apodittica che non indica le norme violate né dà
conto della presunte irregolarità rispetto alla disciplina
edilizia, in sostanza, eludendo l’obbligo di motivazione.
Nella specie, secondo giurisprudenza consolidata, è
illegittimo, per difetto di motivazione, il diniego di un
accertamento di conformità che non indichi i concreti
elementi ostativi all’accoglimento della domanda;
l’Amministrazione, infatti, è tenuta a illustrare nel
provvedimento i presupposti di fatto e le motivazioni
giuridiche sulle quali si fonda l’esercizio del potere, in
relazione alle risultanze dell’istruttoria, sia al fine di
rendere edotti i destinatari dell’attività amministrativa
del percorso seguito per giungere alla predetta decisione,
sia per consentire al giudice, eventualmente investito della
questione, di sindacarne lo svolgimento e l’esito finale
(TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 25.11.2011, n. 1132)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.09.2012 n. 1485 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
sede edilizia la nozione di pertinenza va definita sia in
relazione alla necessità e oggettività del rapporto
pertinenziale sia alla consistenza dell’opera, che non deve
essere tale da alterare in modo significativo l’assetto del
territorio.
In particolare, la realizzazione di una tettoia ovvero di
una veranda aperta è soggetta al preventivo rilascio del
permesso di costruire quando essa, pur avendo carattere
pertinenziale rispetto all’immobile cui accede, incide
sull’assetto edilizio preesistente.
La pertinenza urbanistica, sottratta al regime della
concessione edilizia, ha, infatti, caratteristiche diverse
da quella contemplata dal codice civile, sostanziandosi
nella destinazione strumentale alle esigenze dell’immobile
principale, risultante, sotto il profilo funzionale, da
elementi oggettivi, e, in particolare, dalla ridotta
dimensione sia in senso assoluto che in relazione a quella
al cui servizio è complementare oltre che dall’ubicazione,
dal valore economico rispetto alla cosa principale e
dall’assenza del c.d. carico urbanistico.
Il manufatto che genera una rilevante alterazione del
territorio per dimensioni e struttura, pertanto, non può
costituire pertinenza ai fini urbanistici a prescindere dal
rilievo per cui, su area vincolata, la demolizione si impone
ogni qualvolta l’intervento non sia stato preceduto da
idoneo titolo proveniente dall’autorità preposta al vincolo.
Al riguardo il Collegio ritiene
opportuno precisare che:
- in sede edilizia la nozione di pertinenza va definita sia
in relazione alla necessità e oggettività del rapporto
pertinenziale sia alla consistenza dell’opera, che non deve
essere tale da alterare in modo significativo l’assetto del
territorio (TAR Campania, Napoli, sez. II, 21.05.2009, n. 2829);
- in particolare, la realizzazione di una tettoia ovvero di
una veranda aperta è soggetta al preventivo rilascio del
permesso di costruire quando essa, pur avendo carattere
pertinenziale rispetto all’immobile cui accede, incide
sull’assetto edilizio preesistente (TAR Campania, Napoli,
sez. VII, 12.12.2007, n. 16226);
- la pertinenza urbanistica, sottratta al regime della
concessione edilizia, ha, infatti, caratteristiche diverse
da quella contemplata dal codice civile, sostanziandosi
nella destinazione strumentale alle esigenze dell’immobile
principale, risultante, sotto il profilo funzionale, da
elementi oggettivi, e, in particolare, dalla ridotta
dimensione sia in senso assoluto che in relazione a quella
al cui servizio è complementare oltre che dall’ubicazione,
dal valore economico rispetto alla cosa principale e
dall’assenza del c.d. carico urbanistico (TAR Puglia,
Lecce, sez. III, 24.10.2007, n. 3644; Cons. di Stato,
sez. V, 13.06.2006, n. 3490);
- il manufatto che genera una rilevante alterazione del
territorio per dimensioni e struttura, pertanto, non può
costituire pertinenza ai fini urbanistici a prescindere dal
rilievo per cui, su area vincolata, la demolizione si impone
ogni qualvolta l’intervento non sia stato preceduto da
idoneo titolo proveniente dall’autorità preposta al vincolo
(TAR Lazio, Roma, sez. I, 10.04.2012, n. 3265).
Invero, i manufatti in questione hanno
caratteristiche costruttive, dimensionali e funzionali tali
da indurre univocamente a ritenere che:
- non sono opere minori: anche se legate da un rapporto di
pertinenzialità con l’edificio principale, danno vita ad un
organismo diverso per caratteristiche plano-volumetriche da
quello oggetto della concessione, modificando la sagoma e il
contorno del fabbricato con aumento della superficie utile;
- ben si annoverano tra quelle che alterano visibilmente e
notevolmente lo stato dei luoghi, mutando in maniera
permanente e significativa l’assetto urbanistico-edilizio
del territorio;
- come tali sono senz’altro abbisognevoli del preventivo
rilascio del permesso di costruire.
Essendo, in tal caso prevista, in assenza del
necessario titolo abilitativo, l’irrogazione della sanzione
di tipo demolitorio-ripristinatorio (art. 31 del d.P.R. n.
380/2001) l’ingiunzione alla demolizione delle opere
risultate abusive, gravata, deve essere considerata
legittima
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.09.2012 n. 1484 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria
comporta l’esecuzione di interventi direttamente
riconducibili alla competenza funzionale
dell’Amministrazione comunale che ha l’obbligo di provvedere
alla loro completa definizione nel triennio dalla
concessione del titolo edilizio, salvo che l’onere sia
assunto, tramite specifico impegno, direttamente dal
privato, cosa non avvenuta nel caso all’esame.
Se, infatti, a norma dell’art. 12 T.U. n. 380/2001, “il
permesso di costruire è comunque subordinato all’esistenza
delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da
parte del Comune dell’attuazione delle stesse nel successivo
triennio, ovvero all’impegno degli interessati di procedere
all’attuazione delle medesime contemporaneamente alla
realizzazione dell’intervento oggetto del permesso”, il
Comune non può disattendere la richiesta formale di
allacciamento all’acquedotto o alla rete fognaria o di
distribuzione del gas, anche se nella richiesta di
concessione ne è indicato genericamente l’allacciamento.
Infatti, speculare alla suddetta prescrizione è l’obbligo di
pagamento di un contributo commisurato all’incidenza degli
oneri di urbanizzazione (art. 16 T.U. cit.) e il comma 7 del
precitato art. 16 contempla, tra gli interventi assoggettati
agli oneri di urbanizzazione primaria, proprio la rete
idrica, quella fognaria nonché quella di distribuzione del
gas.
Tali interventi sono, pertanto, primariamente riconducibili
al pubblico potere, così come è pianamente desumibile dalla
formulazione della norma e dalla stessa funzione di
necessaria definizione e realizzazione del tessuto cardine
del territorio su cui vanno a inserirsi gli interventi
privati (strade residenziali, spazi di sosta e parcheggio,
fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia
elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde
attrezzato). Ciò comporta, dunque, il prioritario impegno
pubblico -in sede di rilascio della concessione–
all’attuazione delle relative opere nel triennio.
Deve, tuttavia, effettivamente rilevarsi anche la
possibilità di un impegno, da parte del privato, alla
realizzazione delle opere medesime in sede di attuazione
dell’intervento oggetto del permesso.
L’art. 16, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (che ha
riprodotto l’art. 11, comma 1, l. n. 10 del 1977) consente,
però, al privato di eseguire direttamente le opere di
urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi
oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo
da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria), soltanto se la proposta sia
accettata dal Comune secondo le modalità e le garanzie dal
medesimo dettate e previste in una convenzione o in un atto
unilaterale d’obbligo.
Il ricorso è fondato.
La realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria
comporta l’esecuzione di interventi direttamente
riconducibili alla competenza funzionale
dell’Amministrazione comunale che ha l’obbligo di provvedere
alla loro completa definizione nel triennio dalla
concessione del titolo edilizio, salvo che l’onere sia
assunto, tramite specifico impegno, direttamente dal
privato, cosa non avvenuta nel caso all’esame.
Se, infatti, a norma dell’art. 12 T.U. n. 380/2001, “il
permesso di costruire è comunque subordinato all’esistenza
delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da
parte del Comune dell’attuazione delle stesse nel successivo
triennio, ovvero all’impegno degli interessati di procedere
all’attuazione delle medesime contemporaneamente alla
realizzazione dell’intervento oggetto del permesso”, il
Comune non può disattendere la richiesta formale di
allacciamento all’acquedotto o alla rete fognaria o di
distribuzione del gas, anche se nella richiesta di
concessione ne è indicato genericamente l’allacciamento.
Infatti, speculare alla suddetta prescrizione è l’obbligo di
pagamento di un contributo commisurato all’incidenza degli
oneri di urbanizzazione (art. 16 T.U. cit.) e il comma 7 del
precitato art. 16 contempla, tra gli interventi assoggettati
agli oneri di urbanizzazione primaria, proprio la rete
idrica, quella fognaria nonché quella di distribuzione del
gas.
Tali interventi sono, pertanto, primariamente riconducibili
al pubblico potere, così come è pianamente desumibile dalla
formulazione della norma e dalla stessa funzione di
necessaria definizione e realizzazione del tessuto cardine
del territorio su cui vanno a inserirsi gli interventi
privati (strade residenziali, spazi di sosta e parcheggio,
fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia
elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde
attrezzato). Ciò comporta, dunque, il prioritario impegno
pubblico -in sede di rilascio della concessione–
all’attuazione delle relative opere nel triennio.
Deve, tuttavia, effettivamente rilevarsi anche la
possibilità di un impegno, da parte del privato, alla
realizzazione delle opere medesime in sede di attuazione
dell’intervento oggetto del permesso (TAR Puglia, Lecce,
sez. III, 10.11.2011, n. 1938; Consiglio Stato, sez. IV, 26.11.2009, n. 7432).
L’art. 16, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (che ha
riprodotto l’art. 11, comma 1, l. n. 10 del 1977) consente,
però, al privato di eseguire direttamente le opere di
urbanizzazione in alternativa al pagamento dei connessi
oneri (con possibilità quindi di ottenerne poi lo scomputo
da quanto deve pagare a titolo di oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria), soltanto se la proposta sia
accettata dal Comune secondo le modalità e le garanzie dal
medesimo dettate e previste in una convenzione o in un atto
unilaterale d’obbligo (TAR Sicilia, Catania, sez. I,
02.02.2012, n. 279)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.09.2012 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
legittimità del provvedimento abilitativo assume
necessariamente a riferimento la normativa vigente al
momento della sua adozione.
---------------
L’art. 32, l. 28.02.1985 n. 47, nel testo risultante dalle
modifiche introdotte dalla l. 23.12.1996 n. 662
(diversamente dalla normativa attuale introdotta a seguito
della modifica attuata dall’art. 32, comma 43, d.l.
30.09.2003 n. 269, conv. in l. 24.11.2003 n. 326) ricollega
in generale all’inerzia dell’autorità preposta alla gestione
del vincolo il significato di parere favorevole e, per gli
immobili vincolati a norma della l. n. 1089 del 1939, come
nel caso di specie, di silenzio rifiuto, senza, peraltro,
operare alcuna distinzione in ordine all’epoca di
realizzazione dell’abuso (trattandosi di condono, gli
edifici devono essere, in entrambi i casi, necessariamente
preesistenti, non venendo in rilievo il caso di nuove
opere).
In particolare, nel caso di immobili sottoposti a vincolo
archeologico (cose d’interesse artistico e storico),
l’inerzia non vale come parere sfavorevole ma come mero
inadempimento dell’obbligo di provvedere, a fronte del quale
l’istante non ha onere di proporre il ricorso contro il
silenzio rifiuto ma una mera facoltà, gravando in ogni caso
sull’Amministrazione comunale l’onere di istruire la
pratica, richiedendo gli atti di assenso allo scopo
necessari per giungere comunque alla definizione del
procedimento.
-------------
La sanabilità degli abusi commessi in zona vincolata con
provvedimento anteriore alla realizzazione delle opere, deve
escludersi “a priori” ove il vincolo comporti
inedificabilità assoluta: nel caso dell’applicazione
dell’art. 32, sono, infatti, “fatte salve le fattispecie
previste dall’articolo 33” della medesima legge,
disciplinante, appunto, i vincoli assoluti.
Per quanto attiene alla ricostruzione
sistematica della normativa, si osserva quanto segue.
A) la legittimità del provvedimento abilitativo assume
necessariamente a riferimento la normativa vigente al
momento della sua adozione (TAR Toscana, Firenze, sez. III, 25.10.2011, n. 1550);
B) l’art. 32, l. 28.02.1985 n. 47, nel testo
risultante dalle modifiche introdotte dalla l. 23.12.1996 n. 662 (diversamente dalla normativa attuale introdotta
a seguito della modifica attuata dall’art. 32, comma 43,
d.l. 30.09.2003 n. 269, conv. in l. 24.11.2003
n. 326) ricollega in generale all’inerzia dell’autorità
preposta alla gestione del vincolo il significato di parere
favorevole e, per gli immobili vincolati a norma della l. n.
1089 del 1939, come nel caso di specie, di silenzio rifiuto,
senza, peraltro, operare alcuna distinzione in ordine
all’epoca di realizzazione dell’abuso (trattandosi di
condono, gli edifici devono essere, in entrambi i casi,
necessariamente preesistenti, non venendo in rilievo il caso
di nuove opere).
In particolare, nel caso di immobili sottoposti a vincolo
archeologico (cose d’interesse artistico e storico),
l’inerzia non vale come parere sfavorevole ma come mero
inadempimento dell’obbligo di provvedere, a fronte del quale
l’istante non ha onere di proporre il ricorso contro il
silenzio rifiuto ma una mera facoltà, gravando in ogni caso
sull’Amministrazione comunale l’onere di istruire la
pratica, richiedendo gli atti di assenso allo scopo
necessari per giungere comunque alla definizione del
procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 03.12.2009, n.
7566; TAR Lazio, Latina, sez. I, 19.12.2008, n.
1864);
C) la sanabilità degli abusi commessi in zona vincolata con
provvedimento anteriore alla realizzazione delle opere, deve
escludersi “a priori” ove il vincolo comporti inedificabilità assoluta: nel caso dell’applicazione
dell’art. 32, sono, infatti, “fatte salve le fattispecie
previste dall’articolo 33” della medesima legge,
disciplinante, appunto, i vincoli assoluti (TAR Puglia,
Bari, sez. III, 06.02.2009, n. 218)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.09.2012 n. 1477 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Con
riferimento al responsabile tecnico, tale figura non
è assimilabile, per tipologia di compiti e per i poteri ad
esso attribuiti, alla figura del direttore tecnico -peraltro
tipica negli appalti di lavori pubblici-, il quale è,
invece, espressamente menzionato nell’art. 38, d.lgs. n. 163
del 2006, quale soggetto tenuto alla dichiarazione di
moralità. Nella fattispecie, è fuori dubbio che il
responsabile tecnico risulta privo di quel significativo
ruolo decisionale e gestionale che possa farlo rientrare -in
assenza di più restrittive clausole di gara- tra i soggetti
tenuti all’obbligo di dichiarazione sui requisiti di
moralità.
Con riguardo al procuratore o legale rappresentante,
oltre all’insormontabile dato letterale, un’interpretazione
estensiva sarebbe opinabile in presenza di una radicale
diversità della situazione del titolare dell’impresa
individuale/amministratore, cui spettano compiti gestionali
e decisionali di indirizzi e scelte imprenditoriali, e
quella del procuratore, il quale, benché possa essere munito
di poteri di rappresentanza, è soggetto dotato di limitati
poteri rappresentativi e gestionali, ma non decisionali (nel
senso che i poteri di gestione sono pur sempre circoscritti
dalle direttive fornite da titolari
dell’impresa/amministratori). In altri termini le
manifestazioni di volontà del procuratore possono produrre
effetti nella sfera giuridica dell’impresa
individuale/società, ma ciò non significa che egli abbia un
ruolo nella determinazione delle scelte imprenditoriali,
lasciate al titolare dell’impresa/amministratore.
Più in generale, ritiene il Collegio che requisiti
soggettivi di partecipazione alla gara non possono essere
interpretati in modo estensivo o analogico, diretto, cioè, a
evidenziare significati impliciti, poiché le imprese devono
essere messe in condizione di conoscere con certezza quali
sono gli adempimenti occorrenti a soddisfare le prescrizioni
previste per legge, pena la lesione della trasparenza delle
regole di gara e, per conseguenza, della “par condicio
competitorum” e dell’esigenza della più ampia
partecipazione. Ne consegue che le norme di legge e di bando
in ordine alle dichiarazioni cui è tenuta l’impresa
partecipante alla gara devono essere interpretate dando
esclusiva prevalenza alle espressioni letterali in esse
contenute, nel rispetto del principio di tipicità e
tassatività delle ipotesi di esclusione che, di per sé,
costituiscono fattispecie di restrizione della libertà di
iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della
Costituzione, oltre che dal Trattato comunitario.
---------------
L’esclusione di un concorrente da una gara di appalto per
inadempimento delle prescrizioni formali di gara è doverosa
soltanto quando tali prescrizioni formali risultano
indicate, nel bando o nella lettera di invito o anche nel
capitolato speciale di appalto, in modo del tutto chiaro e
la relativa violazione risulti sanzionata in modo
altrettanto chiaro ed esplicito a pena di esclusione; non,
in applicazione del principio del “favor partecipationis”,
quando le stesse prescrizioni formali siano state formulate
in modo del tutto impreciso ed equivoco e comunque senza la
previsione esplicita della sanzione della automatica
esclusione dalla gara, in caso di violazione.
---------------
Non può identificarsi un obbligo di inclusione
nell’intestazione della cauzione provvisoria riferito alle
imprese ausiliarie discendente dall’art. 49, d.lgs. n. 163
del 2006, posto che tale norma, dopo aver contemplato un
regime di responsabilità solidale tra l’impresa avvalente e
quella ausiliaria, dispone che il contratto di appalto è
comunque eseguito dall’impresa avvalente, a nome della quale
è rilasciato il certificato di esecuzione dei lavori.
Se lo stesso legislatore individua dunque nell’impresa
avvalente l’unico soggetto titolare del contratto di
appalto, risulta allora del tutto illogico affermare che
l’onere cauzionale deve gravare (anche) su di un soggetto
ulteriore e diverso, in ordine al quale rileva solo il
rapporto interno con l’avvalente medesimo, ferma restando la
predetta responsabilità solidale “ex lege” dell’ausiliario
nei confronti dell’Amministrazione aggiudicatrice.
Conseguentemente, in mancanza di una specifica previsione di
esclusione nel caso in cui la polizza fideiussoria
presentata da un concorrente non preveda tra i soggetti
garantiti anche l’impresa indicata come ausiliaria nella
domanda di partecipazione e non esistendo alcuna norma di
legge che imponga l’onere in questione, deve ritenersi
legittimo l’operato dell'Amministrazione che non ha escluso
dalla gara la concorrente.
---------------
Aderendo all’orientamento giurisprudenziale che fa leva
sulla portata letterale dell’art. 38 del d.lgs. n. 163 del
2006 occorre osservare che, laddove si è intesa estendere la
portata del comma 1, lett. b), della norma, è stato
necessario un intervento legislativo, come è appunto quello
operato con il d.l. 13.05.2011, n. 70 convertito in
12.07.2011, n. 106 che ha introdotto la specificazione.
Ora, comminando l’esclusione per l’assenza di tali
dichiarazioni, tale norma non può essere estesa ai soggetti
che in essa non vi sono ricompresi senza violare il
principio di tassatività delle cause di esclusione,
principio che, peraltro, ha trovato una sua esplicita
previsione normativa con l’introduzione, all’art. 46 del
d.lgs. n. 163 del 2006, del comma 1-bis.
L’art. 38, d.lgs. 12.04.2006 n. 163,
nell’individuare i soggetti tenuti a rendere la
dichiarazione, fa riferimento soltanto al titolare, se si
tratta di impresa individuale, e, con riferimento ad altro
tipo di società, agli amministratori muniti di potere di
rappresentanza, ossia, ai soggetti che siano titolari di
ampi e generali poteri di amministrazione, nonché, per
entrambi i casi, al direttore tecnico, senza estendere tale
obbligo anche ai procuratori o legali rappresentanti e ai
responsabili tecnici.
La clausola è insuscettibile di applicazione analogica a
situazioni diverse.
Con riferimento al responsabile tecnico, tale
figura non è assimilabile, per tipologia di compiti e
per i poteri ad esso attribuiti, alla figura del direttore
tecnico -peraltro tipica negli appalti di lavori pubblici-, il quale è, invece, espressamente menzionato nell’art.
38, d.lgs. n. 163 del 2006, quale soggetto tenuto alla
dichiarazione di moralità. Nella fattispecie, è fuori dubbio
che il responsabile tecnico risulta privo di quel
significativo ruolo decisionale e gestionale che possa farlo
rientrare -in assenza di più restrittive clausole di gara-
tra i soggetti tenuti all’obbligo di dichiarazione sui
requisiti di moralità (TAR Campania, Napoli, sez. I, 18.03.2011, n. 1498; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 10.02.2011, n. 296).
Con riguardo al procuratore o legale
rappresentante, oltre all’insormontabile dato letterale,
un’interpretazione estensiva sarebbe opinabile in presenza
di una radicale diversità della situazione del titolare
dell’impresa individuale/amministratore, cui spettano
compiti gestionali e decisionali di indirizzi e scelte
imprenditoriali, e quella del procuratore, il quale, benché
possa essere munito di poteri di rappresentanza, è soggetto
dotato di limitati poteri rappresentativi e gestionali, ma
non decisionali (nel senso che i poteri di gestione sono pur
sempre circoscritti dalle direttive fornite da titolari
dell’impresa/amministratori). In altri termini le
manifestazioni di volontà del procuratore possono produrre
effetti nella sfera giuridica dell’impresa
individuale/società, ma ciò non significa che egli abbia un
ruolo nella determinazione delle scelte imprenditoriali,
lasciate al titolare dell’impresa/amministratore (Cons. di
Stato, sez. V, 23.05.2011, n. 3069; TAR Lombardia,
Brescia, sez. II, 07.04.2011, n. 527).
Più in generale, ritiene il Collegio che requisiti
soggettivi di partecipazione alla gara non possono essere
interpretati in modo estensivo o analogico, diretto, cioè, a
evidenziare significati impliciti, poiché le imprese devono
essere messe in condizione di conoscere con certezza quali
sono gli adempimenti occorrenti a soddisfare le prescrizioni
previste per legge, pena la lesione della trasparenza delle
regole di gara e, per conseguenza, della “par condicio competitorum” e dell’esigenza della più ampia
partecipazione. Ne consegue che le norme di legge e di bando
in ordine alle dichiarazioni cui è tenuta l’impresa
partecipante alla gara devono essere interpretate dando
esclusiva prevalenza alle espressioni letterali in esse
contenute, nel rispetto del principio di tipicità e
tassatività delle ipotesi di esclusione che, di per sé,
costituiscono fattispecie di restrizione della libertà di
iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della
Costituzione, oltre che dal Trattato comunitario (nello
stesso senso, TAR Lecce, sez. II, 16.08.2011, n.
1496).
---------------
Non ultima è la
considerazione che l’esclusione di un concorrente da una
gara di appalto per inadempimento delle prescrizioni formali
di gara è doverosa soltanto quando tali prescrizioni formali
risultano indicate, nel bando o nella lettera di invito o
anche nel capitolato speciale di appalto, in modo del tutto
chiaro e la relativa violazione risulti sanzionata in modo
altrettanto chiaro ed esplicito a pena di esclusione; non,
in applicazione del principio del “favor partecipationis”,
quando le stesse prescrizioni formali siano state formulate
in modo del tutto impreciso ed equivoco e comunque senza la
previsione esplicita della sanzione della automatica
esclusione dalla gara, in caso di violazione (Consiglio di
Stato, sez. V, 11.01.2011, n. 78).
---------------
In tema di gara
d’appalto, va rilevato che non può identificarsi un obbligo
di inclusione nell’intestazione della cauzione provvisoria
riferito alle imprese ausiliarie discendente dall’art. 49,
d.lgs. n. 163 del 2006, posto che tale norma, dopo aver
contemplato un regime di responsabilità solidale tra
l’impresa avvalente e quella ausiliaria, dispone che il
contratto di appalto è comunque eseguito dall’impresa
avvalente, a nome della quale è rilasciato il certificato di
esecuzione dei lavori.
Se lo stesso legislatore individua
dunque nell’impresa avvalente l’unico soggetto titolare del
contratto di appalto, risulta allora del tutto illogico
affermare che l’onere cauzionale deve gravare (anche) su di
un soggetto ulteriore e diverso, in ordine al quale rileva
solo il rapporto interno con l’avvalente medesimo, ferma
restando la predetta responsabilità solidale “ex lege”
dell’ausiliario nei confronti dell’Amministrazione
aggiudicatrice (TAR Puglia, Lecce, sez. II, 26.10.2011, n. 1876, idem sez. III, 21.04.2011, n. 723; TAR
Veneto, Venezia, sez. I, 10.01.2011, n. 12).
Conseguentemente, in mancanza di una specifica
previsione di esclusione nel caso in cui la polizza
fideiussoria presentata da un concorrente non preveda tra i
soggetti garantiti anche l’impresa indicata come ausiliaria
nella domanda di partecipazione e non esistendo alcuna norma
di legge che imponga l’onere in questione, deve ritenersi
legittimo l’operato dell'Amministrazione che non ha escluso
dalla gara la concorrente (TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.03.2012, n. 2230).
---------------
Aderendo all’orientamento
giurisprudenziale che fa leva sulla portata letterale
dell’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 occorre, infatti,
osservare che, laddove si è intesa estendere la portata del
comma 1, lett. b), della norma, è stato necessario un
intervento legislativo, come è appunto quello operato con il
d.l. 13.05.2011, n. 70 convertito in 12.07.2011, n.
106 che ha introdotto la specificazione.
Ora, comminando
l’esclusione per l’assenza di tali dichiarazioni, tale norma
non può essere estesa ai soggetti che in essa non vi sono
ricompresi senza violare il principio di tassatività delle
cause di esclusione, principio che, peraltro, ha trovato una
sua esplicita previsione normativa con l’introduzione,
all’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, del comma 1-bis
(TAR Lazio, Roma, sez. III, 27.06.2012, n. 5860;
TAR Campania, Napoli, sez. II, 17.02.2012, n. 847) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.09.2012 n. 1472 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: In
tema di affidamento di un appalto di servizio, gli elementi
rivelatori del possesso della capacità tecnica contemplati
dall’art. 42, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, non assumono
carattere tassativo, non essendo impedito alla P.A. di
individuare altri parametri di riferimento, purché ciò
avvenga entro i limiti della logicità e della
proporzionalità e sempre che questi non rappresentino un
evidente limitazione alla partecipazione alla gara.
Secondo consolidato
orientamento giurisprudenziale, in tema di affidamento di un appalto di servizio, gli
elementi rivelatori del possesso della capacità tecnica
contemplati dall’art. 42, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, non
assumono carattere tassativo, non essendo impedito alla P.A.
di individuare altri parametri di riferimento, purché ciò
avvenga entro i limiti della logicità e della
proporzionalità e sempre che questi non rappresentino un
evidente limitazione alla partecipazione alla gara (TAR
Sicilia, Palermo, sez. III, 18.03.2011, n. 504; TAR
Lazio, Roma, sez. II, 07.10.2010, n. 32717) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.09.2012 n. 1472 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROGETTAZIONE: La
regola ex art. 90, comma 8, dlgs 163/2006 è espressione del
principio generale di trasparenza ed imparzialità, la cui
applicazione è necessaria per garantire parità di
trattamento, che ha per suo indefettibile presupposto il
fatto che i concorrenti a una procedura di evidenza pubblica
debbano rivestire la medesima posizione.
Il legislatore, vietando a coloro che direttamente o
indirettamente (agli affidatari degli incarichi di
progettazione e ai loro dipendenti e collaboratori) abbiano
partecipato alla progettazione di concorrere nelle gare per
l’affidamento dell’esecuzione dei lavori progettati, ha
voluto assicurare la massima autonomia e l’assoluta
separazione tra attività di progettazione dei lavori e le
attività esecutive degli stessi e, quindi, evitare che il
redattore del progetto possa essere in modo diretto o
indiretto anche l’esecutore dei lavori.
In tal modo, non si tratta, quindi, di ricercare ipotesi
tipiche, normativamente individuate dal legislatore, al fine
di verificare se gli elementi consentano di ricondurre la
posizione a tali ipotesi, ma di valutare se vi sia stata una
differente posizione di partenza nella partecipazione alla
procedura per l’affidamento dell’incarico di progettazione
in esame, che abbia dato luogo a un possibile indebito
vantaggio. La regola generale della incompatibilità
garantisce la genuinità della gara, e il suo rispetto
prescinde dal fatto che realmente si sia dato un vantaggio
per un concorrente a motivo di una qualche sua contiguità
con l’Amministrazione appaltante. In tal senso, quel che
rileva è la situazione dei partecipanti alla gara, il cui
esame deve evidenziare, in modo oggettivo, una disomogeneità
di partenza per la particolare posizione in cui qualche
concorrente viene a trovarsi.
Ovviamente, tale ricerca deve essere condotta con attenzione
e rigore, dovendosi essa concludere negativamente nel caso
in cui difettino indizi seri, precisi e concordanti sulla
circostanza che il partecipante alla gara, o il soggetto a
questo collegato, abbia rivestito un ruolo determinante
nell’indirizzo delle scelte dell’Amministrazione o ne abbia
ricevuto un tale flusso di informazioni riservate da falsare
la concorrenza.
---------------
Anche se la norma dell’art. 90, comma 8, si riferisce al
rapporto tra appalti di lavori e preventiva progettazione,
non si può non ritenere applicabile il principio generale
del divieto di partecipazione di chi abbia una posizione di
vantaggio relativamente agli appalti di servizi.
Il Collegio ritiene
opportuno, preliminarmente precisare quanto segue.
- l’art. 90, comma 8, del Codice degli appalti, prevede:
“Gli affidatari di incarichi di progettazione non possono
partecipare agli appalti o alle concessioni di lavori
pubblici, nonché agli eventuali subappalti o cottimi, per i
quali abbiano svolto la suddetta attività di progettazione;
ai medesimi appalti, concessioni di lavori pubblici,
subappalti e cottimi non può partecipare un soggetto
controllato, controllante o collegato all’affidatario di
incarichi di progettazione. Le situazioni di controllo e di
collegamento si determinano con riferimento a quanto
previsto dall’articolo 2359 del codice civile. I divieti di
cui al presente comma sono estesi ai dipendenti
dell’affidatario dell’incarico di progettazione, ai suoi
collaboratori nello svolgimento dell’incarico e ai loro
dipendenti, nonché agli affidatari di attività di supporto
alla progettazione e ai loro dipendenti”;
- la regola è espressione del principio generale di
trasparenza ed imparzialità, la cui applicazione è
necessaria per garantire parità di trattamento, che ha per
suo indefettibile presupposto il fatto che i concorrenti a
una procedura di evidenza pubblica debbano rivestire la
medesima posizione;
- il legislatore, vietando a coloro che direttamente o
indirettamente (agli affidatari degli incarichi di
progettazione e ai loro dipendenti e collaboratori) abbiano
partecipato alla progettazione di concorrere nelle gare per
l’affidamento dell’esecuzione dei lavori progettati, ha
voluto assicurare la massima autonomia e l’assoluta
separazione tra attività di progettazione dei lavori e le
attività esecutive degli stessi e, quindi, evitare che il
redattore del progetto possa essere in modo diretto o
indiretto anche l’esecutore dei lavori (Cons. Stato, sez. VI,
07.11.2003 n. 7130);
- in tal modo, non si tratta, quindi, di ricercare ipotesi
tipiche, normativamente individuate dal legislatore, al fine
di verificare se gli elementi consentano di ricondurre la
posizione a tali ipotesi, ma di valutare se vi sia stata una
differente posizione di partenza nella partecipazione alla
procedura per l’affidamento dell’incarico di progettazione
in esame, che abbia dato luogo a un possibile indebito
vantaggio. La regola generale della incompatibilità
garantisce la genuinità della gara, e il suo rispetto
prescinde dal fatto che realmente si sia dato un vantaggio
per un concorrente a motivo di una qualche sua contiguità
con l’Amministrazione appaltante. In tal senso, quel che
rileva è la situazione dei partecipanti alla gara, il cui
esame deve evidenziare, in modo oggettivo, una disomogeneità
di partenza per la particolare posizione in cui qualche
concorrente viene a trovarsi;
- ovviamente, tale ricerca deve essere condotta con
attenzione e rigore, dovendosi essa concludere negativamente
nel caso in cui difettino indizi seri, precisi e concordanti
sulla circostanza che il partecipante alla gara, o il
soggetto a questo collegato, abbia rivestito un ruolo
determinante nell’indirizzo delle scelte
dell’Amministrazione o ne abbia ricevuto un tale flusso di
informazioni riservate da falsare la concorrenza (Cons.
Stato, sez. V, 15.01.2008 n. 36);
- né, d’altro canto il principio di massima partecipazione
alle gare può essere assolutizzato come valore in sé, in
quanto, se è senza dubbio auspicabile la più ampia
partecipazione dei concorrenti alle gare (in quanto ciò -garantendo una scelta più ampia- soddisfa il principio di
buon andamento), è altrettanto vero che il detto principio
deve ricevere una lettura “relativizzata”, nel senso che è
auspicabile la più ampia partecipazione nel rispetto del
prevalente principio della tutela della concorrenza,
realizzato attraverso la tutela della “par condicio”
dei concorrenti;
- alla luce di quanto esposto, anche se la norma dell’art.
90, comma 8, si riferisce al rapporto tra appalti di lavori
e preventiva progettazione, non si può non ritenere
applicabile il principio generale del divieto di
partecipazione di chi abbia una posizione di vantaggio
relativamente agli appalti di servizi, oggetto della
presente controversia (Cons. di St., sez. IV, 23.04.2012, n.
2402; Idem, 03.05.2011, n. 2650; TAR Piemonte, Torino, sez.
I, 15.06.2012, n. 714; Cons. di St., sez. V, 04.03.2008 n.
889)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.09.2012 n. 1472 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: La
professionalità del dipendente in prova va valutata non solo
prendendo in esame la qualità e la quantità del lavoro
svolto, ma anche l’affidabilità dimostrata dal punto di
vista caratteriale e nei rapporti sia con il restante
personale che con i terzi.
In altri termini, il periodo di prova non è diretto
esclusivamente ad accertare le capacità manuali
dell’aspirante dipendente, ma anche le sue qualità
attitudinali e comportamentali.
---------------
In sede di giudizio di superamento del periodo o meno del
periodo di prova, l’Amministrazione gode di ampia
discrezionalità, la quale può esprimersi nella valutazione
complessiva dell’attività del dipendente ai fini della
prosecuzione del rapporto d’impiego, senza che sia
necessaria una ampia e specifica motivazione, anche in caso
di giudizio negativo.
Ed invero, sul piano generale, va osservato come la
professionalità del dipendente in prova vada valutata non
solo prendendo in esame la qualità e la quantità del lavoro
svolto, ma anche l’affidabilità dimostrata dal punto di
vista caratteriale e nei rapporti sia con il restante
personale che con i terzi.
In altri termini, il periodo di prova non è diretto
esclusivamente ad accertare le capacità manuali
dell’aspirante dipendente, ma anche le sue qualità
attitudinali e comportamentali.
Così, come esattamente precisato dal primo giudice, il
provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro per
l’esito negativo del periodo di prova, “si considera
sufficientemente motivato qualora sia emesso in base ad un
giudizio riassuntivo della qualità del servizio
prestato,della persona e dell’attitudine del dipendente, in
relazione alla natura del servizio senza alcuna menzione di
fatti specifici.”
In questo senso, del resto, si è espressa più volte la
giurisprudenza di questo Consiglio precisando che “in
sede di giudizio di superamento del periodo o meno del
periodo di prova, l’Amministrazione gode di ampia
discrezionalità, la quale può esprimersi nella valutazione
complessiva dell’attività del dipendente ai fini della
prosecuzione del rapporto d’impiego, senza che sia
necessaria una ampia e specifica motivazione, anche in caso
di giudizio negativo” (Sez. VI, 17.08.1999, n. 1064 ;
07.03.1984, n. 128).
Tanto premesso in linea di principio, si appalesa quindi
inconducente dedurre che alcuni fatti, ostativi
all’assunzione, non si sarebbero verificati.
Indipendentemente dalla veridicità o meno dell’assunto,
infatti, quel che rileva ed assume carattere dirimente, come
correttamente osservato dal Tar, è la circostanza per cui “…
se si ha riguardo al fatto che nella fattispecie
l’Amministrazione, nonostante l’utilizzo dell’intero periodo
di prova e del periodo in cui il dipendente ha prestato
servizio a seguito del provvedimento cautelare…non è
riuscita a formulare un giudizio positivo in ordine alle
capacità lavorativo professionali del dipendente, deve
ritenersi pienamente legittimo che la stessa Amministrazione
nel motivare la risoluzione del rapporto, esprima le proprie
ragioni in forme anche non compiutamente descrittive dei
singoli episodi ovvero delle singole occasioni nelle quali
il dipendente non ha dato buona prova della sua concreta ed
effettiva idoneità al servizio“
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.09.2012 n. 4723 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Se
in linea generale, nei concorsi a posti di pubblico impiego,
il termine per la impugnazione degli atti di concorso
decorre dalla data di conoscenza del relativo esito, che si
fa coincidere con il provvedimento di approvazione della
graduatoria, detta regola subisce un adattamento in tema di
impugnativa dei giudizi negativi delle prove orali o
pratiche allorquando il bando ovvero le presupposte fonti
normative di rango primario (art. 6, commi 4 e 5 del T.U.
degli impiegati civili dello Stato; art. 6 del d.P.R. n.
487/1994) prevedano una forma di pubblicità obbligatoria,
che, oltre a garantire la par condicio fra i candidati e la
trasparenza dell’azione amministrativa, incida sulla
decorrenza del termine perentorio per impugnare, davanti al
giudice amministrativo, il giudizio negativo formulato dalla
commissione esaminatrice.
In tali ipotesi, il giudizio (negativo) costituisce l’atto
conclusivo e lesivo per l’interessato, il quale ha l’onere
di impugnarlo con la conseguenza che il termine decorre
dalla data della seduta d’esame con affissione dei
risultati.
Il collegio rileva che, secondo un orientamento
giurisprudenziale consolidato, se in linea generale, nei
concorsi a posti di pubblico impiego, il termine per la
impugnazione degli atti di concorso decorre dalla data di
conoscenza del relativo esito, che si fa coincidere con il
provvedimento di approvazione della graduatoria, detta
regola subisce un adattamento in tema di impugnativa dei
giudizi negativi delle prove orali o pratiche allorquando il
bando ovvero le presupposte fonti normative di rango
primario (art. 6, commi 4 e 5 del T.U. degli impiegati
civili dello Stato; art. 6 del d.P.R. n. 487/1994) prevedano
una forma di pubblicità obbligatoria, che, oltre a garantire
la par condicio fra i candidati e la trasparenza dell’azione
amministrativa, incida sulla decorrenza del termine
perentorio per impugnare, davanti al giudice amministrativo,
il giudizio negativo formulato dalla commissione
esaminatrice (TAR Liguria, Genova, Sez. II, 17.10.2008 n. 1811).
In tali ipotesi, il giudizio (negativo) costituisce l’atto
conclusivo e lesivo per l’interessato, il quale ha l’onere
di impugnarlo con la conseguenza che il termine decorre
dalla data della seduta d’esame con affissione dei risultati
(Consiglio di Stato, Sez. V, 04.03.2008 n. 862; Consiglio
di Stato, Sez. V, 11.10.2005 n. 5507; Consiglio di
Stato, Sez. VI, 08.05.2001 n. 2572)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 06.09.2012 n. 1470 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art. 36 del DPR 380/2001 prevede, al comma
3, che sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente
o il responsabile del competente ufficio comunale si
pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni
decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.
Il decorso del termine
previsto dalla norma equivale a provvedimento tacito di
rifiuto che dev’essere impugnato nei termini decorrenti
dalla formazione del silenzio.
Poiché si tratta di un’ipotesi di silenzio significativo, al
quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento
esplicito di diniego, si viene infatti a determinare una
situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe
in caso di provvedimento espresso.
In virtù della previsione
legale di implicito diniego, il silenzio tenuto
dall'Amministrazione non può essere inteso come mero fatto
di inadempimento, ma abilita l'interessato soltanto alla
proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo
perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni.
L’art. 36 del DPR 380/2001 prevede, al comma
3, che sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente
o il responsabile del competente ufficio comunale si
pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni
decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.
La giurisprudenza ha chiarito che il decorso del termine
previsto dalla norma equivale a provvedimento tacito di
rifiuto che dev’essere impugnato nei termini decorrenti
dalla formazione del silenzio (TAR Campania, Napoli, sez. II, 06.02.2012, n. 580; Tar Campania, Napoli, sez. II,
04.02.2005 n. 816; id., 13.07.2004 n. 10128).
Poiché si tratta di un’ipotesi di silenzio significativo, al
quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento
esplicito di diniego, si viene infatti a determinare una
situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe
in caso di provvedimento espresso.
In virtù della previsione
legale di implicito diniego, il silenzio tenuto
dall'Amministrazione non può essere inteso come mero fatto
di inadempimento, ma abilita l'interessato soltanto alla
proposizione di impugnazione, una volta decorso dal suo
perfezionarsi il termine decadenziale di sessanta giorni
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 06.09.2012 n. 381 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’onere
della prova della data di ultimazione dell’abuso incombe sul
soggetto interessato al conseguimento del condono, perché
mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado
di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio
territorio alla data indicata dalla normativa sul condono,
colui che richiede la sanatoria può fornire qualche
documentazione da cui si desuma che l'abuso sia stato
effettivamente realizzato entro la data predetta come ad es.
fatture, ricevute, bolle di consegna, relative
all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali
ecc..
Per pacifica giurisprudenza, l’onere della
prova della data di ultimazione dell’abuso incombe sul
soggetto interessato al conseguimento del condono, <<perché
mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado
di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio
territorio alla data indicata dalla normativa sul condono,
colui che richiede la sanatoria può fornire qualche
documentazione da cui si desuma che l'abuso sia stato
effettivamente realizzato entro la data predetta come ad es.
fatture, ricevute, bolle di consegna, relative
all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali
ecc.>> (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 02.02.2011,
n. 752; Consiglio Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8298;
Consiglio Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 45; TAR
Lombardia, Milano, II, 24.02.2012 n. 617)
(TAR Lombardia-Milano, Se. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2238 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il Collegio non condivide
l’impostazione minoritaria sposata dai fautori della cd.
sanatoria giurisprudenziale: tale regola pretoria ha l'effetto di accogliere una
concezione antinomica tra principio di efficienza e
principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al
secondo.
Tuttavia, l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni
sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale
regola fondamentale cui è informata l'attività
amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie
disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113
Cost.). Pertanto, non è ipotizzabile un'antinomia tra
efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto
del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art.
97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di
legalità.
Il Collegio non condivide
l’impostazione minoritaria sposata dai fautori della cd.
sanatoria giurisprudenziale: tale regola pretoria, come
recentemente rilevato dal Consiglio di Stato (Sez. V, 06.07.2012, n. 3961) <<ha l'effetto di accogliere una
concezione antinomica tra principio di efficienza e
principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al
secondo>>.
Tuttavia, sempre secondo il Supremo Consesso,
<<l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni
sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale
regola fondamentale cui è informata l'attività
amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie
disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113
Cost.). Pertanto, non è ipotizzabile un'antinomia tra
efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto
del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art.
97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di
legalità>> (TAR Lombardia-Milano, Se. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2234 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI:
La lettera b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce
“non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque
coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma
soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di
formazione di quei piani e programmi (o delle relative
varianti e deroghe)” sicché “restano fuori dalla previsione,
ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa
la compatibilità con il proprio piano o programma di
attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del
parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio,
che non si dubita non appartenga alla competenza
consiliare).
Ad abundantiam, poi, si può solo accennare alla circostanza
che la suindicata attività di valutazione della
<<prospettata disarmonia>> rimessa al Consiglio comunale non
sembra neppure riconducibile tra le competenze consiliari,
ai sensi dell’art. 42, co. II, lett. b), del d.lgs. n.
267/2000.
Ciò, poiché, come già statuito dal Consiglio di Stato (cfr.
la sentenza della IV sez. del 28.05.2009 n. 3333) la lettera
b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce
“non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque
coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma
soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di
formazione di quei piani e programmi (o delle relative
varianti e deroghe)” sicché “restano fuori dalla previsione,
ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa
la compatibilità con il proprio piano o programma di
attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del
parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio,
che non si dubita non appartenga alla competenza
consiliare)”
(TAR Lombardia-Milano, Se. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2233 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La giunta ed il consiglio comunale non
possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle
già formalizzate con il piano regolatore.
Infatti, se
un'area è stata da questo destinata all'edificazione, nel
corso del procedimento di approvazione del piano attuativo
non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada
considerata in concreto edificabile 'per ragioni ambientali
e paesaggistiche, e cioè sulla base di valutazioni
diametralmente opposte a quelle già poste a base dello
strumento primario che ha previsto l'edificabilità sul piano
urbanistico. Ove emergano le relative ragioni, può essere
attivato il procedimento per la modifica del piano
regolatore, ma -sul piano urbanistico- non può essere
respinto il progetto di lottizzazione conforme allo
strumento primario.
---------------
Nel rispetto delle diverse finalità della pianificazione
urbanistica, la valutazione della congruità del piano di
lottizzazione deve quindi porsi in collegamento attuativo e
nel rispetto funzionale delle previsioni dello strumento
urbanistico di valenza generale.
Tali ragioni hanno quindi spinto la Sezione ad affermare che
il compito spettante alla giunta ed al consiglio comunale
siano limitati all'accertamento della conformità del
progetto alle previsioni dello strumento urbanistico
primario, imponendo peraltro, giusta il canone ordinario di
correttezza dell'azione amministrativa, che le relative
determinazioni in merito all'eventuale non conformità del
progetto al piano regolatore si fondino su una puntuale
motivazione, tale da permettere l'emersione di interessi
pubblici effettivamente sussistenti e la conseguente tutela
dell'interessato in sede di giustizia amministrativa.
... per l'annullamento
● quanto al ricorso introduttivo:
- della nota prot. n. 22949/10 p.g. del 4.5.2010, pervenuta
alla ricorrente con posta ordinaria in data 06.05.2010, con la
quale il Direttore dell'area pianificazione e valorizzazione
del territorio del Comune di Como ha trasmesso e fatto
proprio "un deciso e definitivo parere negativo", espresso
dalla Commissione comunale del paesaggio nella seduta
dell’08.04.2010 - verbale n. 7 - prot. n. 12001/08,
concernente il Piano di Recupero;
-
nonché, per il risarcimento del danno in forma specifica o,
in subordine, per equivalente, con riserva di
quantificazione in corso di causa;
● quanto ai motivi aggiunti depositati il 26.01.2012:
- della deliberazione della Giunta comunale di Como n. 252
del 30.09.2011 con cui, pur richiamandosi la proposta di
deliberazione ad essa allegata e corredata dai prescritti
pareri (tecnico e di legittimità), è stato disposto di
rimettere la predetta proposta al Consiglio comunale,
affinché esso si esprima <<sulla prospettata disarmonia tra
la relazione di accompagnamento al p.r.g. e le n.t.a. del
medesimo, avuto riguardo alla disciplina in generale delle
zone A>>;
-
nonché, per la condanna del Comune di Como al risarcimento
del danno in forma specifica e, in ogni caso, al
risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale
patito e patiendo.
...
Orbene, tanto premesso, ritiene il Collegio che
i suesposti motivi aggiunti siano fondati, poiché la Giunta
nel decidere di non adottare la proposta deliberazione, come
sopra specificata, ha ecceduto i limiti del potere ad essa
conferito.
In tal senso, va chiarito come la <<prospettata disarmonia>>
non sia di per sé idonea a rivelare alcuna ragione di
attuale contrasto del P.A. con la pianificazione urbanistica
comunale vigente, che solo avrebbe potuto giustificare il
parere sfavorevole dei competenti organi comunali e, da lì,
la non adozione del piano stesso, in tempo utile ai fini
dell’applicazione del regime urbanistico attuale, ai sensi
dell’art. 26 cit. (cfr. a proposito dei limiti decisionali
che regolamentano l’approvazione dei piani attuativi, nella
specie sub specie di piano di lottizzazione, ex plurimis:
Consiglio di Stato, sez. IV, 06.10.2011, n. 5485,
secondo cui: <<la giunta ed il consiglio comunale non
possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle
già formalizzate con il piano regolatore. Infatti, se
un'area è stata da questo destinata all'edificazione, nel
corso del procedimento di approvazione del piano attuativo
non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada
considerata in concreto edificabile 'per ragioni ambientali
e paesaggistiche, e cioè sulla base di valutazioni
diametralmente opposte a quelle già poste a base dello
strumento primario che ha previsto l'edificabilità sul piano
urbanistico. Ove emergano le relative ragioni, può essere
attivato il procedimento per la modifica del piano
regolatore, ma -sul piano urbanistico- non può essere
respinto il progetto di lottizzazione conforme allo
strumento primario>>; in terminis, cfr. Consiglio di Stato,
sez. IV, 20.07.2011, n. 4395 e, ancor prima, id., 16.09.2008 n. 4368).
In tal senso, reputa il Collegio che una tale attività
valutativa non potrebbe comunque approdare ad un’attività
manipolativa in chiave additiva delle ridette NTA, al fine
di far esprimere ad esse una limitazione degli interventi
ammissibili in zona A3, con precipuo riguardo a quelli di
ristrutturazione edilizia mediante demolizione e
ricostruzione, che, allo stato, come chiaramente emerge
dalla nota del 22.09.2011 e dal successivo parere tecnico
del 23.09.2011 del Direttore del competente ufficio comunale
– esse non esprimono (cfr., ancora, Consiglio di Stato, sez.
IV, 06.10.2011, n. 5485, per cui: <<Nel rispetto delle
diverse finalità della pianificazione urbanistica, la
valutazione della congruità del piano di lottizzazione deve
quindi porsi in collegamento attuativo e nel rispetto
funzionale delle previsioni dello strumento urbanistico di
valenza generale. Tali ragioni hanno quindi spinto la
Sezione ad affermare che il compito spettante alla giunta ed
al consiglio comunale siano limitati all'accertamento della
conformità del progetto alle previsioni dello strumento
urbanistico primario, imponendo peraltro, giusta il canone
ordinario di correttezza dell'azione amministrativa, che le
relative determinazioni in merito all'eventuale non
conformità del progetto al piano regolatore si fondino su
una puntuale motivazione, tale da permettere l'emersione di
interessi pubblici effettivamente sussistenti e la
conseguente tutela dell'interessato in sede di giustizia
amministrativa>> (analogamente, da ultimo, TAR, Bari
Puglia, sez. III, 04.05.2012, n. 923).
Per tale ragione il Collegio aveva ritenuto, in sede
cautelare, di dovere ordinare all’amministrazione un riesame
su tale aspetto, non ritenendo la <<prospettata
disarmonia>>, un argomento idoneo a giustificare l’arresto
dell’iter di adozione/approvazione del succitato piano
attuativo.
Ebbene, anche ad un più approfondito esame della questione,
il Collegio non ritiene di poter mutare il proprio avviso,
non essendo emerse ragioni giuridiche idonee ad avvalorare
la tesi secondo cui, la rimessione alla sede consiliare
della valutazione della <<prospettata disarmonia>> potesse
essere considerato alla stregua di un elemento inerente la
fase istruttoria dell’iter procedimentale in esame.
Si tratta, invece, di una valutazione che, stando a quanto
sin qui emerso, non avrebbe potuto mutare il parere di
legittimità favorevole, apposto sulla proposta di
deliberazione de qua.
Né, come già detto, tale intervento poteva essere altrimenti
precluso, atteso che, come chiaramente emerge
dall’attestazione del Ministero dei Beni culturali (all. sub
n. 4 di parte ricorrente) l’immobile sito in Via Petrarca
n. 1/3 –ex Villa Feloy non è sottoposto a tutela come bene
culturale poiché, come si legge nella relativa scheda (all.
sub n.5), <<presenta caratteri piuttosto diffusi nel
contesto di appartenenza, di fatto insufficienti ad
affermarne l’interesse culturale>>.
Ad abundantiam, poi, si può solo accennare alla circostanza
che la suindicata attività di valutazione della
<<prospettata disarmonia>> rimessa al Consiglio comunale non
sembra neppure riconducibile tra le competenze consiliari,
ai sensi dell’art. 42, co. II, lett. b), del d.lgs. n.
267/2000.
Ciò, poiché, come già statuito dal Consiglio di Stato (cfr.
la sentenza della IV sez. del 28.05.2009 n. 3333) la lettera
b) dell’art. 42, secondo comma, del t.u.e.l. si riferisce
“non a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque
coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma
soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di
formazione di quei piani e programmi (o delle relative
varianti e deroghe)” sicché “restano fuori dalla previsione,
ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa
la compatibilità con il proprio piano o programma di
attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del
parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio,
che non si dubita non appartenga alla competenza
consiliare)”.
Per le suesposte considerazioni i motivi aggiunti in
epigrafe specificati devono essere accolti, con conseguente
annullamento della deliberazione n. 252 del 30.11.2011 con
essi impugnata
(TAR Lombardia-Milano, Se. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2233 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Gli
interventi di manutenzione straordinaria non possano
tollerare modifiche dei parametri urbanistici, essendo essi
caratterizzati da un duplice limite:
- uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i
lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro
rinnovo di parti dell'edificio;
- l'altro di ordine strutturale, consistente nel divieto di
alterare i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari o di mutare la loro destinazione.
--------------
La ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire
per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le
caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e,
in caso di demolizione (anche parziale), la successiva
ricostruzione dell'edificio deve riprodurre le precedenti
linee fondamentali quanto a sagoma e volumi; diversamente
opinando, infatti, sarebbe sufficiente la preesistenza di un
edificio per definire ristrutturazione qualsiasi nuova
realizzazione eseguita in luogo o sul luogo di quella
preesistente.
---------------
Il legame con l'edificio preesistente, quanto a sagoma
-intendendosi con tale concetto "la conformazione
planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro
considerato in senso verticale ed orizzontale", ovvero il
contorno che viene ad assumere l'edificio, ivi comprese le
strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti- e a
volumetria, costituisce, quindi, per unanime giurisprudenza,
il criterio distintivo degli interventi di recupero del
patrimonio edilizio esistente dalle nuove costruzioni.
Le identità di volume e sagoma del nuovo edificio rispetto a
quello originario giustificano, inoltre, il differente
regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione
edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la
ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici
ed edilizi preesistenti, l'intervento non è, difatti,
subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti
urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione
urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su
quello ricostruito.
Per costante giurisprudenza,
gli interventi di manutenzione straordinaria, ex art. 31,
lett. b), cit., non possano tollerare modifiche dei
parametri urbanistici, essendo essi caratterizzati da un
duplice limite:
- uno di ordine funzionale, costituito dalla necessità che i
lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo
di parti dell'edificio;
- l'altro di ordine strutturale, consistente nel divieto di
alterare i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari o di mutare la loro destinazione (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, sent. n. 644 del 23-04-1991).
---------------
Secondo unanime
giurisprudenza, la ristrutturazione edilizia, per essere
tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione,
deve conservare le caratteristiche fondamentali
dell'edificio preesistente e, in caso di demolizione (anche
parziale), la successiva ricostruzione dell'edificio deve
riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma
e volumi; diversamente opinando, infatti, sarebbe
sufficiente la preesistenza di un edificio per definire
ristrutturazione qualsiasi nuova realizzazione eseguita in
luogo o sul luogo di quella preesistente (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 18.03.2008, n. 1177; 08.10.2007, n. 5214; 16.03.2007, n. 1276; 22.05.2006, n. 3006; Cass., sez. III, 26.10.2007; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 25.05.2012, n. 1441, secondo cui: <<Il legame con
l'edificio preesistente, quanto a sagoma -intendendosi con
tale concetto "la conformazione planovolumetrica della
costruzione ed il suo perimetro considerato in senso
verticale ed orizzontale", ovvero il contorno che viene ad
assumere l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali
con gli aggetti e gli sporti (cfr. Cass. sez. III, 23.04.2004, n. 19034)- e a volumetria, costituisce, quindi, per
unanime giurisprudenza, il criterio distintivo degli
interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente
dalle nuove costruzioni.
Le identità di volume e sagoma del nuovo edificio rispetto a
quello originario giustificano, inoltre, il differente
regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione
edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la
ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici
ed edilizi preesistenti, l'intervento non è, difatti,
subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti
urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione
urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su
quello ricostruito (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.11.1996, n. 1359; Cons. Stato, sez. V, 28.03.1998, n. 369;
Cass. civ., sez. II, 12.06.2001, n. 7909; Tar Calabria,
Reggio Calabria, 24.01.2001, n. 36; TAR Puglia,
Bari, sez. III, 22.07.2004, n. 3210)>> (TAR Lombardia-Milano, Se. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2232 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
Collegio non può che condividere le doglianze
dell’esponente, specialmente laddove questi stigmatizza
l’eccesso di potere insito nell’operato dell’amministrazione
che, dopo avere reiterato per decenni, sul terreno di
proprietà dell’istante, un vincolo preordinato
all’esproprio, a seguito della pronuncia in s.g. che ha
annullato lo strumento urbanistico per difetto di
motivazione (cfr. riferimenti nella parte in fatto), ha
mutato la natura del vincolo, facendo asseritamente ricorso
all’esercizio del potere confermativo, così eludendo
l’obbligo di specifica motivazione su di essa incombente.
In verità, il
carattere espropriativo o meno di un vincolo di piano si
desume non già, astrattamente, dalla qualificazione che il
P.R.G. (o il P.G.T.) dà della destinazione impressa ai
suoli, ma dalla concreta disciplina urbanistica per essi
stabilita, quale ricavabile dalle prescrizioni delle N.T.A.
della pianificazione in atto.
Più specificamente, si è avuto modo di affermare che il
carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla
collocazione in una specifica categoria di strumenti
urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi di natura e
struttura dei vincoli stessi, ricorrendo tale carattere ove
essi siano inquadrabili nella zonizzazione dell’intero
territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di
una generalità di beni, nei confronti di una pluralità
indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione
dell’intera zona in cui i beni ricadono ed in ragione delle
sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, per lo più
spaziale, con un’opera pubblica.
Di contro, ove il vincolo incide su beni determinati, in
funzione non già, di una generale destinazione di zona, ma
della localizzazione di un’opera pubblica, la cui
realizzazione non può coesistere con la proprietà privata,
deve essere qualificato come preordinato alla relativa
espropriazione.
Ebbene, stando alla surriferita disciplina, il
Collegio non può che condividere le doglianze
dell’esponente, specialmente laddove questi stigmatizza
l’eccesso di potere insito nell’operato dell’amministrazione
che, dopo avere reiterato per decenni, sul terreno di
proprietà dell’istante, un vincolo preordinato
all’esproprio, a seguito della pronuncia in s.g. che ha
annullato lo strumento urbanistico per difetto di
motivazione (cfr. riferimenti nella parte in fatto), ha
mutato la natura del vincolo, facendo asseritamente ricorso
all’esercizio del potere confermativo, così eludendo
l’obbligo di specifica motivazione su di essa incombente.
In verità, come la giurisprudenza ha chiarito più volte, il
carattere espropriativo o meno di un vincolo di piano si
desume non già, astrattamente, dalla qualificazione che il
P.R.G. (o il P.G.T.) dà della destinazione impressa ai
suoli, ma dalla concreta disciplina urbanistica per essi
stabilita, quale ricavabile dalle prescrizioni delle N.T.A.
della pianificazione in atto (cfr., da ultimo, Cons. Stato
n. 4321 del 30.07.2012).
Più specificamente, si è avuto modo di affermare che il
carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla
collocazione in una specifica categoria di strumenti
urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi di natura e
struttura dei vincoli stessi, ricorrendo tale carattere ove
essi siano inquadrabili nella zonizzazione dell’intero
territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di
una generalità di beni, nei confronti di una pluralità
indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione
dell’intera zona in cui i beni ricadono ed in ragione delle
sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, per lo più
spaziale, con un’opera pubblica.
Di contro, ove il vincolo incide su beni determinati, in
funzione non già, di una generale destinazione di zona, ma
della localizzazione di un’opera pubblica, la cui
realizzazione non può coesistere con la proprietà privata,
deve essere qualificato come preordinato alla relativa
espropriazione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2011, n. 3797; id. 23.07.2009, n. 4662; id., 23.09.2008, n. 4606).
Ebbene, nel caso di specie, stando alla disciplina di piano
poc’anzi tratteggiata, non emergono affatto nella
zonizzazione che ha riguardato l’area dell’esponente le
condizioni che consentono di ravvisare la presenza di un
vincolo conformativo, specie tenuto conto che l’area
predetta –come riconosciuto nella memoria di parte
resistente dell’11.06.2012- <<rappresenta uno degli ultimi
polmoni di verde della zona edificata>> mentre <<solo poche
aree poste a ridosso del torrente Terrò risultano libere da
edificazione>>.
Appare, a tale stregua, contraddittorio affermare che si sia
in presenza di un vincolo conformativo, in relazione ad una
singola area, inserita in un più ampio contesto avente
caratteristiche analoghe, per il quale, tuttavia, non si è
proceduto ad apporre analogo vincolo: non si vede, infatti,
come si possa affermare che il suddetto vincolo si adegui
alle caratteristiche intrinseche dell’area, tenuto conto che
le restanti aree poste “a ridosso del torrente” risultano di
fatto edificate (così, sempre la memoria
dell’amministrazione).
A ben vedere, qui si delinea una tipologia di vincolo che,
sulla base della disciplina in concreto ricavabile dalla
surriferita normativa di piano, appare più riconducibile a
quella dei vincoli preordinati all’espropriazione che a
quella dei vincoli conformativi, con tutte le relative
conseguenze in termini di difetto di motivazione, come
lamentato da parte ricorrente.
Tale vulnus, giova incidentalmente rilevare, non sarebbe
comunque superabile attraverso il semplice mutamento di
denominazione del vincolo.
In particolare, nella fattispecie concreta qui esaminata
sarebbe stato comunque necessario, da parte
dell’amministrazione, fornire una specifica motivazione
delle ragioni che l’hanno indotta a siffatto ripensamento,
tenuto conto della precedente destinazione urbanistica
dell’area e del precedente giudicato di annullamento su di
essa ottenuto da parte ricorrente.
Altrimenti residua, come poi accaduto, un’evidente
contraddittorietà dell’operato comunale, almeno sotto un
duplice profilo:
- da un lato, per avere variato la destinazione urbanistica
in precedenza impressa all’area in questione, passando da un
azzonamento “F2 standard comunali per attrezzature, servizi
e impianti di interesse generale... per la realizzazione di
strutture per Residenze Sanitarie Assistenziali” (cfr.
certificato di destinazione urbanistica datato 30.01.2009
agli atti, all. n. 3 parte ricorrente), ad uno (“IA -aree
di interesse paesaggistico e ecologico– ambientale”), quale
quello qui contestato, che non ammette sull’area alcuna
edificazione (cfr. art. 18, co. 2 cit. NTA del Piano dei
Servizi);
- dall’altro, poiché al cospetto di un vincolo conformativo,
quale sarebbe secondo la difesa resistente quello qui
apposto, non si giustifica il ricorso da parte
dell’amministrazione al meccanismo della perequazione
urbanistica (cfr. art. 14 delle cit. NTA), come in concreto
qui utilizzato.
Sul punto, va chiarito, infatti, come –in conformità a
quanto già in precedenza rilevato da questo Tribunale– non
possano ricevere un indice edificatorio, neppure virtuale,
aree che non siano assoggettabili a trasformazione
urbanistica per natura o per le loro intrinseche
caratteristiche (cfr. TAR Lombardia, Milano, IV, 16.04.2012
n. 1123)
(TAR Lombardia-Milano, Se. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2230 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte pianificatorie effettuate dalla p.a. costituiscano
apprezzamento di merito -o, comunque, espressione di ampia
potestà discrezionale- sottratto al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto o abnormi illogicità.
---------------
L’art. 338, r.d. n. 1265/1934 prevede, al comma 1, che “i
cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200
metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai
cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal
perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli
strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di
essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge”.
La prima parte della disposizione impone la collocazione dei
cimiteri ad una distanza di 200 metri dal centro abitato;
tale fascia di rispetto può essere ridotta, non oltre il
limite minimo di 50 metri, allorché ricorrano le condizioni
previste al comma 4.
La seconda parte della disposizione pone, invece, un vincolo
di inedificabilità entro la fascia di 200 metri dal
perimetro del cimitero.
Quest’ultima disposizione, che disciplina l’edificazione
nella fascia di rispetto, non si rivolge al pianificatore
allorché è chiamato a decidere la collocazione di un nuovo
cimitero.
La scelta in ordine alla collocazione di un nuovo cimitero
è, invero, soggetta unicamente alle previsioni di cui alla
prima parte dell’art. 338, c.1 e c. 4, e cioè al rispetto
della distanza dal centro abitato prevista dalla legge,
oltre che ai limiti cui soggiace ogni potere discrezionale,
ed entro i quali è sindacabile dal giudice amministrativo,
della manifesta illogicità, irrazionalità o errore sui
fatti.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che le
scelte pianificatorie effettuate dalla p.a. costituiscano
apprezzamento di merito -o, comunque, espressione di ampia
potestà discrezionale- sottratto al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto o abnormi illogicità (Cons. Stato, Sez. IV, 21.05.2007, n. 2571).
La decisione di collocare il cimitero a nord del centro
abitato, in una zona che precedenti strumenti urbanistici
qualificavano come avente valenza sovracomunale, non può
ritenersi, di per sé, manifestamente illogicità, ben potendo
l’amministrazione mutare, nel corso degli anni, le proprie
scelte.
Né la collocazione del cimitero a nord del centro abitato si
pone in contrasto con le osservazioni formulate dalla
Provincia di Milano in sede di valutazione di compatibilità
del documento di piano con il piano territoriale di
coordinamento provinciale: la Provincia si è difatti
limitata a dettare delle prescrizioni con riferimento ad
alcuni ambiti di trasformazione, tra cui l’ambito IC2
(Corridoio ambientale ovest – nuovo cimitero), ma non ha
affatto affermato l’incompatibilità della previsione del
cimitero con le disposizioni del suo piano.
Né dalle osservazioni espresse dalla Provincia con
riferimento all’ambito in questione –che, peraltro, come si
osserverà al punto 10, sono state recepite dal Comune-
possono poi dedursi elementi di manifesta illogicità della
decisione del Comune.
Non può, poi, ritenersi illogica la previsione di una fascia
di rispetto di 50 metri, anziché di 200 metri: la fascia è
stata ridotta solo lungo due lati, quello sud e quello est;
in ogni caso la riduzione della fascia, entro il limite dei
50 metri, è una facoltà che è espressamente prevista
dall’art. 338, c. 4, r.d. n. 1265/1934.
---------------
L’art. 338, r.d. n.
1265/1934 prevede, al comma 1, che “i cimiteri devono essere
collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro
abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi
edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro
dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti
urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi,
comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge”.
La prima parte della disposizione impone la collocazione dei
cimiteri ad una distanza di 200 metri dal centro abitato;
tale fascia di rispetto può essere ridotta, non oltre il
limite minimo di 50 metri, allorché ricorrano le condizioni
previste al comma 4.
La seconda parte della disposizione pone, invece, un vincolo
di inedificabilità entro la fascia di 200 metri dal
perimetro del cimitero.
A differenza di quanto sostenuto dal ricorrente,
quest’ultima disposizione, che disciplina l’edificazione
nella fascia di rispetto, non si rivolge al pianificatore
allorché è chiamato a decidere la collocazione di un nuovo
cimitero.
La scelta in ordine alla collocazione di un nuovo cimitero
è, invero, soggetta unicamente alle previsioni di cui alla
prima parte dell’art. 338, c.1 e c. 4, e cioè al rispetto
della distanza dal centro abitato prevista dalla legge,
oltre che ai limiti cui soggiace ogni potere discrezionale,
ed entro i quali è sindacabile dal giudice amministrativo,
della manifesta illogicità, irrazionalità o errore sui
fatti.
Pertanto, nel caso di specie, anche ove fosse veritiero
quanto affermato dal ricorrente circa la presenza,
nell’ambito della fascia di rispetto, di “fabbricati sparsi”
(parte di un fabbricato, a nord, e alcuni edifici, a sud)
non potrebbe, per ciò solo, affermarsi l’illegittimità delle
deliberazioni impugnate.
Né è pertinente la giurisprudenza invocata dal ricorrente,
trattandosi di pronunce che hanno ad oggetto non la
legittimità delle scelte pianificatorie del Comune di
collocazione di nuovi impianti cimiteriali ma la differente
questione della legittimità di nuove edificazioni
all’interno della fascia di rispetto.
Ugualmente, la presenza di parcheggi e di strade non
costituisce di per sé motivo di illegittimità degli atti
impugnati.
Quanto alla previsione di una nuova viabilità e parcheggi,
essa è espressamente ammessa all’interno della fascia di
rispetto dall’art. 8, c. 3, del regolamento regionale in
materia di attività funebri e cimiteriali (TAR Lombardia-Milano, Se. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2223 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
osservazioni dei privati ai progetti di strumenti
urbanistici sono un mero apporto collaborativo alla
formazione di detti strumenti e non danno luogo a peculiari
aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non
richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che
esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli
interessi e le considerazioni generali poste a base della
formazione del piano, così come è avvenuto nel caso in
esame.
Le scelte discrezionali dell'amministrazione riguardo alla
destinazione di singole aree non necessitano, dunque, di
apposita motivazione, oltre a quella che si può evincere dai
criteri generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti
nell'impostazione del piano stesso, salvo che particolari
situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di
specifiche considerazioni.
Le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare
motivazione degli strumenti urbanistici generali sono state
ravvisate dalla giurisprudenza:
a) nel superamento degli standard minimi di cui al d.m.
02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va
riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal
riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato –
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su
domanda di concessione edilizia;
c) nella modificazione in zona agricola della destinazione
di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo
non abusivo.
Per giurisprudenza
costante, le osservazioni dei privati ai progetti di
strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo
alla formazione di detti strumenti e non danno luogo a
peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro
rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo
sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 07.07.2008, nr. 3358), così come è avvenuto nel
caso in esame.
Le scelte discrezionali dell'amministrazione riguardo alla
destinazione di singole aree non necessitano, dunque, di
apposita motivazione, oltre a quella che si può evincere dai
criteri generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti
nell'impostazione del piano stesso (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 24/1999; Sez. IV, n. 2639/2000; n. 245/2000; n. 1943/1999;
n. 887/1995), salvo che particolari situazioni non abbiano
creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le
cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche
considerazioni (Cons. Stato, Sez. VI., n. 173/2002; Sez. IV,
n. 6917/2002; Sez. IV, n. 2899/2002).
Le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare
motivazione degli strumenti urbanistici generali sono state
ravvisate dalla giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen.
n. 24/1999 cit.; Sez. IV, 2369/2000):
a) nel superamento degli
standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con
l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita
esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di
sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla
destinazione di zona di determinate aree;
b) nella lesione
dell'affidamento qualificato del privato – convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di concessione
edilizia (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 24/1999);
c) nella
modificazione in zona agricola della destinazione di un'area
limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 594/1999) (TAR Lombardia-Milano, Se. II,
sentenza 05.09.2012 n. 2223 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: La
giurisprudenza è ferma nel ritenere il carattere di norma
imperativa proprio della disposizione di cui all’art. 6
legge 24.12.1993, n. 537, come modificato dall’art. 44 della
legge n. 724 del 1994 contenente una disciplina speciale in
materia di revisione prezzi, che, conseguentemente, si
impone nelle pattuizioni di cui è parte l’Amministrazione,
modificando ed integrando la volontà negoziale eventualmente
contrastante.
La previsione normativa di cui al citato art. 6 della legge
n. 537 del 1993 è confluita nel corpo dell’art. 115 dlgs n.
163/2006 secondo cui “1. Tutti i contratti ad esecuzione
periodica o continuativa relativi a servizi o forniture
debbono recare una clausola di revisione periodica del
prezzo. La revisione viene operata sulla base di una
istruttoria condotta dai dirigenti responsabili
dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di
cui all’articolo 7, comma 4, lettera c), e comma 5.”.
Recentemente, è stato sottolineato che “La disciplina
dettata in materia di revisione prezzi negli appalti di
servizi o forniture ad esecuzione periodica o continuativa,
di cui all’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006 (Codice degli
appalti), ha carattere imperativo ed un’eventuale clausola
contrattuale difforme rispetto alla disciplina
normativamente prevista, deve ritenersi nulla.”.
---------------
Scopo primario della disposizione ex art. 6, comma 4, legge
537/1993, come modificato dall’art. 44 legge 724/1994,
confermata dall’art. 115 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, è
chiaramente quello di tutelare l’interesse pubblico a che le
prestazioni di beni o servizi da parte degli appaltatori
delle amministrazioni pubbliche non subiscano col tempo una
diminuzione qualitativa a causa degli aumenti dei prezzi dei
fattori della produzione, incidenti sulla percentuale di
utile considerata in sede di formulazione dell’offerta, con
conseguente incapacità del fornitore di far fronte
compiutamente alle stesse prestazioni.
Il riferimento normativo alla clausola revisionale, avente
carattere di norma imperativa cui si applicano gli artt.
1339 e 1419 cod. civ., non attribuisce alle parti ampi
margini di libertà negoziale, ma impone di tradurre sul
piano contrattuale l’obbligo legale, definendo anche i
criteri e gli essenziali momenti procedimentali per il
corretto adeguamento del corrispettivo. Tanto premesso, non
è conforme alla predetta previsione legislativa la clausola
del contratto di appalto di servizi che prevede la cadenza
biennale della revisione e pone a carico dell’appaltatore le
variazioni dei prezzi per il secondo anno contrattuale e
quelle ricadenti entro la pattuita alea contrattuale del
10%.”.
---------------
In tema di obbligazioni di valuta (nella specie:
corrispettivo derivante dall’esecuzione di un contratto di
appalto) il fenomeno inflattivo non consente un automatico
adeguamento dell’ammontare del debito, né costituisce di per
sé un danno risarcibile, ma può implicare -in applicazione
dell’art. 1224, comma 2, c.c.- solo il riconoscimento in
favore del creditore, oltre che degli interessi, del maggior
danno che sia derivato dall’impossibilità di disporre della
somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui il
creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento
tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre
quegli effetti economici depauperativi che l’inflazione
produce a carico di tutti i possessori di danaro, posto che
gli interessi moratori accordati al creditore dall’art.
1224, comma 1, c.c. hanno funzione risarcitoria,
rappresentando il ristoro, in misura forfettariamente
predeterminata, della mancata disponibilità della somma
dovuta, rimanendo comunque esclusa la possibilità del cumulo
tra rivalutazione monetaria e interessi compensativi.
La domanda relativa alla revisione prezzi per il
contratto rep. 849/2004 è fondata.
Come è noto, la giurisprudenza è ferma nel ritenere il
carattere di norma imperativa proprio della disposizione di
cui all’art. 6 legge 24.12.1993, n. 537, come
modificato dall’art. 44 della legge n. 724 del 1994
contenente una disciplina speciale in materia di revisione
prezzi, che, conseguentemente, si impone nelle pattuizioni
di cui è parte l’Amministrazione, modificando ed integrando
la volontà negoziale eventualmente contrastante (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 20.08.2008, n. 3994).
La previsione normativa di cui al citato art. 6 della legge
n. 537 del 1993 è confluita nel corpo dell’art. 115 dlgs n.
163/2006 secondo cui “1. Tutti i contratti ad esecuzione
periodica o continuativa relativi a servizi o forniture
debbono recare una clausola di revisione periodica del
prezzo. La revisione viene operata sulla base di una
istruttoria condotta dai dirigenti responsabili
dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di
cui all’articolo 7, comma 4, lettera c), e comma 5.”.
Recentemente Cons. Stato, Sez. III, 01.02.2012, n. 504
ha sottolineato che “La disciplina dettata in materia di
revisione prezzi negli appalti di servizi o forniture ad
esecuzione periodica o continuativa, di cui all’art. 115 del
d.lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti), ha carattere
imperativo ed un’eventuale clausola contrattuale difforme
rispetto alla disciplina normativamente prevista, deve
ritenersi nulla.”.
Ne consegue che il contratto rep. 849/2004 deve essere, ai
sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1339 (in tema
di “Inserzione automatica di clausole”) e 1419 (in tema di
“Nullità parziale”) del codice civile, depurato dalla
previsione della franchigia del 10% di cui al menzionato
art. 16.
Sul punto afferma Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2009, n.
6709: “Scopo primario della disposizione ex art. 6, comma 4,
legge 537/1993, come modificato dall’art. 44 legge 724/1994,
confermata dall’art. 115 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, è
chiaramente quello di tutelare l’interesse pubblico a che le
prestazioni di beni o servizi da parte degli appaltatori
delle amministrazioni pubbliche non subiscano col tempo una
diminuzione qualitativa a causa degli aumenti dei prezzi dei
fattori della produzione, incidenti sulla percentuale di
utile considerata in sede di formulazione dell’offerta, con
conseguente incapacità del fornitore di far fronte
compiutamente alle stesse prestazioni. Il riferimento
normativo alla clausola revisionale, avente carattere di
norma imperativa cui si applicano gli artt. 1339 e 1419 cod.
civ., non attribuisce alle parti ampi margini di libertà
negoziale, ma impone di tradurre sul piano contrattuale
l’obbligo legale, definendo anche i criteri e gli essenziali
momenti procedimentali per il corretto adeguamento del
corrispettivo. Tanto premesso, non è conforme alla predetta
previsione legislativa la clausola del contratto di appalto
di servizi che prevede la cadenza biennale della revisione e
pone a carico dell’appaltatore le variazioni dei prezzi per
il secondo anno contrattuale e quelle ricadenti entro la
pattuita alea contrattuale del 10%.”.
In quest’ottica, è evidente la non conformità alla
previsione legislativa della clausola contrattuale (art. 16
del contratto rep. 849/2004) volta a porre a carico
dell’appaltatore le variazioni dei prezzi ricadenti entro la
pattuita alea contrattuale del 10%.
Quanto al parametro dell’adeguamento, è noto che l’art. 6
della legge n. 537 del 1993, oltre ad affermare il diritto
dell’appaltatore alla revisione, detta anche il criterio e
il procedimento in base al quale pervenire alla
determinazione oggettiva del “miglior prezzo contrattuale”,
demandando all’ISTAT la relativa indagine semestrale sui
dati risultanti dal complesso delle aggiudicazioni dei beni
e servizi.
Tuttavia, poiché la disciplina legale non è mai stata
attuata, nella parte in cui prevede l’elaborazione da parte
dell’ISTAT di particolari indici concernenti il miglior
prezzo di mercato desunto dal complesso delle aggiudicazioni
di appalti di beni e servizi, la lacuna può e deve essere
colmata mediante il ricorso all’indice FOI (in tal senso
cfr. Cons. Stato, Sez. V, 09.06.2008, n. 2786).
L’utilizzo di quest’ultimo parametro, ovviamente, non
esonera la stazione appaltante dal dovere di istruire il
procedimento, tenendo conto di tutte le circostanze del caso
concreto al fine di esprimere la propria determinazione
discrezionale, ma segna il limite massimo oltre il quale,
salvo circostanze eccezionali che devono essere provate
dall’impresa, non può spingersi nella determinazione del
compenso revisionale.
Data la natura di debito di valuta propria del compenso
revisionale, lo stesso, è soggetto alla corresponsione di
interessi per ritardato pagamento, ricadendo la fattispecie
oggetto del presente giudizio nell’ambito di applicazione
del decreto legislativo 09.10.2002, n. 231 di
“Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta
contro i ritardi di pagamento nelle transazioni” (cfr.
TAR Puglia, Bari, Sez. I, 02.12.2009, n. 2997).
Il Comune di Lucera deve, pertanto, essere condannato al
pagamento del compenso revisionale relativamente al
contratto rep. 849/2004 come sopra determinato, dal dì del
dovuto sino all’effettivo soddisfo, maggiorato degli
interessi di mora ex dlgs n. 231/2002.
Non può, invece, essere accordata la rivalutazione
monetaria, in assenza di idonea prova sul punto, non avendo
il Consorzio ricorrente dimostrato in modo adeguato che un
pagamento tempestivo l’avrebbe posto nelle condizioni di
evitare o ridurre gli effetti economici depauperativi
tipicamente derivanti dall’inflazione (cfr. Cass. civ., Sez.
II, 04.05.2011, n. 9796: “In tema di obbligazioni di
valuta (nella specie: corrispettivo derivante
dall’esecuzione di un contratto di appalto) il fenomeno
inflattivo non consente un automatico adeguamento
dell’ammontare del debito, né costituisce di per sé un danno
risarcibile, ma può implicare -in applicazione dell’art.
1224, comma 2, c.c.- solo il riconoscimento in favore del
creditore, oltre che degli interessi, del maggior danno che
sia derivato dall’impossibilità di disporre della somma
durante il periodo della mora, nei limiti in cui il
creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento
tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre
quegli effetti economici depauperativi che l’inflazione
produce a carico di tutti i possessori di danaro, posto che
gli interessi moratori accordati al creditore dall’art.
1224, comma 1, c.c. hanno funzione risarcitoria,
rappresentando il ristoro, in misura forfettariamente
predeterminata, della mancata disponibilità della somma
dovuta, rimanendo comunque esclusa la possibilità del cumulo
tra rivalutazione monetaria e interessi compensativi.”;
cfr., altresì, Cass. civ., Sez. I, 09.03.2012, n. 3738;
Cass. civ., Sez. I, 23.09.2011, n. 19437; Cass. civ.,
Sez. I, 10.06.2011, n. 12736; Cass. civ., Sez. Un., 19.04.2011, n. 8925 in tema di indennità di espropriazione:
“Poiché l’indennità di espropriazione costituisce
obbligazione di valuta, il riconoscimento della
rivalutazione monetaria è subordinato alla prova del maggior
danno.”).
Infatti, seppure il Consorzio istante produce, a tal fine,
un contratto di appalto per il servizio di trasporto
scolastico stipulato con il Comune di Montecatini Terme in
data 28.12.2010 e n. 5 contratti di leasing (per l’acquisto
di scuolabus da adibire al trasporto scolastico nel suddetto
Comune), non ha depositato alcun documento relativo alla
propria situazione economica patrimoniale risalente
all’epoca dei menzionati contratti, atto a dimostrare che il
ricorso al leasing sarebbe stato evitato con il tempestivo
pagamento delle somme dovute a titolo di revisione con
riferimento alla convenzione rep. 849/2004.
Sarà l’Amministrazione comunale, in applicazione dei criteri
indicati, a dover provvedere alla determinazione delle somme
dovute al Consorzio ricorrente a titolo di compenso
revisionale per il contratto rep. 849/2004 secondo la
previsione di cui all’art. 34, comma 4, prima parte cod.
proc. amm.; solo in caso di mancato accordo si provvederà
alla liquidazione in via giudiziale secondo quanto stabilito
dallo stesso art. 34, comma 4, seconda parte cod. proc. amm.
Il Comune di Lucera è, pertanto, condannato al pagamento
della somma individuata a titolo di compenso revisionale
relativamente al contratto rep. 849/2004, oltre interessi ex dlgs n. 231/2002, secondo le modalità ed i criteri sopra
descritti, previo accordo con il ricorrente da conseguirsi
nel termine di giorni 90 (novanta) dalla comunicazione e/o
notificazione della presente sentenza
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 05.09.2012 n. 1634 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La semplice
intitolazione di una strada nell'elenco delle strade
comunali (o vicinali) non risulta dirimente al fine di
accertare la sua natura pubblica, attesa la natura non
costitutiva dell'adempimento (l. n. 1188/1927), per cui
detta inclusione non è di per sé sufficiente a comprovare la
natura pubblica di una strada.
Né, ancora, per tale finalità
è sufficiente l'individuazione della strada nell'inventario del Comune
redatto ai sensi dell'(ormai abrogato, ma vigente ratione
temporis) art. 72 d.lgs. 25.02.1995, n. 77, poi
trasposto nell'art. 230 d.lgs. 18.08.2000, n. 267
(entrambi efficaci nel territorio regionale siciliano per
effetto del rinvio "dinamico" di cui all'art. 1 della l.r.
11.12.1991, n. 48).
Come si legge nella sentenza TAR Sicilia
Palermo Sez. III, 06-12-2011, n. 2275, infatti, “La semplice
intitolazione di una strada nell'elenco delle strade
comunali (o vicinali) non risulta dirimente al fine di
accertare la sua natura pubblica, attesa la natura non
costitutiva dell'adempimento (l. n. 1188/1927), per cui
detta inclusione non è di per sé sufficiente a comprovare la
natura pubblica di una strada; né, ancora, per tale finalità
è sufficiente l'individuazione -cosa che qui non è peraltro
neppure provata– della strada nell'inventario del Comune
redatto ai sensi dell'(ormai abrogato, ma vigente ratione
temporis) art. 72 d.lgs. 25.02.1995, n. 77, poi
trasposto nell'art. 230 d.lgs. 18.08.2000, n. 267
(entrambi efficaci nel territorio regionale siciliano per
effetto del rinvio "dinamico" di cui all'art. 1 della l.r.
11.12.1991, n. 48)”
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.09.2012 n. 1494 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Circa
le norme in materia di partecipazione al procedimento
amministrativo (artt. 7, 8 e 10 della legge 07.08.1990,
n. 241), esse non debbano essere applicate
meccanicamente e formalisticamente nel senso che sia
necessario annullare ogni procedimento in cui sia mancata la
fase partecipativa, ma debbono essere interpretate nel senso
che non sono annullabili i procedimenti che hanno comunque
raggiunto lo scopo cui la comunicazione di avvio tende, in
quanto, in caso contrario, si farebbe luogo ad una inutile
ripetizione del procedimento, con aggravio sia per
l'Amministrazione sia per l'interessato.
Poiché infatti l'obbligo di comunicazione dell'avvio del
procedimento amministrativo ex art. 7 della citata legge n.
241 del 1990 è strumentale ad esigenze di conoscenza
effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione
amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera
giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere -in
modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del
provvedimento l'omissione di tale formalità non vizia il
procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia
interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti
di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia
comunque intervenuta, da ritenere in tal modo già raggiunto
in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione.
Al riguardo il Collegio,
condividendo la giurisprudenza amministrativa formatasi
sulle norme in materia di partecipazione al procedimento
amministrativo (artt. 7, 8 e 10 della legge 07.08.1990,
n. 241), ritiene che esse non debbano essere applicate
meccanicamente e formalisticamente nel senso che sia
necessario annullare ogni procedimento in cui sia mancata la
fase partecipativa, ma debbano essere interpretate nel senso
che non sono annullabili i procedimenti che hanno comunque
raggiunto lo scopo cui la comunicazione di avvio tende, in
quanto, in caso contrario, si farebbe luogo ad una inutile
ripetizione del procedimento, con aggravio sia per
l'Amministrazione sia per l'interessato (cfr. Consiglio di
Stato Sez. IV, n. 2630 del 03.05.2011 e n. 3224 del 21.05.2010).
Poiché infatti l'obbligo di comunicazione dell'avvio del
procedimento amministrativo ex art. 7 della citata legge n.
241 del 1990 è strumentale ad esigenze di conoscenza
effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione
amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera
giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere -in
modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del
provvedimento l'omissione di tale formalità non vizia il
procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia
interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti
di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia
comunque intervenuta, da ritenere in tal modo già raggiunto
in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione (cfr.
Consiglio di Stato Sez. IV, n. 2286 del 18.04.2012)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 30.08.2012 n. 1624 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
ordine alla natura giuridica del silenzio maturato sulla
richiesta di cui all'art. 36 cit., benché sia stato avanzato
in giurisprudenza un indirizzo per lo più minoritario
secondo cui la configurabilità nella specie di un diniego
tacito con valore significativo contrasterebbe con i
principi di trasparenza, chiarezza e leale collaborazione
tra amministrazione e privato, questo Collegio ritiene di
aderire all'orientamento ormai prevalente in giurisprudenza
che attribuisce alla fattispecie di silenzio in esame una
valenza provvedimentale con significato legale tipico di
diniego.
Nelle pronunce citate il Consiglio di Stato ha affermato
che, anche nella formulazione di cui all'art. 36 d.p.r. n.
380/2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di
sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio
significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un
provvedimento esplicito di diniego, con la conseguenza che
si viene a determinare una situazione del tutto simile a
quella che si verificherebbe in caso di provvedimento
espresso. In virtù della previsione legale di implicito
diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può,
infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma
abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, una
volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale
di sessanta giorni.
Quanto al sindacato esperibile in sede di impugnazione, va
evidenziato che tale provvedimento, in quanto tacito, è già
di per sé privo di motivazione, e quindi non può essere
impugnato per tale vizio ma per ragioni diverse.
---------------
Il silenzio sull'istanza di accertamento di conformità
urbanistica postula indubbiamente l'esercizio di un'attività
amministrativa essenzialmente vincolata, trattandosi di un
meccanismo predisposto per sanare opere solo formalmente
abusive, in quanto eseguite senza il prescritto titolo
edilizio ma sostanzialmente conformi alla normativa
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro
realizzazione sia al momento della presentazione della
domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa per lo più priva
di apprezzabili margini di discrezionalità in quanto
riferita ad un assetto di interessi già prefigurato dalle
previsioni dello strumento urbanistico generale.
Va premesso, in ordine alla natura giuridica del
silenzio maturato sulla richiesta di cui all'art. 36 cit.,
che, benché sia stato avanzato in giurisprudenza un
indirizzo per lo più minoritario secondo cui la
configurabilità nella specie di un diniego tacito con valore
significativo contrasterebbe con i principi di trasparenza,
chiarezza e leale collaborazione tra amministrazione e
privato (Tar Lazio Roma sez. III-bis n. 8/2008), questo
Collegio ritiene di aderire all'orientamento ormai
prevalente in giurisprudenza che attribuisce alla
fattispecie di silenzio in esame una valenza provvedimentale
con significato legale tipico di diniego (cfr C.d.S. sez. IV
03.03.2006 n. 1037; C.d.S. sez. IV 03.02.2006 n. 401; Tar
Campania, Napoli, sez. VIII, 13.12.2011, n. 5797; Tar Piemonte, Torino
08.03.2006 n. 1173; Tar Campania,
Salerno, sez. II 13.01.2005 n. 18).
Nelle pronunce citate il Consiglio di Stato ha affermato
che, anche nella formulazione di cui all'art. 36 d.p.r. n.
380/2001, il silenzio dell'Amministrazione su un'istanza di
sanatoria di abusi edilizi costituisce ipotesi di silenzio
significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un
provvedimento esplicito di diniego, con la conseguenza che
si viene a determinare una situazione del tutto simile a
quella che si verificherebbe in caso di provvedimento
espresso. In virtù della previsione legale di implicito
diniego, il silenzio tenuto dall'Amministrazione non può,
infatti, essere inteso come mero fatto di inadempimento, ma
abilita l'interessato alla proposizione di impugnazione, una
volta decorso dal suo perfezionarsi il termine decadenziale
di sessanta giorni.
Quanto al sindacato esperibile in sede di impugnazione, va
evidenziato che tale provvedimento, in quanto tacito, è già
di per sé privo di motivazione, e quindi non può essere
impugnato per tale vizio ma per ragioni diverse (cfr. Cons.
Stato, V, 06.09.1999, n. 1015; C.d.S. sez. V,
11.02.2003 n. 401; C.G.A.R.S. 21.03.2001, n. 142).
---------------
Nella specie, il silenzio
sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica
postula indubbiamente l'esercizio di un'attività
amministrativa essenzialmente vincolata, trattandosi di un
meccanismo predisposto per sanare opere solo formalmente
abusive, in quanto eseguite senza il prescritto titolo
edilizio ma sostanzialmente conformi alla normativa
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro
realizzazione sia al momento della presentazione della
domanda.
Trattasi quindi di attività amministrativa per lo più priva
di apprezzabili margini di discrezionalità in quanto
riferita ad un assetto di interessi già prefigurato dalle
previsioni dello strumento urbanistico generale (cfr Tar
Campania Napoli sez. VI, 05.05.2005 n. 5484)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 30.08.2012 n. 1614 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'ingiunzione
di demolizione di un'opera abusivamente realizzata perde
efficacia qualora l'interessato abbia attivato il
procedimento per ottenere la concessione edilizia in
sanatoria dell'opera stessa. Ciò in quanto il riesame del
carattere abusivo dell'opera, al fine di verificarne
l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di
un nuovo provvedimento, di accoglimento o di diniego (o
anche di rigetto implicito, nei casi previsti di
silenzio-rigetto), che vale, comunque, a superare il
provvedimento sanzionatorio originariamente adottato
dall'Amministrazione.
Pertanto, in caso di mancato
accoglimento, l'interesse del responsabile dell'abuso
edilizio "si sposta" dall'annullamento del
provvedimento sanzionatorio già adottato a quello del nuovo
provvedimento, esplicito o implicito, di rigetto
dell'istanza di sanatoria.
RITENUTO di dovere aderire alla giurisprudenza
prevalente, costantemente seguita da questo Tribunale, e
dalla quale il Collegio, che la condivide, non ravvisa
ragioni per discostarsene nel caso in esame, secondo la
quale l'ingiunzione di demolizione di un'opera abusivamente
realizzata perde efficacia qualora l'interessato abbia
attivato il procedimento per ottenere la concessione
edilizia in sanatoria dell'opera stessa. Ciò in quanto il
riesame del carattere abusivo dell'opera, al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di
diniego (o anche di rigetto implicito, nei casi previsti di
silenzio-rigetto), che vale, comunque, a superare il
provvedimento sanzionatorio originariamente adottato
dall'Amministrazione.
Pertanto, in caso di mancato
accoglimento, l'interesse del responsabile dell'abuso
edilizio "si sposta" dall'annullamento del provvedimento
sanzionatorio già adottato a quello del nuovo provvedimento,
esplicito o implicito, di rigetto dell'istanza di sanatoria
(ex multis, v. Cons. St., VI, 26.03.2010, n. 1750; TAR
Sicilia, Palermo, III, 29.09.2010, n. 11113; 04.09.2008, n. 1102; TAR Lazio, Roma, 27.11.2008, n. 166; TAR Sicilia, 24.07.2006, n. 1750; 16.03.2004, n. 499; id., 10.05.2001, n. 1242; id.,
06.07.2001, n. 1929; TAR Lazio, Roma, II, 02.11.2010, n. 33107;
04.05.2007, n. 3873; TAR Liguria, II,
14.12.2000, n. 1310; TAR Toscana, III, 18.12.2001, n. 2024; TAR Puglia, II, 11.01.2002, n. 154;
TAR Campania, Napoli, IV, 06.11.2007, n. 10675; VI,
03.05.2007, n. 4659; III, 02.03.2004, n. 2579; IV,
18.03.2005, n. 1835)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 29.08.2012 n. 1814 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Non
può legittimamente formarsi il silenzio-assenso sulla
domanda di condono edilizio relativamente ad opere che, come
nel caso in esame, siano state realizzate in contrasto con
vincoli d’inedificabilità assoluta.
RITENUTO che tutte le doglianze proposte sono
destituite di base, poiché:
- quanto al primo
motivo, la violazione delle norme sulla competenza, in
quanto disposizioni sul procedimento, non comporta
l'annullamento dell'atto vincolato allorquando, come nel
caso di specie, trattandosi di atto sanzionatorio dovuto,
sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso, ai sensi dell'art. 21-octies, comma
2, della L. n. 241 del 1990 e ss.mm.ii: il vizio denunciato,
pertanto, non può essere invalidante (Cons. Stato, VI,
06.11.2006, n. 6521; idem, 15.11.2005, n. 6350; TAR Lazio,
Latina, 17.01.2007, n. 39; idem, 23.11.2006, n. 1748);
- quanto al secondo motivo,
appare dirimente la circostanza che -a parte la questione
di fatto, che resta controversa, del compimento delle
strutture essenziali entro il 31.12.1976- in ogni
caso, nessuna prova o inizio della stessa è stata fornita
dal ricorrente a proposito della data di avvio dei lavori
prima dell'entrata in vigore della legge regionale 12.06.1976, n. 78 (16.06.1976) come stabilito dall’art. 23,
comma 11, secondo periodo, della legge regionale n. 37 del
1985, che così recita: “restano altresì escluse dalla
concessione o autorizzazione in sanatoria le costruzioni
eseguite in violazione dell' art. 15, lett. a, della legge
regionale 12.06.1976, n. 78, ad eccezione di quelle
iniziate prima dell' entrata in vigore della medesima legge
e le cui strutture essenziali siano state portate a
compimento entro il 31.12.1976”: perciò l’immobile
abusivo in questione non poteva che restare escluso dalla
concessione in sanatoria. Ne consegue che sulla domanda di
sanatoria oggetto di lite non si è formato alcun
silenzio-assenso ai sensi dell’art. 26 della l.r. n. 37/1985.
Come ha avuto occasione di affermare questo Tribunale in
fattispecie analoghe alla presente (fra le tante, sez. III,
30.07.2009 n. 1392; sez. III, 14.12.2005, n. 1593;
sez. I, 10.12.2001, n. 180), non può legittimamente
formarsi il silenzio-assenso sulla domanda di condono
edilizio relativamente ad opere che, come nel caso in esame,
siano state realizzate in contrasto con vincoli d’inedificabilità
assoluta (cfr., altresì, C.G.A., 28.01.2002, n. 39) (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 29.08.2012 n. 1813 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
fini della classificazione di un’opera prefabbricata,
occorre stabilire se il manufatto in questione possa
ritenersi costruzione o edificazione a fini urbanistici. Al
riguardo, si rientra nella fattispecie delle modificazioni
durevoli dello stato dei luoghi, che, come chiarito dalla
giurisprudenza, sono prodotte anche da strutture meramente
appoggiate sul suolo, anche con ruote, qualora dette
strutture siano per loro natura destinate ad uso
naturalmente prolungato nel tempo che, quindi, non può
realmente definirsi precario, cioè temporaneo o occasionale.
Quanto alle strutture prefabbricate, a prescindere dal
sistema di ancoraggio al suolo, dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente data dal costruttore, esse
vanno considerate vere e proprie costruzioni, ove siano
destinate a durare nel tempo: l’opera, infatti, deve essere
valutata alla luce della sua obiettiva ed intrinseca
destinazione naturale, con la conseguenza della sua
riconducibilità alla nozione giuridica di costruzione, per
la quale occorre la concessione edilizia, qualora, anche se
non necessariamente infissa nel suolo e pur semplicemente
aderente a questo, alteri lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, a
prescindere dalla tecnica e dai materiali impiegati per la
sua realizzazione.
Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale dal quale questo Tribunale non ravvisa
ragioni di discostarsi nel caso di specie, ai fini della
classificazione di un’opera prefabbricata, occorre stabilire
se il manufatto in questione possa ritenersi costruzione o
edificazione a fini urbanistici. Al riguardo, si rientra
nella fattispecie delle modificazioni durevoli dello stato
dei luoghi, che, come chiarito dalla giurisprudenza, sono
prodotte anche da strutture meramente appoggiate sul suolo,
anche con ruote, qualora dette strutture siano per loro
natura destinate ad uso naturalmente prolungato nel tempo
che, quindi, non può realmente definirsi precario, cioè
temporaneo o occasionale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.12.1999, n. 2125; Tar Sicilia, Catania, I, 29.11.2007, n. 1921).
Quanto alle strutture prefabbricate, a prescindere dal
sistema di ancoraggio al suolo, dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente data dal costruttore, esse
vanno considerate vere e proprie costruzioni, ove siano
destinate a durare nel tempo: l’opera, infatti, deve essere
valutata alla luce della sua obiettiva ed intrinseca
destinazione naturale, con la conseguenza della sua
riconducibilità alla nozione giuridica di costruzione, per
la quale occorre la concessione edilizia, qualora, anche se
non necessariamente infissa nel suolo e pur semplicemente
aderente a questo, alteri lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e non meramente occasionale, a
prescindere dalla tecnica e dai materiali impiegati per la
sua realizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.04.1990,
n. 317; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01.06.2007, n.
479).
Nel caso di specie, del tutto irrilevante, pertanto,
ai fini della configurazione del requisito della precarietà,
è la circostanza affermata dell’uso effettivo che sarebbe
limitato al solo periodo estivo, non venendo meno la
destinazione, continuata nel tempo, al fine abitativo. Ne
consegue, ai fini urbanistici, che la struttura
prefabbricata oggetto dell’ordinanza di demolizione
impugnata deve essere qualificata alla stregua di una
costruzione necessitante di titolo edilizio.
Del pari
infondato, poi, appare il richiamo alla conformità
urbanistica dell’insediamento turistico nel quale ricade il
manufatto abusivo, poiché tale conformità non presuppone l’alternatività
tra il posizionamento nelle apposite piazzole di roulotte
(unica fattispecie consentita) ovvero della edificazione di
strutture edilizie, seppur asseritamente prefabbricate,
necessitante di specifico titolo concessorio, peraltro, non
rilasciabile in zona sottoposta a vincolo d’inedificabilità
assoluta
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 29.08.2012 n. 1812 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
A termini dell’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, le
valutazioni in ordine alla gravità delle condanne riportate
dai concorrenti e alla loro incidenza sulla moralità
professionale spettano alla stazione appaltante e non al
concorrente medesimo, il quale è pertanto tenuto ad indicare
tutte le condanne riportate, non potendo operare a monte
alcun filtro e non essendogli consentito di omettere la
dichiarazione di alcune di esse sulla base di una selezione
compiuta secondo criteri personali, e ciò indipendentemente
dall’inserimento del relativo obbligo in una specifica
clausola del bando e/o del disciplinare di gara.
L’omissione, o la non veridicità, della dichiarazione in
ordine alle fattispecie penali potenzialmente incidenti
sulla moralità professionale, ossia quella relativa alle
sentenze di condanna passate in giudicato, ai decreti penali
di condanna divenuti irrevocabili ed alle sentenze di
applicazione della pena su richiesta, rileva infatti non
solo in quanto non consente alla stazione appaltante una
completa valutazione dell’affidabilità del concorrente, ma
anche, e soprattutto, in quanto interrompe il nesso
fiduciario che necessariamente deve presiedere ai rapporti
tra pubblica amministrazione e soggetto aggiudicatario del
servizio.
---------------
Perché operi la causa estintiva del reato, anche di quella
prevista dall’art. 460, comma 5, c.p.p., è necessario che
essa sia dichiarata dal giudice penale con pronuncia di
accertamento costitutivo, con la conseguenza che sino a
quando non sia reso il formale provvedimento giudiziario non
può farsi riferimento al concetto di “reato estinto”.
- le prefate doglianze non si prestano ad essere
condivise per le ragioni di seguito esposte:
aa) a termini dell’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, le
valutazioni in ordine alla gravità delle condanne riportate
dai concorrenti e alla loro incidenza sulla moralità
professionale spettano alla stazione appaltante e non al
concorrente medesimo, il quale è pertanto tenuto ad indicare
tutte le condanne riportate, non potendo operare a monte
alcun filtro e non essendogli consentito di omettere la
dichiarazione di alcune di esse sulla base di una selezione
compiuta secondo criteri personali, e ciò indipendentemente
dall’inserimento del relativo obbligo in una specifica
clausola del bando e/o del disciplinare di gara (obbligo,
peraltro, nel caso specifico espressamente contemplato al
punto 13.1 del disciplinare di gara della procedura aperta).
L’omissione, o la non veridicità, della dichiarazione in
ordine alle fattispecie penali potenzialmente incidenti
sulla moralità professionale, ossia quella relativa alle
sentenze di condanna passate in giudicato, ai decreti penali
di condanna divenuti irrevocabili ed alle sentenze di
applicazione della pena su richiesta, rileva infatti non
solo in quanto non consente alla stazione appaltante una
completa valutazione dell’affidabilità del concorrente, ma
anche, e soprattutto, in quanto interrompe il nesso
fiduciario che necessariamente deve presiedere ai rapporti
tra pubblica amministrazione e soggetto aggiudicatario del
servizio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 03.02.2011
n. 782);
bb) perché operi la causa estintiva del reato, anche di
quella prevista dall’art. 460, comma 5, c.p.p., è necessario
che essa sia dichiarata dal giudice penale con pronuncia di
accertamento costitutivo, con la conseguenza che sino a
quando non sia reso il formale provvedimento giudiziario non
può farsi riferimento al concetto di “reato estinto”
(giurisprudenza consolidata: cfr. Consiglio di Stato, Sez.
V, 24.03.2011 n. 1800; Consiglio di Stato, Sez. VI, 21.12.2010 n. 9324 e
05.07.2010 n. 4243).
La società
ricorrente non poteva giovarsi dell’intervenuta estinzione
omettendo la dichiarazione sul decreto penale di condanna in
occasione della partecipazione alle procedure selettive in
questione, dal momento che tale estinzione è divenuta
operativa solo il 23.11.2011, a seguito dell’emissione
del relativo provvedimento del G.I.P., addirittura dopo la
data di emanazione della determinazione dirigenziale di
esclusione dalla procedura aperta (18.11.2011), e
comunque successivamente alla data di indizione della
procedura negoziata (16.11.2011). Né l’esegesi
dell’art. 460, comma 5, c.p.p. autorizza a ritenere che la
pronuncia estintiva del reato possa avere efficacia
retroattiva, non cogliendosi né nella lettera di tale
disposizione né nella sua collocazione sistematica un serio
appiglio in tal senso. Tuttavia, nella inconcessa ipotesi
dell’efficacia retroattiva della pronuncia estintiva, si
rileva che tale pronuncia comunque non poteva essere opposta
alla stazione appaltante.
Soccorrono, al riguardo, le
condivisibili osservazioni formulate dal massimo giudice
amministrativo in un caso analogo a quello di specie: “E
tale (asseritamente intervenuto) effetto estintivo,
ovviamente, deve essere riscontrato con riguardo al momento
in cui l’Amministrazione rese la statuizione impugnata, a
nulla rilevando l’eventuale sopravvenire del medesimo. E’
costante orientamento giurisprudenziale, infatti, quello per
cui la legittimità di un provvedimento amministrativo deve
essere apprezzata con riferimento allo stato di fatto e di
diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo
il principio tempus regit actum, con conseguente irrilevanza
di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso
legittimare ex post precedenti atti amministrativi. Come non
è possibile validare ex post un’azione amministrativa che,
al momento in cui fu adottata, si appalesava illegittima,
egualmente non potrebbe discendere un giudizio di
illegittimità del medesimo fondato su una sopravvenienza" (ex multis, Consiglio Stato, sez. IV, 15.09.2006, n. 5381
e di recente Consiglio Stato, sez. VI, 03/09/2009, n. 5195)
(così Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 9324/2010 cit.);
- anche tali censure non riescono a sortire esito fausto,
dal momento che comunque l’impianto complessivo del
provvedimento di esclusione risulta validamente sorretto
dall’accertamento della non veridicità della dichiarazione
in merito alle condanne riportate.
Soccorre, al riguardo, il
condiviso principio secondo il quale, laddove una
determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza
da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per
sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che
anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in
sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo
complesso resti esente dall’annullamento (cfr. per tutte
Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010 n. 4243;
Consiglio di Stato, Sez. V, 27.09.2004 n. 6301);
- infine, con un quarto ed ultimo gruppo di censure, parte
ricorrente si duole dell’intera procedura negoziata
espletata dall’amministrazione comunale e del finale atto di
aggiudicazione, sostenendo che la scelta di tale procedura
sarebbe avvenuta in assenza delle condizioni e dei
presupposti previsti dall’art. 57 del d.lgs. n. 163/2006;
- una volta consolidatasi l’esclusione anche dalla procedura
negoziata e non contestando in radice la ricorrente la
decisione della stazione appaltante di indire la procedura,
ma soltanto il sistema di selezione prescelto, le censure in
parola devono essere dichiarate inammissibili per carenza di
legittimazione attiva, atteso che la definitiva esclusione o
l’accertamento della illegittimità della partecipazione alla
gara impedisce di assegnare al concorrente la titolarità di
una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare gli
esiti della procedura selettiva (cfr Consiglio di Stato,
A.P., 07.04.2011 n. 4)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 28.08.2012 n. 3733 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La legittimità di un
provvedimento amministrativo deve essere apprezzata con
riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al
momento della sua emanazione, secondo il principio tempus
regit actum, con conseguente irrilevanza di provvedimenti
successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post
precedenti atti amministrativi.
Come non è possibile validare ex post un’azione
amministrativa che, al momento in cui fu adottata, si
appalesava illegittima, egualmente non potrebbe discendere
un giudizio di illegittimità del medesimo fondato su una
sopravvenienza.
---------------
Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo
tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle
quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è
sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle
censure mosse in sede giurisdizionale perché il
provvedimento nel suo complesso resti esente
dall’annullamento.
Soccorrono, al riguardo, le
condivisibili osservazioni formulate dal massimo giudice
amministrativo in un caso analogo a quello di specie: “E
tale (asseritamente intervenuto) effetto estintivo,
ovviamente, deve essere riscontrato con riguardo al momento
in cui l’Amministrazione rese la statuizione impugnata, a
nulla rilevando l’eventuale sopravvenire del medesimo. E’
costante orientamento giurisprudenziale, infatti, quello per
cui la legittimità di un provvedimento amministrativo deve
essere apprezzata con riferimento allo stato di fatto e di
diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo
il principio tempus regit actum, con conseguente irrilevanza
di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso
legittimare ex post precedenti atti amministrativi. Come non
è possibile validare ex post un’azione amministrativa che,
al momento in cui fu adottata, si appalesava illegittima,
egualmente non potrebbe discendere un giudizio di
illegittimità del medesimo fondato su una sopravvenienza" (ex multis, Consiglio Stato, sez. IV, 15.09.2006, n. 5381
e di recente Consiglio Stato, sez. VI, 03/09/2009, n. 5195)
(così Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 9324/2010 cit.);
- anche tali censure non riescono a sortire esito fausto,
dal momento che comunque l’impianto complessivo del
provvedimento di esclusione risulta validamente sorretto
dall’accertamento della non veridicità della dichiarazione
in merito alle condanne riportate.
Soccorre, al riguardo, il
condiviso principio secondo il quale, laddove una
determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza
da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per
sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che
anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in
sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo
complesso resti esente dall’annullamento (cfr. per tutte
Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010 n. 4243;
Consiglio di Stato, Sez. V, 27.09.2004 n. 6301)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 28.08.2012 n. 3733 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Tanto
la disciplina di cui al d.lgs. n. 22/1997 (in particolare,
l’art. 17, comma 2), quanto quella introdotta dal d.lgs. n.
152/2006 (ed in particolare, gli artt. 240 e segg.), si
ispirano al principio secondo cui l’obbligo di adottare le
misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la
situazione di inquinamento, è a carico unicamente di colui
che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato
causa a titolo di dolo o colpa: l’obbligo di bonifica o di
messa in sicurezza non può essere invece addossato al
proprietario incolpevole, ove manchi ogni sua
responsabilità.
L’Amministrazione non può, perciò, imporre ai privati che
non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del
fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali
proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di
recupero e di risanamento. L’enunciato è conforme al
principio “chi inquina, paga”, cui si ispira la normativa
comunitaria (cfr. art. 174, ex art. 130/R, del Trattato CE),
la quale impone al soggetto che fa correre un rischio di
inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della
riparazione.
Tale impostazione, sancita dal d.lgs. n. 22/1997, risulta,
come detto, confermata e specificata dagli artt. 240 e segg.
del d.lgs. n. 152/2006 (cd. Codice Ambiente), dai quali si
desume l’addossamento dell’obbligo di effettuare gli
interventi di recupero ambientale, anche di carattere
emergenziale, al responsabile dell’inquinamento, che
potrebbe benissimo non coincidere con il proprietario ovvero
il gestore dell’area interessata.
Va precisato, in argomento, che il principio “chi inquina,
paga” vale, altresì, per le misure di messa in sicurezza
d’emergenza, alle quali si riferiscono le Conferenze di
Servizi per cui è causa, secondo la definizione che delle
misure stesse è fornita dall’art. 240, comma 1, lett. m),
del d.lgs. n. 152 cit. (ogni intervento immediato od a breve
termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza
di cui alla lett. t) in caso di eventi di contaminazione
repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la
diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione,
impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito ed
a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di
bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente).
Infatti, anche l’adozione delle misure di messa in sicurezza
d’emergenza è addossata dalla normativa in discorso al
soggetto responsabile dell’inquinamento (cfr. art. 242 del
d.lgs. n. 152 cit.).
Si deve sottolineare che a carico del proprietario dell’area
inquinata, che non sia altresì qualificabile come
responsabile dell’inquinamento, non incombe alcun obbligo di
porre in essere gli interventi in parola, ma solo la facoltà
di eseguirli per mantenere l’area interessata libera da
pesi. Dal combinato disposto degli artt. 244, 250 e 253 del
Codice ambiente si ricava infatti che, nell’ipotesi di
mancata esecuzione degli interventi ambientali in esame da
parte del responsabile dell’inquinamento, ovvero di mancata
individuazione dello stesso –e sempreché non provvedano né
il proprietario del sito, né altri soggetti interessati– le
opere di recupero ambientale sono eseguite dalla P.A.
competente, che potrà rivalersi sul soggetto responsabile
nei limiti del valore dell’area bonificata, anche
esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le
garanzie gravanti sul terreno oggetti dei medesimi
interventi.
La sentenza 1397/2010,
relativa ad una determinazione ministeriale sostanzialmente
identica a quella impugnata in questa sede, ricostruisce i
principi che devono trovare attuazione in questa materia; in
merito è illuminante riportare un ampio stralcio della sua
motivazione: “Come questa Sezione
ha più volte avuto modo di affermare (cfr., ex multis,
TAR Toscana, Sez. II, 17.04.2009, n. 665; id., 06.05.2009, n. 762), tanto la disciplina di cui al d.lgs.
n. 22/1997 (in particolare, l’art. 17, comma 2), quanto
quella introdotta dal d.lgs. n. 152/2006 (ed in particolare,
gli artt. 240 e segg.), si ispirano al principio secondo cui
l’obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive,
idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, è a
carico unicamente di colui che di tale situazione sia
responsabile, per avervi dato causa a titolo di dolo o
colpa: l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può
essere invece addossato al proprietario incolpevole, ove
manchi ogni sua responsabilità (cfr., nello stesso senso,
TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 26.07.2007, n. 1254).
L’Amministrazione non può, perciò, imporre ai privati che
non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del
fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali
proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di
recupero e di risanamento (così, nel vigore della precedente
disciplina, TAR Veneto, Sez. II, 02.02.2002, n.
320). L’enunciato è conforme al principio “chi inquina,
paga”, cui si ispira la normativa comunitaria (cfr. art.
174, ex art. 130/R, del Trattato CE), la quale impone al
soggetto che fa correre un rischio di inquinamento di
sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
Tale
impostazione, sancita dal d.lgs. n. 22/1997, risulta, come
detto, confermata e specificata dagli artt. 240 e segg. del
d.lgs. n. 152/2006 (cd. Codice Ambiente), dai quali si
desume l’addossamento dell’obbligo di effettuare gli
interventi di recupero ambientale, anche di carattere
emergenziale, al responsabile dell’inquinamento, che
potrebbe benissimo non coincidere con il proprietario ovvero
il gestore dell’area interessata (TAR Toscana, Sez. II,
n. 665/2009, cit.).
Va
precisato, in argomento, che il principio “chi inquina,
paga” vale, altresì, per le misure di messa in sicurezza
d’emergenza, alle quali si riferiscono le Conferenze di
Servizi per cui è causa, secondo la definizione che delle
misure stesse è fornita dall’art. 240, comma 1, lett. m),
del d.lgs. n. 152 cit. (ogni intervento immediato od a breve
termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza
di cui alla lett. t) in caso di eventi di contaminazione
repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la
diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione,
impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito ed
a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di
bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente).
Infatti, anche l’adozione delle misure di messa in sicurezza
d’emergenza è addossata dalla normativa in discorso al
soggetto responsabile dell’inquinamento (cfr. art. 242 del
d.lgs. n. 152 cit.).
Si deve
sottolineare che a carico del proprietario dell’area
inquinata, che non sia altresì qualificabile come
responsabile dell’inquinamento, non incombe alcun obbligo di
porre in essere gli interventi in parola, ma solo la facoltà
di eseguirli per mantenere l’area interessata libera da
pesi. Dal combinato disposto degli artt. 244, 250 e 253 del
Codice ambiente si ricava infatti che, nell’ipotesi di
mancata esecuzione degli interventi ambientali in esame da
parte del responsabile dell’inquinamento, ovvero di mancata
individuazione dello stesso –e sempreché non provvedano né
il proprietario del sito, né altri soggetti interessati– le
opere di recupero ambientale sono eseguite dalla P.A.
competente, che potrà rivalersi sul soggetto responsabile
nei limiti del valore dell’area bonificata, anche
esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le
garanzie gravanti sul terreno oggetti dei medesimi
interventi (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 10.07.2007, n. 5355; TAR Toscana, Sez. II, 17.09.2009,
n. 1448).
Facendo applicazione dell’ora visto principio al caso di
specie, emerge con tutta evidenza come in questo la P.A. non
abbia proceduto ad alcuna verifica della sussistenza, in
capo alla ricorrente, del requisito della responsabilità
colpevole. Invero, in nessuna delle Conferenze di Servizi
contestate si rinviene alcun approfondimento istruttorio
finalizzato ad accertare un responsabilità colpevole della
Imerys Minerali S.p.A nelle situazioni di inquinamento della
falda e dei suoli per l’area di titolarità della stessa.
Questa conclusione resta ferma anche analizzando i verbali
della Conferenza di Servizi decisoria del 09.11.2004
(anteriore a quelle cui si riferiscono il ricorso ed i
motivi aggiunti) e, soprattutto, della Conferenza di Servizi
istruttoria del 26.06.2007, che contiene una descrizione
analitica della situazione pregressa e di quella attuale del
sito interessato, senza far emergere nessun elemento di
responsabilità colpevole a carico della ricorrente.
Ciò,
quando al contrario le particolari vicende attinenti ai
passaggi di proprietà per una parte di tale sito (permuta
con il C.E.RM.E.C.), la condotta del medesimo consorzio e,
per altro verso, le tipologie di produzioni realizzate nel
terreno in discorso e nelle zone circostanti, avrebbero
imposto un siffatto approfondimento, anche alla luce
dell’ingente onerosità delle misure prescritte all’odierna
ricorrente. È evidente, invece, che in tutte le Conferenze
di Servizi considerate la Imerys Minerali S.p.A. viene in
rilievo esclusivamente nella sua veste di proprietaria del
terreno interessato ed in tale sua qualità viene evocata
quale destinataria delle prescrizioni assunte con dette
Conferenze.
Così facendo, però, la P.A. utilizza
illegittimamente –come si è sopra visto– il criterio
dominicale, in luogo di quello della responsabilità
colpevole, ai fini dell’individuazione del soggetto
destinatario delle prescrizioni volte al risanamento del
terreno contaminato” (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 28.08.2012 n. 1491 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
potere extra ordinem previsto dall’art. 50 del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, per l’emissione di ordinanze
contingibili ed urgenti presuppone, da un lato, una
situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua
motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e
imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi
previsti in via ordinaria dall'ordinamento.
La giurisprudenza ha rimeditato e ridimensionato la tesi
della necessaria imprevedibilità della situazione di
pericolo, giungendo ad affermare l’irrilevanza del fatto che
la situazione di pericolo preesista da tempo.
Pur tuttavia si prospetta maggioritario l’orientamento
secondo il quale indefettibile presupposto del legittimo
potere di ordinanza è l’esistenza di una situazione di
pericolo eccezionale ed imprevedibile ed incontrastato è poi
l’indirizzo che predica la necessaria residualità del potere
di ordinanza, ossia il dato normativo che alla situazione di
pericolo o di emergenza non possa farsi fronte mediante
l’esercizio di poteri e l’adozione degli strumenti ordinari
e tipici previsti dall’ordinamento.
Si è infatti in tal senso precisato che “il potere di
ordinanza del Sindaco in materia di sanità ed igiene,
edilizia e polizia locale, presuppone l'esistenza di una
situazione eccezionale, che richiede un intervento immediato
e urgente, non fronteggiabile attraverso l'utilizzo degli
strumenti ordinari di cui può disporre normalmente
l'autorità amministrativa”. Ancor più incisivamente si è
affermato che presupposto dell’adozione di un’ordinanza
contingibile ed urgente “è l’esistenza di una situazione
imprevedibile ed eccezionale la quale inoltre non possa
essere fronteggiata con altri rimedi apprestati
dall’ordinamento.
---------------
E' assolutamente prevalente in giurisprudenza l’orientamento
che individua nella provvisorietà della misura e nella
necessità che essa non produca uno stabile assetto di
interessi, un altro degli indefettibili presupposti del
potere del Sindaco di adottare ordinanze contingibili ed
urgenti.
Anche il Consiglio di Stato ha precisato che “il potere
esercitabile dal Sindaco ai sensi del’art. 54, d.lgs. n. 267
del 2000 presuppone una situazione di pericolo (…) che non
possa essere affrontata con nessun altro tipo di
provvedimento, e tale da risolvere una situazione comunque
temporanea”, concludendo che tra i limiti che circondano il
potere di ordinanza contingibile ed urgente esiste “oltre il
limite del rispetto dei principi generali dell’ordinamento,
l’urgenza e la provvisorietà” oltre che “la natura residuale
dei provvedimenti in questione”.
La giurisprudenza di prime cure assolutamente prevalente
segue tale indirizzo, avendo affermato che “le ordinanze in
questione, per definizione, presentano il carattere della
provvisorietà, intesa nel duplice senso di imposizione di
misure non definitive e di efficacia temporalmente
limitata”.
Ribadendo il presupposto della provvisorietà della misura
ingiunta si è più di recente concluso che “non si ammette
che l’ordinanza in oggetto venga emanata per fronteggiare
esigenze prevedibili e permanenti ovvero per regolare
stabilmente una situazione od assetto di interessi
permanente".
Segnala il Collegio che anche questo Tribunale ha da tempo
predicato la necessità del presupposto della provvisorietà,
in ossequio al quale le ordinanze contingibili ed urgenti
non possono essere adottate per fronteggiare esigenze
prevedibili e permanenti ovvero per regolare stabilmente una
situazione od assetto di interessi permanente.
In punto di diritto va rammentato che la
giurisprudenza ha più volte chiarito che “il potere extra ordinem previsto dall’art. 50 del D.Lgs. 18.08.2000, n.
267, per l’emissione di ordinanze contingibili ed urgenti
presuppone, da un lato, una situazione di pericolo
effettivo, da esternare con congrua motivazione, e,
dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui
non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via
ordinaria dall'ordinamento" (TAR Veneto, Sez. III, 04.08.2009 n. 2274)
Non sfugge peraltro al Collegio che la giurisprudenza ha
rimeditato e ridimensionato la tesi della necessaria
imprevedibilità della situazione di pericolo, giungendo ad
affermare l’irrilevanza del fatto che la situazione di
pericolo preesista da tempo (TAR Puglia–Lecce, Sez. I,
14.12.2011, n. 2085; Consiglio di Stato Sez. IV, 25.09.2006,
n. 5639).
Pur tuttavia si prospetta maggioritario l’orientamento
secondo il quale indefettibile presupposto del legittimo
potere di ordinanza è l’esistenza di una situazione di
pericolo eccezionale ed imprevedibile ed incontrastato è poi
l’indirizzo che predica la necessaria residualità del potere
di ordinanza, ossia il dato normativo che alla situazione di
pericolo o di emergenza non possa farsi fronte mediante
l’esercizio di poteri e l’adozione degli strumenti ordinari
e tipici previsti dall’ordinamento.
Si è infatti in tal senso precisato che “il potere di
ordinanza del Sindaco in materia di sanità ed igiene,
edilizia e polizia locale, presuppone l'esistenza di una
situazione eccezionale, che richiede un intervento immediato
e urgente, non fronteggiabile attraverso l'utilizzo degli
strumenti ordinari di cui può disporre normalmente
l'autorità amministrativa” (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, 31.07.2008, n. 3124). Ancor più incisivamente si è
affermato che presupposto dell’adozione di un’ordinanza contingibile ed urgente “è l’esistenza di una situazione
imprevedibile ed eccezionale (TAR Lazio-Latina, 20.11.2006, n. 1732) la quale inoltre non possa essere
fronteggiata con altri rimedi apprestati
dall’ordinamento” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.03.2006, n. 1537; TAR Marche,
04.02.2003 n. 26; TAR
Emilia Romagna–Parma, 10.01.2003, n. 1, nonché, più di
recente, TAR Puglia–Lecce, Sez. III, 11.04.2009, n. 711;
Consiglio di Stato, Sez. V, 16.02.2010, n. 868).
---------------
Sul punto segnala il
Collegio come sia assolutamente prevalente in giurisprudenza
l’orientamento che individua nella provvisorietà della
misura e nella necessità che essa non produca uno stabile
assetto di interessi, un altro degli indefettibili
presupposti del potere del Sindaco di adottare ordinanze contingibili ed urgenti.
Anche il Consiglio di Stato, invero, superando un precedente
di segno contrario (Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.10.2003,
n. 6168) ha precisato che “il potere esercitabile dal
Sindaco ai sensi del’art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000
presuppone una situazione di pericolo (…) che non possa
essere affrontata con nessun altro tipo di provvedimento, e
tale da risolvere una situazione comunque temporanea”,
concludendo che tra i limiti che circondano il potere di
ordinanza contingibile ed urgente esiste “oltre il limite
del rispetto dei principi generali dell’ordinamento,
l’urgenza e la provvisorietà” oltre che “la natura residuale
dei provvedimenti in questione” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
24.03.2006, n. 1537).
La giurisprudenza di prime cure assolutamente prevalente
segue tale indirizzo, avendo affermato che “le ordinanze in
questione, per definizione, presentano il carattere della
provvisorietà, intesa nel duplice senso di imposizione di
misure non definitive e di efficacia temporalmente limitata”
(TAR Veneto, Sez. III, 27.12.2007, n. 4107; in tal senso
anche TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II, 20.01.2009, n.
47).
Ribadendo il presupposto della provvisorietà della misura
ingiunta si è più di recente concluso che “non si ammette
che l’ordinanza in oggetto venga emanata per fronteggiare
esigenze prevedibili e permanenti ovvero per regolare
stabilmente una situazione od assetto di interessi
permanente" (TAR Campania–Napoli, Sez. V, 29.12.2010, n.
28169).
Segnala il Collegio che anche questo Tribunale ha da tempo
predicato la necessità del presupposto della provvisorietà,
in ossequio al quale le ordinanze contingibili ed urgenti
non possono essere adottate per fronteggiare esigenze
prevedibili e permanenti ovvero per regolare stabilmente una
situazione od assetto di interessi permanente: TAR
Toscana, Sez. II, 15.03.2002, n. 494, sulle orme di Consiglio
di Stato, Sez. VI, 09.02.2001, n. 580 (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 27.08.2012 n. 1484 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
sospensione della funzione amministrativa può ammettersi
solo ove una norma ad hoc la consenta e che, quanto alla
sospensione delle istanze di concessione edilizia, la
sospensione può essere legittimata solo a salvaguardia e
tutela di contrastanti ed ostative disposizioni di uno
strumento urbanistico previamente adottato.
Ai sensi dell’articolo unico della L. n. 03.11.1952, n. 192
il potere di sospendere l’esame delle istanze di concessione
edilizia “si concreta appunto nella sospensione dell’obbligo
di provvedere nel periodo intercorrente tra l’adozione e
l’approvazione del piano regolatore".
Nell’ottica della tassatività delle misure di salvaguardia,
"un potere atipico di sospensione appare contrastante con i
fondamentali principi di continuità della funzione
amministrativa e non è previsto, tra l’altro, neanche dalle
norme in materia edilizia (tranne le ipotesi delle misure di
salvaguardia in pendenza dell’approvazione dei piani
regolatori, di cui all’articolo unico, l. n. 1902 del 1952 e
le ipotesi specifiche di cui all’art. 12, t.u. Edilizia n.
380 del 2001); ciò impedisce che possa farsi ricorso (…) ad
un’attività sospensiva sine die della funzione
amministrativa”.
Già da tempo la
giurisprudenza ha precisato che la sospensione della
funzione amministrativa può ammettersi solo ove una norma ad
hoc la consenta e che, quanto alla sospensione delle istanze
di concessione edilizia, la sospensione può essere
legittimata solo a salvaguardia e tutela di contrastanti ed
ostative disposizioni di uno strumento urbanistico
previamente adottato.
Il Consiglio di Stato anni addietro ebbe infatti a precisare
che ai sensi dell’articolo unico della L. n. 03.11.1952, n.
192 il potere di sospendere l’esame delle istanze di
concessione edilizia “si concreta appunto nella sospensione
dell’obbligo di provvedere nel periodo intercorrente tra
l’adozione e l’approvazione del piano regolatore (Consiglio
di Stato, Sez. V, 3112.1998, n. 1993)”.
Si è più di recente affermato, nell’ottica della tassatività
delle misure di salvaguardia, che “un potere atipico di
sospensione appare contrastante con i fondamentali principi
di continuità della funzione amministrativa e non è
previsto, tra l’altro, neanche dalle norme in materia
edilizia (tranne le ipotesi delle misure di salvaguardia in
pendenza dell’approvazione dei piani regolatori, di cui
all’articolo unico, l. n. 1902 del 1952 e le ipotesi
specifiche di cui all’art. 12, t.u. Edilizia n. 380 del
2001); ciò impedisce che possa farsi ricorso (…) ad
un’attività sospensiva sine die della funzione
amministrativa (TAR Campania–Napoli, Sez. II,
14.11.2006, n. 9486)”.
Orbene, nel caso all’esame la nota impugnata non fornisce
alcun supporto normativo–fattuale a sostegno della
disposta sospensione della pratica edilizia avviata con
l’istanza della ricorrente, facendo un generico richiamo
alla definizione del piano attuativo del Piano della Costa.
Ma, osserva il Collegio, anche ove fossero stati indicati
gli estremi di adozione del predetto piano attuativo, la
misura di salvaguardia non avrebbe potuto comunque essere
applicata poiché l’articolo unico della L. n. 1902/1952,
riprodotto all’art. 12 del D.P.R. 06.12.2001 n. 380, è da
riferire agli strumenti urbanistici generali, ossia ai piani
regolatori generali (in tal senso, Consiglio di Stato Ad. plen.,
07.04.2008, n. 2; TAR Campania–Napoli, Sez. II, 21.02.2003,
n. 1045) e non anche a piani attuativi, tra cui un, peraltro
non meglio precisato, Piano della Costa
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 27.08.2012 n. 1484 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
giurisprudenza ha di recente precisato la natura di norma
cogente che va ascritta al’art. 9 del D.M. n. 1444/1968,
che costituisce fonte primaria alla quale gli strumenti
urbanistici locali debbono conformarsi e che ha attitudine
sostitutiva di eventuali norme locali difformi.
Si è infatti precisato che “Sono inderogabili le
prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444
(che prevede la necessità per le costruzioni di rispettare
una distanza di 10 metri tra pareti finestrate); tali
prescrizioni non possono essere disattese dalle normative
urbanistiche locali ed i Comuni sono obbligati -in caso di
redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici- a
non discostarsi dalle regole fissate dalla citata norma, le
quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con
esse in contrasto.”
Conseguendone anche che “Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 è una
fonte sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici ed
ai regolamenti edilizi comunali, e contiene norme
inderogabili, di ordine pubblico; in caso di contrasto dei
regolamenti edilizi comunali con le prescrizioni del citata
decreto, il giudice deve disapplicare i regolamenti
contrastanti, applicando, in via di sostituzione, la fonte
statale imperativa.
Orbene, l’art. 51 delle NTA al regolamento
urbanistico del resistente Comune, stabilisce a chiare note
che “la distanza tra fabbricati (muniti di pareti
finestrate, n.d.s.) non deve essere inferiore a quella
prescritta dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444”.
Non è chi non veda dunque, che si è al cospetto di un rinvio
integrale alla disposizione sulle distanze legali tra pareti
finestrate recata dal richiamato art. 9 del D.M. n.
1444/1968, il quale si applica in toto alla fattispecie la
vaglio della Sezione.
Va all’uopo rammentato che la giurisprudenza ha di recente
precisato la natura di norma cogente che va ascritta al’art.
9 del D..M. n. 1444/1968, che costituisce fonte primaria alla
quale gli strumenti urbanistici locali debbono conformarsi e
che ha attitudine sostitutiva di eventuali norme locali
difformi.
Si è infatti precisato che “Sono inderogabili le
prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.
1444 (che prevede la necessità per le costruzioni di
rispettare una distanza di 10 metri tra pareti finestrate);
tali prescrizioni non possono essere disattese dalle
normative urbanistiche locali ed i Comuni sono obbligati -in caso di redazione o revisione dei propri strumenti
urbanistici- a non discostarsi dalle regole fissate dalla
citata norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti
locali siano con esse in contrasto.”
Conseguendone anche che
“Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 è una fonte sovraordinata
rispetto agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi comunali, e contiene norme inderogabili, di ordine
pubblico; in caso di contrasto dei regolamenti edilizi
comunali con le prescrizioni del citata decreto, il giudice
deve disapplicare i regolamenti contrastanti, applicando, in
via di sostituzione, la fonte statale imperativa“ (TAR
Piemonte, Sez. I, 10.10.2008 n. 2565, in termini già
Cass. civile, Sez. II, 03.03.2008, n. 5741). Nel senso che
gli strumenti urbanistici non possono infrangere le
previsioni di cui al D.M. n. 1444/1968, cfr. già TAR
Liguria, Sez. I, 07.03.2008, n. 379
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 27.08.2012 n. 1483 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
giurisprudenza ha da sempre circoscritto i confini
dell’applicazione dell’art. 38, comma 1, del D.P.R. n. 380
del 2001 alle sole ipotesi in cui il permesso di costruire
sia stato annullato per vizi formali o procedurali,
ritenendola inapplicabile ove invece l’annullamento del
medesimo venga pronunciato per l’acclarata sussistenza di un
vizio sostanziale.
In caso di annullamento giurisdizionale di concessione
edilizia illegittimamente rilasciata il Comune, sul quale
incombe l’obbligo di ripristinare l’ordine violato, deve
valutare se ingiungere la demolizione dell’edificio già
realizzato o applicare una sanzione pecuniaria, a seconda
che l’illegittimità della costruzione già eseguita sia
conseguente a vizi di carattere sostanziale, per
inosservanza di prescrizioni urbanistiche, ovvero a vizi
formali dell’iter procedimentale.
La regola immanente all’art. 38, comma 1, del D.P.R. n. 380
del 2001 è rappresentata dall’operatività della sanzione
reale, che, in quanto effetto primario e naturale derivante
dall’annullamento del permesso di costruire (…) non richiede
all’amministrazione un particolare impegno motivazionale (…)
La sanzione alternativa pecuniaria, ex art. 38, comma 1,
D.P.R. n. 380 del 2001, deve intendersi riferita alle sole
costruzioni assentite mediante titoli abilitativi edilizi
annullati per vizi formali e non anche sostanziali”;
ulteriormente precisandosi che “inoltre l’applicabilità
della sanzione alternativa pecuniaria è stata prevista dalla
citata disposizione avendo riguardo all’ipotesi in cui
soltanto una parte di un fabbricato risulti abusivamente
realizzata e risulti, nel contempo, accertato che la sua
demolizione esporrebbe a serio rischio statico la residua
parte legittima del fabbricato.
Ad avviso del Collegio la censura è
fondata, stante, da un lato, l’interpretazione che dell’art.
38 del T.U. sull’edilizia e della precedente norma di cui
all’art. 11 della L. n. 47/1985 ha accreditato la
giurisprudenza amministrativa e, dall’altro, l’impossibilità
di interpretare l’art. 138 della L. Reg. Toscana n. 1/2005
applicato con il provvedimento impugnato, in frontale
contrasto con l’art.38 del D.P.R. 06.12.2001, n. 388.
Orbene, dispone l’art. 38 del D.P.R. 06.12.2001, n. 380, nel
disciplinare le conseguenze dell’annullamento del permesso a
costruire, che “in caso di annullamento del permesso di
costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata
valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure
amministrative o la riduzione in pristino, il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale applica una
sanzione amministrativa pari al valore venale delle opere o
di loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia
del territorio (…) 2. L’integrale corresponsione della
sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del
permesso di costruire in sanatoria di cui all’art. 36”. Per
poter applicare la sanzione pecuniaria sanante, dunque, deve
risultare impossibile la rimozione dei vizi delle procedure
o (una volta accertato che gli stessi non siano rimuovibili)
la riduzione in pristino stato.
Analoga disposizione era contenuta nell’art. 11 della L. n.
47/1985, riproposta del T.U. sull’edilizia con la riportata
norma dell’art. 38.
Sul punto rammenta il Collegio che la giurisprudenza,
pacificamente, ha da sempre circoscritto i confini
dell’applicazione della norma de qua alle sole ipotesi in
cui il permesso di costruire sia stato annullato per vizi
formali o procedurali, ritenendola inapplicabile ove invece
l’annullamento del medesimo venga pronunciato per l’acclarata
sussistenza di un vizio sostanziale (Consiglio di Stato,
Sez. V, 22.05.2006, n. 2960; ID, 26.05.2003, n. 2849).
Il Giudice d’appello ha al riguardo chiarito che “in caso di
annullamento giurisdizionale di concessione edilizia
illegittimamente rilasciata il Comune, sul quale incombe
l’obbligo di ripristinare l’ordine violato, deve valutare se
ingiungere la demolizione dell’edificio già realizzato o
applicare una sanzione pecuniaria, a seconda che
l’illegittimità della costruzione già eseguita sia
conseguente a vizi di carattere sostanziale, per
inosservanza di prescrizioni urbanistiche, ovvero a vizi
formali dell’iter procedimentale (Consiglio di Stato, Sez. IV, 29.07.2008, n. 3772)”.
Più di recente si è ribadito che “La regola immanente
all’art. 38, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 è
rappresentata dall’operatività della sanzione reale, che, in
quanto effetto primario e naturale derivante
dall’annullamento del permesso di costruire (…) non richiede
all’amministrazione un particolare impegno motivazionale (…)
La sanzione alternativa pecuniaria, ex art. 38, comma 1,
D.P.R. n. 380 del 2001, deve intendersi riferita alle sole
costruzioni assentite mediante titoli abilitativi edilizi
annullati per vizi formali e non anche sostanziali”;
ulteriormente precisandosi che “inoltre l’applicabilità
della sanzione alternativa pecuniaria è stata prevista dalla
citata disposizione avendo riguardo all’ipotesi in cui
soltanto una parte di un fabbricato risulti abusivamente
realizzata e risulti, nel contempo, accertato che la sua
demolizione esporrebbe a serio rischio statico la residua
parte legittima del fabbricato” (TAR Liguria, Sez. I,
05.02.2011, n. 235; TAR Campania–Napoli, Sez. VIII,
10.09.2010, n. 17398)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 27.08.2012 n. 1479 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Nonostante l'art. 10, comma 1, lett. c),
del d.p.r. n. 380/2001 preveda la possibilità di
ristrutturazioni che comportino modifiche di volume
(cosiddetta ristrutturazione pesante), ciò non significa che
qualsiasi ampliamento di edifici preesistenti debba essere
automaticamente ascritto alla fattispecie della
ristrutturazione: la giurisprudenza ha avuto modo di
precisare che, qualora si ammettesse la possibilità di un
apprezzabile aumento volumetrico dell’edificio ai sensi
dell’art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001,
verrebbe meno la linea di distinzione tra ristrutturazione
edilizia e nuova costruzione.
Pertanto costituiscono ristrutturazione edilizia unicamente
gli ampliamenti di modesta entità.
Nonostante l'art. 10, comma 1, lett. c),
del d.p.r. n. 380/2001 preveda la possibilità di
ristrutturazioni che comportino modifiche di volume
(cosiddetta ristrutturazione pesante), ciò non significa che
qualsiasi ampliamento di edifici preesistenti debba essere
automaticamente ascritto alla fattispecie della
ristrutturazione: la giurisprudenza ha avuto modo di
precisare che, qualora si ammettesse la possibilità di un
apprezzabile aumento volumetrico dell’edificio ai sensi
dell’art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001,
verrebbe meno la linea di distinzione tra ristrutturazione
edilizia e nuova costruzione (Cass. pen., III, 26.10.2006,
n. 47046).
Pertanto costituiscono ristrutturazione edilizia unicamente
gli ampliamenti di modesta entità (Cass. pen., III,
27.01.2012, n. 19440)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 27.08.2012 n. 1470 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Per
quanto sia indubbiamente nella facoltà dell’ente comunale la
possibilità di regolamentare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti di telefonia
-tenendo comunque presente che l’art. 86, comma 3, del
d.lgs. 01.08.2003 n. 259, stabilendo che le infrastrutture
di reti pubbliche di comunicazione sono assimilate ad ogni
effetto alle opere di urbanizzazione primaria, postula la
compatibilità delle stesse con qualsiasi destinazione
urbanistica, onde le eventuali discipline locali
d’individuazione di specifiche aree ritenute idonee per
l’insediamento delle strutture in argomento devono essere
coerenti con le finalità e con gli obiettivi della legge
statale e non devono essere tali da ostacolare
l’insediamento e il funzionamento delle infrastrutture
stesse- non è però ammesso far dipendere la realizzazione di
detti impianti da un futuro intervento pianificatorio del
Comune, negando nel frattempo ogni installazione.
Il divieto di rilascio di autorizzazioni alla installazione
di antenne radio base in attesa della approvazione del Piano
Strutturale Comunale “si traduce in una immotivata ed
illegittima compressione ad nutum delle posizioni rivestite
da parte ricorrente, laddove se è vero che ai Comuni spetta
adottare un regolamento per assicurare il corretto
insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l’esposizione delle popolazioni ai CEM, tuttavia
il Comune non può inibire totalmente l’attività di
installazione di antenne sul territorio, atteso che tali
impianti sono divenuti opere di urbanizzazione primaria,
compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica ai sensi
dell’art. 86 del D.Lgs. n. 259 del 2003”.
E' parimenti illegittima la sospensione della procedura per
l’esame di istanze quali quella qui in esame, in attesa di
un futuro piano di localizzazione degli impianti di
telefonia: tale sospensione, infatti “finisce per risolversi
in un illegittimo arresto sine die, in contrasto con le
esigenze di speditezza proprie di tale settore, che oggi
hanno trovato testuale riscontro nell’art. 87, d.lgs. n. 259
del 2003, a partire dal quale è ormai generalmente
affermata, in sede giurisprudenziale, l'illegittimità dei
provvedimenti comunali di sospensione dell'esame delle
domande di autorizzazione all'installazione di stazioni
radio base in attesa dell'approvazione di un apposito
regolamento”.
Con il provvedimento impugnato, il Comune resistente,
pur precisando di aver adottato un regolamento per
l’installazione, monitoraggio e localizzazione degli
impianti di telefonia mobile, specifica che esso dovrà
essere recepito dal regolamento urbanistico, parte
integrante del redigendo P.S.C. Aggiunge l’Amministrazione
comunale che “con il redigendo P.S.C. si provvederà ad
individuare le aree del territorio dove saranno possibili
eventuali installazioni di stazioni radio base per telefonia
mobile e/o cellulare”.
In buona sostanza, il Comune, pur
disponendo di un regolamento per l’installazione degli
impianti di telefonia, rinvia alla futura redazione del P.S.C. l’individuazione delle aree a ciò deputate,
rigettando, nel frattempo, ogni istanza diretta ad ottenere
l’autorizzazione all’installazione degli apparati in
questione.
Tale motivazione non è idonea a supportare legittimamente il
diniego impugnato.
Per quanto sia indubbiamente nella facoltà dell’ente
comunale la possibilità di regolamentare il corretto
insediamento urbanistico e territoriale degli impianti di
telefonia -tenendo comunque presente che l’art. 86, comma 3,
del d.lgs. 01.08.2003 n. 259, stabilendo che le
infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione sono
assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione
primaria, postula la compatibilità delle stesse con
qualsiasi destinazione urbanistica, onde le eventuali
discipline locali d’individuazione di specifiche aree
ritenute idonee per l’insediamento delle strutture in
argomento devono essere coerenti con le finalità e con gli
obiettivi della legge statale e non devono essere tali da
ostacolare l’insediamento e il funzionamento delle
infrastrutture stesse- non è però ammesso far dipendere la
realizzazione di detti impianti da un futuro intervento pianificatorio del Comune, negando nel frattempo ogni
installazione.
Come questo Tribunale ha già avuto modo di
evidenziare, infatti, il divieto di rilascio di
autorizzazioni alla installazione di antenne radio base in
attesa della approvazione del Piano Strutturale Comunale “si
traduce in una immotivata ed illegittima compressione ad nutum delle posizioni rivestite da parte ricorrente, laddove
se è vero che ai Comuni spetta adottare un regolamento per
assicurare il corretto insediamento urbanistico e
territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione
delle popolazioni ai CEM, tuttavia il Comune non può inibire
totalmente l’attività di installazione di antenne sul
territorio, atteso che tali impianti sono divenuti opere di
urbanizzazione primaria, compatibili con qualsiasi
destinazione urbanistica ai sensi dell’art. 86 del D.Lgs. n.
259 del 2003” (sez. II, 06.03.2008, n. 269).
Questo Tribunale, peraltro, ha avuto modo di chiarire anche
che è parimenti illegittima la sospensione della procedura
per l’esame di istanze quali quella qui in esame, in attesa
di un futuro piano di localizzazione degli impianti di
telefonia: tale sospensione, infatti “finisce per risolversi
in un illegittimo arresto sine die, in contrasto con le
esigenze di speditezza proprie di tale settore, che oggi
hanno trovato testuale riscontro nell’art. 87, d.lgs. n. 259
del 2003, a partire dal quale è ormai generalmente
affermata, in sede giurisprudenziale, l'illegittimità dei
provvedimenti comunali di sospensione dell'esame delle
domande di autorizzazione all'installazione di stazioni
radio base in attesa dell'approvazione di un apposito
regolamento” (sez. II, 07.04.2010, n. 407; cfr. anche
TAR Campobasso, sez. I, 23.05.2009, n. 249)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 25.08.2012 n. 893 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Pur
volendo prescindere dalla considerazione, consolidata in
giurisprudenza, secondo la quale in ragione del loro
contenuto rigidamente vincolato, gli atti sanzionatori in
materia edilizia, tra cui l’ordine di demolizione della
costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla
comunicazione d’avvio del relativo procedimento, si rileva
che il destinatario dell’ordine di demolizione non può
limitarsi in sede di impugnativa a dedurre la mera
violazione dell’art. 7, della legge n. 241 del 1990, -nel
caso in esame, sotto il profilo dell’esiguità del termine
intercorso tra comunicazione ed ordine di demolizione-, ma
ha, quanto meno, l’obbligo di evidenziare nel ricorso, al
fine di contrastare la presunzione sul carattere abusivo
dell’opera, quei fatti e quelle circostanze che avrebbe
rappresentato all’Amministrazione ove fosse stato messo
nelle condizioni di partecipare al procedimento, così da
prospettare una considerazione più completa di tutti gli
elementi presenti nella vicenda edificatoria.
La dedotta violazione della normativa in
tema di avviso avvio procedimento, di cui al primo motivo di
ricorso, relativamente all’esiguità del lasso di tempo
intercorso tra comunicazione di avvio procedimento e
ordinanza di demolizione, è insussistente.
Infatti, pur
volendo prescindere dalla considerazione, consolidata in
giurisprudenza, secondo la quale in ragione del loro
contenuto rigidamente vincolato, gli atti sanzionatori in
materia edilizia, tra cui l’ordine di demolizione della
costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla
comunicazione d’avvio del relativo procedimento (Consiglio
di Stato, sez. IV, 26.09.2008, n.4659), si rileva che
il destinatario dell’ordine di demolizione non può limitarsi
in sede di impugnativa a dedurre la mera violazione
dell’art. 7, della legge n. 241 del 1990, -nel caso in
esame, sotto il profilo dell’esiguità del termine intercorso
tra comunicazione ed ordine di demolizione-, ma ha, quanto
meno, l’obbligo di evidenziare nel ricorso, al fine di
contrastare la presunzione sul carattere abusivo dell’opera,
quei fatti e quelle circostanze che avrebbe rappresentato
all’Amministrazione ove fosse stato messo nelle condizioni
di partecipare al procedimento, così da prospettare una
considerazione più completa di tutti gli elementi presenti
nella vicenda edificatoria.
Nel caso in esame, al contrario, il ricorrente si limita ad
asserire di non aver potuto, in considerazione del lasso di
tempo troppo esiguo intercorso tra comunicazione di avvio
procedimento ed ordinanza di demolizione, partecipare al
procedimento in maniera idonea e compiuta, con inibizione di
ogni contributo personale alla emanazione del provvedimento
finale
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 25.08.2012 n. 883 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ogni
intervento edilizio che determini una variazione
planivolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale
viene realizzato, non rientra tra le opere minori soggette a
D.I.A., ma è soggetto al preventivo rilascio di apposito
permesso di costruire, con la conseguenza che, in caso di
assenza di titolo edificatorio, l’ordine di demolizione
ingiunto dall’Amministrazione comunale è legittimo,
costituendo la sanzione applicabile, in forza di quanto
disposto dall’art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001.
Come noto, infatti, ogni
intervento edilizio che determini una variazione planivolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale
viene realizzato, non rientra tra le opere minori soggette a
D.I.A., ma è soggetto al preventivo rilascio di apposito
permesso di costruire, con la conseguenza che, in caso di
assenza di titolo edificatorio, l’ordine di demolizione
ingiunto dall’Amministrazione comunale è legittimo,
costituendo la sanzione applicabile, in forza di quanto
disposto dall’art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001 (ex multis TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 16.12.2011, n. 5912; TAR
Marche, sez. I, 13.01.2012, n. 39; TAR Molise, sez. I,
21.10.2011, n. 624; TAR Campania, Napoli, sez. III,
18.01.2011, n. 281; TAR Lazio, Roma sez. I, 01.09.2010, n.
32098)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 25.08.2012 n. 883 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Le
c.d. informazioni prefettizie possono essere ricondotte a
tre differenti tipi:
► quelle “ricognitive” di cause di per sé interdittive di
cui all'art. 4, comma 4, del d.lgs. 08.08.1994, n. 490 (art.
10, comma 7, lett. a) e b), del citato d.P.R. n. 252/1998);
► quelle relative ad eventuali tentativi di infiltrazione
mafiosa e la cui efficacia interdittiva discende da una
valutazione del prefetto (art. 10, comma 7, lett. c) d.P.R.
n. 252/1998);
► quelle “supplementari” (o atipiche), la cui efficacia
interdittiva scaturisce da una valutazione autonoma e
discrezionale dell’amministrazione destinataria
dell’informativa prevista dall’art. 1-septies, del decreto
legge 06.09.1982, n. 629, convertito dalla legge 12.10.1982,
n. 726, ed aggiunto dall’art. 2 della legge 15.11.1988, n.
486.
Il legislatore, attraverso la normativa cosiddetta
“antimafia”, ha inteso garantire un ruolo di massima
anticipazione all’azione di prevenzione in ordine ai
pericoli di inquinamento mafioso, con la conseguenza che
l’emissione di una comunicazione prefettizia ostativa
prescinde dal concreto accertamento di responsabilità
penali, essendo sufficiente che vi siano degli elementi
indiziari in grado di generare un ragionevole convincimento
sulla sussistenza di un “condizionamento mafioso”.
A tali principi consegue che il Prefetto, all’atto della
valutazione in ordine alla sussistenza dell’infiltrazione
mafiosa e della conseguente adozione della informativa
ostativa, non è tenuto al raggiungimento della piena prova
della intervenuta infiltrazione, essendo questo un quid
pluris non richiesto, ma deve solo sufficientemente
dimostrare la sussistenza di elementi sintomatici ed
indiziari dai quali è deducibile il tentativo di ingerenza.
Relativamente a detta valutazione, l’Autorità Prefettizia
gode di ampia ed autonoma discrezionalità, come tale
sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di
manifesta illogicità e/o irrazionalità. Tale valutazione
deve, peraltro, essere sufficientemente motivata in ordine
alla sussistenza degli elementi dai quali possa
ragionevolmente desumersi il tentativo di infiltrazione
mafiosa.
In definitiva, l’informativa prefettizia costituisce uno
strumento, con funzione spiccatamente cautelare e
preventiva, teso a contrastare la criminalità organizzata,
che deve pur sempre fondarsi su elementi di fatto che
inducano a ritenere esistente il pericolo di infiltrazioni
mafiose, pur prescindendo dall’accertamento di
responsabilità penali.
Come noto, per giurisprudenza consolidata, le
c.d. informazioni prefettizie possono essere ricondotte a
tre differenti tipi:
► quelle “ricognitive” di cause di per sé interdittive di cui all'art. 4, comma 4, del d.lgs.
08.08.1994, n. 490 (art. 10, comma 7, lett. a) e b), del citato d.P.R. n. 252/1998);
► quelle relative ad eventuali tentativi
di infiltrazione mafiosa e la cui efficacia interdittiva
discende da una valutazione del prefetto (art. 10, comma 7,
lett. c) d.P.R. n. 252/1998);
► quelle “supplementari” (o
atipiche), la cui efficacia interdittiva scaturisce da una
valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione
destinataria dell’informativa prevista dall’art. 1-septies,
del decreto legge 06.09.1982, n. 629, convertito dalla
legge 12.10.1982, n. 726, ed aggiunto dall’art. 2 della
legge 15.11.1988, n. 486.
In linea generale, si rileva che il legislatore, attraverso
la normativa cosiddetta “antimafia”, ha inteso garantire un
ruolo di massima anticipazione all’azione di prevenzione in
ordine ai pericoli di inquinamento mafioso, con la
conseguenza che l’emissione di una comunicazione prefettizia
ostativa prescinde dal concreto accertamento di
responsabilità penali, essendo sufficiente che vi siano
degli elementi indiziari in grado di generare un ragionevole
convincimento sulla sussistenza di un “condizionamento
mafioso” (a titolo esemplificativo, in ordine a tali
consolidati principi, si ricorda Consiglio di Stato, sez. III, 19.01.2012, n. 245, id, sez. VI, 15.06.2011,
n. 3647; id, 08.06.2009, n. 3491; id, 19.06.2009, n.
4132; id 14.04.2009, n. 2276; id 27.01.2009, n.
510; id, sez. V, 26.11.2008, n., 5846; id, sez. VI, 19.08.2008, n. 3958; id, sez. V, 27.05.2008, n. 2512; id, sez. IV, 16.03.2004, n. 2783).
A tali principi consegue che il Prefetto, all’atto della
valutazione in ordine alla sussistenza dell’infiltrazione
mafiosa e della conseguente adozione della informativa
ostativa, non è tenuto al raggiungimento della piena prova
della intervenuta infiltrazione, essendo questo un quid pluris non richiesto, ma deve solo sufficientemente
dimostrare la sussistenza di elementi sintomatici ed
indiziari dai quali è deducibile il tentativo di ingerenza
(cit. sez. VI, 08.06.2009, n. 3491). Relativamente a
detta valutazione, l’Autorità Prefettizia gode di ampia ed
autonoma discrezionalità, come tale sindacabile in sede
giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità e/o
irrazionalità. Tale valutazione deve, peraltro, essere
sufficientemente motivata in ordine alla sussistenza degli
elementi dai quali possa ragionevolmente desumersi il
tentativo di infiltrazione mafiosa (Consiglio di Stato, sez. IV,
02.10.2006, n. 5753).
In definitiva, l’informativa prefettizia costituisce uno
strumento, con funzione spiccatamente cautelare e
preventiva, teso a contrastare la criminalità organizzata,
che deve pur sempre fondarsi su elementi di fatto che
inducano a ritenere esistente il pericolo di infiltrazioni
mafiose, pur prescindendo dall’accertamento di
responsabilità penali
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 25.08.2012 n. 874 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Vietato il parcheggio nel
vialetto.
Ai condomini deve essere garantito un agevole accesso ai box.
Per la Cassazione è irrilevante che
il regolamento non contenga indicazioni in materia.
Vietato parcheggiare l'auto nel vialetto condominiale che
conduce ai box, se ciò rende più difficile agli altri
condomini raggiungere i posti auto destinati ai propri
veicoli. Ed è irrilevante, a questo proposito, che il
regolamento non contenga un tale divieto, poiché esso
discende direttamente dalla legge, essendo ogni condomino
obbligato a servirsi delle parti comuni in modo da non
intralciare eccessivamente il pari utilizzo da parte degli
altri comproprietari.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di
Cassazione con la sentenza 24.08.2012 n. 14633.
Il caso concreto. Alcuni condomini residenti nella provincia
di Parma avevano citato i vicini davanti al giudice di pace
perché questi abitualmente utilizzavano lo stradello
condominiale che dava accesso ai garage anche per la sosta
delle auto, invece di limitarsi al solo transito, creando
intralcio a causa della conseguente restrizione degli spazi
di manovra per l'entrata e l'uscita dai box.
Con una prima
pronuncia del 2003 il giudice di pace aveva respinto il
ricorso in questione, accogliendo la tesi dei condomini
convenuti in giudizio, i quali sostenevano che ormai da anni
il vialetto in questione veniva utilizzato indifferentemente
sia per la sosta sia per il transito, essendo abbastanza
largo da consentire l'accesso ai garage anche in presenza di
auto in sosta.
La sentenza in questione era stata però
ribaltata in appello dal tribunale che, invece, nel 2006,
aveva stabilito che il viale condominiale non doveva essere
utilizzato né per il parcheggio né per la sosta delle
autovetture, ma soltanto per il transito, in modo da non
privare tutti i condomini della possibilità di utilizzare
pienamente lo spazio comune. La decisione di secondo grado
era stata quindi impugnata in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. La sentenza resa dal
tribunale di Parma in sede di appello è stata quindi
confermata dalla seconda sezione civile della Cassazione,
con sentenza n. 14633 del 24 agosto scorso, la quale ha
ritenuto del tutto corretto il richiamo operato dai giudici
di merito all'art. 1102 del codice civile, il quale
disciplina l'utilizzo dei beni comuni in condominio,
stabilendo il principio per il quale tutti i comproprietari
possono servirsene liberamente, con il solo limite di
evitare comportamenti che ledano il pari diritto degli altri
condomini di farne uso.
Nella specie, infatti, l'esame
obiettivo del luogo aveva fatto emergere che la sosta delle
auto nel viale di accesso ai garage rendeva oggettivamente
meno agevole l'ingresso nelle singole proprietà esclusive,
essendo indispensabile posizionare le auto a filo per
evitare danni nell'affiancamento delle stesse.
Di conseguenza la condotta dei condomini che parcheggiavano
le proprie auto sui vialetto in questione, per quanto
astrattamente legittimo, di fatto rendeva più disagevole
agli altri comproprietari il pari utilizzo del medesimo bene
comune quale via di accesso ai box di proprietà esclusiva.
La Suprema corte ha anche avuto modo di chiarire che, in
casi del genere, la mancanza di un divieto espresso nel
regolamento condominiale non permette di per sé qualsiasi
utilizzo dei beni comuni, dovendosi sempre fare riferimento,
per la disciplina del caso concreto, al criterio legale di
cui al predetto art. 1102 c.c. (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.09.2012). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Secondo
jus receptum, il potere esercitato in base all'art. 54 dlgs
267/2000 presuppone una situazione di pericolo effettivo –da
indicare espressamente- avente i caratteri della
temporaneità, che non può essere affrontata con nessun altro
tipo di provvedimento.
Invero, tale provvedimento atipico, di natura eccezionale,
previsto per fronteggiare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità dei cittadini, non può essere utilizzato ai
fini della cura di esigenze prevedibili e ordinarie e va
giustificato dalla sussistenza di situazioni eccezionali ed
impreviste, incompatibili con i tempi occorrenti per
l’espletamento degli ordinari procedimenti e con l’utilizzo
dei provvedimenti tipizzati previsti dall'ordinamento
giuridico.
-----------------
Non compete all'ente locale la valutazione in ordine alla
lesività o meno dell'esposizione ai campi elettromagnetici
della popolazione, poiché i limiti dì esposizione, dei
valori di attenzione e degli obiettivi di qualità, i criteri
e le modalità sono stati fissati dallo Stato, nell’esercizio
delle proprie potestà, facendo salve le competenze delle
Autorità Indipendenti.
Né il potere regolamentare dei Comuni di fissare, ai sensi
dell'art. 8 ultimo comma della legge n. 36 del 2001, criteri
localizzativi per assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare
l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici
può mai trasmodare nel potere di sospendere gli effetti dei
titoli abilitativi già formati, ai sensi degli artt. 86 e 87
del Codice delle comunicazioni elettroniche.
Possono essere esaminati congiuntamente il
primo motivo del ricorso principale ed il motivo aggiunto,
con cui parte ricorrente deduce, in sostanza, che, nel caso
di specie, difetterebbero i presupposti per l'adozione di
una ordinanza contingibile ed urgente, ai sensi dell’art. 54
del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, poiché l'installazione
della stazioni radio base in questione potrebbe determinare
pericolo di inquinamento elettromagnetico nonché rischi di
gravi tensioni sociali nella comunità.
La distinzione tra “indirizzo politico” e “gestione
amministrativa”, a presidio dei canoni costituzionali di
buon andamento e imparzialità dell'amministrazione (art. 97
Cost.), è stata sancita per la prima volta nell’ordinamento
degli enti locali con l'art. 51, comma 2°, della legge
08.06.1990 n.142, a mente del quale: "spettano ai dirigenti
tutti i compiti, compresa l'adozione di atti che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, che la legge o lo statuto
non riservino espressamente agli organi di governo".
Il principio è stato poi recepito dall'art. 3 del D.Lgs.
03.02.1993 n. 29, che lo ha esteso a tutte le pubbliche
amministrazioni, affermando che "gli organi di governo
definiscono gli obiettivi e i programmi da attuare e
verificano la rispondenza dei risultati della gestione
amministrativa alle direttive generali impartite" e che, ai
dirigenti, responsabili della gestione e dei relativi
risultati, spetta, in generale, "la gestione finanziaria,
tecnica e amministrativa, compresa l'adozione di tutti gli
atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno,
mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle
risorse umane e strumentali e di controllo".
La successiva legge 15.05.1997 n. 127 (cosiddetta “Bassanini
bis”) ha provveduto ad elencare una serie di provvedimenti,
la cui adozione è esplicitamente riservata ai dirigenti,
introducendo, nel contempo, una disciplina che rende
applicabile il principio anche nei comuni di minori
dimensioni demografiche, privi della dirigenza: del resto,
tutte le amministrazioni (ivi compresi gli enti locali) sono
destinatarie dell'obbligo, espressamente sancito dal D.Lgs.
31.03.1998 n. 80 (art. 17, che inserisce nel D.lgs. 29/1993
l'art. 27-bis) di adeguare i propri ordinamenti al principio
di separazione "nell'esercizio della propria potestà
statutaria e regolamentare [...] tenendo conto delle
relative peculiarità".
Tutte queste disposizioni risultano ora trasposte nel D.Lgs.
18.08.2000 n. 267 (c.d. “Testo unico degli Enti Locali”) e
nel D.Lgs. 30/03/2001 n. 165 (c.d. “Testo Unico sul
Pubblico Impiego”) ed hanno, successivamente, subito alcune
limitazioni .
L'art. 54, comma 2, del D.Lgs. 18.11.2000 n. 267
prevede che: "Il sindaco, quale ufficiale del Governo,
adotta, con atto motivato e nel rispetto dei principi
generali dell'ordinamento giuridico, provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare
gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini;
per l'esecuzione dei relativi ordini può richiedere al
prefetto, ove occorra, l'assistenza della forza pubblica".
Secondo jus receptum, il potere esercitato in base alla
disposizione in questione presuppone una situazione di
pericolo effettivo –da indicare espressamente- avente i
caratteri della temporaneità, che non può essere affrontata
con nessun altro tipo di provvedimento.
Invero, tale provvedimento atipico, di natura eccezionale,
previsto per fronteggiare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità dei cittadini, non può essere utilizzato ai
fini della cura di esigenze prevedibili e ordinarie e va
giustificato dalla sussistenza di situazioni eccezionali ed
impreviste, incompatibili con i tempi occorrenti per
l’espletamento degli ordinari procedimenti e con l’utilizzo
dei provvedimenti tipizzati previsti dall'ordinamento
giuridico.
Nella specie, il provvedimento impugnato risulta
giustificato, sostanzialmente, dal rischio di inquinamento
elettromagnetico, che ha determinato elementi di criticità
sociale nonché dalla finalità di evitare e prevenire
situazioni di forte tensione sociale con implicazioni di
ordine pubblico.
Trattasi, a ben vedere, di situazioni suscettibili di poter
essere fronteggiate con l'esercizio dei poteri attribuiti in
via ordinaria in materia di regolamentazione dell'uso del
territorio agli enti locali, con la conseguenza che, nella
specie, deve ritenersi carente il presupposto normativo
fondamentale per l'applicazione dell'art. 54 del TUEELL.
Inoltre, sul piano del periculum in mora, in materia di
impianti di telefonia, mancano ancora certezze scientifiche
(come peraltro riconosciuto nello stesso provvedimento
impugnato) e vige il principio di precauzione, in base al
quale sono stati fissati, con il D.M. 10.09.1998, n.
381, dei limiti di esposizione, al cui mancato rispetto il
Comune non fa esaustivo riferimento.
Invero, alla salvaguardia della salute pubblica si è
provveduto a livello nazionale con il Regolamento recante
norme per la determinazione dei tetti di radiofrequenza, di
cui al D.M. 10.09.1998 n. 381.
Non compete, dunque, all'ente locale la valutazione in
ordine alla lesività o meno dell'esposizione ai campi
elettromagnetici della popolazione, poiché i limiti dì
esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di
qualità, i criteri e le modalità sono stati fissati dallo
Stato, nell’esercizio delle proprie potestà, facendo salve
le competenze delle Autorità Indipendenti (conf.: Cons.
Stato Sez. IV, 03.06.2002, n. 3095 e TAR Friuli Venezia
Giulia, 23.08.2002 n. 613).
Né il potere regolamentare dei Comuni di fissare, ai sensi
dell'art. 8 ultimo comma della legge n. 36 del 2001, criteri
localizzativi per assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare
l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici
può mai trasmodare nel potere di sospendere gli effetti dei
titoli abilitativi già formati, ai sensi degli artt. 86 e 87
del Codice delle comunicazioni elettroniche.
Ed invero, la precitata potestà regolamentare dei Comuni
deve tradursi in regole ragionevoli, motivate e certe, poste
a presidio di interessi di rilievo pubblico, ma non può
tradursi in un generalizzato divieto di installazione in
zone urbanistiche identificate.
Siffatta previsione, verrebbe, infatti, a costituire una
inammissibile misura di carattere generale, sostanzialmente
cautelativa rispetto alle emissioni derivanti dagli impianti
di telefonia mobile, in violazione dell'art. 4 della ridetta
legge n. 36 del 2001, che riserva alla competenza dello
Stato la determinazione, con criteri unitari, dei limiti di
esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di
qualità, in base a parametri da applicarsi su tutto il
territorio dello Stato.
Conseguentemente, nel caso di specie, l’impugnata
ordinanza sindacale non resisterebbe alla censura svolta
neanche nel caso in cui alla medesima dovesse riconoscersi
natura di ordinanza contingibile ed urgente, sia perché
evidenzierebbe l’esorbitanza della misura sospensiva
rispetto allo scopo perseguito, alla luce della non inerenza
alla sfera comunale di compiti afferenti la tutela della
salute, sia perché la pendenza dell'iter approvativo del
regolamento comunale non potrebbe giustificare la
sterilizzazione del titolo edilizio già formato, avuto
riguardo alla natura urgente e indifferibile delle opere
riguardanti gli impianti di telefonia mobile nonché alla
loro assimilazione ope legis alle opere di urbanizzazione
primaria
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 21.08.2012 n. 864 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In sede di valutazione comparativa
delle offerte tecniche presentate nelle gare d’appalto le
valutazioni tecniche, caratterizzate dalla complessità delle
discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità
dell’esito della valutazione, sfuggono al sindacato
intrinseco del giudice amministrativo, se non vengono in
rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri
valutativi o circa la loro applicazione.
Le valutazioni
della Commissione di gara in ordine all’(in)idoneità tecnica
delle offerte dei vari partecipanti alla gara costituiscono,
invero, espressione di un potere di natura
tecnico-discrezionale a carattere complesso, alle quali non
possono essere contrapposte le valutazioni di parte circa la
(in)sussistenza delle prescritte qualità, trattandosi di
questioni afferenti al merito delle suddette valutazioni
tecnico-discrezionali, non sindacabili se non sotto il
profilo dei criteri.
Sul punto ha sottolineato Cons. Stato, Sez. V, 08.03.2011, n. 1464 che “In sede di valutazione comparativa
delle offerte tecniche presentate nelle gare d’appalto le
valutazioni tecniche, caratterizzate dalla complessità delle
discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità
dell’esito della valutazione, sfuggono al sindacato
intrinseco del giudice amministrativo, se non vengono in
rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri
valutativi o circa la loro applicazione. Le valutazioni
della Commissione di gara in ordine all’(in)idoneità tecnica
delle offerte dei vari partecipanti alla gara costituiscono,
invero, espressione di un potere di natura
tecnico-discrezionale a carattere complesso, alle quali non
possono essere contrapposte le valutazioni di parte circa la
(in)sussistenza delle prescritte qualità, trattandosi di
questioni afferenti al merito delle suddette valutazioni
tecnico-discrezionali, non sindacabili se non sotto il
profilo dei criteri.”.
In termini analoghi si è espresso questo TAR (cfr. TAR
Puglia, Bari, Sez. I, 11.05.2011, n. 693)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 20.08.2012 n. 1583 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Va
riconosciuta la natura sostanzialmente espropriativa dei
vincoli urbanistici tutte le volte in cui la destinazione
dell’area permetta la realizzazione di opere destinate
esclusivamente alla fruizione soggettivamente pubblica, nel
senso di essere riferita unicamente all’ente esponenziale
della collettività territoriale, con sottrazione dal libero
mercato, come ad esempio, nel caso di parcheggi pubblici,
strade e spazi pubblici, spazi pubblici attrezzati, parco
urbano e attrezzature pubbliche per l’istruzione o
sanitarie.
Se a causa della decadenza dei vincoli de quibus, un terreno
sia rimasto privo di regolamentazione, non vi è dubbio che
il proprietario possa presentare un’istanza volta a ottenere
l’attribuzione di una nuova destinazione urbanistica e che
l’amministrazione sia tenuta a esaminarla, anche nel caso in
cui la richiesta medesima non sia ritenuta suscettibile di
accoglimento, con l’obbligo di motivare congruamente tale
decisione.
Tuttavia, la decadenza dei vincoli espropriativi
precedentemente in vigore non comporta necessariamente che
l’area debba conseguire la destinazione urbanistica
edificatoria, essendo, in ogni caso, rimesse al potere
discrezionale dell’Amministrazione comunale la verifica e la
scelta della destinazione, in coerenza con la più generale
disciplina del territorio, meglio idonea e adeguata in
relazione all’interesse pubblico al corretto e armonico suo
utilizzo.
L’obbligo gravante sul Comune, in caso di decadenza di
vincolo espropriativo, va assolto mediante l’adozione di una
variante specifica o di variante generale, ossia attraverso
gli unici strumenti che consentono alle amministrazioni
comunali di verificare la persistente compatibilità delle
destinazioni già impresse ad aree situate nelle zone più
diverse del territorio comunale rispetto ai principi
informatori della vigente disciplina di piano regolatore e
alle nuove esigenze di pubblico interesse. Il potere di
conformazione urbanistica, peraltro, è attribuito dalla
legge all’organo consiliare, di talché il semplice avvio del
procedimento di revisione del piano regolatore generale non
costituisce adempimento da parte del Comune dell’obbligo di
attribuire la riqualificazione urbanistica alla zona rimasta
priva di specifica disciplina a seguito di decadenza del
vincolo di destinazione su di essa gravante. L’adempimento
non elusivo di tale obbligo può essere dato, infatti,
soltanto dallo specifico ed effettivo completamento del
Piano regolatore generale per quella zona, mediante adozione
di un provvedimento espresso (e cioè di una variante) da
parte del competente organo consiliare.
RITENUTO:
- che, secondo l’orientamento già espresso da questa Sezione
in fattispecie analoghe a quella per la quale è causa (v.
sentenze n. 312 dell’08.02.2012; n. 6465 del 07.05.2010, n. 5716 del 22.04.2010, n. 3689 del 25.03.2010), vada riconosciuta la natura sostanzialmente
espropriativa dei vincoli urbanistici tutte le volte in cui
la destinazione dell’area permetta la realizzazione di opere
destinate esclusivamente alla fruizione soggettivamente
pubblica, nel senso di essere riferita unicamente all’ente
esponenziale della collettività territoriale, con
sottrazione dal libero mercato, come ad esempio, nel caso di
parcheggi pubblici, strade e spazi pubblici, spazi pubblici
attrezzati, parco urbano e attrezzature pubbliche per
l’istruzione o sanitarie (v. C.G.A., 27.02.2012, n.
212; 25.01.2011, n. 95; 19.12.2008, n. 1113;
Cons. Stato, IV, 28.02.2005, n. 693; Corte Cost. 12.05.1999, n. 179);
- che nel caso di specie, sulla scorta dei parametri
giurisprudenziali appena sopra richiamati, la natura
espropriativa del vincolo urbanistico va riconosciuta al
terreno contraddistinto con la particella 2490, in quanto
ricadente in “zona IC1- Chiese e centri religiosi” e, in
parte, in “Sede stradale”, mentre non può essere
riconosciuta al terreno contraddistinto con la particella
715, poiché la destinazione impressa “Parcheggi”, piuttosto
che quella di parcheggio “pubblico”, non esclude il concreto
sfruttamento dell’area da parte dei privati mediante
l’attivazione di un parcheggio privato, produttivo di
reddito;
- che alla luce delle risultanze documentali acquisite (cfr.
certificato di destinazione urbanistica), i vincoli
espropriativi riconducibili al piano regolatore generale,
sono ormai decaduti;
- che, pertanto, secondo l’orientamento consolidato della
giurisprudenza e condiviso dal Collegio, se a causa della
decadenza dei vincoli de quibus, un terreno sia rimasto
privo di regolamentazione, non vi è dubbio che il
proprietario possa presentare un’istanza volta a ottenere
l’attribuzione di una nuova destinazione urbanistica e che
l’amministrazione sia tenuta a esaminarla, anche nel caso in
cui la richiesta medesima non sia ritenuta suscettibile di
accoglimento, con l’obbligo di motivare congruamente tale
decisione;
- che, tuttavia, la decadenza dei vincoli espropriativi
precedentemente in vigore non comporta necessariamente che
l’area debba conseguire la destinazione urbanistica
edificatoria, essendo, in ogni caso, rimesse al potere
discrezionale dell’Amministrazione comunale la verifica e la
scelta della destinazione, in coerenza con la più generale
disciplina del territorio, meglio idonea e adeguata in
relazione all’interesse pubblico al corretto e armonico suo
utilizzo (Cons. Stato, IV, 08.06.2007, n. 3025);
- che l’obbligo gravante sul Comune, in caso di decadenza di
vincolo espropriativo, va assolto mediante l’adozione di una
variante specifica o di variante generale, ossia attraverso
gli unici strumenti che consentono alle amministrazioni
comunali di verificare la persistente compatibilità delle
destinazioni già impresse ad aree situate nelle zone più
diverse del territorio comunale rispetto ai principi
informatori della vigente disciplina di piano regolatore e
alle nuove esigenze di pubblico interesse (in termini Cons.
Stato, IV, 31.05.2007, n. 2885). Il potere di
conformazione urbanistica, peraltro, è attribuito dalla
legge all’organo consiliare, di talché il semplice avvio del
procedimento di revisione del piano regolatore generale non
costituisce adempimento da parte del Comune dell’obbligo di
attribuire la riqualificazione urbanistica alla zona rimasta
priva di specifica disciplina a seguito di decadenza del
vincolo di destinazione su di essa gravante (così, Cons.
Stato,V, n. 5675 del 2003, IV, nn. 385 del 2005 e 7131 del
2006). L’adempimento non elusivo di tale obbligo può essere
dato, infatti, soltanto dallo specifico ed effettivo
completamento del Piano regolatore generale per quella zona,
mediante adozione di un provvedimento espresso (e cioè di
una variante) da parte del competente organo consiliare;
RITENUTO:
- alla luce dei principi e delle considerazioni esposti, che
sussiste, perciò, l’obbligo del Comune di Palermo, già in
forza del principio sancito in linea generale dall’art. 2
della legge 241/1990 e s.m.i., di definire il procedimento
avviato con la suddetta istanza di ridefinizione della
situazione urbanistica del terreno contraddistinto con la
p.lla 2490 a seguito dell’avvenuta scadenza dei vincoli
espropriativi di P.R.G. (in tal senso, TAR Sicilia,
Palermo, III, 25.06.2009, n. 1167 e 06.10.2009, n.
1565);
- di conseguenza, che vada dichiarata l’illegittimità del
silenzio serbato dal Comune di Palermo sulla predetta
istanza, con correlata declaratoria dell’obbligo del
medesimo ente di adottare, con provvedimento consiliare, una
determinazione esplicita e conclusiva sull’istanza di che
trattasi limitatamente al terreno contraddistinto con la
p.lla 2490: al quale fine -tenuto conto della materia cui ha
riguardo la controversia, e dell’ampia discrezionalità del
Comune in tema di disciplina urbanistica del proprio
territorio-, appare congruo assegnare, per l’adempimento, il
termine di giorni novanta dalla comunicazione in via
amministrativa o dalla notificazione a cura di parte, se
anteriore, della presente sentenza
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 10.08.2012 n. 1800 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il termine per la prescrizione della pretesa
relativa agli oneri concessori connessi al condono edilizio
non decorre dalla data di presentazione della domanda di
condono, ma dalla data del rilascio della relativa sanatoria
o dalla formazione del silenzio assenso per il decorso dei
24 mesi dalla data nella quale viene depositata la
documentazione completa a corredo della domanda di
concessione.
Il termine per la prescrizione della pretesa
relativa agli oneri concessori connessi al condono edilizio
non decorre dalla data di presentazione della domanda di
condono, ma dalla data del rilascio della relativa
sanatoria o dalla formazione del silenzio assenso per il
decorso dei 24 mesi dalla data nella quale viene depositata
la documentazione completa a corredo della domanda di
concessione (giurisprudenza costante; ex multis TAR
Cagliari Sardegna sez. II n. 2600/2010 - TAR Salerno
Campania sez. II n. 8224/2010)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 09.08.2012 n. 308 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Ancorché
sia incontestato che in materia urbanistica vige il
principio per cui, di norma, non sussistono controinteressati rispetto
all'impugnazione degli strumenti di programmazione, tuttavia
tale principio subisce un’eccezione laddove sia fatta
oggetto di impugnazione una variante al piano regolatore che
abbia un oggetto del tutto specifico e circoscritto, nonché
nei casi in cui, pur essendo impugnato uno strumento
urbanistico, vi sia l'evidenza di posizioni specifiche di
soggetti interessati al mantenimento dell'atto che
determinano la loro qualità di controinteressati.
Il Collegio ritiene che, ancorché sia
incontestato che in materia urbanistica vige il principio
per cui, di norma, non sussistono controinteressati rispetto
all'impugnazione degli strumenti di programmazione, tuttavia
tale principio subisca un’eccezione laddove sia fatta
oggetto di impugnazione una variante al piano regolatore che
abbia un oggetto del tutto specifico e circoscritto, nonché
nei casi in cui, pur essendo impugnato uno strumento
urbanistico, vi sia l'evidenza di posizioni specifiche di
soggetti interessati al mantenimento dell'atto che
determinano la loro qualità di controinteressati (TAR
Toscana, sez. III, 19.07.2000, n. 1713, TAR Torino Piemonte
sez. I, 22.10.2010, n. 3734)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 09.08.2012 n. 306 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Mentre l'atto
meramente confermativo si limita a richiamare il precedente
provvedimento e non ha perciò alcuna valenza costitutiva,
con conseguente inammissibilità per difetto di interesse del
ricorso proposto avverso di esso e non contro il
provvedimento originario, l'atto di conferma è
autonomamente impugnabile, in quanto da un lato presuppone
un completo riesame della fattispecie e dall'altro si
sostituisce, pur avendo identico dispositivo, all'atto
confermato.
La conferma, scaturita da una nuova indagine sulle
condizioni di fatto e di diritto che caratterizzano la
fattispecie oggetto di valutazione, ben può essere
sottoposta al sindacato giurisdizionale, anche nell'ipotesi
di accertata inoppugnabilità del primo provvedimento.
E’ nota infatti la distinzione, enucleata
da costante giurisprudenza, secondo cui “mentre l'atto
meramente confermativo si limita a richiamare il precedente
provvedimento e non ha perciò alcuna valenza costitutiva,
con conseguente inammissibilità per difetto di interesse del
ricorso proposto avverso di esso e non contro il
provvedimento originario, l'atto di conferma è
autonomamente impugnabile, in quanto da un lato presuppone
un completo riesame della fattispecie e dall'altro si
sostituisce, pur avendo identico dispositivo, all'atto
confermato” (cfr. TAR Napoli, Sez. VII, n. 5829 del 15.12.2011).
Si giunge così ad affermare che “la
conferma, scaturita da una nuova indagine sulle condizioni
di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie
oggetto di valutazione, ben può essere sottoposta al
sindacato giurisdizionale, anche nell'ipotesi di accertata
inoppugnabilità del primo provvedimento” (Cons. Stato, Sez. IV,
n. 813 del 07.02.2011)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 09.08.2012 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: SANZIONI AMMINISTRATIVE - GIUDIZIO DI OPPOSIZIONE AI SENSI
DELLA LEGGE N. 689 DEL 1981 AVVERSO ORDINANZA INGIUNZIONE
EMESSA DA UN COMUNE
- RAPPRESENTANZA PROCESSUALE DELL'ENTE LOCALE - NECESSITA',
O MENO, DELLA AUTORIZZAZIONE DELLA GIUNTA COMUNALE -
QUESTIONE RIMESSA ALLE SEZIONI UNITE.
La Sezione Seconda civile ha rimesso gli atti al Primo
Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite
della risoluzione della questione, ritenuta di massima di
particolare importanza, concernente la necessità, o meno,
anche per i giudizi di cui all’art. 23 della legge n. 689
del 1981 dell’autorizzazione della giunta comunale al
Sindaco, ove previsto dallo Statuto dell’ente
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza
interlocutoria 07.08.2012 n. 14219 - tratto da
www.cortedicassazione.it) |
EDILIZIA
PRIVATA: La
conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie
costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo
rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli
artt. 24, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 e 35, comma 20, l. n.
47/1985; del resto, risponde ad un evidente principio di
ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per
qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale
contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi
alla cui protezione è preordinata la disciplina
urbanistico-edilizia”.
Se pure non si condividesse questo orientamento, ritenendosi
preferibile la giurisprudenza secondo cui deve prescindersi
dalla conformità dell’opera alla disciplina urbanistica e
deve tenersi conto, al fine del rilascio del certificato di
agibilità da parte del Comune, dei soli elementi del
progetto di intervento edilizio incidenti sui profili
igienico sanitari, deve ritenersi la necessità del
certificato di agibilità per ogni uso di un immobile che
comporti la frequentazione da parte delle persone, attese le
finalità di evitare danni alle persone che si intrattengono
nei locali privi di agibilità che, non essendo stati
sottoposti a specifico controllo, potrebbero non presentare
le dovute caratteristiche in termini di sicurezza,
igienicità, salubrità, aerazione.
Quanto, poi, all’ordinanza n. 7, con cui si
vietava al ricorrente lo svolgimento della propria attività
lavorativa nei locali in parola, in quanto privi del
certificato di agibilità, il Tribunale osserva come <<la
recente giurisprudenza del Consiglio di Stato [abbia] avuto
modo di osservare che “la conformità dei manufatti alle
norme urbanistico-edilizie costituisce il presupposto
indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di
agibilità, come si evince dagli artt. 24, comma 3, d.p.r. n.
380/2001 e 35, comma 20, l. n. 47/1985; del resto, risponde
ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che
possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un
fabbricato in potenziale contrasto con la tutela del fascio
di interessi collettivi alla cui protezione è preordinata la
disciplina urbanistico-edilizia” (cfr. Consiglio Stato, V,
30.04.2009, n. 2760).
Se pure non si condividesse questo orientamento, ritenendosi
preferibile la giurisprudenza secondo cui deve prescindersi
dalla conformità dell’opera alla disciplina urbanistica e
deve tenersi conto, al fine del rilascio del certificato di
agibilità da parte del Comune, dei soli elementi del
progetto di intervento edilizio incidenti sui profili
igienico sanitari (cfr. Consiglio Stato, V, 04.02.2004,
n. 365), deve ritenersi la necessità del certificato di
agibilità per ogni uso di un immobile che comporti la
frequentazione da parte delle persone, attese le finalità di
evitare danni alle persone che si intrattengono nei locali
privi di agibilità che, non essendo stati sottoposti a
specifico controllo, potrebbero non presentare le dovute
caratteristiche in termini di sicurezza, igienicità,
salubrità, aerazione>> (Tar Calabria Catanzaro, II, 22.11.2011, n. 1398).
L’ordinanza n. 7 in questione, dunque, relativa a locali
appunto ‘aperti’ alla pubblica frequentazione,
costituiva una diretta conseguenza del riscontro
dell’abusività delle opere in oggetto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 01.08.2012 n. 1447 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: A)
quanto alla concessione di servizi:
- lo schema della gara informale di cui all’art. 30, comma
3, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 costituisce un modulo
procedimentale caratterizzato da amplissima discrezionalità
dell’Amministrazione nella fissazione delle regole
selettive, con conseguente non soggezione alle regole
interne e comunitarie dell’evidenza pubblica, ferma restando
la sola necessità del rispetto dei principi di logicità,
trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione tra
i concorrenti, garantita attraverso idonea pubblicità delle
procedure selettive e valutazione comparativa di più
offerte;
- la procedura si caratterizza per una maggiore speditezza e
semplificazione procedimentale;
- il grado di pubblicità della selezione deve
necessariamente essere commisurato all’entità della
concessione in relazione alla sua rilevanza economica e,
dunque, adeguato alla specifica situazione concreta.
B) quanto all’affidamento diretto:
- elementari e indefettibili canoni di legalità impongono
alla Pubblica Amministrazione, quando si determini a
ricercare sul libero mercato, regolato dal diritto privato,
le forniture di cui ha bisogno per il suo funzionamento
(siano esse forniture di servizi di beni, di lavori, oppure
di mano d’opera e di collaborazione professionale), di agire
in modo imparziale e trasparente, predefinendo criteri di
selezione e assicurando un minimo di pubblicità della
propria intenzione negoziale e un minimo di concorso dei
soggetti in astratto interessati e titolati a conseguire
l’incarico (o, comunque, a stipulare il contratto);
- tale regola comporta che sia sempre garantito un minimo
confronto concorrenziale tra almeno tre o cinque offerte.
Conseguentemente, secondo l’orientamento
giurisprudenziale prevalente:
A) quanto alla concessione di servizi:
- lo schema della gara informale di cui all’art. 30, comma
3, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 costituisce un modulo
procedimentale caratterizzato da amplissima discrezionalità
dell’Amministrazione nella fissazione delle regole
selettive, con conseguente non soggezione alle regole
interne e comunitarie dell’evidenza pubblica, ferma restando
la sola necessità del rispetto dei principi di logicità,
trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione tra
i concorrenti, garantita attraverso idonea pubblicità delle
procedure selettive e valutazione comparativa di più
offerte;
- la procedura si caratterizza per una maggiore speditezza e
semplificazione procedimentale;
- il grado di pubblicità della selezione deve
necessariamente essere commisurato all’entità della
concessione in relazione alla sua rilevanza economica e,
dunque, adeguato alla specifica situazione concreta (TAR
Lombardia, Milano, sez. I, 25.03.2011, n. 810; TAR
Umbria, Perugia, sez. I, 13.01.2011, n. 1; TAR
Molise, Campobasso, sez. I, 02.07.2008, n. 677; TAR
Puglia, Bari, sez. I, 21.11.2007, n. 2768; TAR
Sicilia, Catania, sez. III, 26.06.2007, n. 1102).
B) quanto all’affidamento diretto:
- elementari e indefettibili canoni di legalità impongono
alla Pubblica Amministrazione, quando si determini a
ricercare sul libero mercato, regolato dal diritto privato,
le forniture di cui ha bisogno per il suo funzionamento
(siano esse forniture di servizi di beni, di lavori, oppure
di mano d’opera e di collaborazione professionale), di agire
in modo imparziale e trasparente, predefinendo criteri di
selezione e assicurando un minimo di pubblicità della
propria intenzione negoziale e un minimo di concorso dei
soggetti in astratto interessati e titolati a conseguire
l’incarico (o, comunque, a stipulare il contratto);
- tale regola comporta che sia sempre garantito un minimo
confronto concorrenziale tra almeno tre o cinque offerte
(TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 19.04.2011, n. 372 TAR
Campania, Napoli, sez. V, 24.01.2008, n. 382)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 01.08.2012 n. 1444 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Non
lede il principio di pubblicità l’ulteriore esame del
contenuto dei singoli documenti, avvenuto in sessione
riservata, trattandosi di attività istruttoria che si
riconduce all'ampia potestà di autotutela
dell'Amministrazione ove riscontri vizi di legittimità in
precedenti propri provvedimenti.
---------------
L'obbligo di corredare l'offerta con la cauzione provvisoria
è posto direttamente da una disposizione di legge (art. 75
d.lgs. 163/2006) di natura cogente e auto applicativa.
---------------
La garanzia del due per cento del prezzo base indicato nel
bando o nell'invito, di cui deve essere corredata l’offerta
a norma dell’art. 75 D.Lgs. n. 163/2006, assolve allo scopo
di garantirne la serietà e di costituire una liquidazione
preventiva e forfettaria del danno nel caso in cui la
stipula del contratto non avvenga per recesso o per difetto
dei requisiti del concorrente.
Perciò la cauzione provvisoria costituisce parte integrante
della offerta e non elemento di corredo della stessa che la
stazione appaltante possa liberamente richiedere, salvo
vanificare il disposto dell’art. 48 D.Lgs. n. 163/2006 circa
il potere-dovere delle stazioni appaltanti di escutere la
cauzione provvisoria previa la esclusione dalla gara e la
segnalazione all'Autorità di Vigilanza, a carico
dell’offerente che non abbia comprovato il possesso dei
requisiti richiesti nel bando di gara ovvero non confermato
le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o
nell'offerta.
La cauzione provvisoria è nettamente distinta da quella
definitiva che l'esecutore del contratto è obbligato a
costituire in misura pari al dieci per cento (10%)
dell'importo contrattuale e con le modalità dell’art. 113
D.Lgs. n. 163/2006, al momento dell’aggiudicazione che
adempie alla funzione di garantire l'obbligo di stipulare il
relativo contratto e la corretta esecuzione delle opere.
In relazione alla funzione di vera e propria clausola
penale, determinando la liquidazione preventiva e forfetaria
del danno subito dall'amministrazione, in conseguenza
dell'accertato inadempimento dell'obbligo di stipulare il
contratto, la prestazione della cauzione provvisoria deve
essere necessariamente contemplata dalla lex specialis,
perché diretta a coprire la mancata sottoscrizione del
contratto per fatto proprio dell'aggiudicatario,
predeterminando la conseguenza dell'inadempimento con la
liquidazione forfetaria del danno e prescindendo dall'esatta
portata quantitativa del nocumento patito
dall’amministrazione appaltante.
Consiglio Stato, sez. VI, 06/06/2011, n. 3357 che il
Collegio condivide e fa proprio, ha ritenuto che non lede il
principio di pubblicità l’ulteriore esame del contenuto dei
singoli documenti, avvenuto in sessione riservata,
trattandosi di attività istruttoria che si riconduce
all'ampia potestà di autotutela dell'Amministrazione ove
riscontri vizi di legittimità in precedenti propri
provvedimenti.
Infine, a prescindere dalla questione relativa al possesso
della certificazione di qualità che comunque era prevista a
pena di esclusione dal bando di gara (terzo motivo del
ricorso), rileva il Collegio che era ugualmente prevista a
pena di esclusione, dal bando di gara, la presentazione di
una cauzione provvisoria «nella misura e nei modi
previsti dai commi 1, 2, 2- bis, 2-ter dall’art 30 del
“testo coordinato”, pari al 2% (due per cento) dell’importo
complessivo dell’appalto» (4 motivo del ricorso).
Ebbene nella fattispecie in esame l’insufficienza
dell’importo della cauzione provvisoria risulta “per
tabulas”.
Invero, l’ATI sopra indicata ha presentato una cauzione
d’importo pari al 2% dell’importo complessivo dell’appalto,
che tuttavia si presenta nell’importo garantito inferiore
(pari a €. 23.854,00) rispetto a quello che si evince dalla
seguente operazione matematica: 1.196.699,11 x 2% =
23.933,98.
A tale proposito TAR Lazio Roma, sez. II, 14/03/2011, n.
2310 che il Collegio condivide e fa propria, così recita: <<deve
ritenersi che la concreta operatività del beneficio postuli
(oltre alla ovvia dimostrazione documentale circa il
possesso di tale requisito) che vi sia una manifestazione di
volontà da parte dell'impresa di volersi avvalere della
riduzione, la cui mancanza non può non integrare una causa
di esclusione dalla selezione (cfr. TAR Campania, sez. VIII,
09.03.2010, n. 1331 e sez. I, 28.06.2005 n. 8841).>>
E ancora: TAR Campania, Napoli, Prima Sezione, n. 10315 del
13.12.2007 ha statuito che l'obbligo di corredare l'offerta
con la cauzione provvisoria è posto direttamente da una
disposizione di legge (art. 75 d.lgs. 163/2006) di natura
cogente e auto applicativa.
Inoltre rileva il Collegio che secondo la costante
giurisprudenza, la garanzia del due per cento del prezzo
base indicato nel bando o nell'invito, di cui deve essere
corredata l’offerta a norma dell’art. 75 D.Lgs. n. 163/2006,
assolve allo scopo di garantirne la serietà e di costituire
una liquidazione preventiva e forfettaria del danno nel caso
in cui la stipula del contratto non avvenga per recesso o
per difetto dei requisiti del concorrente (Cons. Stato, V,
n. 1388/2011 e VI, 30.09.2004, n. 6347; Cons. Stato, V,
28.06.2004, n. 4789).
Perciò la cauzione provvisoria costituisce parte integrante
della offerta e non elemento di corredo della stessa che la
stazione appaltante possa liberamente richiedere (Cons.
Stato, IV, 15.11.2004, n. 7380), salvo vanificare il
disposto dell’art. 48 D.Lgs. n. 163/2006 circa il
potere-dovere delle stazioni appaltanti di escutere la
cauzione provvisoria previa la esclusione dalla gara e la
segnalazione all'Autorità di Vigilanza, a carico
dell’offerente che non abbia comprovato il possesso dei
requisiti richiesti nel bando di gara ovvero non confermato
le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o
nell'offerta.
Rileva ancora il Collegio che la cauzione provvisoria è
nettamente distinta da quella definitiva che l'esecutore del
contratto è obbligato a costituire in misura pari al dieci
per cento (10%) dell'importo contrattuale e con le modalità
dell’art. 113 D.Lgs. n. 163/2006, al momento
dell’aggiudicazione che adempie alla funzione di garantire
l'obbligo di stipulare il relativo contratto e la corretta
esecuzione delle opere (Cons. Stato, IV, 08.10.2007, n.
5222).
In relazione alla funzione di vera e propria clausola
penale, determinando la liquidazione preventiva e forfetaria
del danno subito dall'amministrazione, in conseguenza
dell'accertato inadempimento dell'obbligo di stipulare il
contratto, la prestazione della cauzione provvisoria deve
essere necessariamente contemplata dalla lex specialis,
perché diretta a coprire la mancata sottoscrizione del
contratto per fatto proprio dell'aggiudicatario,
predeterminando la conseguenza dell'inadempimento con la
liquidazione forfetaria del danno e prescindendo dall'esatta
portata quantitativa del nocumento patito
dall’amministrazione appaltante (Cons. Stato, V, 11.12.2007,
n. 6362; Cons. Stato, IV, 30.01.2006, n. 288) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 23.07.2012 n. 1905 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’ordinamento
conosce anche il diverso istituto della cd. sanatoria
giurisprudenziale, di matrice appunto pretoria, che, nel
tentativo di mitigare la rigorosa applicazione del dettato
del cit. art. 13, ha ritenuto sanabili anche gli interventi
edilizi abusivi conformi solo alla normativa urbanistica
sopravvenuta.
Di detta giurisprudenza, ancorché minoritaria, la cui ratio
ad essa sottesa è da individuarsi nell'esigenza di non
imporre la demolizione di un'opera che, in quanto conforme
alla disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere
successivamente autorizzata su semplice presentazione di
istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di
attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il
privato autore dell'abuso non si condivide l’assunto di tipo
concettuale sulla qual essa si basa.
Sotto il primo profilo, si deve evidenziare, infatti, che
tale regola giurisprudenziale ha l'effetto di accogliere una
concezione antinomica tra principio di efficienza e
principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al
secondo.
Tuttavia, secondo il Collegio, l'agire della pubblica
amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal
principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui
è informata l'attività amministrativa e che trova un
fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali
(artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.).
Pertanto, non è ipotizzabile un’antinomia tra efficienza e
legalità atteso che non può esservi rispetto del buon
andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost.,
se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità.
Peraltro, occorre ricordare che l’ordinamento conosce anche
il diverso istituto della cd. sanatoria giurisprudenziale,
di matrice appunto pretoria, che, nel tentativo di mitigare
la rigorosa applicazione del dettato del cit. art. 13, ha
ritenuto sanabili anche gli interventi edilizi abusivi
conformi solo alla normativa urbanistica sopravvenuta.
Di detta giurisprudenza, ancorché minoritaria, la cui
ratio ad essa sottesa è da individuarsi nell'esigenza di
non imporre la demolizione di un'opera che, in quanto
conforme alla disciplina urbanistica in atto, dovrebbe
essere successivamente autorizzata su semplice presentazione
di istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di
attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il
privato autore dell'abuso non solo non si condivide
l’assunto di tipo concettuale sulla qual essa si basa, ma si
rileva che essa non è neppure applicabile nel caso di
specie.
Sotto il primo profilo, si deve evidenziare, infatti, che
tale regola giurisprudenziale ha l'effetto di accogliere una
concezione antinomica tra principio di efficienza e
principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al
secondo.
Tuttavia, secondo il Collegio, l'agire della pubblica
amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal
principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui
è informata l'attività amministrativa e che trova un
fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali
(artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.).
Pertanto, non è ipotizzabile un’antinomia tra efficienza e
legalità atteso che non può esservi rispetto del buon
andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost.,
se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità.
Nella materia oggetto del contendere, il punto di equilibrio
fra efficienza e legalità è stato individuato dal
legislatore nel consentire la sanatoria dei c.d. abusi
formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino
rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del
territorio, e non solo di quella vigente al momento
dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente
all'epoca della loro realizzazione (e ciò costituisce
applicazione del principio di legalità), e quindi evitando
un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano
violato soltanto le norme che disciplinano il procedimento
da osservare nell'attività edificatoria, e ciò in
applicazione dei principi di efficienza e buon andamento,
che sarebbero violati ove agli aspetti solo formali si desse
un peso preponderante rispetto a quelli del rispetto
sostanziale delle norme generali e locali in materia di uso
del territorio
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.07.2012 n. 3961 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Appalti, in caso di fusione solo manager
specchiati
Palazzo Spada chiude l'operazione «appalti puliti», almeno
per ora. L'adunanza plenaria torna sui requisiti di moralità
necessari agli amministratori di società che partecipano a
bandi pubblici chiarendo che, in caso di fusione o
incorporazione societaria, chi prende parte alla gara deve
garantire anche per i manager e per i supertecnici che si
sono avvicendati al vertice dall'azienda anche nei tre anni
precedenti oppure dimostrare la soluzione di continuità con
la gestione precedente.
È quanto emerge con la
sentenza 07.06.2012 n. 21, pubblicata dal massimo
organo del Consiglio di stato che fa giustizia anche delle
oscillazioni della giurisprudenza: vista l'incertezza
creatasi prima delle pronunce dell'Adunanza plenaria,
l'esclusione in epoca anteriore scatta solo se prevista
ad hoc dal bando, diversamente si dovrà provare che gli
amministratori hanno pregiudizi penali (in precedenza si è
occupata della questione la sentenza 10/2012).
Concorrente smentito
Il codice degli appalti parla chiaro: non può svolgere
lavori pubblici chi ha riportato condanne per reati gravi
contro lo stato o l'Unione europea, dalla frode alla
corruzione, dalla partecipazione a un'organizzazione
criminale. E il divieto riguarda i vertici societari,
variamente determinati a seconda del tipo di compagine.
A ritoccare il requisito di cui all'articolo 38, comma 2,
del dlgs 163/06 è stato il dl 70/2011, ma ora l'Adunanza
plenaria chiarisce che, prima e dopo l'entrata in vigore
della novella, deve ritenersi sempre necessaria la
presentazione di una dichiarazione sostitutiva completa,
pena l'esclusione dall'appalto: la garanzia di moralità deve
essere riferita anche agli amministratori delle società che
partecipano a un procedimento di incorporazione o di fusione
entro il triennio antecedente la pubblicazione del bando di
gara. L'obiettivo è evitare che nelle scatole cinesi
societarie si nascondano operatori economici che hanno già
avuto problemi con la giustizia.
Palazzo Spada, tuttavia, accoglie il ricorso dell'azienda
che il concorrente tentava di bloccare (peraltro
nell'appalto per il servizio di vigilanza relativo a un
ufficio giudiziario). E nel farlo i giudici indicano il
criterio valido per gli appalti passati, quando la
giurisprudenza era incerta: esclusione sì, ma solo se
l'onere di documentazione era esplicitato dal bando,
altrimenti bisogna provare che i manager sono pregiudicati (articolo
ItaliaOggi del 04.09.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI:
Ammissibilità dell’impugnazione da parte della
ditta classificatasi in posizione non immediatamente
successiva a quella dell’aggiudicataria, nel caso di ricorso
avverso il bando di gara che, ove accolto, comporterebbe la
riedizione della gara.
Illegittimità della clausola che prevede l’apertura dei
plichi contenenti l’offerta tecnica in seduta riservata.
E’ ammissibile il ricorso avverso l’aggiudicazione di una
gara di appalto proposto da una ditta non classificatasi in
posizione immediatamente successiva a quella
dell’aggiudicataria (nella specie si trattava di una ditta
classificatasi al 7° posto in graduatoria), allorché il
ricorso sia non solo diretto all’annullamento
dell’aggiudicazione in favore della prima classificata, ma
sia prevalentemente indirizzato ad ottenere l’annullamento
di tutte le operazioni, nonché della clausola della lex
specialis e, pertanto, la ripetizione della procedura.
In tal caso, infatti, non può essere negata la sussistenza
di una posizione qualificata della ricorrente alla
rinnovazione della gara tesa ad ottenere il conseguente
vantaggio di poter partecipare alla procedura rinnovata per
far valere la propria chance di risultare aggiudicataria.
L’onere di impugnare direttamente il bando di gara sussiste
solo allorquando il bando contenga clausole impeditive
dell'ammissione dell'interessato alla selezione. Di
conseguenza, le clausole del bando o della lettera di invito
che onerano l'interessato ad una immediata impugnazione sono
quelle che prescrivono requisiti di ammissione o di
partecipazione alla gara, in riferimento sia a requisiti
soggettivi che a situazioni di fatto, la carenza dei quali
determina immediatamente l'effetto escludente,
configurandosi il successivo atto di esclusione come
meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già
prodotta (1).
In base ad una corretta interpretazione dei principi
comunitari e di diritto interno in materia di trasparenza e
di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti, deve
ritenersi che il principio della pubblicità delle operazioni
di gara debba essere osservato anche con riferimento
all’apertura della buste contenenti l’offerta tecnica,
dovendo anche tale operazione essere assistita dalle
medesime garanzie poste a tutela degli interessi pubblici e
privati richiamati (2). E’ pertanto illegittima la clausola
del bando di gara, la quale prevede che la apertura dei
plichi contenenti l’offerta tecnica avvenga in seduta
riservata.
Nelle gare di appalto, la "verifica della integrità dei
plichi" non esaurisce la sua funzione nella
constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o
alterazioni, ma è destinata a garantire che il materiale
documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di
gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde
all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento
dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare
gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti
prodotti e di avere così la garanzia che non siano
successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche
dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità
dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono
difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i
sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro
immediato (3).
---------------
(1) Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 1 del 2003
(2) Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 13 del 2011
(3) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.09.2010, n. 6939;
10.11.2010, n. 8006; 04.03.2008, n. 901; sez. VI,
22.04.2008, n. 1856; sez. V, 03.12.2008, n. 5943; sez. IV,
11.10.2007, n. 5354; sez. V, 18.03.2004, n. 1427 (TAR
Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 01.06.2012 n. 5000 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Strumenti urbanistici generali. La destinazione
urbanistica a verde privato rientra tra le ipotesi di
qualificazione delle zone territoriali omogenee.
La destinazione urbanistica di un’area a "verde privato"
operata dalle previsioni del vigente strumento urbanistico
primario non assume la natura di vincolo ablatorio o
assimilabile, ma rientra nell’ambito della normale
conformazione della proprietà privata, espressione del
potere di pianificazione del territorio comunale; infatti,
la destinazione a verde privato di un’area rientra tra le
ipotesi di qualificazione delle zone territoriali omogenee
di cui lo strumento urbanistico primario si compone e, anche
se pone preclusione all’edificazione implicando l’esclusione
della possibilità di realizzare qualsiasi opera edilizia
incidente sulla destinazione a verde (1), rimane comunque
espressione delle funzioni di ripartizione in zone del
territorio, senza determinare vincoli tali da escludere
potenzialmente il diritto di proprietà nella sua interezza
(2).
---------------
(1) Cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 05.10.1995
n. 781.
(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.07.1985 n. 290.
Ha osservato, in particolare, la sentenza in rassegna che la
destinazione urbanistica a verde privato non sostanzia alcun
vincolo correlato al regime di decadenza conseguente
all’inutile decorso del termine quinquennale all’epoca
contemplato dall’art. 2 della L. 19.11.1968 n. 1187 (e, ora,
dall’art. 9 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 327
come modificato dall’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 352) e
che altrimenti implicherebbe -per l’appunto- l’obbligo del
Comune di procedere alla riqualificazione urbanistica delle
aree stesse dopo la scadenza del vincolo (cfr. sul punto, ad
es., Cons. Stato, Sez. IV, 14.12.1993 n. 1068).
Da ciò consegue, quindi, non solo che nessuna decadenza si è
nella specie verificata per quanto segnatamente attiene alla
destinazione a verde privato imposta all’area in questione,
ma anche che dalla destinazione stessa non discende alcun
obbligo di indennizzo per il privato, non potendosi pertanto
dare accesso a qualsivoglia censura tesa a far valere
l’illegittimità della previsione di destinazione sotto il
profilo della mancanza di un ristoro economico al riguardo
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 18.05.2012 n. 2919 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Provvedimento di decadenza del Permesso di
costruire.
La decadenza del titolo edilizio -come si evince peraltro
dalla normativa (v. l’art. 4 della L. 10 del 1977, nella
specie applicabile ratione temporis; v. oggi l’art.
15, comma 2, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n.
380)- consegue dal mero decorso del tempo correlato
all’inattività dell’interessato e non necessita a tal fine
un esplicito provvedimento amministrativo, costitutivo o
dichiarativo.
La pronuncia di decadenza del titolo edilizio è espressione
di un potere strettamente vincolato; ha una natura
ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del
titolo edilizio in conseguenza dell’inerzia del titolare,
ovvero della sopravvenienza di una nuova e diversa
strumentazione edilizia, e assume pertanto decorrenza ex
tunc. Inoltre il termine di durata del titolo edilizio
non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al
contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di
una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha
rilasciato il titolo edilizio e che accerti l’impossibilità
del rispetto del termine ab origine fissato, e
solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un
factum principis, ovvero l’insorgenza di una causa di
forza maggiore (1).
Nel caso di impugnativa in s.g. del provvedimento di
decadenza di un permesso di costruire per mancato inizio dei
lavori entro il termine annuale, secondo il generale
principio di distribuzione dell’onere della prova di cui al
combinato disposto dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 cod.
proc. civ. –ora espressamente recepito dall’art. 64, comma
1, cod. proc. amm. ma reputato immanente nell’ordinamento
processuale amministrativo, se non altro per quanto attiene
alle ipotesi che come per il caso di specie pertengono alla
giurisdizione esclusiva, anche in epoca antecedente
all’entrata in vigore del nuovo codice di rito (2)– spetta
al ricorrente dedurre che le opere asseritamente realizzate
prima della scadenza del termine annuale fissato per l’avvio
dei lavori erano comunque idonee a dimostrare una sua seria
e concreta volontà di utilizzare il titolo edilizio a lei
rilasciato.
Ai fini della sussistenza dei presupposti per la decadenza
dal permesso di costruire, l’effettivo inizio dei lavori
deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con
specifico e puntuale riferimento all’entità ed alle
dimensioni dell’intervento edilizio così come programmato e
autorizzato, e ciò all' evidente scopo di evitare che il
termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con
ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non
oggettivamente significativi di un effettivo intendimento
del titolare della concessione stessa di procedere alla
costruzione (3).
L’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza del
permesso di costruire può ritenersi sussistente quando le
opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva
volontà di realizzare il manufatto, non essendo a ciò
sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la
predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione
(4); o, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è
configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori
di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa
a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri
indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i
lavori sino alla loro ultimazione (5), con la conseguenza
che la declaratoria di decadenza del permesso di costruire
per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è
illegittima solo se sono stati perlomeno eseguiti lo scavo
ed il riempimento in conglomerato cementizio delle
fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna
entro il termine di legge (6) o se lo sbancamento realizzato
si estenda su di un’area di vaste dimensioni (7).
--------------
(1) Cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV,
10.08.2007, n. 4423 e 18.06.2008 n. 3030
(2) Cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 07.10.2009
n. 6118
(3) Cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 16.11.1998
n. 1615.
(4) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1993 n. 1165.
(5) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2000 n. 5242.
(6) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.10.1992 n. 1006.
(7) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13.05.1996 n. 535 (massima
tratta www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.05.2012 n. 2915 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
OPERE IN CEMENTO ARMATO E RESPONSABILITA`
DEL COSTRUTTORE.
Il reato di omessa denuncia delle opere in conglomerato
cementizio armato (artt. 65 e 72, D.P.R. 06.06.2001,
n. 380), in quanto reato omissivo proprio, è configurabile
in capo al costruttore, essendo imposto dalla legge,
in via esclusiva a carico di quest’ultimo, l’obbligo di
denuncia.
La Corte di Cassazione si pronuncia, con la sentenza in
esame,
sulla disciplina relativa alla realizzazione delle opere in
conglomerato cementizio armato, individuando nel costruttore
il soggetto responsabile del reato di omessa denuncia.
La
vicenda processuale vedeva imputato il proprietario e
committente
di alcuni interventi edilizi, ritenuto responsabile per
avere eseguito un manufatto abusivo in zona sismica in
violazione
di norme sul conglomerato cementizio armato e di
avere dato inizio ai lavori senza la preventiva denuncia dei
lavori
allo Sportello unico dell’edilizia. A seguito della
pronuncia
di condanna, questi proponeva ricorso per cassazione
denunciando
violazione di legge relativamente alla condanna
per il reato relativo al conglomerato cementizio, in base al
rilievo
che l’obbligo della denuncia delle opere incomberebbe
solo sul costruttore e non sul proprietario/committente.
La tesi è stata condivisa dalla Cassazione che ha ritenuto
l’affermazione di responsabilità per tale reato non è
sorretta
da alcuna motivazione, con conseguente annullamento della
sentenza. A fondamento della decisione, peraltro, la Corte
mostra di aderire a quell’orientamento giurisprudenziale che
qualifica il reato di omessa denuncia delle opere in
conglomerato
cementizio armato (D.P.R. 06.06.2001, n. 380,
artt. 65 e 72), come reato omissivo proprio, in quanto tale
configurabile solo in capo al costruttore, essendo imposto
dalla legge, in via esclusiva a carico di quest’ultimo,
l’obbligo
di denuncia, con esclusione della responsabilità del
proprietario/committente (v., ex multis, da ultimo: Cass. pen., sez.
III, 07.05.2010, n. 17539, in Ced Cass., n. 247168).
Trattasi,
tuttavia, di un orientamento non del tutto pacifico in
giurisprudenza.
Ed infatti, sul punto, altra giurisprudenza ritiene
diversamente che il committente di lavori edilizi concorre,
in
qualità di ‘‘extraneus’’, nella contravvenzione di omessa
denuncia
delle opere in conglomerato cementizio armato (artt.
65 e 72, D.P.R. 06.06.2001, n. 380), pur trattandosi di
reato omissivo proprio del costruttore (Cass. pen., sez. III,
31.05.2011, n. 21775, in Ced Cass., n. 250377) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.05.2012 n. 18104-
tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: PRECARIETA` E TEMPORANEITA` DELL’INTERVENTO EDILIZIO.
In materia edilizia, ai fini del riscontro del connotato
della
precarietà e della relativa esclusione della modifica
dell’assetto del territorio, non sono rilevanti le
caratteristiche
costruttive, i materiali impiegati e l’agevole rimovibilità, ma le esigenze temporanee alle quali l’opera
eventualmente assolva.
Questione ricorrente quella affrontata dalla Suprema Corte
con la sentenza in esame, relativa al tema dei rapporti
intercorrenti
tra precarietà dell’opera edilizia e la sua temporaneità. La vicenda processuale segue ad una sentenza di condanna,
confermata in grado d’Appello, per il reato di cui al
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), e per il
reato di cui agli artt. 83, 93, 94 e 95, stesso D.P.R., in
relazione
all’installazione su un piano di cemento armato di un
prefabbricato in legno di circa metri 8 per 6, con
antistante
portico, senza permesso di costruire e senza le prescritte
autorizzazioni, trattandosi di zona sismica.
Proponeva
ricorso
per Cassazione l’imputato che, per quanto qui di interesse,
rilevava l’erronea applicazione della norma incriminatrice,
perchè -a suo dire- la propria condotta non avrebbe
integrato
le fattispecie previste e punite dalla norma. Sosteneva, in
particolare, la difesa che l’opera prefabbricata in legno
realizzata
non rientrasse nella nozione di ‘‘costruzione’’, non avendo
i caratteri di struttura stabilmente ancorata al suolo. Si
sarebbe
trattato, infatti, di un prefabbricato amovibile, che non
poggia al suolo in modo stabile, ma legato ad esso con viti
di ferro: cioè , di un’opera chiaramente smontabile. Tale
circostanza
sarebbe emersa anche nel dibattimento di primo
grado, in cui il teste che aveva proceduto all’accertamento
del reato non aveva saputo riferire se l’opera fosse o meno
ancorata al suolo.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che hanno
dichiarato
inammissibile il ricorso.
In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto
ineccepibile
il ragionamento logico-giuridico condotto dai giudici di
merito, risultando dagli atti che la polizia giudiziaria che
aveva
accertato l’illecito aveva, in sede di audizione
testimoniale,
riferito che la struttura era prefabbricata e installata
stabilmente
alla piattaforma di cemento e che, toccandola, non si
muoveva: si trattava, comunque, di una struttura abitabile e
di dimensioni considerevoli. Correttamente, dunque, per la
Cassazione, i giudici di merito hanno richiamato il
principio
espresso dalla giurisprudenza di legittimità , secondo cui
la
temporaneità dell’opera deve desumersi da elementi
obiettivi
e non dalle caratteristiche del manufatto o dall’intenzione
soggettiva del costruttore, perché , ai sensi del D.P.R. n.
380
del 2001, art. 3, lett. e) ed art. 55, si considerano opere
edilizie
anche l’istallazione di manufatti leggeri prefabbricati e di
strutture di qualsiasi genere come roulottes, camper, case
mobili, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di
lavoro,
depositi, magazzini (cfr., ex plurimis: Cass. pen., sez. III,
27.05.2009, n. 22054, in Ced Cass., n. 243710; Id., sez.
III, 13.06.2006, n. 20189, in Ced Cass., n. 234325
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.05.2012 n. 18087
-
tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
MANCATA ESTENSIONE DELLA SANATORIA EDILIZIA AI REATI
PAESAGGISTICI.
La concessione rilasciata a seguito di accertamento di
conformità (art. 36 D.P.R. 06.06.2001, n. 380) estingue
i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche
vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, che sono soggetti ad una
disciplina difforme e differenziata, legittimamente e
costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica
diversa, rispetto a quella che riguarda l’assetto del
territorio sotto il profilo edilizio (v. anche Corte cost., ord. 21.07.2000, n. 327).
Tema molto delicato, affrontato dalla Cassazione con la
sentenza in commento, è quello dell’ambito applicativo
della cd. sanatoria edilizia, prevista dall’art. 36 del
D.P.R. n. 380 del 2001, e della sua possibile estensione -agli effetti dell’estinzione del reato- a reati diversi da
quelli edilizi stricto sensu intesi. La vicenda processuale
vedeva contestati agli imputati tre diverse reati:
a) reato
p. e p. dall’art. 110 c.p., D.P.R. 06.06.2001, n. 380,
art. 44, lett. c) per avere, in concorso fra loro, eseguito
in assenza o comunque in totale difformità
del permesso di costruire, in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, ex art. 142, lett.
g), alcuni interventi edilizi;
b) reato p. e p. dall’art.
110 c.p.,
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181 in rel. L. 28.02.1985, n. 47, art. 20, lett. c) per avere, in concorso fra
loro,
eseguito, in assenza della prescritta autorizzazione dell’Autorità
preposta alla tutela del vincolo, le opere di cui al capo a)
della imputazione in zona paesaggisticamente vincolata;
c)
reato p. e p. dagli artt. 110 e 734 c.p. per avere, in
concorso
fra loro, distrutto o alterato le bellezze naturali di
luoghi soggetti
alla speciale protezione della Autorità con le opere di
cui al capo precedente. In particolare, il tribunale ha
ritenuto
essere i reati ascritti, estinti per intervenuto permesso di
costruire
in sanatoria.
Contro la sentenza di proscioglimento proponeva ricorso il
PM, osservando come il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria estingue unicamente i reati previsti dalle norme
urbanistiche,
ma non anche quelli previsti da altre disposizioni
di legge e, in ogni caso, a tutela di altri interessi, come
nel
caso concreto, di beni paesaggistici.
La tesi ha avuto facile seguito nella valutazione dei
giudici di
legittimità. Pacifico, infatti, è l’orientamento
giurisprudenziale
secondo cui il rilascio in sanatoria del permesso di
costruire determina l’estinzione dei soli reati
contravvenzionali previsti
dalle norme urbanistiche vigenti e, quindi, si riferisce
esclusivamente alle contravvenzioni concernenti la materia
che disciplina l’assetto del territorio sotto il profilo
edilizio,
ossia alle violazioni della stessa legge, in cui sono
contemplate
le ipotesi tipiche suscettibili di sanatoria (opere eseguite
in assenza di concessione o in totale difformità o con
variazioni
essenziali, ecc.).
Ne deriva che la causa estintiva non è applicabile a altri
reati
che hanno una oggettività giuridica diversa rispetto a
quella
della mera tutela urbanistica del territorio, ossia:
a)
quelli relativi
a violazioni di disposizioni dettate in materia di
costruzioni
in zona sismica;
b) quelli relativi a violazioni di
disposizioni
dettate in materia di opere in conglomerato cementizio;
c) quelli relativi a violazioni di disposizioni dettate in
materia
di tutela delle zone di particolare interesse ambientale
(v.,
tra le tante: sez. III, 10.10.2007, n. 37318, in Ced
Cass.,
n. 237561)
(commento tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2012 - Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 11.05.2012 n. 17825 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
IMPIANTI FOTOVOLTAICI E NECESSITA` DI TITOLO ABILITATIVO.
L’esecuzione in assenza o in difformità degli interventi
subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22,
commi 1 e 2, D.P.R. 06.06.2001 n. 380, allorché non
conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei
regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia
in vigore, comporta l’applicazione della sanzione penale
prevista dall’art. 44 lett. a), del citato D.P.R. n. 380,
atteso
che soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza
o difformità dalla DIA, ma conformi alla citata disciplina,
è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall’art.
37 dello stesso decreto n. 380 del 2001 (fattispecie
relativa alla realizzazione mediante DIA di un impianto
fotovoltaico eseguito in base alla legislazione regionale
della Puglia successivamente dichiarata incostituzionale,
in quanto ne legittimava la realizzazione senza il rispetto
del limite di potenza prevista dalla legislazione
statale per il regime semplificato).
Di particolare interesse la questione affrontata dalla
Suprema
Corte con la sentenza in esame, relativa alla esecuzione
di una particolare tipologia di interventi sul territorio
costituiti
dai cc.dd. pannelli fotovoltaici. I fatti possono così
essere
sinteticamente riassunti.
Militari della Guardia di Finanza
e
della stazione carabinieri di una località pugliese
procedevano
al sequestro delle opere realizzate presso l’impianto
fotovoltaico
costituito da n. 4.080 pannelli fotovoltaici, due cabine
inverter ed una cabina ENEL, tutto riconducibile ad una
società di cui l’indagato era il legale rappresentante. Nel
verbale
di sequestro si esponeva che:
a) la società era titolare
di una DIA per la realizzazione di una struttura erogante
una
potenza di picco pari a 999,04 kw;
b) le opere in fase di
realizzazione
erano del tutto difformi da quelle di cui alla DIA,
ed in particolare dalla planimetria riportata sulla tav. 3
del
progetto;
c) l’area oggetto di intervento ricadeva in zona
classificata dal PDTT come ‘‘e’’ agricola in ambito
territoriale
esteso;
d) il Comune aveva rilasciato l’autorizzazione
paesaggistica;
e) non era stato allegato alla DIA alcun titolo di
proprietà
del terreno da parte della società , risultando solo un
contratto preliminare in merito alla realizzazione,
l’esercizio,
la gestione e la manutenzione di una centralina di energia
fotovoltaica;
f) le opere non rispettavano il requisito di cui alla
L.R. n. 31 del 2008, art. 3, comma 1, lett. b), peraltro
successiva all’inoltro della DIA e successivamente
dichiarata incostituzionale.
Contro l’ordinanza del tribunale del riesame di
rigetto della richiesta di dissequestro, proponeva ricorso
per
cassazione l’indagato censurando l’interpretazione che il
tribunale
ha dato alla L.R. Puglia n. 1 del 2008, art. 27: la
possibilità
della DIA, a suo dire, sussisteva ogni qual volta gli
impianti
in questione fossero localizzati in zone classificate
agricole dai piani urbanistici. Tale interpretazione
risultava
confermata dalla successiva L.R. Puglia n. 31 del 2008, art.
3, che ribadiva espressamente la possibilità di ricorrere
ad
una semplice DIA per la realizzazione di impianti
fotovoltaici
sul suolo agricolo.
Il ricorrente deduceva, inoltre, anche
che
la DIA per la costruzione dell’impianto oggetto di sequestro
si era perfezionata in realtà sotto la vigenza della L.R.
n. 31
del 2008; infine, censurava l’ordinanza impugnata sotto il
profilo che la difformità delle opere eseguite rispetto
alla
DIA non costituisce un illecito penale, ma comporta solo
l’applicazione della sanzione amministrativa.
La tesi, suggestiva ed articolata, non ha però fatto
breccia
nella valutazione dei giudici della Cassazione. Ed invero,
la
Corte, dopo aver operato una puntuale minuziosa analisi
dell’evoluzione
legislativa, statale regionale, sul tema della necessità
o meno di titoli abilitativi per la realizzazione di
impianti
fotovoltaici, ha osservato che, dapprima, con la sentenza
n. 119 del 2010 della Corte costituzionale è stata
dichiarata
l’illegittimità costituzionale della L.R. Puglia 21.10.2008, n. 31, art. 2, commi 1, 2 e 3 e art. 3, commi 1 e 2;
successivamente, con la sentenza n. 366 del 2010, e` stata
dichiarata l’illegittimità costituzionale della L.R. Puglia
19.02.2008, n. 1, art. 27, comma 1, lett. b). Risulta quindi
travolta
da tali pronunce la disciplina specifica posta dall’art. 27
e dall’art. 3 citati che facoltizzava la realizzazione di
impianti
fotovoltaici di potenza fino ad un megawatt sulla base di
una
semplice DIA anche in zone a destinazione agricola secondo
gli strumenti urbanistici vigenti.
Pertanto, anche se la DIA
della società di cui l’indagato era il legale
rappresentante
sembra essersi perfezionata prima delle richiamate
dichiarazioni
di incostituzionalità, comunque la realizzazione
dell’impianto,
ove anche in ipotesi originariamente legittima in forza
della DIA, non poteva considerarsi tale perché affetta da
illegittimità
sopravvenuta a seguito della dichiarazione di
incostituzionalità
prima della L. n. 31 del 2008, art. 3 e poi della
L. n. 1 del 2008, art. 27, che rendeva ab origine inidonea
la
DIA a legittimare la realizzazione di impianti fotovoltaici
senza
il rispetto del limite di potenza prevista dalla
legislazione
statale per il regime semplificato.
Ne discende, dunque, l’applicazione del principio secondo
cui l’esecuzione in assenza o in difformità degli
interventi subordinati
a denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22, commi
1 e 2, D.P.R. 06.06.2001 n. 380, allorché non conformi
alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi
e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, comporta
l’applicazione della sanzione penale prevista dall’art. 44
lett.
a), del citato D.P.R. n. 380, atteso che soltanto in caso di
interventi
eseguiti in assenza o difformità dalla DIA, ma conformi
alla citata disciplina, è applicabile la sanzione
amministrativa
prevista dall’art. 37 dello stesso decreto n. 380 del
2001 (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 05.03.2009, n.
9894, in Ced Cass., n. 243099; Id., sez. III, 20.12.2006, n. 41619, in Ced
Cass., n. 235413) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2012 n. 17433
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 7/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
REALIZZAZIONE DI UN TETTO PIU` ALTO E DIFFORMITA` PARZIALE.
La sostituzione del tetto può rientrare tra gli interventi
di manutenzione straordinaria (art. 3, comma 1, lett. b),
D.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto tali non soggetti
a permesso di costruire, purché non venga modificata la
quota d’imposta o alterato lo stato dei luoghi ne´
planimetricamente
né quantitativamente rispetto alle superfici
ed ai volumi preesistenti.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
nella sentenza in esame riguarda la realizzazione di
interventi
edilizi qualificabili come difformità parziali anziché
come variazioni
essenziali al progetto approvato.
La vicenda processuale
vedeva imputati di alcune violazioni urbanistiche ed
edilizie i comproprietari-committenti di un immobile, cui
era
stato contestato di avere, in assenza del prescritto
permesso
di costruire, eseguito o comunque, fatto eseguire, in
sopraelevazione
del predetto immobile già preesistente una
serie di opere edilizie:
a) un fabbricato al secondo piano
di
mq. 160 circa (realizzato in totale difformità
all’autorizzazione
relativa ad un tetto di copertura a falda unica con
sottotetto
non abitabile) costituito da pilastri in cemento armato e
legno
a sostegno della copertura, ad una falda, costituita da
travi di legno, tavolato e sovrastanti coppi (altezza
massima
sul lato ovest pari a mt. 5, altezza minima di prospetto di
mt.
0,80 circa);
b) una parete perimetrale ovest in mattoni
laterizi
forati;
c) un vano di mq. 20 realizzato sulla porzione
nordovest
del suddetto secondo piano, costituito da pareti in
mattoni forati aventi altezza di mt. 2,00 circa.
In sede di
ricorso per Cassazione i due imputati avevano censurato la
sentenza
impugnata per l’asserita genericità della sua motivazione
e comunque per la sua contraddittorietà. In particolare,
secondo la difesa, i giudici di merito non avrebbero tenuto
conto che il regolamento comunale prevedeva come limite,
ovvero come quota massima, di altezza quella di fatto
realizzata
che pertanto non poteva considerarsi in violazione di
legge. In ogni caso non si poteva parlare di difformità
totale
perché l’immobile per cui è causa rimaneva, comunque, un
sottotetto così come in progetto, di talché nessuna
violazione
di legge era stata commessa essendo essi ricorrenti in
possesso di autorizzazione comunale.
La tesi, ben argomentata, non è stata però sufficiente a
mutare
l’orientamento della Cassazione sul punto. Ed infatti, i
giudici di legittimità hanno sottolineato che la
realizzazione di
un tetto ad una altezza di colmo superiore a quella prevista
nel progetto approvato non può ritenersi una variante in
corso
d’opera, anche se la modifica sia conforme agli strumenti
urbanistici, ma costituisce, invece, una difformità
parziale.
Sul punto, hanno ribadito che la sostituzione del tetto può
rientrare tra gli interventi di manutenzione straordinaria
(D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 3, comma 1, lett. b), in
quanto tali non soggetti a permesso di costruire, purché
non
venga modificata la quota d’imposta o alterato lo stato dei
luoghi né planimetricamente né quantitativamente rispetto
alle superfici ed ai volumi preesistenti (v., tra le tante,
da ultimo:
Cass. pen., sez. III, 11.06.2010, n. 22229, in Ced
Cass., n. 247637; Id., sez. III, 25.01.2006, n. 2935,
in
Ced Cass., n. 233295) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2012 n. 17411
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 7/2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Opera pertinenziale al servizio di edifici già
esistenti - recinzione - è soggetta non a concessione
edilizia, bensì ad autorizzazione gratuita - è soggetta non
a concessione edilizia, bensì ad autorizzazione gratuita -
il potere sanzionatorio in materia edilizia.
La giurisprudenza è univoca e costante nell’affermare che,
ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 9 del 1982, ogni opera
pertinenziale al servizio di edifici già esistenti, tra le
quali rientra anche una recinzione, nella misura in cui se
ne accerti l’effettiva funzione pertinenziale nei riguardi
di un fabbricato già esistente, è soggetta non a concessione
edilizia, bensì ad autorizzazione gratuita.
Pertanto, poiché nel provvedimento si fa riferimento ad una
mera recinzione -e non già ad una opera più complessa, quale
una recinzione composta da muro di sostegno con sovrastante
rete metallica, che costituendo una vera e propria
costruzione idonea a modificare l’assetto
urbanistico-edilizio del territorio, avrebbe comportato il
previo rilascio del titolo concessorio- si appalesa
illegittimo il provvedimento con il quale il Sindaco ha
ordinato la demolizione della recinzione dell’edificio, in
base al presupposto che si trattasse di opera soggetta a
concessione.
Né il provvedimento potrebbe essere giustificato dalla
rilevata circostanza che la recinzione di cui trattasi
graverebbe su tratto di strada mulattiera, perché al fine di
rimuovere tale situazione il sindaco non avrebbe dovuto
esercitare il potere sanzionatorio in materia edilizia, ma,
tempestivamente, a suo tempo (allorché lo stato di fatto
preesistente, come sembra emergere dalle planimetrie
allegate alla perizia tecnica, alla quale si è in precedenza
accennato, era stato pregiudicato non dalla recinzione, ma
dallo stesso edificio, che aveva invaso con il piano
seminterrato l’angolo sud/est della strada mulattiera,
impedendone il transito), avrebbe dovuto ordinare la rimessa
in pristino della strada ritenuta di uso pubblico, ai sensi
degli artt. 378, L. 20.3.1865 n. 2248, all. F e 15, d.l.lgt.
01.09.1918 n. 1446 (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.10.2002 n. 5610 -
massima tratta da www.ambientediritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 03.09.2012 |
ã |
UTILITA' |
EDILIZIA
PRIVATA: Mutui
e ristrutturazioni - Come massimizzare i benefici per la
casa (articolo ItaliaOggi
Sette del 27.08.2012). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
29.08.2012 n. 201 "Disposizioni relative alle modalità di
presentazione delle istanze concernenti i procedimenti di
prevenzione incendi e alla documentazione da allegare, ai
sensi dell’articolo 2, comma 7, del decreto del Presidente
della Repubblica 01.08.2011, n. 151" (Ministero
dell'Interno,
decreto 07.08.2012). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
limiti retributivi - art. 23-ter d.l. n. 201, convertito in
l. n. 214 del 2011 - d.P.C.m. 23.03.2012 (G.U. 16.04.2012 n.
89) (circolare
03.08.2012 n. 8/2012). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Oggetto: Diritti dei consiglieri comunali e provinciali -
Art. 43, comma 2, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267
(Prefettura di Bergamo,
nota 22.06.2010 n. 73 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
LAVORI PUBBLICI:
G. Rispoli,
RESPONSABILITÀ DA MANUTENZIONE STRADALE DELLA P.A.:
RIFLESSIONI SULLA PIÙ RECENTE EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE
(link a www.rivistagiuridica.aci.it). |
LAVORI PUBBLICI:
S. Ruscica,
LA RESPONSABILITÀ DEL GESTORE DI STRADE APERTE AL PUBBLICO
PER IL CASO DI ATTRAVERSAMENTO DI ANIMALI SELVATICI
(link a www.rivistagiuridica.aci.it). |
ENTI LOCALI:
A. Carnabuci,
Toponomastica e segnaletica di localizzazione del territorio
(link a www.rivistagiuridica.aci.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Pierobon,
QUALE LA “RAGIONEVOLEZZA” DELLE SANZIONI PENALI ? (IL
TRASPORTO DI RIFIUTI PERICOLOSI SENZA FORMULARIO) (link
a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
M. Grisanti,
I PRINCIPI FONDAMENTALI CONTENUTI NEL TESTO UNICO
DELL’EDILIZIA E LE PRONUNCE DI INCOSTITUZIONALITA (commento
della sentenza n. 2147/2012 del TAR Lombardia-Milano)
(link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
S. Maglia e V. Balossi,
D.P.R. n. 227/2011: novità per l’assimilazione di acque
reflue industriali? (link a www.ipsoa.it). |
QUESITI &
PARERI |
LAVORI PUBBLICI:
Liquidazione del saldo finale.
Domanda
Il Responsabile
del Procedimento può procedere ugualmente alla liquidazione
del saldo finale, qualora, in sede di verifica di conformità
o di regolare esecuzione al termine di un appalto di servizi
di durata pluriennale, emerga che la ditta non ha effettuato
tutte le prestazioni previste dal contratto?
Risposta
La L. 07-08-1990, n. 241, agli artt. 4, 5 e 6, ha introdotto
e disciplinato la figura del Responsabile del Procedimento
amministrativo, disciplinando le sue funzioni nel
procedimento stesso e in relazione al provvedimento
amministrativo finale.
La figura del Responsabile del Procedimento risponde al
principio della trasparenza e dell'efficienza dell'azione
amministrativa, grazie al fatto che, con la sua presenza,
consente a ciascun interessato di avere un referente
nell'Amministrazione, a cui rivolgersi in relazione ai
propri interessi coinvolti.
Il Responsabile, dunque, garantisce la finalità prevista
dall'art. 97 Cost. (relativa al buon andamento dell'azione
amministrativa ed alla determinazione delle sfere di
competenza degli uffici) e quella dell'art. 28 Cost. (in
materia di responsabilità diretta dei dipendenti pubblici
per gli atti compiuti in violazione dei diritti).
I compiti del Responsabile consistono, essenzialmente, nella
comunicazione di avvio del procedimento, nella cura
dell'istruttoria, nel provvedere alle comunicazioni e le
notificazioni e nell'indire Conferenze di Servizi; può
richiedere documenti, pareri o valutazioni tecniche,
valutare le condizioni di ammissibilità e i presupposti per
l'adozione del provvedimento finale.
Nel caso in cui il provvedimento finale sia difforme dalla
proposta avanzata dal Responsabile, esso deve essere
specificatamente motivato. Deve, cioè, essere indicato il
motivo dell'adozione di una soluzione provvedimentale
diversa da quella proposta dal Responsabile del Procedimento
amministrativo.
Dunque, in relazione alla domanda specifica, bisogna
ricordare che il Responsabile del Procedimento risponde, sia
civilmente ex art. 22, D.P.R. 10-01-1957, n. 3 ove abbia
cagionato ad altri un danno ingiusto con dolo o colpa grave
(ed al riguardo potrà essere chiamato dinanzi alla Corte dei
Conti, in via di rivalsa, a rispondere del danno erariale
indiretto subito dall'Amministrazione) sia
amministrativamente per responsabilità contabile per danno
erariale diretto. Il Responsabile del Procedimento potrà
rispondere anche penalmente ex art. 328 cod. pen. per
omissione d'atti d'ufficio ove non provveda a compiere un
atto del suo ufficio entro trenta giorni dalla data della
richiesta di chi vi abbia interesse né esponga le ragioni
del ritardo.
Dunque, bisognerà, prima di non provvedere al pagamento
della liquidazione del Responsabile, valutare l'effettiva
responsabilità dello stesso, ove manchino le motivazioni per
la difformità delle prestazioni poste in essere (30.08.2012
- tratto da www.ipsoa.it). |
NEWS |
VARI: Invalidi,
contrassegno europeo. Permessi già rilasciati validi per tre
anni, poi nuovo modello. Lo prevede
un dpr pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Segnaletica
stradale da modificare.
Via libera al nuovo contrassegno
invalidi europeo e alla conseguente necessaria modifica
della segnaletica stradale.
Lo prevede il dpr n. 151 del 30.07.2012 pubblicato sulla
gazzetta ufficiale n. 203 del 31.08.2012.
Il contrassegno per invalidi comunitario è già stato
adottato da tempo da molti stati dell'Unione europea. Con la
riforma stradale del 2010 sono stati eliminati gli ostacoli
normativi all'adozione anche in Italia del nuovo tagliando.
Ora, con il dpr n. 151/2012 (che entrerà in vigore il 15
settembre), viene finalmente disposta la modifica dell'art.
381 del regolamento stradale e l'Italia darà attuazione alla
raccomandazione del consiglio dell'Unione n. 98/376/Ce del 04.06.1998.
Per un periodo transitorio di tre anni i
permessi già rilasciati resteranno validi ma in sede di
rinnovo dovrà essere rilasciato il nuovo modello. I comuni
potranno però fissare tempi inferiori. Sempre entro 3 anni
la segnaletica stradale orizzontale e verticale riguardante
la mobilità delle persone disabili dovrà essere adatta
recependo la rappresentazione grafica e cromatica del nuovo
contrassegno.
Sul modello, di colore azzurro chiaro (con il
simbolo bianco della sedia a rotelle su fondo azzurro
scuro), saranno trascritti e apposti la data di scadenza, il
numero di serie e il nome e il timbro dell'autorità
nazionale che rilascia il contrassegno e nella parte
retrostante, non visibile, il nominativo e la fotografia del
soggetto autorizzato. Il nuovo contrassegno di parcheggio
per disabili sarà rilasciato a chi abbia capacita di
deambulazione sensibilmente ridotta o (e questa è una delle
novità) impedita. Dovrà essere esposto in originale nella
parte anteriore del veicolo in modo che sia chiaramente
visibile per i controlli.
Scaduto il periodo di validità del
contrassegno a tempo determinato potrà esserne emesso uno
nuovo previa ulteriore certificazione medica rilasciata
dall'ufficio medico legale dell'azienda sanitaria locale di
appartenenza con la quale si attesti che le condizioni della
persona invalida danno diritto all'ulteriore rilascio. Per
quanto concerne l'assegnazione a titolo gratuito di uno
spazio di sosta nei casi di particolare invalidità, nelle
zone ad alta densità di traffico, non occorre più che il
titolare del contrassegno sia abilitato alla guida e
disponga di un autoveicolo, ma è necessario che
l'interessato dimostri di non avere la disponibilità di uno
spazio di sosta privato accessibile e fruibile.
I comuni
potranno prevedere la gratuità della sosta per gli invalidi
nei parcheggi a pagamento, qualora risultino già occupati o
indisponibili gli stalli a loro riservati. Inoltre, i comuni
potranno stabilire, anche nelle aree a pagamento gestite in
concessione, un numero di posti destinati alla sosta
gratuita degli invalidi muniti di contrassegno superiore al
limite minimo di un posto ogni cinquanta o frazione di
cinquanta posti disponibili, previsto dal decreto del
presidente della repubblica n. 503 del 24 luglio 1996
(articolo ItaliaOggi dell'01.09.2012). |
CONDOMINIO: Resto
apostrofare condòmini con epiteti poco edificanti.
Apostrofare qualcuno con epiteti poco
edificanti durante una riunione condominiale può configurare
ipotesi di reato (nello specifico il delitto di cui all'art.
594 c.p.):
è quanto emerso nella
sentenza n. 33221/2012 della Corte di Cassazione.
La V Sez. penale ha, infatti, confermato il ragionamento
del giudice di merito, secondo il quale «l'espressione
“architetto del c_.” era stata pronunciata all'indirizzo
della persona offesa [_] in un atteggiamento gratuitamente
astioso e senza che vi fosse stato alcun previo tentativo di
relazionarsi con la controparte in modo da preservarne la
dignità».
È vero –afferma il collegio giudicante– che l'espressione
“che c_.” è entrata nell'uso comune e non ha rilevanza
penale «quando è proferita in posizione di parità rispetto
all'interlocutore»; ciò non toglie, però, che il linguaggio
ingiurioso con il quale l'imputato si era rivolto alla
persona offesa (etichettandolo, nell'ordine, “architetto del c_", “mafioso” ed “evasore fiscale”) veniva esternato
durante una seduta condominiale nella quale il malcapitato,
in rappresentanza del proprio genitore, aveva «soltanto»
insistito per effettuare dei lavori condominiali.
A nulla sono valse le deduzioni del difensore: nullità del
processo di primo grado e degli atti successivi, stante la
ripetuta assenza dell'imputato; vizio di motivazione sul
mancato proscioglimento, essendo state valutate come
elemento di prova di responsabilità anche le dichiarazioni
della persona offesa; mancata applicazione della causa di
non punibilità prevista ex art. 599 c.p..
Per i giudici di legittimità, in realtà, «la presenza di
una situazione patologica cronica legata all'età
dell'imputato [_] non costituisce legittima causa né della
sospensione del procedimento per incapacità dell'imputato,
né di rinvio del dibattimento per legittimo impedimento a
comparire di quest'ultimo». In merito, poi,
all'inidoneità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa
a «costituire prova di responsabilità», hanno
precisato che quest'ultima «anche costituita parte
civile, partecipa al processo, di regola, in qualità di
testimone e, in tale veste, è tenuta a prestare giuramento
sicché le sue dichiarazioni sono idonee ad essere valutate
come elemento di prova anche a prescindere dalla ricerca e
dalla sussistenza di elementi di prova». Con queste
motivazioni hanno, quindi, dichiarato inammissibile il
ricorso
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2012). |
ENTI LOCALI: Unioni, tempi stretti per le regioni.
Per modificare le soglie demografiche c'è tempo fino al 30/09.
Per le aggregazioni dei comuni fino
a 1.000 abitanti il termine scade già il 7 settembre.
Tempi stretti per le regioni che intendono ridefinire le
soglie demografiche minime per le gestioni associate
obbligatorie dei piccoli comuni. In base a quanto previsto
dal dl sulla spending review, infatti, la partita dovrà
chiudersi entro la fine di settembre. Ma per le unioni
«speciali», riservate ai municipi fino a 1.000 abitanti, il
termine scade addirittura fra una settimana.
Come noto, l'art. 19 del dl 95/2012 ha profondamente
modificato la disciplina sull'obbligo di gestione in forma
associata delle funzioni da parte dei comuni di minori
dimensioni (fino a 5.000 abitanti, che scendono a 3.000 per
quelli appartenenti o appartenuti a comunità montane).
In base alle nuove norme, per quanto concerne le funzioni
fondamentali (il cui elenco è stato ridefinito ed ampliato
dal comma 1) l'obbligo riguarda tutti i municipi senza più
la rigida distinzione fra quelli sopra e quelli sotto i
1.000 abitanti.
I primi (1.001-5.000 abitanti) dovranno scegliere fra
l'unione «classica» ex art. 32 del Tuel (anch'esso
parzialmente novellato) e la convenzione (art. 30 del Tuel),
che però dovrà avere durata almeno triennale e conseguire
«significativi livelli di efficacia ed efficienza nella
gestione» certificati dal Viminale (in mancanza dovrà essere
sciolta ed i comuni interessati dovranno confluire in una
unione).
Per i secondi (fino a 1.000 abitanti), oltre alle
precedenti, rimane aperta anche la strada dell'unione ex
art. 16 del dl 138/2011, che di fatto rappresenta una sorta
di «fusione a freddo» obbligando chi ne fa parte a mettere
insieme tutte le funzioni (non solo quelle fondamentali) e
soprattutto il bilancio. Tuttavia, non si tratta più (come
in precedenza) di un obbligo, ma di una mera facoltà.
Per chi opta per i primi due modelli (unione «classica» e
convenzione), la soglia demografica minima è fissata a
10.000 abitanti, salvo diverso limite individuato dalla
regione «entro i tre mesi antecedenti il primo termine di
esercizio associato obbligatorio delle funzioni
fondamentali» (art. 19, comma 31).
Poiché quest'ultimo è fissato dal successivo comma 31-ter all'01.01.2013 (per almeno 3 delle 9 funzioni fondamentali
da associare, mentre per le altre 6 l'obbligo scatterà un
anno dopo), la dead line per le regioni che vorranno (è una
facoltà e non un obbligo) alzare o abbassare la soglia è
fissata al 30 settembre.
Per i mini-comuni che, invece, opteranno per l'unione
«speciale», il minimo scende a 5.000 abitanti, che diventano
3.000 per quelli montani. Tale limite (che peraltro non pare
così perentorio, dato che il nuovo art. 16, comma 4, del dl
138 prevede che esso valga solo «di norma»), può essere
rivisto dalle regioni entro 2 mesi dalla data di entrata in
vigore del dl 95 (7 luglio), ovvero entro il 7 settembre
(art. 19, comma 5).
I governatori interessati ad avversi di tale prerogativa
dovranno, quindi, affrettarsi a decidere. Va detto,
peraltro, che saranno ben pochi i comuni che sceglieranno la
seconda strada, giacché essa comporterà, oltre allo
svuotamento della loro autonomia, anche l'assoggettamento
(dal 2014) al Patto di stabilità interno.
Più importante la scadenza di fine mese, che riguarda una
platea ben più vasta di municipi e che potrebbe interessare
anche quelle regioni (come, ad esempio, la Lombardia e
l'Abruzzo) che hanno già ridefinito le soglie sulla base
della disciplina previgente: il nuovo quadro normativo, in
effetti, potrebbe anche suggerire di rivedere le scelte
fatte in precedenza.
Dopo che le regioni avranno (eventualmente) ridefinito le
soglie (oltre che determinato la dimensione territoriale
ottimale e omogenea per area geografica ed il termine per
l'esercizio in forma associata delle funzioni relative alle
materie di propria competenza), la palla passerà ai comuni,
i quali (se già fanno parte di un'unione) dovranno optare
per una delle soluzioni organizzative illustrate in
precedenza a seconda della fascia demografica di
appartenenza (art. 19, comma 4). Quelli che sceglieranno
l'unione «speciale», inoltre, dovranno, entro il 07.01.2013, formulare una proposta di aggregazione alle regione di
appartenenza.
Stavolta il legislatore sembra fare sul serio: per chi non
rispetterà il timing imposto potranno scattare i poteri
statali sostitutivi
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2012). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Comuni, pagelle
a due velocità.
Criteri vincolanti solo per gli enti privi di sistemi di
verifica. La spending review ha un impatto limitato per le
amministrazioni in regola con la valutazione.
I criteri per la valutazione della performance previsti
dall'articolo 5, comma 11 e seguenti, della legge 135/2012 (spending
review) sono da considerare vincolanti solo per le
amministrazioni prive di un sistema di verifica dei
risultati aventi caratteristiche analoghe a quelle disposte
dalla legge. Le altre amministrazioni dovranno adeguare i
sistemi vigenti ai principi desumibili.
Nonostante l'articolo 5, comma 11, della legge 135/2012 sia
formulato con tenore prescrittivi, è evidente la sua
funzione suppletiva e sostitutiva nei confronti delle
amministrazioni inadempienti, che, nonostante le già
preesistenti disposizioni normative e contrattuali, non si
siano ancora dotate di un funzionate sistema di valutazione.
D'altra parte, la previsione contenuta nella spending review
è destinata anche a decadere, perché operante solo «nelle
more dei rinnovi contrattuali» nazionali collettivi e in
attesa dell'applicazione del sistema delle fasce di
valutazione previsto dall'articolo 19 della legge 150/2009.
Per altro, le indicazioni contenute nell'articolo 5, comma
11, non appaiono particolarmente innovative, per gli enti
già in regola coi sistemi di valutazione.
Infatti, per quanto riguarda i dirigenti si lega la
valutazione «al raggiungimento degli obiettivi individuali e
relativi all'unità organizzativa di diretta responsabilità,
nonché al contributo assicurato alla performance complessiva
dell'amministrazione» e anche «ai comportamenti
organizzativi posti in essere e alla capacità di valutazione
differenziata dei propri collaboratori, tenuto conto delle
diverse performance degli stessi». I criteri fissati dalla
spending review sono in tutto e per tutto sovrapponibili a
quelli stabiliti dall'articolo 9, comma 1, lettere da a) a
d) del dlgs 150/2009, che legano la valutazione dei
dirigenti.
La misurazione e la valutazione della performance
individuale dei dirigenti e del personale responsabile di
una unità organizzativa in posizione di autonomia e
responsabilità è collegata «agli indicatori di performance
relativi all'ambito organizzativo di diretta
responsabilità», al «raggiungimento di specifici obiettivi
individuali», alla «qualità del contributo assicurato alla
performance generale della struttura, alle competenze
professionali e manageriali dimostrate» e, infine «alla
capacità di valutazione dei propri collaboratori, dimostrata
tramite una significativa differenziazione dei giudizi».
Non è innovativa nemmeno l'indicazione secondo la quale gli
obiettivi dei dirigenti debbano essere «predeterminati
all'atto del conferimento dell'incarico» in modo che siano
«specifici, misurabili, ripetibili, ragionevolmente
realizzabili e collegati a precise scadenze temporali».
Identica previsione è contenuta nel combinato disposto
dell'articolo 19, comma 2, del dlgs 165/2001 e nelle
disposizioni dei contratti nazionali collettivi dei diversi
comparti.
Non diversa è la questione relativa alla misurazione e
valutazione della performance individuale del personale non
dirigenziale. La legge 135/2011 conferma che la valutazione
è di competenza dei dirigenti, affermando che essa va messa
in relazione «al raggiungimento di specifici obiettivi di
gruppo o individuali» nonché «al contributo assicurato alla
performance dell'unità organizzativa di appartenenza e ai
comportamenti organizzativi dimostrati». Si tratta, quasi
letteralmente, degli stessi parametri previsti dall'articolo
9, comma 2, lettere a) e b), del dlgs 150/2009.
La previsione realmente innovativa dell'articolo 5 della
legge 135/2001 resta il comma 11-quinquies, che prova a
introdurre una differenziazione nei premi per il risultato.
Infatti, si prevede di assegnare ai dirigenti e al personale
non dirigenziale più meritevoli, in misura comunque non
inferiore al 10% della totalità dei dipendenti oggetto della
valutazione «un trattamento accessorio maggiorato. La
maggiorazione, per un importo compreso tra il 10 e il 30%
del trattamento accessorio medio per categoria di
dipendenti, trova il suo finanziamento nel dividendo di
efficienza», previsto dall'articolo 16, commi 4 e 5, del dl
138/2011, convertito in legge 148/2011.
Dunque, il tentativo di introdurre un sistema per «fasce» o,
comunque, una premialità maggiore per una limitata parte dei
dipendenti, passa necessariamente attraverso le misure di
ulteriore risparmio oltre a quelle imposte dalle leggi, che
consentono di investirle per il 50% nel sistema di
valutazione. Solo presso quei pochissimi enti che si siano
avventurati in tagli e risparmi aggiuntivi a quelli
draconiani imposti dalla stessa legge 135/2012, dunque,
potrebbe dipanare pienamente i suoi concreti effetti
innovativi l'articolo 5, comma 11 e seguenti, che, in caso
contrario, resta solo una norma tesa ad obbligare gli enti
inadempienti a dotarsi di un sistema di valutazione
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Nei
contratti decentrati relazioni su qualità dei servizi e
performance.
La legittimità rispetto alle indicazioni dettate dai
contratti nazionali e la prospettazione delle conseguenze
che si vogliono raggiungere in termini di qualità dei
servizi sulla base delle scelte contenute nel piano delle
performance: sono questi gli elementi che devono essere
inseriti nelle relazioni illustrative e tecnico-finanziarie
da allegare ai contratti collettivi decentrati integrativi e
da pubblicare sul sito internet, nella pagina dedicata alla
trasparenza. Una particolare attenzione nella compilazione
di queste documenti deve inoltre essere dedicata alla
costituzione e ripartizione fondo per la contrattazione
decentrata.
La circolare della ragioneria generale dello
stato n. 25, redatta d'intesa con il dipartimento della
funzione pubblica, riassume gli elementi essenziali che
devono essere contenuti in tale documento. Siamo in
presenza, occorre subito premetterlo, di un vincolo diretto
a tutte le p.a. e che si applica ai contratti decentrati che
sono stati stipulati, anche solo come pre-intesa, a partire
dalla fine dello scorso mese di luglio, cioè dalla
pubblicazione delle circolare.
Le relazioni devono essere redatte dagli uffici dell'ente,
la soluzione migliore è senza dubbio che i dirigenti del
personale preparino quella illustrativa e i dirigenti del
settore finanziario quella tecnico-finanziaria. Tali
documenti devono essere attestati dal collegio dei revisori
dei conti prima della pubblicazione: ovviamente questo
organismo può richiedere tutte le integrazioni e
modificazioni che ritiene opportuno e ha il potere/dovere di
segnalare le eventuali anomalie che riscontra. Le
informazioni sono per molti aspetti sovrapponibili tra le
due relazioni, in particolare per le parti riguardanti la
costituzione del fondo e la sua ripartizione.
È evidente l'attenzione che si è voluto così dedicare a
questo aspetto: esso viene monitorato sia per dimostrare che
la composizione è avvenuta in modo da rispettare le regole
dettate dai contratti nazionali e, quindi, così da evitare
l'inserimento di risorse in modo aggiuntivo, sia per dare
conto della sua ripartizione e del volume delle risorse
considerate. Attraverso l'illustrazione dell'utilizzazione
del fondo si persegue un duplice obiettivo, da un lato
dimostrare il rispetto delle regole dettate dai contratti
nazionali e dall'altro spiegare ai cittadini le finalità che
si vogliono perseguire in termini di miglioramento della
qualità dei servizi.
È questo un elemento del tutto innovativo: fino a oggi i
dipendenti e i dirigenti delle p.a. si sono infatti mossi
sulla base di una logica autoreferenziale. La pubblicazione
sul sito internet di queste informazioni apre invece la
porta a una forma di controllo diffuso, mirata a verificare
l'effettivo impatto dei contratti sulla qualità dei servizi.
Per cui lo stanziamento di risorse per il turno dovrà essere
spiegato con l'esigenza di garantire che un dato servizio
possa essere erogato per un orario più lungo, senza
interruzioni e in modo da comprendere anche le giornate
festive.
L'erogazione della reperibilità serve così alla
remunerazione dell'impegno aggiuntivo richiesto ai
lavoratori per garantire la possibilità di interventi
immediati nei casi un cui ve ne fosse la necessità. E, in
modo ancora più significativo, l'erogazione delle
incentivazioni per la produttività dovrà essere accompagnata
dalla indicazione degli obiettivi assegnati e del loro grado
di raggiungimento
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Vigili,
sì al cumulo dei compensi nei festivi infrasettimanali.
L'operatore di polizia municipale che presta servizio in
turno ha diritto a un riconoscimento aggiuntivo in caso di
prestazione effettuata in un giorno festivo
infrasettimanale, al di fuori del normale orario di lavoro.
Nessuna disposizione di legge vieta infatti la cumulabilità
dei compensi previsti dagli articoli 22 e 24 del contratto.
Lo ha chiarito il Sindacato autonomo della polizia locale (Siapol)
con una
nota datata agosto 2012.
La questione del turno
festivo infrasettimanale dei vigili è controversa e gli
orientamenti comunali non univoci. In caso di organizzazione
in turni, infatti, secondo un consolidato orientamento
l'agente di pm non potrebbe percepire alcun emolumento
ulteriore rispetto all'indennità di turnazione. Ma in caso
di prestazione lavorativa effettuata in turno in un giorno
festivo infrasettimanale la questione è ancora più
complessa.
Alcuni comuni valutano infatti tale attività non
come una prestazione ordinaria ma come una diversa
fattispecie che dà luogo alla possibilità per il lavoratore
di fruire, al pari di ogni altro dipendente, del riposo
compensativo corrispondente alla festività non goduta o del
trattamento alternativo, ossia il compenso per lavoro
straordinario festivo. Altri enti, invece, riconoscono in
questa ipotesi la possibilità di fruire del riposo
compensativo e della maggiorazione prevista dall'art. 24 del Ccnl 2000.
Diverse amministrazioni, infine, considerano il
servizio svolto in un turno ricadente in una festività
infrasettimanale alla stessa stregua di quello svolto in una
qualsiasi domenica in cui sia previsto il turno e quindi
riconoscendo una piccola maggiorazione oraria ma senza
l'applicazione del riposo compensativo e dello
straordinario. Per cercare di fare chiarezza sulla delicata
materia il Siapol ha diramato in questi giorni
un'interessante circolare. Innanzitutto i due istituti,
ovvero turno e riposo compensativo, si riferiscono a due
fattispecie diverse, disciplinate rispettivamente dagli
artt. 22 e 24 del Ccnl, e nessuna disposizione normativa ne
vieta la cumulabilità.
Secondo la Cassazione, specifica il sindacato, nel caso di
lavoro in turni la mancata fruizione del riposo compensativo
determina automaticamente l'applicazione della maggiorazione
prevista dall'art. 24 del contratto. In buona sostanza tutto
si gioca su un fraintendimento di base. Nel caso di
festività infrasettimanale il debito orario di tutti i
dipendenti comunali viene ridotto di una giornata. Questa
regola deve valere anche per i vigili che sono inseriti in
turni di servizio programmati.
Per il personale in divisa che lavora nella giornata festiva
infrasettimanale andrà quindi previsto un giorno di riposo
compensativo da aggiungere al riposo settimanale. Spetterà
al lavoratore rinunciare eventualmente al riposo per
usufruire di un compenso straordinario. Fermo restando che
anche il lavoratore che decide di effettuare il recupero
compensativo ha diritto comunque a una maggiorazione per
lavoro festivo
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli con odg
diversi.
Argomenti differenti per le due convocazioni.
Il numero legale può mancare in corso di
seduta dopo aver esaminato alcuni punti.
È regolare lo svolgimento di una seduta consiliare, il cui
ordine del giorno includeva argomenti di prima e di seconda
convocazione se, a seguito di accertata mancanza del numero
legale, i lavori venivano fatti proseguire per la
trattazione dei soli argomenti di seconda convocazione?
L'art. 38, comma 2, del Tuel n. 267/2000 demanda la
disciplina del funzionamento del consiglio comunale al
regolamento consiliare che, nell'ambito dei principi
stabiliti dallo statuto, stabilisce anche le modalità per la
convocazione e per la presentazione e la discussione delle
proposte. Lo stesso comma 2 del citato art. 38 prevede che
il regolamento indichi il numero dei consiglieri necessario
per la validità delle sedute, prescrivendo come unico limite
la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per
legge all'ente.
Nella fattispecie, il regolamento consiliare del comune
disciplina le sedute di prima e seconda convocazione
prevedendo, per la validità della seduta di prima
convocazione, la presenza di almeno la metà dei consiglieri
assegnati al comune e stabilendo che, qualora in corso di
seduta si accerti che il numero dei consiglieri sia
inferiore a quello necessario, il presidente dichiara
deserta la stessa «per gli argomenti a quel momento rimasti
da trattare».
La norma regolamentare richiede inoltre, per la validità
della seduta di seconda convocazione, che intervengano
almeno un terzo dei membri del consiglio e prevede che «la
seduta che segue ad una prima iniziatasi col numero legale
dei presenti ed interrotta nel suo corso per essere venuto
meno il numero minimo dei consiglieri, è pure di seconda
convocazione per gli affari rimasti da trattare nella
prima».
Le richiamate disposizioni regolamentari, in particolare per
quel che concerne il numero minimo di consiglieri presenti
alle sedute, sono coerenti con le previsioni di legge.
Sulla problematica sollevata il Tar Campania, seppur con una
risalente sentenza del 12.12.1985, n. 397, ha ritenuto che «perché
possa parlarsi di seduta di seconda convocazione, non è
necessario che la mancanza del numero legale si sia
verificata a inizio di seduta ma può anche constatarsi in
corso di seduta. In tali casi occorrerà tener presente che
non si avrà seduta di seconda convocazione per quegli
oggetti che siano stati rinviati oppure discussi ma non
deliberati, mentre si avrà seduta di seconda convocazione
per quei punti dell'ordine del giorno che non è stato
possibile trattare a causa della sopravvenuta mancanza del
numero legale».
Pertanto, si ritiene che la procedura adottata dall'ente sia
conforme alle previsioni regolamentari
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2012). |
VARI:
Autovelox, bacchettati i comuni con troppi box.
Negli armadietti posizionati a bordo
delle strade possono essere posizionati solo misuratori di
velocità omologati e compatibili con i manufatti di
contenimento. Ma senza il decreto del prefetto serve sempre
la presenza della pattuglia per accendere l'autovelox e
fermare i trasgressori che sfrecciano davanti ai vigili.
Lo ha chiarito la prefettura di Bergamo con la circolare
26.04.2012 n. 733 di prot., solo ora resa nota.
La questione dei box porta autovelox sta diventando molto
comune nei tratti stradali urbani. I sindaci hanno infatti
preso alla lettera le ultime modifiche del codice stradale e
disseminato le loro strade di armadietti che effettivamente
inducono i conducenti a moderare la velocità almeno in
prossimità dei misuratori.
L'uso effettivo dell'autovelox però nella generalità dei
casi deve avvenire con la presenza costante della pattuglia
che a parere dell'ufficio territoriale del governo di
Bergamo deve essere composta da almeno due operatori di
polizia stradale “che devono procedere alla contestazione
immediata delle violazioni”.
A dire il vero questo obbligo di fatto risulta ampiamente
superato dalla previsione normativa che ammette tra le cause
della mancata contestazione l'impiego di strumenti di
controllo in grado di immortalare il trasgressore troppo
tardi, a veicolo già transitato.
E anche la cassazione si è decisamente allineata a questa indicazione
lasciando intendere che la contestazione immediata delle
infrazioni per eccesso di velocità ormai appartiene al
passato. La prefettura evidenzia anche che all'interno di
questi manufatti devono “essere collocati esclusivamente
misuratori di velocità omologati e compatibili, sulla base
delle caratteristiche tecniche descritte nel manuale d'uso,
con il particolare tipo di box di contenimento”
(articolo ItaliaOggi del 30.08.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Passi carrabili, deroghe limitate. Distanze
inferiori ai 12 metri solo per gli accessi ante 1993.
Parere del ministero delle infrastrutture e
trasporti sui margini d'intervento dei comuni.
Per i passi carrabili i Comuni possono stabilire distanze
inferiori ai dodici metri dalle intersezioni solo per gli
accessi già esistenti prima del 1993. E non per tutti gli
accessi vige l'obbligo di posizionare il segnale con il
divieto di sosta.
Lo ha precisato il Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti con un parere del 20.03.2012, da poco reso noto.
Il nuovo codice della strada e il regolamento di esecuzione
e attuazione, entrati in vigore l'01.01.1993, hanno previsto
per la realizzazione e l'apertura dei passi carrabili regole
differenti rispetto a quelle contenute nel vecchio testo
unico sulla circolazione stradale del 1959. L'art. 46, comma
2, del regolamento stabilisce per la realizzazione dei passi
carrabili una distanza di almeno dodici metri dalle
intersezioni.
Però, il successivo comma 6 prevede che i Comuni hanno la
facoltà di autorizzare distanze inferiori per i passi
carrabili già esistenti prima del 1993, qualora sia
tecnicamente impossibile procedere all'adeguamento imposto
dall'art. 22, comma 2, del codice della strada. Al riguardo,
il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con il
parere del 20.03.2012, fa alcune importanti precisazioni.
La prescrizione relativa alla distanza dall'intersezione ha
carattere generale, senza specifiche relative al tipo di
strada, alla densità di traffico e alla geometria del passo
carrabile. La distanza deve essere calcolata a partire
dall'area di intersezione fino al margine più vicino del
manufatto che costituisce il passo carrabile e non dalla
mezzeria o da latri punti del manufatto stesso.
Fra i passi carrabili preesistenti rientrano anche le
aperture con regolare autorizzazione edilizia; ma non tutti
gli accessi sono anche passi carrabili. Secondo il
Ministero, infatti, sono da considerare passi carrabili
quelli definiti dall'art. 44, comma 4, del decreto
legislativo n. 507 del 15.11.1993, cioè i manufatti
costituiti generalmente da listoni di pietra od altro
materiale o da appositi intervalli lasciati nei marciapiedi
o, comunque, da una modifica del piano stradale intesa a
facilitare l'accesso dei veicoli alla proprietà privata.
Invece, vanno annoverati fra gli accessi carrabili i varchi
che, pur assolvendo alla stessa funzione dei passi
carrabili, sono posti al livello della strada e sono
realizzati senza un'opera visibile che renda concreta
l'occupazione e certa la superficie sottratta all'uso
pubblico. E solo per i passi carrabili vige l'obbligo di
apporre il segnale con il divieto di sosta.
Altro chiarimento infine con riferimento specifico ai passi
carrabili realizzati dopo l'01.01.1993; infatti, il
Ministero evidenzia che la distanza dalle intersezioni non è
derogabile con regolamento comunale, fatti salvi i casi
previsti dall'art. 22, comma 9, del codice della strada, in
sostanza nel caso di modifiche stradali intervenute per
costruzione di opere di pubblica utilità e realizzazione di
nuove intersezioni
(articolo ItaliaOggi del 30.08.2012). |
VARI: Autovelox
ok se visibili e segnalati.
Gli strumenti autovelox presidiati dalla polizia municipale
possono essere utilizzati su qualunque tratto stradale anche
senza necessità di contestazione immediata. Purché gli
impianti siano ben visibili, preventivamente segnalati e gli
agenti operino nell'ambito del territorio di competenza.
Lo ha ribadito il Ministero dei trasporti con il parere n.
734/2012.
Un comune ha richiesto chiarimenti sulle modalità operative
da adottare per l'espletamento dei servizi di controllo
elettronico della velocità. Qualora presidiati dagli organi
di polizia stradale, specifica la nota centrale, «i
dispositivi misuratori di velocità debitamente approvati
possono essere installati e impiegati su strade di qualunque
tipo nell'ambito del territorio comunale di competenza,
senza ulteriori formalità».
Come specificato anche dalla più recente giurisprudenza
(Corte di cassazione, sez. II civ., sentenza n. 484/2012) il
dl 121/2002, convertito nella legge 168/2002, non pone una
generalizzata esclusione dell'uso delle apparecchiature
elettroniche di rilevamento al di fuori delle strade prese
in considerazione «ma lascia, per contro, in vigore,
relativamente alle strade diverse da esse, le disposizioni
che consentono tale utilizzazione ma con l'obbligo della
contestazione immediata, salve le eccezioni espressamente
previste dall'art. 201, comma 1-bis, cod. strada».
In pratica la polizia municipale può tranquillamente
installare gli strumenti autovelox dove ritiene opportuno e
attivarli sotto il suo controllo, anche senza fermo del
veicolo, semplicemente evidenziando nel verbale una delle
ragioni che renda ammissibile la contestazione differita
dell'infrazione. Tra queste giustificazioni spicca quella
dell'impiego di uno strumento elettronico che permetta
l'accertamento solo contestualmente al passaggio del
trasgressore.
Circa la capacità di intervento dei vigili urbani su una
strada statale fuori centro abitato non c'è nessun dubbio.
La polizia municipale ha competenza estesa a tutte le strade
del territorio comunale con la sola eccezione delle
autostrade. Per questo motivo valgono gli accertamenti
svolti dai vigili in materia di circolazione stradale fuori
e dentro al centro abitato. Ma attenzione alla segnalazione
e alla visibilità dell'autovelox. Conclude infatti il
ministero evidenziando la necessità della massima
trasparenza
(articolo ItaliaOggi del 28.08.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Un
rebus normativo sul Sistri. Alla fine, contributo sospeso.
Il decreto con le semplificazioni alle procedure Sistri
(25.05.2012, n. 141, Gazzetta Ufficiale 196 del 23.08.2012)
stabilisce che «per l'anno 2012 il pagamento del
contributo deve essere effettuato entro il 30 novembre»
(si veda ItaliaOggi del 25/08/2012). Ma nel leggere il
decreto (firmato dal ministro dell'ambiente a maggio)
bisogna tener conto di quanto del dl 83/2012, convertito
nella legge 134/2012, che dispone la sospensione del termine
di operatività del Sistri e dei conseguenti adempimenti per
le imprese.
L'art. 52, comma 1, della legge n. 134 prevede, infatti, che
il termine di entrata in operatività del Sistri è sospeso
(...) non oltre il 30.06.2013, unitamente a ogni adempimento
informatico relativo. Il successivo comma 2 dispone, che «con
decreto del ministro dell'ambiente è fissato il nuovo
termine per l'entrata in operatività del Sistri e, sino a
tale termine (...) è altresì sospeso il pagamento dei
contributi dovuti dagli utenti per l'anno 2012».
In base al dl, la sospensione del Sistri va a braccetto con
la sospensione del pagamento del contributo.
Ma perché il decreto ministeriale del 25.05.2011
introduce inutilmente il termine del 30 novembre? La ragione
è in un comunicato stampa del 20 aprile del ministero
dell'ambiente che annuncia che lo stesso «sta procedendo a
una revisione del sistema Sistri in modo da semplificare e
rendere più efficienti le procedure» e «nell'ambito di
questo lavoro (_) è stato concordato un differimento al
30.11.2012 del termine per il pagamento dei contributi per
l'anno in corso, che scadeva il 30 aprile prossimo».
Il termine del 30 novembre è stato, quindi, inserito nel dm
del 25 maggio. Per effetto però dell'art. 52, comma 2 della
legge n. 134, l'entrata in operatività del Sistri sarà
affidata a un nuovo decreto ministeriale, che rimuoverà
anche la sospensione del pagamento del contributo. A meno
che non intervenga in materia una nuova legge che possa
superare quanto disposto dall'art. 52, comma 2 citato
(articolo ItaliaOggi del 28.08.2012). |
VARI:
Fotovoltaico,
bonus con distinguo.
Incentivi differenziati per kWh ceduti o autoconsumati.
Ai blocchi di partenza la tariffa relativa al
quinto conto energia: serve la preiscrizione ai registri.
Nuova tariffa incentivante per gli impianti fotovoltaici
allacciati con differenze a seconda che l'energia prodotta
venga autoconsumata o ceduta in rete, necessaria
preiscrizione in appositi registri a eccezione di impianti
con potenza inferiore a 12 kW, quelli oltre i 12 kW ma non
oltre i 20 kW seppur con una riduzione dell'incentivo del
20% o quelli fino a 50 kW laddove sostituiscano tetti in
amianto.
Tariffe migliorative, infine, per impianti con determinate
caratteristiche innovative e premi aggiuntivi sulla tariffa
incentivante per impianti con moduli e gruppi di conversione
prodotti in paesi Ue o che abbiano sostituito tetti in
eternit o amianto.
Sono le principali novità del quinto
conto energia così come da decreto ministeriale del 5 luglio
entrate, in vigore dal 27.08.2012.
Resta l'incognita delle risorse messe a disposizione dal
governo (6,7 miliardi di euro di incentivi) che potrebbero
terminare molto prima dei cinque semestri previsti dal
decreto: la corsa contro il tempo è appena iniziata.
La nuova tariffa: omincomprensiva o premiale. A partire
dalla data odierna, il meccanismo della tariffa incentivante
subirà forti cambia-menti rispetto al passato. Il decreto
ministeriale del 5 luglio infatti ha diviso la stessa in due
grandi blocchi: la omnicomprensiva e la premiale. Mentre nel
primo caso trattasi di una tariffa comprensiva della
rivendita dell'energia prodotta a un prezzo fisso oltre che
della tariffa incentivante, nel secondo si fa riferimento a
un premio per l'energia prodotta consumata dall'utente alla
quale si dovrà evidentemente sommare il risparmio per il
mancato acquisto della stessa (si veda la tabella in
pagina).
Da ciò deriva un chiaro vantaggio per tutti coloro
che intendano consumare l'energia prodotta vale a dire per i
piccoli impianti domestici o per quelli sopra i fabbricati
di imprese industriali il cui fine ultimo non è certo quello
di rivendere energia quanto di consumarla. Tenendo a mente
che acquistare energia ha un costo medio che si aggira
intorno ai 20 centesimi per KWh e che l'incentivo di un
impianto di 5 kW è pari a 11,4 centesimi, si avrebbe un
beneficio totale di 31,4 centesimi, somma quest'ultima ben
maggiore rispetto ai 19,6 centesimi previsti dalla tariffa
omnicomprensiva.
Va da sé dunque che, per impianti non
eccessivamente grandi il periodo di payback dell'impianto
sarà molto più basso nel primo piuttosto che nel secondo
caso: la realizzazione di un grande impianto fotovoltaico
invece, seppur vanterà una tariffa incentivante più bassa,
godrà di un prezzo di realizzazione per kW molto più
conveniente il che renderebbe l'investimento ugualmente
attraente o, addirittura, di maggior appeal.
L'iscrizione in appositi registri. L'altra importante novità
del quinto conto energia riguarda la preiscrizione in
appositi registri per l'installazione di nuovi impianti
fotovoltaici. Anche sotto tale aspetto, il nuovo conto
energia sembrerebbe agevolare fortemente gli impianti di
piccola taglia a discapito di quelli più grandi: al fine
dell'ottenimento degli incentivi infatti, la prescrizione
non sarà obbligatoria solamente per coloro che intendano
allacciare un impianto con potenza minore di 12 kW, per
coloro il cui impianto abbia una potenza maggiore di 12 kW
ma non superiore a 20 kW e che, allo stesso tempo, rinuncino
al 20% degli incentivi previsti e in ultimo, per coloro i
cui impianti raggiungano una potenza fino a 50 kW ma che
vadano a sostituire tetti in amianto.
Coloro invece che dovranno effettuare la suddetta
preiscrizione, si troveranno di fronte a delle importanti
limitazioni. Il decreto evidenzia infatti un limite
quantitativo ed uno temporale: quello quantitativo prevede
che il primo registro avrà un limite di costo di 140 milioni
di euro, il secondo di 120 milioni ed i successivi di 80
milioni sino al limite di costo del quinto conto energia
(700 milioni). Il limite temporale invece fa riferimento al
fatto che ciascun registro potrà essere aperto non prima di
sei mesi dall'apertura del precedente.
Sulla base di tali limitazioni, diventerà dunque
fondamentale conoscere i criteri di priorità con cui
accedere alle graduatorie. Nell'ordine, impianti su edifici
con classe energetica D o superiore in sostituzione di
coperture in eternit o amianto, impianti su edifici con
classe energetica D o superiore, impianti su edifici in
sostituzione di coperture in eternit o amianto, impianti che
utilizzino componentistica Ue/See, impianti realizzati in
siti contaminati, impianti realizzati su terreni del demanio
militare, impianti realizzati in discariche esaurite, in
cave dismesse, su miniere esaurite, impianti con potenza
sino a 200 kW asserviti ad attività produttive, impianti
realizzati nell'ordine su edifici, su serre, su pergole, su
tettoie, su pensiline e su barriere acustiche (articolo ItaliaOggi
Sette del 27.08.2012 - tratto da www.corteconti.it). |
SICUREZZA
LAVORO:
La cartella
sanitaria è d'obbligo.
Rischia l'arresto il medico che non inserisce e aggiorna i
dati. Lo prevede il T.u. sicurezza
per i lavoratori esposti a rischio. Prima scadenza il 30.06.2013.
Rischia l'arresto il medico competente che non istituisce,
aggiorna e custodisce la cartella sanitaria e di rischio con
riferimento ai singoli lavoratori. È entrato in vigore il 25
agosto il decreto 09.07.2012 che individua i contenuti
della cartella sanitaria e le modalità di trasmissione
annuale al servizio sanitario da parte dei medici
competenti, come previsto dall'articolo 40 del Tu sicurezza
(dlgs n. 81/2008).
Per un anno, tuttavia, vigerà un periodo transitorio che
sposta la scadenza del termine della prima trasmissione dei
dati (relativi al 2012) dal 31 marzo (termine ordinario) al
30 giugno 2013, e sospende la sanzione a carico dei medici
inadempienti (da 1.000 a 4 mila euro).
Il medico competente. Il T.u. sicurezza definisce «medico
competente» il medico in possesso di uno di titoli e
requisiti, formativi e professionali indicati dallo stesso
T.u., nominato dal datore di lavoro per effettuare la
sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti
previsti dalla disciplina della sicurezza sul lavoro; nonché
per collaborare (sempre con il datore di lavoro) ai fini
della valutazione dei rischi.
In primo luogo, dunque, il
medico competente è tenuto a collaborare con il datore di
lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione alla
valutazione dei rischi, anche ai fini della programmazione,
se necessario, della sorveglianza sanitaria, alla
predisposizione della attuazione delle misure per la tutela
della salute ed integrità psico-fisica dei lavoratori,
all'attività di formazione e informazione nei confronti dei
lavoratori, per la parte di competenza, e all'organizzazione
del servizio di primo soccorso considerando i particolari
tipi di lavorazione ed esposizione e peculiari modalità
organizzative del lavoro.
La sorveglianza sanitaria. Il medico competente, inoltre,
deve programmare ed effettuare la sorveglianza sanitaria in
azienda, attraverso protocolli sanitari definiti in funzione
dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli
indirizzi scientifici più avanzati. A tal fine, deve
istituire, aggiornare e custodire, sotto la propria
responsabilità, una cartella sanitaria e di rischio per ogni
lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria.
Tale
cartella è conservata con salvaguardia del segreto
professionale e, salvo il tempo strettamente necessario per
l'esecuzione della sorveglianza sanitaria e la trascrizione
dei relativi risultati, presso il luogo di custodia
concordato al momento della nomina del medico competente.
Alla cessazione dell'incarico professionale, è tenuto a
consegnare al datore di lavoro la documentazione sanitaria
in suo possesso, nel rispetto delle disposizioni sulla
privacy (dlgs n. 196/2003), e con salvaguardia del segreto
professionale.
Mentre alla cessazione del rapporto di lavoro
deve consegnare al lavoratore copia della cartella sanitaria
e di rischio, e deve fornirgli le informazioni necessarie
relative alla conservazione della medesima. L'originale
della cartella di rischio e sanitaria va conservata, nel
rispetto della privacy, da parte del datore di lavoro, per
almeno dieci anni, salvo il diverso termine previsto da
altre disposizioni del T.u. ... (articolo
ItaliaOggi Sette del 27.08.2012). |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA: Il
vincolo conformativo viene tenuto distinto da quello
espropriativo sulla base delle seguenti caratteristiche, non
necessariamente cumulative:
a) investe una generalità di beni e di soggetti
indipendentemente dal successivo instaurarsi di procedure
espropriative;
b) destina parti del territorio comunale ad usi pubblici
operando nell'ambito della mera zonizzazione;
c) consente la realizzazione dell’intervento di interesse
pubblico a cura dei privati senza necessità di previa
espropriazione.
Facendo applicazione in concreto di questi criteri si
potrebbero qualificare come soltanto conformative tutte le
zonizzazioni relative a servizi che costituiscono standard
urbanistico quando manchi la contestuale localizzazione di
un’opera pubblica specifica o quando sia attribuita ai
privati la possibilità di realizzare l’intervento in
alternativa all’ente pubblico.
Il vincolo conformativo è in buona sostanza funzionale
all'interesse pubblico generale conseguente alla
zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che
definisce i caratteri generali dell'edificabilità in
ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio
comunale: mentre esso definisce per zone, in via astratta e
generale, le possibilità edificatorie connesse al diritto
dominicale, il vincolo espropriativo incide su beni
determinati in funzione della localizzazione puntuale di
un’opera pubblica ed ha portata e contenuto direttamente
ablatori.
---------------
La mancata previsione dell'indennizzo per la reiterazione di
un vincolo espropriativo non costituisce causa di
illegittimità dello strumento urbanistico salva la
possibilità di una pronuncia che accerti la natura
espropriativa del vincolo, mentre la concreta
quantificazione dell’indennizzo è poi rimessa al giudice
ordinario ai sensi dell'art. 39, comma 4, e dell’art. 53,
comma 2, del D.P.R. 327/2001.
Sul punto la giurisprudenza di questo Tribunale
(cfr. sentenza sez. I – 08/07/2009 n. 1460) ha sottolineato
che “il vincolo conformativo viene tenuto distinto
da quello espropriativo sulla base delle seguenti
caratteristiche, non necessariamente cumulative: a) investe
una generalità di beni e di soggetti indipendentemente dal
successivo instaurarsi di procedure espropriative (v. Cass.
civ. Sez. I 27.02.2004 n. 3966); b) destina parti del
territorio comunale ad usi pubblici operando nell'ambito
della mera zonizzazione (v. Cass. civ. SU 25.11.2008 n.
28051); c) consente la realizzazione dell’intervento di
interesse pubblico a cura dei privati senza necessità di
previa espropriazione (v. C.Cost. 20.05.1999 n. 179; CS Sez.
IV 10.07.2007 n. 3880). Facendo applicazione in concreto di
questi criteri si potrebbero qualificare come soltanto
conformative tutte le zonizzazioni relative a servizi che
costituiscono standard urbanistico quando manchi la
contestuale localizzazione di un’opera pubblica specifica o
quando sia attribuita ai privati la possibilità di
realizzare l’intervento in alternativa all’ente pubblico”.
Il vincolo conformativo è in buona sostanza funzionale
all'interesse pubblico generale conseguente alla
zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che
definisce i caratteri generali dell'edificabilità in
ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio
comunale (Consiglio di Stato, sez. IV – 19/01/2012 n. 243):
mentre esso definisce per zone, in via astratta e generale,
le possibilità edificatorie connesse al diritto dominicale,
il vincolo espropriativo incide su beni determinati in
funzione della localizzazione puntuale di un’opera pubblica
ed ha portata e contenuto direttamente ablatori (TAR
Liguria, sez. I – 17/11/2011 n. 1579).
Tuttavia con la sopra
citata pronuncia n. 1460/2009 questo Tribunale ha
manifestato attenzione (cfr. par. 14) alle esigenze di
tutela della proprietà, già valorizzate dalla giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo, presso la quale è
costante il giudizio negativo verso le forme indirette di
espropriazione, con particolare riguardo all’accessione
invertita, di cui viene censurato sia lo scopo di ratifica
di un comportamento illegale sia l’effetto di riduzione
della sicurezza giuridica, mentre considerazioni analoghe
sotto quest’ultimo profilo sono svolte a proposito dei
vincoli espropriativi contenuti negli atti di pianificazione
urbanistica.
La Corte ha censurato la situazione di
incertezza in cui sono posti i titolari del diritto di
proprietà nonché i disagi derivanti dal divieto di costruire
e dalla diminuzione delle opportunità di vendita, in
particolare quando non sia dimostrato un possibile uso
alternativo del bene (v. CEDU Sez. I 15.07.2004 n.
36815/97, Scordino, punti 71, 94-99). Secondo la Corte,
verificandosi queste condizioni, l’equilibrio deve essere
ristabilito mediante un indennizzo, e la necessità di un
indennizzo svela la natura sostanzialmente espropriativa del
vincolo. La pronuncia di questo Tribunale ha altresì
ritenuto ininfluente (cfr. par. 15) la possibilità per il
proprietario di eseguire l’intervento in luogo
dell’amministrazione, tranne quando egli vanti delle qualità
particolari collegate alle destinazioni urbanistiche ammesse
o disponga di un’organizzazione e di mezzi economici che gli
consentano di eseguire effettivamente, e in modo
vantaggioso, il suddetto intervento.
In proposito va osservato
che la mancata previsione dell'indennizzo per la
reiterazione di un vincolo espropriativo non costituisce
causa di illegittimità dello strumento urbanistico
(Consiglio di Stato, sez. IV – 06/05/2010 n. 2627) salva la
possibilità di una pronuncia che accerti la natura
espropriativa del vincolo, mentre la concreta
quantificazione dell’indennizzo è poi rimessa al giudice
ordinario ai sensi dell'art. 39, comma 4, e dell’art. 53, comma
2, del D.P.R. 327/2001.
Alla luce della disposizione da
ultimo citata ad identica conclusione –circa la carenza di
giurisdizione di questo Tribunale– si perviene per la
determinazione dell’indennità di esproprio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 31.08.2012 n. 1483 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA
LAVORO: Cassazione
sulla mancata visita. Sicurezza, risponde il responsabile.
Se c'è un responsabile della sicurezza il datore di lavoro
non risponde per la mancata visita medica ai dipendenti.
Lo
ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione che, con la
sentenza 30.08.2012 n. 33521, ha annullato con
rinvio la condanna a carico di un imprenditore sorpreso
dall'ispettorato con alcuni dipendenti che non avevano fatto
la visita per il lavoro notturno.
Il caso ad Ancona. Un 61enne era stato accusato per non aver
fatto visitare due dipendenti addetti al lavoro notturno.
Quindi era scattata la sanzione. Il tribunale e la Corte
d'appello avevano confermato la responsabilità penale
dell'uomo. Verdetto completamente ribaltato dalla Suprema
corte cui l'imprenditore si è rivolto sostenendo che in
azienda era presente un responsabile della sicurezza,
regolarmente nominato, che avrebbe dovuto provvedere al
rispetto delle norme antinfortunistiche.
La tesi è stata accolta dalla sezione feriale della Suprema
corte di cassazione. Ad avviso degli Ermellini, infatti,
«laddove ci sia un responsabile della sicurezza, è
quest'ultimo che deve attivarsi per il rispetto delle norme
antinfortunistiche. Quindi è rilevante accertare se in
azienda vi sia stato, o no, un responsabile della sicurezza,
fermo restando comunque che il datore di lavoro ha un
generale obbligo di vigilare in ordine al corretto
espletamento da parte di quest'ultimo delle attività a lui
delegate e concernenti l'adozione delle misure di
prevenzione degli infortuni sul lavoro».
Ora la causa tornerà ad altra sezione della Corte d'appello
di Perugia che, nel decidere dovrà uniformarsi al principio
di diritto sancito in sede di legittimità
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’intervento
di sostituzione della “precaria e
fatiscente tettoia di protezione del terrazzo pertinenziale
con materiali più idonei” costituisce senza dubbio alcuno
“nuova costruzione”, tale da necessitare di previo rilascio
di titolo abilitativo.
--------------
Interventi edilizi come nel caso di specie (la realizzazione
di un solaio di copertura in cemento armato, poggiato su
immobile abusivo già oggetto di condono, in sostituzione di
precedente copertura in lamiera ed avente una copertura di
mq 76 con altezza di cm 30) innovano il preesistente
immobile in quanto si perviene ad un manufatto del tutto
nuovo per consistenza e materiali utilizzati, come tale non
riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato
sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a
tali significative modificazioni si impone di conseguenza la
verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa
concessione edilizia.
Con il provvedimento indicato in epigrafe
il commissario prefettizio del Comune di Vico Equense
rilevava la presenza di opere abusive all’interno del
terreno di proprietà del ricorrente, sito in località
Montechiaro alla via Casini, consistenti, in particolare,
nella realizzazione di un solaio di copertura in cemento
armato, poggiato su immobile abusivo già oggetto di condono,
in sostituzione di precedente copertura in lamiera ed avente
una copertura di mq 76 con altezza di cm 30.
Veniva dunque ordinata la demolizione di tali opere.
Il provvedimento suddetto veniva impugnato per violazione
dell’art. 7 della legge n. 47 del 1985 e degli artt. 31 e 38
della legge n. 457 del 1978, non essendovi stata alcuna
modificazione dei luoghi mediante creazione di nuove
superfici oppure incrementi di volume.
Si costituiva in giudizio l’amministrazione comunale
intimata per chiedere il rigetto del gravame.
Alla pubblica udienza del 07.06.2012 la causa veniva
infine trattenuta in decisione.
Tutto ciò premesso, e ritenuto che si tratta di sostituzione
di un tetto in lamiera mediante una copertura in cemento
armato, si richiama per tutte la recente decisione di questo
TAR (sez. III, 12.03.2012, n. 1246) nella quale si è
affermato che l’intervento di sostituzione della “precaria e
fatiscente tettoia di protezione del terrazzo pertinenziale
con materiali più idonei” costituisce senza dubbio alcuno
“nuova costruzione”, tale da necessitare di previo rilascio
di titolo abilitativo.
Interventi come quelli di specie, secondo la giurisprudenza,
innovano infatti il preesistente immobile in quanto si
perviene ad un manufatto del tutto nuovo per consistenza e
materiali utilizzati, come tale non riconducibile a quello
già esistente che anzi viene alterato sia dal punto di vista
morfologico che funzionale: dinanzi a tali significative
modificazioni si impone di conseguenza la verifica di
compatibilità delle opere a mezzo della previa concessione
edilizia (cfr. TAR Toscana, sez. III, 26.02.2010, n.
516; Cons. Stato, sez. VI, 09.09.2005, n. 4668)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 30.08.2012 n. 3739 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Nelle
gare per l'affidamento dei contratti pubblici un'offerta non
può ritenersi senz'altro anomala ed essere assoggettata ad
esclusione, per il solo fatto che il costo del lavoro è
stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti
dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi.
L'esclusione deve infatti essere comminata solo se la
discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata.
I dati risultanti dalle tabelle ministeriali non
costituiscono parametri assoluti e inderogabili ma,
precipuamente nella sezione relativa alle ore medie annue
non lavorate, sono indici del giudizio di adeguatezza
dell'offerta e pertanto suscettibili di scostamento in
relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali
svolte dall'offerente, la cui congruità deve essere
ragionevolmente valutata dalla stazione appaltante.
Con riferimento invece all’incongruità dell’offerta in
relazione al costo del lavoro esposto, occorre innanzitutto
richiamare, ai fini del decidere, il consolidato principio
giurisprudenziale, ribadito di recente dal TAR Toscana, sez.
I, sent. n 351/2012, “secondo cui nelle gare per
l'affidamento dei contratti pubblici un'offerta non può
ritenersi senz'altro anomala ed essere assoggettata ad
esclusione, per il solo fatto che il costo del lavoro è
stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti
dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi.
L'esclusione deve infatti essere comminata solo se la
discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata”
(così anche TAR Piemonte I, 26.02.2011 n. 214).
Occorre ricordare altresì che “è stato anche affermato
che i dati risultanti dalle tabelle ministeriali non
costituiscono parametri assoluti e inderogabili ma,
precipuamente nella sezione relativa alle ore medie annue
non lavorate, sono indici del giudizio di adeguatezza
dell'offerta e pertanto suscettibili di scostamento in
relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali
svolte dall'offerente, la cui congruità deve essere
ragionevolmente valutata dalla stazione appaltante” (TAR
Campania Napoli VIII, 02.07.2010 n. 16568)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 30.08.2012 n. 2200 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’installazione
di una antenna, visibile dai luoghi circostanti, comporta
alterazione del territorio avente rilievo ambientale ed
estetico, sicché, ai sensi dell’art. 1 della legge
28.01.1977 n. 10, essa è soggetta al rilascio di concessione
edilizia.
Tale principio giurisprudenziale è stato recepito dal T.U.
n. 380 del 06.06.2001, il quale, all’art. 3, assoggetta a
permesso di costruire (è questa la nuova denominazione della
concessione edilizia) “l’installazione di torri e tralicci
per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i
servizi di telecomunicazione”, in quanto “interventi di
nuova costruzione”.
Anche il nuovo Codice delle Comunicazioni ha previsto
specifici procedimenti di autorizzazione per le
infrastrutture di comunicazione.
Ciò premesso, appare evidente come la modestia dell’impianto
installato (antenna di altezza pari a circa 4 metri) escluda
la necessità di una concessione edilizia, poiché non
comporta una trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio tale da alterare stabilmente lo stato di luoghi.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 197 del 23.08.2001
a firma del Responsabile U.O. Edilizia privata del comune di
Bollate di demolizione di una stazione radio base per
telefonia cellulare in Bollate, e di ogni altro atto
presupposto, tra cui gli artt. 12 e 20 del vigente
regolamento edilizio ed il provvedimento ignoto di
archiviazione della pratica edilizia in data 03.07.2001.
...
In particolare, appare evidente come la modestia
dell’impianto installato (antenna di altezza pari a circa 4
metri) escluda la necessità di una concessione edilizia,
poiché non comporta una trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio tale da alterare stabilmente lo
stato di luoghi.
Invero, “deve essere richiamato il costante orientamento
giurisprudenziale secondo il quale l’installazione di una
antenna, visibile dai luoghi circostanti, comporta
alterazione del territorio avente rilievo ambientale ed
estetico, sicché, ai sensi dell’art. 1 della legge
28.01.1977 n. 10, essa è soggetta al rilascio di concessione
edilizia (per tutte, C.S., sez. V, 06.04.1998, n. 415). Tale
principio giurisprudenziale è stato recepito dal T.U. n. 380
del 06.06.2001, il quale, all’art. 3, assoggetta a permesso
di costruire (è questa la nuova denominazione della
concessione edilizia) “l’installazione di torri e tralicci
per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i
servizi di telecomunicazione”, in quanto “interventi di
nuova costruzione”. Anche il nuovo Codice delle
Comunicazioni ha previsto specifici procedimenti di
autorizzazione per le infrastrutture di comunicazione (artt.
87 e 88 del D.lgs. 01.08.2003, n. 259)” (così, Cons. di
Stato, sez. IV, n. 3193/2004).
Siccome nel caso di specie il manufatto di cui si discute
non può essere paragonato ad un traliccio o ad una torre, ma
più appropriatamente ad una mera antenna, esso, per
dimensioni e volume, appare sottratto al regime
autorizzatorio evidenziato dal comune nel suo provvedimento.
Di conseguente, l’atto impugnato va annullato; sussistono
peraltro gravi ragioni, in relazione alle oscillazioni
interpretative che hanno caratterizzato in giurisprudenza la
materia de qua, per compensare le spese del giudizio tra le
parti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 30.08.2012 n. 2198 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: La
realizzazione di un’opera pubblica su fondo illegittimamente
occupato, ovvero legittimamente occupato ma non espropriato
nei termini di legge, non è di per sé in grado di
determinare il trasferimento della proprietà del bene a
favore della Amministrazione: deve infatti ritenersi ormai
superato l’orientamento che riconnetteva alla costruzione
dell’opera pubblica ed alla irreversibile trasformazione del
fondo che ad essa conseguiva effetti preclusivi o limitativi
della tutela in forma specifica del privato, dovendo invece
affermarsi che la suddetta trasformazione su fondo
illegittimamente occupato integra un mero fatto non in grado
di assurgere a titolo d’acquisto.
Il diritto di proprietà, d’altro canto, non può essere fatto
oggetto di atti abdicativi, e quindi anche la richiesta di
risarcimento formulata dal privato, finalizzata ad ottenere
il mero controvalore del fondo compromesso dalla
realizzazione dell’opera pubblica, ancorché interpretata
quale manifestazione della volontà di rinunciare alla
proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al
privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente
occupato dall’opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale
atto di acquisizione del fondo riconducibile ad un negozio
giuridico, ad decreto espropriativo adottato all’esito di un
rinnovato procedimento di pubblica utilità ovvero, se del
caso, ad un provvedimento ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001 può
precludere la restituzione del bene: di guisa che in assenza
di un tale atto è obbligo primario della Amministrazione
quello di restituire il fondo illegittimamente appreso. Correlativamente, mantenendo il
privato la proprietà di questo ultimo, egli non ha alcun
titolo per chiedere un risarcimento commisurato alla perdita
della proprietà o della disponibilità fondo, potendo invece
agire per la restituzione di esso e per il risarcimento del
danno conseguente al mancato godimento del bene durante il
periodo di occupazione illegittima.
E’ ormai consolidato in giurisprudenza il
principio per cui la realizzazione di un’opera pubblica su
fondo illegittimamente occupato, ovvero legittimamente
occupato ma non espropriato nei termini di legge, non è di
per sé in grado di determinare il trasferimento della
proprietà del bene a favore della Amministrazione: deve
infatti ritenersi ormai superato l’orientamento che
riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica ed alla
irreversibile trasformazione del fondo che ad essa
conseguiva effetti preclusivi o limitativi della tutela in
forma specifica del privato, dovendo invece affermarsi che
la suddetta trasformazione su fondo illegittimamente
occupato integra un mero fatto non in grado di assurgere a
titolo d’acquisto (TAR Puglia-Bari sez. III n. 2131/2008; TAR
Puglia-Bari sez. I n. 3402/2010, confermata da C.d.S. sez. IV n. 4590/2011; C.d.S. sez. IV n. 4970/2011; C.d.S. sez. IV
n. 3331/2011).
Il diritto di proprietà, d’altro canto, non può essere fatto
oggetto di atti abdicativi (TAR Puglia-Bari sez. III n.
2131/2008, par. 6.1.2), e quindi anche la richiesta di
risarcimento formulata dal privato, finalizzata ad ottenere
il mero controvalore del fondo compromesso dalla
realizzazione dell’opera pubblica, ancorché interpretata
quale manifestazione della volontà di rinunciare alla
proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al
privato la perdita di proprietà del fondo illegittimamente
occupato dall’opera pubblica.
Discende da quanto sopra che in tali casi solo un formale
atto di acquisizione del fondo riconducibile ad un negozio
giuridico, ad decreto espropriativo adottato all’esito di un
rinnovato procedimento di pubblica utilità ovvero, se del
caso, ad un provvedimento ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001 può
precludere la restituzione del bene: di guisa che in assenza
di un tale atto è obbligo primario della Amministrazione
quello di restituire il fondo illegittimamente appreso
(C.d.S. n. 4970/2011). Correlativamente, mantenendo il
privato la proprietà di questo ultimo, egli non ha alcun
titolo per chiedere un risarcimento commisurato alla perdita
della proprietà o della disponibilità fondo, potendo invece
agire per la restituzione di esso e per il risarcimento del
danno conseguente al mancato godimento del bene durante il
periodo di occupazione illegittima (TAR Puglia-Bari sez. II
n. 2131/2008)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 30.08.2012 n. 985 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Non
è il mero decorso del tempo dalla realizzazione di un’opera
abusiva a determinare la illegittimità del relativo ordine
di demolizione: vero è, piuttosto, che tale illegittimità
deriva dalla lesione dell’affidamento che l’interessato
abbia riposto sulla legittimità dell’opera (invece) abusiva
e pertanto postula che l’interessato alleghi e dia
dimostrazione degli elementi che avevano determinato
l’insorgere di tale affidamento.
--------------
Ai fini della emissione della ingiunzione di demolizione il
legislatore non ha mai richiesto la preventiva adozione
dell’ordinanza di sospensione lavori (che ha senso quando
l’abuso sia rilevato ad opere non ultimate) né la perdurante
efficacia della stessa: l’ordinanza di sospensione dei
lavori non è, insomma, presupposto necessario della
ingiunzione di demolizione.
La mancata dimostrazione relativa all’epoca di
realizzazione del manufatto implica anche l’infondatezza
della terza censura, a mezzo della quale si lamenta che
l’ordine di demolizione è intervenuto a molti anni di
distanza dalla realizzazione della costruzione abusiva.
Al proposito va comunque rammentato che non è il mero
decorso del tempo dalla realizzazione di un’opera abusiva a
determinare la illegittimità del relativo ordine di
demolizione: vero è, piuttosto, che tale illegittimità
deriva dalla lesione dell’affidamento che l’interessato
abbia riposto sulla legittimità dell’opera (invece) abusiva
e pertanto postula che l’interessato alleghi e dia
dimostrazione degli elementi che avevano determinato
l’insorgere di tale affidamento, ciò che nella specie la
ricorrente non ha fatto.
Non essendovi certezza in ordine all’epoca di
realizzazione del manufatto allo stato non è possibile
stabilire quale strumento urbanistico fosse eventualmente in
vigore al momento in cui l’abuso veniva consumato e quale
destinazione urbanistica fosse stata impressa al sito: da
qui l’infondatezza della quarta censura.
Priva di pregio è infine anche la quinta censura: ai fini
della emissione della ingiunzione di demolizione il
legislatore non ha mai richiesto la preventiva adozione
dell’ordinanza di sospensione lavori (che ha senso quando
l’abuso sia rilevato ad opere non ultimate) né la perdurante
efficacia della stessa: l’ordinanza di sospensione dei
lavori non è, insomma, presupposto necessario della
ingiunzione di demolizione (TAR Napoli, sentenza n.
19290/2008)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 30.08.2012 n. 984 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Il
bando è lo strumento tramite il quale le amministrazioni
aggiudicatrici possono affidare la realizzazione di lavori
pubblici o di lavori di pubblica utilità ponendo a base di
gara uno studio di fattibilità: è infatti finalizzato alla
presentazione di offerte con utilizzo di risorse totalmente
o parzialmente a carico dei soggetti proponenti.
È questa la caratteristica che
distingue la finanza di progetto dall'affidamento mediante
concessione ai sensi dell'articolo 143, D.Lgs. n. 163/2006
rispetto al quale essa è alternativa. Anche l’affidamento in
concessione ha, di regola, ad oggetto la progettazione
definitiva e/o esecutiva e l'esecuzione di opere pubbliche o
di pubblica utilità e di lavori strutturalmente e
direttamente collegati nonché la loro gestione funzionale ed
economica ma, diversamente dalla finanzia di progetto, il
loro finanziamento è totalmente a carico dell’ente pubblico.
Allo stesso modo in cui la progettazione e gestione delle
opere pubbliche o di pubblica utilità è oggetto di
concessione di servizi, lo studio di fattibilità costituisce oggetto del project financing in quanto condiziona la scelta del
promotore nell’ambito della gara nella quale è effettuata la
valutazione comparativa delle diverse proposte sulla scorta
dei criteri selettivi e requisiti prestabiliti.
È in esito
alla gara con a base lo studio di fattibilità che il
promotore diviene senz'altro aggiudicatario, previe
eventuali modifiche progettuali o si apre la successiva
negoziazione, nella quale al promotore è riconosciuto il
diritto di prelazione o, in alternativa, il diritto al
rimborso forfetario delle spese sostenute per la
presentazione della proposta nella misura del 2,5% del
valore dell'investimento.
Nella finanza di progetto, lo studio di
fattibilità dell'opera pubblica o di pubblica utilità
esplicita i contenuti e le previsioni degli atti di
programmazione, costituendo il limite oltre il quale non può
spingersi la facoltà propositiva del privato.
È pertanto
inscindibilmente connesso al bando finalizzato alla
presentazione di offerte rispetto al quale non esprime
alcuna efficacia provvedimentale autonoma come necessario
affinché lo stesso possa essere autonomamente impugnato.
Nella sistematica dell’art. 153, D.Lgs. 12.04.2006, n. 153 il bando è lo strumento tramite il quale
le amministrazioni aggiudicatrici possono affidare la
realizzazione di lavori pubblici o di lavori di pubblica
utilità ponendo a base di gara uno studio di fattibilità: è
infatti finalizzato alla presentazione di offerte con
utilizzo di risorse totalmente o parzialmente a carico dei
soggetti proponenti.
È questa la caratteristica che
distingue la finanza di progetto dall'affidamento mediante
concessione ai sensi dell'articolo 143, D.Lgs. n. 163/2006
rispetto al quale essa è alternativa. Anche l’affidamento in
concessione ha, di regola, ad oggetto la progettazione
definitiva e/o esecutiva e l'esecuzione di opere pubbliche o
di pubblica utilità e di lavori strutturalmente e
direttamente collegati nonché la loro gestione funzionale ed
economica ma, diversamente dalla finanzia di progetto, il
loro finanziamento è totalmente a carico dell’ente pubblico.
Allo stesso modo in cui la progettazione e gestione delle
opere pubbliche o di pubblica utilità è oggetto di
concessione di servizi (Cons. St., sez. IV, 09.05.2001,
n. 2600), lo studio di fattibilità costituisce oggetto del
project financing in quanto condiziona la scelta del
promotore nell’ambito della gara nella quale è effettuata la
valutazione comparativa delle diverse proposte sulla scorta
dei criteri selettivi e requisiti prestabiliti. È in esito
alla gara con a base lo studio di fattibilità che il
promotore diviene senz'altro aggiudicatario, previe
eventuali modifiche progettuali o si apre la successiva
negoziazione, nella quale al promotore è riconosciuto il
diritto di prelazione o, in alternativa, il diritto al
rimborso forfetario delle spese sostenute per la
presentazione della proposta nella misura del 2,5% del
valore dell'investimento (Cons. St. ad. plen., 28.01.2012, n. 1).
Nella finanza di progetto, lo studio di
fattibilità dell'opera pubblica o di pubblica utilità
esplicita i contenuti e le previsioni degli atti di
programmazione, costituendo il limite oltre il quale non può
spingersi la facoltà propositiva del privato (TAR Sicilia
Palermo, sez. III, 07.07.2009, n. 1207).
È pertanto
inscindibilmente connesso al bando finalizzato alla
presentazione di offerte rispetto al quale non esprime
alcuna efficacia provvedimentale autonoma come necessario
affinché lo stesso possa essere autonomamente impugnato
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 30.08.2012 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
fini edilizi si intende per pergolato un manufatto avente
natura ornamentale realizzato in struttura leggera di legno
o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in
quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante
rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o
ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
Mentre il pergolato costituisce una struttura aperta sia nei
lati esterni che nella parte superiore ed è destinato a
creare ombra, la tettoia può essere utilizzata anche come
riparo ed aumenta l’abitabilità dell’immobile.
Circa la nozione
di pergolato, va rilevato che (cfr. Cons. St. Sez. IV
29.09.2011 n. 5409) “ai fini edilizi si intende per
pergolato un manufatto avente natura ornamentale realizzato
in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo
peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta,
che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le
quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di
modeste dimensioni”.
Al riguardo è stato altresì osservato (cfr. Cass. pen Sez.
III 19.05.2008 n. 19973) che mentre il pergolato costituisce
una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte
superiore ed è destinato a creare ombra, la tettoia può
essere utilizzata anche come riparo ed aumenta l’abitabilità
dell’immobile
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.08.2012 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Terminata
la prima fase della finanza di progetto con l’effettuazione
della procedura ad evidenza pubblica ed accertata dalla
stazione appaltante l’assenza di altre imprese interessate
alla realizzazione del progetto, deve escludersi che possa
formalizzarsi un vero e proprio obbligo di affidare la
concessione al promotore, dal momento che la residua fase
negoziale non è stata ancora espletata e non è maturato il
perfezionamento del reciproco consenso sugli esatti
contenuti del contratto di concessione.
--------------
La posizione del promotore, che si assume oltre che il
rischio economico anche quello amministrativo, è esposta
alla legittima opera revisionale dell’amministrazione, in un
contesto che la giurisprudenza ormai consolidata configura
di ampia discrezionalità, caratterizzata da incisive e
sostanziali valutazioni di merito sulla fattibilità delle
proposte che sono strettamente connesse a scelte interne
dell'Amministrazione procedente, la quale -essa sola- può
valutare i vari aspetti economici e tecnici della proposta
presentata.
Pertanto, in considerazione dello stato di avanzamento della
procedura di project financing e delle ragioni di
ripensamento della convenienza economica e progettuale
dell’intervento, il promotore non vanta alcuna posizione
qualificata, come peraltro confermato dall’orientamento
secondo cui “in presenza di una revoca legittima della
procedura di realizzazione e concessione dell'opera pubblica
per mezzo del project financing, il soggetto promotore,
rispetto a tutti gli atti emanati successivamente
dall'amministrazione per realizzare e gestire medesimo
intervento per mezzo della costituzione di una società
mista, è portatore di un interesse di mero fatto.
Premesso che:
- con deliberazione di Giunta Municipale n. 63 del 20.03.2008, il Comune di Nola approvava la proposta di
project financing avanzata dalla società ricorrente inerente alla
realizzazione e gestione dell’intervento denominato
“Cittadella del Tempo Libero”, statuendo che il progetto
costituente tale proposta dovesse essere posto a gara con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa;
- a seguito del cambiamento della disciplina urbanistica di
riferimento e dell’inutile esperimento della procedura
aperta per l’individuazione delle due migliori offerte da
convogliare, insieme a quella del promotore, nella
successiva procedura negoziata, l’amministrazione comunale,
con determina dirigenziale n. 35 dell'01.12.2008
(rimasta inoppugnata), stabiliva “di non poter procedere
alle ulteriori fasi della procedura, che resta subordinata
al conseguimento della compatibilità urbanistica del fondo,
oggetto di intervento, che allo stato ricade in zona
omogenea “E” agricola.”;
- con il gravame in trattazione, parte ricorrente insta
essenzialmente per la condanna del Comune di Nola al
risarcimento dei danni da responsabilità precontrattuale
conseguenti all’arresto procedimentale disposto con la
citata determina dirigenziale, ritenendo il comportamento
dell’amministrazione contrario ai canoni di buona fede nelle
trattative negoziali di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. ed
assumendo l’automaticità dell’assegnazione in suo favore
della concessione, una volta infruttuosamente espletata la
procedura aperta;
Considerato che:
- tale ultimo assunto non può essere condiviso;
- infatti, terminata la prima fase della finanza di progetto
con l’effettuazione della procedura ad evidenza pubblica ed
accertata dalla stazione appaltante l’assenza di altre
imprese interessate alla realizzazione del progetto, deve
escludersi che possa formalizzarsi un vero e proprio obbligo
di affidare la concessione al promotore, dal momento che la
residua fase negoziale non è stata ancora espletata e non è
maturato il perfezionamento del reciproco consenso sugli
esatti contenuti del contratto di concessione (cfr. TAR
Abruzzo L’Aquila, 17.05.2011 n. 265);
- quanto alla pretesa risarcitoria, ai fini della
valutazione dell’amministrazione sotto il profilo
privatistico della correttezza negoziale, vale rimarcare che
non vi è stato alcun consolidamento della posizione
precontrattuale del promotore, il quale ha presentato il
progetto (assumendosi il rischio che non venisse giudicato
conforme all’interesse pubblico), ha completato la prima
fase del procedimento di project financing (conseguendo la
dichiarazione di pubblico interesse e l’approvazione del
progetto), ma ha subito il ripensamento dell’amministrazione
locale in una fase ancora prodromica, in cui l’intero
procedimento amministrativo non si era affatto concluso
(dovendosi dare corso alla procedura negoziata per
l’individuazione del concessionario), e ben prima del
sorgere di alcun vincolo sull’affidamento della concessione;
- si applicano al riguardo le condivisibili osservazioni
rese dalla Sezione in un caso analogo, che di seguito si
riportano: “La posizione del promotore, che si assume oltre
che il rischio economico anche quello amministrativo, è
esposta alla legittima opera revisionale
dell’amministrazione, in un contesto che la giurisprudenza
ormai consolidata configura di ampia discrezionalità,
caratterizzata da incisive e sostanziali valutazioni di
merito sulla fattibilità delle proposte che sono
strettamente connesse a scelte interne dell'Amministrazione
procedente, la quale -essa sola- può valutare i vari
aspetti economici e tecnici della proposta presentata (cfr.
sul punto, ad es., TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 13.11.2006 n. 2193).
Pertanto, in considerazione dello
stato di avanzamento della procedura di project financing e
delle ragioni di ripensamento della convenienza economica e
progettuale dell’intervento, il promotore non vanta alcuna
posizione qualificata, come peraltro confermato
dall’orientamento secondo cui “in presenza di una revoca
legittima della procedura di realizzazione e concessione
dell'opera pubblica per mezzo del project financing, il
soggetto promotore, rispetto a tutti gli atti emanati
successivamente dall'amministrazione per realizzare e
gestire medesimo intervento per mezzo della costituzione di
una società mista, è portatore di un interesse di mero
fatto” (Consiglio di Stato, sez. VI, 10.05.2007, n.
2246).” (così TAR Campania Napoli, Sez. I, 17.12.2009 n.
8849)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 28.08.2012 n. 3735 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIA: La giurisprudenza prevalente, formatasi in tema di
localizzazione di discariche o comunque di localizzazione di
impianti per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti, è
infatti orientata nel senso di ritenere che l’associazione
ambientale locale sia priva di legittimazione attiva, in
quanto carente del riconoscimento ministeriale previsto
dall’art. 13 della legge 08.07.1986, n. 349.
Più precisamente, si afferma che la speciale legittimazione
delle associazioni a protezione ambientale a ricorrere in
sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di
atti illegittimi ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge
n. 349 del 1986 riguardi l’associazione ambientalistica
nazionale formalmente riconosciuta e non le sue strutture
territoriali, le quali non possono ritenersi munite di
autonoma legittimazione processuale neppure per
l’impugnazione di un provvedimento ad efficacia
territorialmente limitata.
In altri termini, o
l’articolazione costituisce un soggetto a sé stante, ed in
tale caso rientra nella sfera di previsione dell’art. 18 già
citato, oppure rappresenta un’articolazione territoriale
dell’associazione, ed in quanto tale il presidente del club
o comitato locale non ha la rappresentanza dell’associazione
nazionale, la sola legittimata ex lege, né il potere di
promuovere la lite per suo conto ed in suo nome.
Secondo un
siffatto orientamento, dunque, il carattere nazionale od
ultra regionale dell’associazione costituisce al tempo
stesso presupposto del riconoscimento e limite della
legittimazione speciale, la quale ha dunque carattere
ontologicamente unitario.
Si è anche
evidenziato che ove la legittimazione ad agire discenda
direttamente dalla legge, con carattere dunque eccezionale,
neppure la previsione statutaria può assegnare ad
articolazioni interne dell’ente associativo la contitolarità
della predetta legittimazione, che resta in capo all’ente di
carattere nazionale accreditato in sede ministeriale; ciò in
quanto lo statuto non può conferire una legittimazione che
la legge non ha previsto.
---------------
La mera vicinanza di un fondo ad una discarica o ad un
impianto di trattamento di rifiuti non legittima di per sé
il proprietario frontista ad insorgere avverso il
provvedimento od il contegno autorizzativo dell’opera,
essendo necessaria anche la prova del danno che egli da
questa possa ricevere, che, esemplificativamente, può essere
connesso al fatto che la localizzazione dell’impianto riduce
il valore economico del fondo situato nelle sue vicinanze,
od al fatto che le prescrizioni dettate dall’Autorità
competente in ordine alle modalità di gestione dell’impianto
sono inidonee a salvaguardare la salute di chi vive nelle
vicinanze, od anche all’incremento del traffico veicolare.
La vicinitas, intesa quale stabile e significativo
collegamento del ricorrente con la zona il cui ambiente si
intende proteggere, può fondare la legittimazione al ricorso
(in quanto enuclea la titolarità di una posizione giuridica
differenziata rispetto alla collettività indifferenziata),
ma non anche l’interesse al ricorso, inteso come utilità
concreta ritraibile dall’eventuale accoglimento del ricorso.
Il sindacato di legittimità su di un provvedimento
preordinato alla cura di interessi generali che nel
territorio trovano la loro esplicazione può essere provocato
da un soggetto che agisce uti singulus solo prospettando il
pregiudizio specifico che astrattamente viene prodotto nella
sfera giuridica del ricorrente, senza, ovviamente, dover
provare l’effettività del danno subendo.
La giurisprudenza prevalente, formatasi in tema di
localizzazione di discariche o comunque di localizzazione di
impianti per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti, è
infatti orientata nel senso di ritenere che l’associazione
ambientale locale sia priva di legittimazione attiva, in
quanto carente del riconoscimento ministeriale previsto
dall’art. 13 della legge 08.07.1986, n. 349.
Più precisamente, si afferma che la speciale legittimazione
delle associazioni a protezione ambientale a ricorrere in
sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di
atti illegittimi ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge
n. 349 del 1986 riguardi l’associazione ambientalistica
nazionale formalmente riconosciuta e non le sue strutture
territoriali, le quali non possono ritenersi munite di
autonoma legittimazione processuale neppure per
l’impugnazione di un provvedimento ad efficacia
territorialmente limitata.
In altri termini, o
l’articolazione costituisce un soggetto a sé stante, ed in
tale caso rientra nella sfera di previsione dell’art. 18 già
citato, oppure rappresenta un’articolazione territoriale
dell’associazione, ed in quanto tale il presidente del club
o comitato locale non ha la rappresentanza dell’associazione
nazionale, la sola legittimata ex lege, né il potere di
promuovere la lite per suo conto ed in suo nome.
Secondo un
siffatto orientamento, dunque, il carattere nazionale od
ultra regionale dell’associazione costituisce al tempo
stesso presupposto del riconoscimento e limite della
legittimazione speciale, la quale ha dunque carattere
ontologicamente unitario (in termini, tra le tante, Cons.
Stato, Sez. IV, 14.04.2006, n. 2151; Sez. VI, 09.03.2010, n. 1403; Sez. VI,
07.04.2010, n. 1960).
Si è anche
evidenziato, richiamando il precedente di Cons. Stato, Ad. Plen., 11.01.2007, n. 2 (in tema di associazioni di
consumatori, tematica distinta, ma contenutisticamente
simmetrica), che ove la legittimazione ad agire discenda
direttamente dalla legge, con carattere dunque eccezionale,
neppure la previsione statutaria può assegnare ad
articolazioni interne dell’ente associativo la contitolarità
della predetta legittimazione, che resta in capo all’ente di
carattere nazionale accreditato in sede ministeriale; ciò in
quanto lo statuto non può conferire una legittimazione che
la legge non ha previsto (TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
19.10.2011, n. 1481).
Obietta parte ricorrente, nei propri scritti difensivi, che,
al di là della legittimazione legale ex artt. 13 e 18 della
legge n. 349 del 1986, vi sia spazio per riconoscere anche
una legittimazione ordinaria alle associazioni
ambientalistiche che godano di un adeguato grado di
stabilità e rappresentatività in un ambito territorialmente
limitato.
Su tale questione si registra in giurisprudenza qualche
oscillazione, nel senso che talune pronunce affermano che il
giudice amministrativo può riconoscere, caso per caso,
legittimazione ad impugnare atti amministrativi incidenti
sull’ambiente anche ad associazioni a carattere locale, che
perseguano, conformemente al loro statuto, in modo non
occasionale, obiettivi di tutela ambientale, avendo altresì
un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in
un’area di afferenza riconducibile alla zona ove si colloca
il bene a fruizione collettiva che si asserisce leso (Cons.
Stato, Sez. IV, 08.11.2010, n. 7907).
Al contrario, altra parte della giurisprudenza afferma che
dopo l’entrata in vigore della legge n. 349 del 1986 non vi
è più spazio per il riconoscimento della legittimazione
processuale in capo ad associazioni diverse da quelle
rientranti nella previsione dell’art. 13 della legge stessa,
in quanto la pregressa costruzione giurisprudenziale è stata
elaborata per risolvere il problema della tutela processuale
dei ridetti interessi “diffusi”, per i quali all’epoca non
esistevano meccanismi normativi che autorizzassero
particolari soggetti ad invocare tale tutela; una volta che
il legislatore è intervenuto con la previsione di una
legittimazione ex lege, si esaurisce l’ambito della tutela
processuale riconosciuta dall’ordinamento (Cons. Stato, Sez.
IV, 28.03.2011, n. 1876).
Entrambe le soluzioni presentano profili di coerenza
sistematica.
Nel caso di specie, peraltro, anche a volere seguire
l’indirizzo meno restrittivo, osserva il Collegio che in
capo al ricorrente Club della Teverina difettano i requisiti
per riconoscergli autonoma legittimazione, e non già come
articolazione territoriale di un’associazione nazionale. A
questo riguardo, la giurisprudenza richiede che le
associazioni locali perseguano statutariamente, in modo non
occasionale, obiettivi di tutela ambientale, e posseggano un
adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un’area
di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il
bene che si assume leso (Cons. Stato, Sez. VI, 26.07.2001, n. 4123).
L’Associazione Amici della Terra-Club della Teverina non
possiede il carattere di ente esponenziale in via stabile e
continuativa di interessi diffusi radicati sul territorio,
essendo sorto solamente nel marzo 2010, cioè circa due mesi
prima della proposizione del presente ricorso, per effetto
della confluenza in esso del comitato spontaneo “Salviamo il
basso Tevere”; e non basta il mero scopo associativo a
rendere differenziato un interesse diffuso od adespota,
facente capo alla popolazione nel suo complesso, quale la
salvaguardia dell’ambiente (cfr. art. 2 dello Statuto), in
quanto, diversamente, si eluderebbe il divieto di azione
popolare (in termini Cons. Stato, Sez. V, 14.06.2007, n.
3192).
Al difetto di legittimazione attiva dell’associazione
ricorrente si accompagna quella, anche in proprio, del suo
legale rappresentante dr. Claudio Cesaretti, che non ha
allegato la titolarità di alcuna situazione giuridica
soggettiva specifica.
Si deve ora procedere allo scrutinio dell’eccezione di
difetto di legittimazione e di interesse al ricorso dei sigg.ri Morresi e Tata, argomentata dalle parti resistenti
nella considerazione dell’inadeguatezza della mera
allegazione di essere residenti a Giove e proprietari di
terreni situati nelle immediate vicinanze del sito ove è in
corso di realizzazione il biodigestore (la cui opera,
peraltro, gli stessi ricorrenti, con la memoria di
discussione, precisano essere interrotta, ed il cantiere
abbandonato da più di un anno e mezzo), senza provare il
danno arrecato nella loro sfera giuridica.
Anche tale eccezione appare meritevole di positiva
valutazione.
Occorre infatti considerare come la giurisprudenza
prevalente ritenga che la mera vicinanza di un fondo ad una
discarica o ad un impianto di trattamento di rifiuti non
legittima di per sé il proprietario frontista ad insorgere
avverso il provvedimento od il contegno autorizzativo
dell’opera, essendo necessaria anche la prova del danno che
egli da questa possa ricevere, che, esemplificativamente,
può essere connesso al fatto che la localizzazione
dell’impianto riduce il valore economico del fondo situato
nelle sue vicinanze, od al fatto che le prescrizioni dettate
dall’Autorità competente in ordine alle modalità di gestione
dell’impianto sono inidonee a salvaguardare la salute di chi
vive nelle vicinanze, od anche all’incremento del traffico
veicolare (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2012, n. 2460; Sez. V, 16.06.2009, n. 3849; Sez.
V, 20.05.2002, n. 2714).
I ricorrenti, nella memoria di discussione, deducono che la
prova del pregiudizio non può essere fornita a priori,
essendo celata dal lamentato difetto di istruttoria,
dovendosi dunque radicare l’interesse nel solo criterio
della vicinitas.
Tale assunto non è peraltro condivisibile, in quanto la
vicinitas, intesa quale stabile e significativo collegamento
del ricorrente con la zona il cui ambiente si intende
proteggere (così Cons. Stato, Sez. V, 26.02.2010, n.
1134), può fondare la legittimazione al ricorso (in quanto
enuclea la titolarità di una posizione giuridica
differenziata rispetto alla collettività indifferenziata),
ma non anche l’interesse al ricorso, inteso come utilità
concreta ritraibile dall’eventuale accoglimento del ricorso.
Sotto questo profilo, anch’esso attinente ad una condizione
dell’azione, il sindacato di legittimità su di un
provvedimento preordinato alla cura di interessi generali
che nel territorio trovano la loro esplicazione può essere
provocato da un soggetto che agisce uti singulus solo
prospettando il pregiudizio specifico che astrattamente
viene prodotto nella sfera giuridica del ricorrente, senza,
ovviamente, dover provare l’effettività del danno subendo (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 28.08.2012 n. 334 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Vietato
accorpare i vigili a un ufficio più complesso.
Il comune non può sopprimere il corpo di
vigilanza urbana e inglobarlo all'interno di una struttura
amministrativa più complessa. E nemmeno degradare il
comandante delegando un dirigente esterno all'organizzazione
della polizia municipale.
Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 27.08.2012 n. 4605.
Un comune ha riformulato l'organizzazione del comando di
polizia locale sopprimendo il corpo ed inserendo i vigili
alle dipendenze del settore segreteria. Contro questa
determinazione il comandante degradato ha proposto ricorso
al tar lamentando numerose violazioni di legge. Il collegio
ha accolto il ricorso ma il comune ha proposto appello,
senza successo. A parere del collegio, infatti, con
l'istituzione del corpo di polizia si crea una struttura
organizzativa autonoma ed unitaria con uno stato giuridico
ed economico differenziato.
In pratica l'aggregazione degli operatori di vigilanza
rappresenta il corpo di polizia locale al vertice del quale
è posto il comandante che ha la responsabilità della
struttura e ne risponde direttamente al sindaco. Pertanto,
la polizia municipale, prosegue la sentenza, «una volta
eretta in corpo, non può essere considerata una struttura
intermedia in una struttura burocratica più ampia né, per
tale incardinamento, essere posta alle dipendenze del
dirigente amministrativo che dirige tale più ampia struttura».
E questa unitarietà non può essere contrastata nemmeno
differenziando l'attività gestionale da quella di vigilanza.
Privare il comandante della sua capacità di intervento sugli
aspetti gestionali per attribuirli al coordinatore dell'area
amministrativa infatti non è conforme alla legge 65/1986 la
quale prevede inoltre uno stato giuridico ed economico
differenziato per la polizia locale rispetto agli altri
dipendenti comunali.
L'autonomia del corpo, conclude il collegio, «si spiega
anche in ragione della specifica caratterizzazione delle
funzioni del personale che vi appartiene. È sufficiente al
riguardo considerare l'attribuzione in via ordinaria a tutti
gli addetti della polizia municipale delle funzioni di
polizia giudiziaria, di polizia stradale e di pubblica
sicurezza con riconoscimento della relativa qualità».
In pratica, la soppressione del posto di comandante e lo
scorporo dei compiti di polizia locale comportano una
evidente violazione della normativa di riferimento (articolo
ItaliaOggi del 30.08.2012). |
APPALTI: Se
l'impresa assiste, tramite rappresentante, alla seduta in
cui vengono adottate determinazioni in ordine all’esclusione
della sua offerta, è in tale seduta che l'impresa acquisisce
la piena conoscenza del provvedimento ed è dalla data della
stessa seduta che decorre il termine per impugnare il
medesimo provvedimento, mentre la presenza di un
rappresentante della ditta partecipante alla gara di appalto
in quella seduta non comporta ex se la piena conoscenza
dell'atto di esclusione ai fini della decorrenza del termine
per l'impugnazione solo qualora il rappresentante stesso non
sia munito di apposito mandato o non rivesta una specifica
carica sociale, ossia non ricorrano i casi in cui la
conoscenza avuta dal medesimo sia riferibile alla società
concorrente.
Com’è pacifico in giurisprudenza, se
l'impresa assiste, tramite rappresentante, alla seduta in
cui vengono adottate determinazioni in ordine all’esclusione
della sua offerta, è in tale seduta che l'impresa acquisisce
la piena conoscenza del provvedimento ed è dalla data della
stessa seduta che decorre il termine per impugnare il
medesimo provvedimento, mentre la presenza di un
rappresentante della ditta partecipante alla gara di appalto
in quella seduta non comporta ex se la piena conoscenza
dell'atto di esclusione ai fini della decorrenza del termine
per l'impugnazione solo qualora il rappresentante stesso non
sia munito di apposito mandato o non rivesta una specifica
carica sociale, ossia non ricorrano i casi in cui la
conoscenza avuta dal medesimo sia riferibile alla società
concorrente (cfr., tra le più recenti, Cons. St., sez. VI,
13.12.2011 n. 6531 e sez. V, 18.11.2011)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 22.08.2012 n. 4593 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sussiste
il divieto per la stazione appaltante di sottoporre
l'offerta ad operazioni manipolative e di adattamento,
risultando altrimenti violati la par condicio dei
concorrenti, l'affidamento da essi posto nelle regole di
gara per modulare l'offerta economica e le esigenze di
trasparenza e certezza (con conseguente necessità di
prevenire possibili controversie sull’effettiva volontà
dell’offerente) delle gare pubbliche.
A fronte di ciò, risulta evidentemente recessivo il
principio della conservazione delle offerte, né può farsi
applicazione dell’art. 90 del d.P.R. 21.12.1999 n. 554
(ora art. 119 del d.P.R. 10.12.2010 n. 207), il quale
detta prefissati criteri volti a comporre discordanze tra le
diverse componenti dell’offerta “a prezzi unitari” delle
lavorazioni e forniture occorrenti per l’esecuzione delle
opere o lavori pubblici, indicate in apposita lista dalla
stazione appaltante, vale a dire in un’ipotesi qui non
ricorrente.
---------------
La mancata verbalizzazione delle modalità di custodia delle
offerte economiche non è motivo di illegittimità se la
censura non sia sorretta da allegazione che si sia
verificata manomissione.
Nella specie, va fatta applicazione del
costante indirizzo giurisprudenziale secondo cui sussiste il
divieto per la stazione appaltante di sottoporre l'offerta
ad operazioni manipolative e di adattamento, risultando
altrimenti violati la par condicio dei concorrenti,
l'affidamento da essi posto nelle regole di gara per
modulare l'offerta economica e le esigenze di trasparenza e
certezza (con conseguente necessità di prevenire possibili
controversie sull’effettiva volontà dell’offerente) delle
gare pubbliche (cfr., tra le tante, Cons. St., sez. VI, 02.03.2011 n. 1299; sez. V, 08.02.2011 n. 846 e 14.09.2010, n. 6687; sez. IV, 28.12.2005 n. 7470).
A fronte di ciò, risulta evidentemente recessivo il
principio della conservazione delle offerte, né può farsi
applicazione dell’art. 90 del d.P.R. 21.12.1999 n. 554
(ora art. 119 del d.P.R. 10.12.2010 n. 207), il quale
detta prefissati criteri volti a comporre discordanze tra le
diverse componenti dell’offerta “a prezzi unitari” delle
lavorazioni e forniture occorrenti per l’esecuzione delle
opere o lavori pubblici, indicate in apposita lista dalla
stazione appaltante, vale a dire in un’ipotesi qui non
ricorrente.
---------------
Quanto all’appello
incidentale di Diasorin, col primo mezzo si lamenta che le
offerte economiche, aperte 20.07.2010 ed esaminate 10.05.2011, per molti mesi siano rimaste aperte ed
incustodite, in assenza di indicazioni nei verbali delle
modalità di custodia e delle cautele adottate.
Tuttavia, la Sezione ha già espresso l’avviso, dal quale il
Collegio non ravvisa motivo di discostarsi, che la mancata
verbalizzazione delle modalità di custodia non sia motivo di
illegittimità se la censura non sia sorretta da allegazione
che si sia verificata manomissione (cfr. Cons. St., sez. III,
13.05.2011 n. 2908).
Oltretutto, nella specie le offerte economiche non erano più
segrete, essendo state aperte nella seduta del 20.07.2010 (verbale n. 5), in cui ai concorrenti è stata fatta
prendere visione reciproca delle offerte stesse, sicché
nessun rischio di alterazione vi era più e, del resto, Diasorin
neppure ipotizza una qualche irregolarità al riguardo
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 22.08.2012 n. 4592 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Costituiscono
vincoli soggetti a decadenza quelli preordinati
all’espropriazione o che comportino l’inedificazione i quali, pertanto, svuotano il
contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento
del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua
destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo
significativo il suo valore di scambio.
Il principio della prevalenza dell'interesse pubblico, in
virtù del quale un atto di pianificazione generale non ha
bisogno di una motivazione ulteriore rispetto a quella che
si esprime con i criteri posti a sua base è temperato dal
principio della tutela degli interessi privati, sicché
l’amministrazione pubblica può legittimamente reiterare il
vincolo preordinato all'esproprio che sia decaduto per il
decorso del quinquennio in assenza della dichiarazione della
pubblica utilità, ma è tenuta a fornire un'adeguata
motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di
interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione,
così da escludere un contenuto vessatorio o comunque
ingiusto dei relativi atti.
Sono al di fuori
dello schema ablatorio-espropriativo i vincoli che
importano una destinazione (anche di contenuto specifico)
realizzabile ad iniziativa privata che non comportino
necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva
iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal
soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del
bene. Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse
generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi,
siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente
compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso
l'iniziativa economica privata - pur se accompagnati da
strumenti di convenzionamento: si fa riferimento, ad
esempio, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e
complessi per la distribuzione commerciale, edifici per
iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni
quali zone artigianali o industriali o residenziali; in
breve, a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in
libero regime di economia di mercato.
---------------
Sono richiesti, in caso di reiterazione di vincoli
espropriativi, un "surplus" di istruttoria e una motivazione
adeguata.
In punto di diritto, deve rammentarsi che
la vicenda dei vincoli preordinati all’espropriazione,
contenuti nel P.R.G. ovvero in altri strumenti urbanistici
prende le mosse dalla sentenza con la quale la Corte
Costituzionale riconobbe illegittima la disciplina recata
dalla legge urbanistica (L. 17.08.1942 n. 1150), che
prevedeva la possibilità di imporre alla proprietà privata,
in sede di pianificazione, vincoli preordinati all'
espropriazione, senza alcun limite temporale e senza
indennizzo (Corte Costituzionale, 29.05.1968 n. 55).
A seguito di tale decisione, il legislatore intervenne con
la L. 19.11.1968 n. 1187, il cui art. 2 provvedeva a
fissare in cinque anni il periodo entro cui detti vincoli
devono, a pena di decadenza, tradursi in piani esecutivi o,
comunque, deve avviarsi in modo certo il procedimento
espropriativo.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Sez. V, 03.01.2001 n. 3; Sez. IV, 17.04.2003 n. 2015 e 22.06.2004 n. 4426), costituiscono vincoli soggetti a
decadenza quelli preordinati all’espropriazione o che
comportino l’inedificazione i quali, pertanto, svuotano il
contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento
del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua
destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo
significativo il suo valore di scambio.
Il principio della prevalenza dell'interesse pubblico, in
virtù del quale un atto di pianificazione generale non ha
bisogno di una motivazione ulteriore rispetto a quella che
si esprime con i criteri posti a sua base è temperato dal
principio della tutela degli interessi privati, sicché
l’amministrazione pubblica può legittimamente reiterare il
vincolo preordinato all'esproprio che sia decaduto per il
decorso del quinquennio in assenza della dichiarazione della
pubblica utilità, ma è tenuta a fornire un'adeguata
motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di
interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione,
così da escludere un contenuto vessatorio o comunque
ingiusto dei relativi atti (Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.09.2011 n. 5216 e 22.06.2004 n. 4397).
La giurisprudenza ha inoltre precisato che sono al di fuori
dello schema ablatorio-espropriativo i vincoli che
importano una destinazione (anche di contenuto specifico)
realizzabile ad iniziativa privata che non comportino
necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva
iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal
soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del
bene. Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse
generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi,
siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente
compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso
l'iniziativa economica privata - pur se accompagnati da
strumenti di convenzionamento: si fa riferimento, ad
esempio, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e
complessi per la distribuzione commerciale, edifici per
iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni
quali zone artigianali o industriali o residenziali; in
breve, a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in
libero regime di economia di mercato.
---------------
Deve quindi concludersi
per la illegittimità dell’azione amministrativa sulla scorta
della nota e consolidata giurisprudenza che richiede, in
caso di reiterazione di vincoli espropriativi, un "surplus"
di istruttoria e una motivazione adeguata, non rinvenibile
negli atti de quibus (Consiglio di Stato, Sez. IV,
15.09.2009, n. 5521; Adunanza Plenaria, 24.05.2007 n. 7)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 18.08.2012 n. 3730 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Esproprio reiterato, dopo un lustro non bastano le formule
di stile.
E' illegittima la deliberazione del Consiglio comunale con
la quale è stato reiterato un vincolo preordinato
all'esproprio -ormai scaduto per il decorso del termine
quinquennale di efficacia- che sia genericamente motivata
con la necessità di tutelare e/o conseguire finalità di
interesse pubblico.
La segnalata pronuncia concerne l’impugnazione del
provvedimento di diniego di un permesso di costruire, in uno
alla sottesa deliberazione consiliare di reiterazione di un
ormai scaduto vincolo preordinato all’esproprio dei suoli
interessati.
In particolare il deducente ha esposto che la civica P.A.
aveva respinto la propria richiesta di permesso di costruire
per la realizzazione di unità abitativa sulla scorta della
considerazione per cui, oltre al resto, il lotto interessato
dall’intervento sarebbe stato gravato dal menzionato vincolo
per la realizzazione di alcuni parcheggi pubblici.
Sicché, avversati il suddetto provvedimento negativo e la
presupposta deliberazione di reiterazione del vincolo
espropriativo, il ricorrente ha contestato la violazione e
falsa applicazione dell’art. 12, D.P.R. n. 380/2001, degli
artt. 7 e 40, L. n. 1150/1942, nonché l’eccesso di potere
per sviamento, difetto assoluto di motivazione,
contraddittorietà e illogicità manifesta.
Il TAR di Napoli ha accolto il gravame.
In punto di diritto, ha dapprima rammentato che le
fattispecie involgenti i vincoli preordinati all’esproprio,
contenuti nel P.R.G. comunale ovvero in altri strumenti
urbanistici, prendono le mosse dalla sentenza con la quale
la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità
della disciplina recata dalla legge urbanistica (L. 17.08.1942, n. 1150), che prevedeva la possibilità di
imporre alla proprietà privata vincoli preordinati
all'espropriazione, senza alcun limite temporale e senza
indennizzo (Corte Cost., 29.05.1968, n. 55).
Per tal ragione, il legislatore è successivamente
intervenuto con la L. 19.11.1968, n. 1187, il cui art.
2 provvede a fissare in cinque anni il periodo entro cui
detti vincoli devono, a pena di decadenza, tradursi in piani
esecutivi o, comunque, deve avviarsi in modo certo il
procedimento espropriativo.
Di conseguenza il giudicante non ha mancato di evidenziare
che, in linea di principio, secondo un consolidato
orientamento giurisprudenziale, costituiscono vincoli
soggetti a decadenza quelli preordinati all’espropriazione o
che comportano l’inedificabilità i quali, pertanto, svuotano
il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul
godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile
rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone
in modo significativo il suo valore di scambio. (Cons.
Stato, Sez. V, 3 gennaio 2001, n. 3; idem, Sez. IV, 17.04.2003, n. 2015 e 22.06.2004, n. 4426).
In virtù di tanto, l’adito Collegio ha sottolineato come il
principio della “prevalenza dell'interesse pubblico” -secondo cui un atto di pianificazione generale non necessita
di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si
esprime con i criteri posti alla sua base- debba essere
temperato dal principio della “tutela degli interessi
privati”; pertanto, la P.A., sebbene possa legittimamente
reiterare il vincolo preordinato all'esproprio decaduto per
il decorso del quinquennio senza apposita dichiarazione di
pubblica utilità, è comunque tenuta a fornire un'adeguata
motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di
interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione,
così da escludere un contenuto vessatorio o comunque
ingiusto dei relativi atti (Cons. Stato, Sez. IV, 19.09.2011, n. 5216; idem, 22.06.2004, n. 4397).
Orbene, avuto riguardo alla vicenda in parola, il TAR di
Napoli ha rilevato la natura espropriativa del vincolo
gravante sul bene, non ritenendo condivisibile la deduzione
svolta dall’amministrazione secondo cui il provvedimento di
reiterazione del vincolo avrebbe costituito espressione di
una mera potestà conformativa.
Tale considerazione è derivata dall’esame del provvedimento
reiettivo impugnato, nel contesto del quale si dava atto del
contrasto del progetto edilizio proprio con il vincolo
previsto dal P.R.G., nonché della delibera consiliare con
cui il Comune aveva espressamente stabilito di "mantenere i
vincoli preordinati all’esproprio così come previsti nel
piano vigente".
Conseguentemente, sono state ritenute fondate le censure
relative al difetto di motivazione della contestata
deliberazione.
Al riguardo, infatti, ha osservato che all’epoca
dell’adozione di quest’ultimo atto, il vincolo
originariamente impresso dal P.R.G. risultava scaduto per
decorso del termine quinquennale di efficacia ai sensi
dell’art. 9, secondo comma, del D.P.R. n. 327/2001.
Sicché la doglianza svolta dall’esponente in ordine
all’assenza di idonea motivazione alla base dell’opzione
reiterativa è stata ritenuta fondata da parte dell’adito
Collegio, attesi i ben noti principi giurisprudenziali in
tema di precisi e puntuali oneri motivazionali a carico
dell’amministrazione in ipotesi di reiterazione di vincolo
espropriativo scaduto.
Al contrario, nella richiamata delibera consiliare, la P.A.
si era limitata a rilevare che: "… l’amministrazione
comunale intende provvedere, nel breve periodo alla verifica
delle risultanze del piano, anche al fine di apportare, ove
ne ricorrano le condizioni, le necessarie variazioni… nelle
more della definizione di quanto sopra si ritiene necessario
mantenere in essere i vincoli preordinati all’esproprio così
come previsti nel piano vigente".
È parso evidente che la motivazione addotta dal Comune era
del tutto generica e, quindi, inidonea a soddisfare l’onere
motivazionale su di esso gravante: l’amministrazione,
infatti, avrebbe dovuto esternare le ragioni di interesse
pubblico, attuale e concreto, che avevano giustificato il
perdurare del sacrificio imposto al privato, con la
precisazione che tale indicazione non poteva limitarsi a un
indefinito interesse generale
(commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez.
VIII,
sentenza 18.08.2012 n. 3730 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA: Il
riconoscimento della responsabilità della pubblica
amministrazione per il tardivo esercizio della funzione
amministrativa richiede, oltre alla constatazione della
violazione dei termini del procedimento, l'accertamento che
l'inosservanza delle cadenze procedimentali sia imputabile a
colpa o dolo dell'amministrazione medesima e che il danno
lamentato sia conseguenza diretta ed immediata del ritardo
dell'amministrazione: spetta perciò al danneggiato, ex art.
2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della
relativa domanda, non potendosi l'ingiustizia e la
sussistenza presumersi "iuris tantum", quale meccanica
conseguenza del ritardo nell'adozione del provvedimento
amministrativo favorevole.
Quanto al ritardo nel rilascio del titolo concessorio, difetta anche la prova del ritardo stesso.
Invero, il riconoscimento della responsabilità della
pubblica amministrazione per il tardivo esercizio della
funzione amministrativa richiede, oltre alla constatazione
della violazione dei termini del procedimento,
l'accertamento che l'inosservanza delle cadenze
procedimentali sia imputabile a colpa o dolo
dell'amministrazione medesima e che il danno lamentato sia
conseguenza diretta ed immediata del ritardo
dell'amministrazione: spetta perciò al danneggiato, ex art.
2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della
relativa domanda, non potendosi l'ingiustizia e la
sussistenza presumersi "iuris tantum", quale meccanica
conseguenza del ritardo nell'adozione del provvedimento
amministrativo favorevole (Cons. St., sez. IV, 04.05.2011, n. 2675)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 16.08.2012 n. 2027 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Incompletezza
domanda sanatoria comporta improcedibilità.
L’art. 39, comma 4, della legge 23.12.1994, n. 724
“Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”,
prevede espressamente che la mancata presentazione dei
documenti previsti per legge entro il termine di tre mesi
dalla espressa richiesta di integrazione notificata dal
comune comporta l'improcedibilità della domanda e il
conseguente diniego della concessione o autorizzazione in
sanatoria per carenza di documentazione.
In tale contesto non avviene la formazione del silenzio assenso.
La normativa evocata, ossia
l’art. 39, comma 4, della legge 23.12.1994, n. 724 “Misure
di razionalizzazione della finanza pubblica”, prevede
espressamente che “la mancata presentazione dei documenti
previsti per legge entro il termine di tre mesi dalla
espressa richiesta di integrazione notificata dal comune
comporta l'improcedibilità della domanda e il conseguente
diniego della concessione o autorizzazione in sanatoria per
carenza di documentazione”.
Come sopra evidenziato, la domanda di sanatoria proposta era
mancante di elementi essenziali di valutazione, situazione
da cui è scaturita la richiesta di integrazione documentale
da parte del Comune.
In tale contesto, la formazione del silenzio assenso non
avviene, atteso che la stessa presuppone in ogni caso la
completezza della domanda di sanatoria (accompagnata in
particolare dall'integrale pagamento di quanto dovuto a
titolo di oblazione per quanto attiene la formazione del
silenzio-accoglimento), come chiarito dalla pacifica
giurisprudenza in merito (da ultimo, Consiglio di Stato,
sez. V, 02.02.2012 n. 578; id., 12.09.2011 n. 5091)
(massima
tratta da www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.08.2012
n. 4525 - link a www.giustizia-amministrativa). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: Beni Ambientali. Individuazione vincolo area boscata.
Il concetto di bosco dato dall’art. 6 del decreto
legislativo n. 227 del 2001 è, per espresso disposto di
legge, cedevole rispetto alle eventuali diverse definizioni
stabilite dalle regioni con norme già adottate o da
adottarsi nei dodici mesi successivi. Per determinare se un
appezzamento di terreno è ricompreso all’interno di una
superficie con vincolo boschivo, l’accertamento dell’ente
competente deve riguardare non la sola area oggetto di
indagine, ma l’area considerata nel suo complesso.
D’altronde, se così non fosse, basterebbe ritagliarsi,
all’interno di un’area boscata, una porzione di terreno con
dimensioni inferiori ai parametri previsti dalle norme per
negare a questa la natura di area boscata e pretendere
allora il rilascio di un titolo edificatorio, il che sarebbe
evidentemente inammissibile.
Il concetto di “bosco”
data dall’art. 6 del citato decreto legislativo n. 227 del
2001 è, per espresso disposto di legge, cedevole rispetto
alle eventuali diverse definizioni stabilite dalle regioni
con norme già adottate o da adottarsi nei dodici mesi
successivi.
La disposizione legislativa richiamata fa rinvio alle norme
regionali e non richiede che questa assumano veste di norme
di legge. Nel caso di specie, il P.U.T.T./p della Regione
Puglia è strumento idoneo allo scopo, dato che esso, oltre a
recare prescrizioni concrete, ha natura di atto normativo
(così Cons. Stato, Sez. IV, 31.01.2012, n. 476).
Peraltro, proprio ai parametri offerti dal piano ai fini
della definizione di “bosco” (in termini di
superficie, larghezza media e copertura) ha riguardo il
sopralluogo effettuato dalla Regione nell’area in discorso.
Dal sopralluogo emerge che il terreno in oggetto rientra
nella definizione normativa di “bosco”.
A questa conclusione fattuale, non contestata nella sua
concreta dimensione, non possono essere opposti:
- né i dati per avventura difformi recati dalla cartografia
annessa al piano o ad altri strumenti urbanistici (dovendosi
per l’appunto prendere in considerazione, ai fini della
tutela, lo stato di fatto);
- né il rilievo -sviluppato dalla parte privata anche
nell’udienza pubblica- che il sopralluogo avrebbe avuto ad
oggetto non la sola area di proprietà degli appellati, bensì
l’intera area boscata, perché oggetto di indagine non poteva
che essere l’area considerata nel suo complesso. D’altronde,
se così non fosse, basterebbe ritagliarsi, all’interno di
un’area boscata, una porzione di terreno con dimensioni
inferiori ai parametri previsti dalle norme per negare a
questa la natura di area boscata e pretendere allora il
rilascio di un titolo edificatorio: il che sarebbe
evidentemente inammissibile.
Trattandosi dunque di bosco, si applica l’art. 4, comma 2,
del decreto legislativo più volte ricordato, secondo cui “la
trasformazione del bosco è vietata, fatte salve le
autorizzazioni rilasciate dalle regioni …”
(massima
tratta da www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2012 n. 4502
-
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni ambientali.
Legittimità annullamento del parere comunale senza
motivazione.
a) il potere di annullamento della
Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle
valutazioni discrezionali compiute dalla Regione, o
dall’ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di
legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili
all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di
istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve
quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente
sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera
specificamente assentita, in relazione a tutte le
circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in
caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o
di istruttoria;
c) l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto
oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento, perché
sia a sua volta immune da vizi di legittimità, può motivare
sulla non compatibilità degli interventi programmati
rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo.
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E' legittimo il provvedimento della Soprintendenza che
annulla il parere paesaggistico favorevole rilasciato dal
Comune ente subdelegato, perché non assolve il compito
proprio di dare “da solo, piena contezza dell'ammissibilità
dell'intervento con una congrua descrizione sia
dell'ambiente nel quale l'opera deve inserirsi, che
dell'opera medesima” .
Infatti, nel provvedimento comunale annullato, non è stata
data alcuna specifica motivazione della compatibilità
dell'intervento autorizzato con la disciplina vincolistica
della zona in cui ricade il manufatto, dichiarata di
notevole interesse pubblico ai sensi della legge n. 1497 del
1939, poiché si afferma soltanto che le opere in progetto
non contrastano con il contesto paesistico e panoramico
vincolato.
Inoltre, l’eventuale parziale degrado di un’area sottoposta
a tutela, non giustificherebbe, in ogni caso, la tolleranza
da parte dell’Amministrazione comunale di ulteriori abusi
che comprometterebbero ancora di più le aree rimaste
integre, dovendo essa anzi salvaguardare il residuo valore
paesistico delle zone ancora non del tutto compromesse.
Sui limiti dell’esame da parte
della Soprintendenza dell’autorizzazione paesaggistica
rilasciata dalla Regione (o da un ente subdelegato), si
richiama la giurisprudenza costante di questo Consiglio di
Stato, per la quale:
a) il potere di annullamento della Soprintendenza non
consente il riesame nel merito delle valutazioni
discrezionali compiute dalla Regione, o dall’ente
subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità,
esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di
potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve
quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente
sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera
specificamente assentita, in relazione a tutte le
circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in
caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o
di istruttoria;
c) l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto
oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento, perché
sia a sua volta immune da vizi di legittimità, può motivare
sulla non compatibilità degli interventi programmati
rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo
(Cons. Stato, Sez. VI: 22.06.2011, n. 3767; 26.07.2010, n.
4861; 04.12.2009, n. 7609; 13.02.2009, n. 772).
Ciò richiamato si deve osservare che nel provvedimento
comunale di cui si tratta non è stata data alcuna specifica
motivazione della compatibilità dell'intervento autorizzato
con la disciplina vincolistica della zona in cui ricade il
manufatto, dichiarata di notevole interesse pubblico con il
decreto ministeriale 24.04.1954 ai sensi della legge n. 1497
del 1939, poiché si afferma soltanto che le opere in
progetto “non contrastano con il contesto paesistico e
panoramico vincolato”.
Tale motivazione non può ritenersi adeguata per il solo
fatto del previo parere favorevole della C.E.C., espresso
con l’unica condizione “che l’accessorio venga
tinteggiato con lo stesso colore dell’edificio principale”,
restando il giudizio comunque carente poiché privo del
necessario e specifico raffronto tra le caratteristiche
dell’opera da autorizzare e i valori su cui si fonda la
tutela dei luoghi in cui è stato realizzato l’abuso.
Il provvedimento rilasciato dall'ente subdelegato non
assolve perciò al compito proprio di dare “da solo, piena
contezza dell'ammissibilità dell'intervento con una congrua
descrizione sia dell'ambiente nel quale l'opera deve
inserirsi, che dell'opera medesima” (Cons. Stato, Sez.
VI, 28.12.2011, n. 6885) e correttamente, di conseguenza, la
Soprintendenza ha nel proprio decreto rilevato che “nel
provvedimento in esame l’Autorità decidente non spiega come
e perché l’intervento sanato sia compatibile con le esigenze
della tutela ambientale” e, su tale base, conclude che “il
provvedimento succitato è viziato da eccesso di potere sotto
il profilo della carenza di motivazione”, restando con
ciò nei limiti della propria competenza.
Da quanto sopra deriva che il provvedimento della
Soprintendenza è legittimo in quanto giustificato dal
corretto riscontro dell’eccesso di potere che vizia il
provvedimento comunale per carenza della relativa
motivazione; il detto riscontro si configura infatti come
ragione autonoma alla base del provvedimento per cui,
secondo la costante giurisprudenza, esso è altresì di per sé
sufficiente a sorreggere la legittimità dell’atto.
Peraltro, le ulteriori considerazioni della Soprintendenza,
sul pregio dell’area sulla quale è stato realizzato l’abuso,
non hanno inteso sostituire la valutazione dell’autorità
statale a quella della autorità comunale, ma hanno
evidenziato la sussistenza di circostanze di fatto che
l’ente subdelegato avrebbe dovuto valutare, in sede di esame
della istanza di sanatoria
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.08.2012 n. 4499
-
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La disposizione di portata generale di cui all’art. 32,
primo comma, relativa ai vincoli che appongono limiti
all’edificazione …deve interpretarsi “nel senso che
l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del
vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del
vincolo” corrispondendo “tale valutazione…alla esigenza di
vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei
manufatti realizzati abusivamente”, ferma perciò la
necessità del parere favorevole della autorità preposta alla
gestione del vincolo per la sanabilità dell’opera ai sensi
dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985.
... essendo stato in ogni caso
altresì comunque chiarito da questo Consiglio che “La
disposizione di portata generale di cui all’art. 32, primo
comma, relativa ai vincoli che appongono limiti
all’edificazione …deve interpretarsi “nel senso che
l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del
vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del
vincolo” corrispondendo “tale valutazione…alla
esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il
vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente” (Ad.Plen.
n. 20 del 1999), ferma perciò la necessità del parere
favorevole della autorità preposta alla gestione del vincolo
per la sanabilità dell’opera ai sensi dell’art. 32 della
legge n. 47 del 1985 (Cons. Stato, Sez. VI, 13.03.2008, n.
1077) (massima
tratta da www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.08.2012 n. 4499
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Lotto minimo e asservimento del fondo contiguo.
Due lotti confinanti che fanno capo a due proprietà distinte
e ciascuno di consistenza inferiore a lotto minimo
d’intervento edilizio, si pongono, invero, in una relazione
di asservimento reciproco, per cui una sola delle suddette
proprietà può integrare la dotazione minima richiesta grazie
all’asservimento del fondo contiguo. Un solo lotto, grazie
all’asservimento dell’altro, può ottenere il titolo aedificandum, non potendosi configurare una
edificazione che interessi entrambe le aree con due
costruzioni insistenti su lotti ascrivibili a distinte
proprietà.
Se così non fosse ci si potrebbe trovare di fronte ad un
vero e proprio escamotage, in cui più proprietari di aree
distinte, con le “modalità” dell’accorpamento,
aggirerebbero l’ostacolo della dotazione minima di ciascun
lotto per poter ivi essere consentita l’edificazione.
La problematica è costituita
dal fatto che vi sono due lotti confinanti, che fanno capo a
due proprietà distinte e ciascuno dei quali di consistenza
inferiore alla superficie di 700 mq (lotto minimo
d’intervento edilizio) .Detti lotti si pongono, invero, in
una relazione di asservimento reciproco, di guisa che una
sola delle suddette proprietà può integrare la dotazione
minima richiesta grazie all’asservimento del fondo contiguo.
In relazione alle caratteristiche tipologiche delle aree in
questione come sopra descritte, un solo lotto, grazie
all’asservimento dell’altro, può ottenere il titolo
aedificandum, non potendosi configurare una edificazione
che interessi entrambe le aree con due costruzioni
insistenti su lotti ascrivibili a distinte proprietà.
Parte appellante sostiene che nella specie si sarebbe
verificato solo l’accorpamento di due lotti edificabili in
un solo lotto, ma ciò non è possibile dal momento che le
aree sono urbanisticamente distinte, potendo avvenire
l’unificazione invocata solo ove si fosse in presenza di un
unico bene assoggettate al regime giuridico di un’unica,
indivisa proprietà, il che non è.
Se così non fosse ci si potrebbe trovare di fronte ad un
vero e proprio escamotage, in cui più proprietari di aree
distinte, con le “modalità” dell’accorpamento,
aggirerebbero l’ostacolo della dotazione minima di ciascun
lotto per poter ivi essere consentita l’edificazione.
I due fondi messi insieme hanno capacità edificatoria
sufficiente per un solo intervento insistente su uno dei due
lotti (di uno o dell’altro proprietario) e questo perché una
delle due aree reciprocamente asservite ha “caricato”
l’altra della superficie minima necessaria, con la
conseguenza che, una volta stabilita ed effettuata
l’operazione di asservimento, non residua per il lotto
asservito la potenzialità edificatoria sufficiente a
realizzare su di esso un altro fabbricato, avendo appunto
esaurito, con l’asservimento, la capacità di edificazione
(Cons. Stato Sez. V 10.02.2000 n. 749; idem 07.11.2002 n.
6128) (massima
tratta da www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2012 n. 4482
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA
PRIVATA:
Ascensore a distanza
ravvicinata.
Sì all'impianto in deroga alla vicinanza minima
dall'immobile. La Cassazione:
l'opera abbatte le barriere architettoniche ed è funzionale
all'abitabilità.
L'installazione dell'ascensore in un edificio condominiale,
in quanto opera finalizzata all'abbattimento delle
cosiddette barriere architettoniche e necessaria per la
piena ed effettiva abitabilità di un appartamento, può
avvenire anche senza il rispetto delle distanze legali tra
immobili.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della
Corte di Cassazione nella recente
sentenza
03.08.2012 n. 14096.
Il caso concreto. Nella specie l'assemblea di un condominio
aveva deliberato l'avvio di opere volte all'installazione di
un impianto di ascensore esterno all'edificio e che avrebbe
occupato una parte del cortile, venendo a trovarsi a
distanza inferiore ai tre metri previsti dalla legge (art.
907 c.c.) rispetto alle finestre di alcuni appartamenti.
Alcuni dei rispettivi proprietari avevano quindi impugnato
giudizialmente la delibera condominiale sia per la predetta
lesione del diritto di veduta sia per il pregiudizio che
tale opera avrebbe comportato per il decoro architettonico
dell'edificio.
Il tribunale, tuttavia, aveva respinto il
ricorso, qualificando l'ascensore quale impianto necessario
all'effettiva abitabilità di un immobile, al pari di quelli
di acqua, luce e gas, come tale non sottostante al regime
civilistico delle distanze legali. Di avviso contrario era
però stata la corte d'appello presso la quale i condomini
avevano deciso di impugnare la decisione di primo grado, che
aveva invece ritenuto pienamente applicabile nella specie il
disposto di cui all'art. 907 c.c.. Infatti, secondo il
giudice di secondo grado, poiché l'art. 2 della legge n.
13/1989 sull'abbattimento delle c.d. barriere architettoniche
impone in ogni caso il rispetto della destinazione delle
parti comuni (art. 1120, comma 2, c.c.), a maggior ragione
deve ritenersi che tale norma non consenta di recare
pregiudizio alle proprietà esclusive.
Inoltre, sempre
secondo la corte di merito, sarebbe stata la stessa legge or
ora richiamata, laddove all'art. 3 si deroga espressamente
al rispetto delle distanze previste dai regolamenti locali,
senza fare alcuna menzione delle distanze minime previste
dal codice civile, a rendere applicabili anche in materia
condominiale le disposizioni in materia di vedute.
La decisione della Suprema corte.
La decisione della corte di appello è quindi stata portata
all'esame della Cassazione dal condominio, che reclamava la
piena legittimità della deliberazione assembleare. E la
Suprema corte, a sua volta, ha completamente ribaltato le
argomentazioni giuridiche seguite dai giudici di merito,
annullando la sentenza impugnata e stabilendo una serie di
interessanti principi in materia di installazione degli
ascensori e abbattimento delle c.d. barriere
architettoniche.
In estrema sintesi, i giudici di legittimità hanno infatti
ritenuto che la normativa sulle distanze legali, per quanto
applicabile anche in ambito condominiale (seppure in via
subordinata alla disciplina delle cose comuni di cui
all'art. 1102 c.c.), non opera nei confronti di quegli
impianti, tra i quali è sicuramente compreso anche
l'ascensore, che siano necessari all'effettiva abitabilità
di un immobile.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, l'applicabilità della
normativa in materia di vedute anche in ambito condominiale
non può ritenersi implicitamente confermata dal predetto
art. 3 della legge n. 13/1989 che, contrariamente a quanto
ritenuto nella specie dai giudici di appello, riguarda
soltanto i rapporti tra immobili confinanti appartenenti a
diversi proprietari e non anche le ipotesi di condominio
degli edifici (articolo ItaliaOggi
Sette del 27.08.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA: Insanabilità opere su area di rispetto
autostradale.
Il vincolo di rispetto autostradale previsto dal D.M. n.
1404/1968 comporta, dopo la sua imposizione, un divieto di
edificabilità di carattere assoluto ex art. 33 (opere non
suscettibili di sanatoria), comma 1, lett. d, della Legge n.
47/1985, differente dalla inedificabilità relativa e
rimuovibile, di cui all’art. 32 della legge n. 47/1985.
Come correttamente ritenuto dal
TAR, ricadendo la fattispecie in esame nel contesto
dell’art. 33, comma 1, lett. d, della Legge n. 47/1985
(opere non suscettibili di sanatoria), l’Amministrazione
comunale non era tenuta ad acquisire alcun parere da parte
dell’Autorità preposta al vincolo di rispetto stradale che
nella specie era l’A.N.A.S.
Il vincolo di rispetto autostradale, previsto dal D.M. n.
1404/1968, comporta infatti un divieto di edificabilità di
carattere assoluto dopo la sua imposizione, differentemente
dalla inedificabilità relativa e rimuovibile, di cui
all’art. 32 della legge n. 46/1985 (massima
tratta da www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 03.08.2012 n. 4432
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Va
riconosciuta natura di servizio pubblico al servizio
d’illuminazione votiva, differenziandolo nettamente
dall’ipotesi di concessione e gestione di opera pubblica.
Nella giurisprudenza amministrativa sembra
ormai essere prevalente l’indirizzo che riconosce natura di
servizio pubblico al servizio d’illuminazione votiva,
differenziandolo nettamente dall’ipotesi di concessione e
gestione di opera pubblica (ex plurimis Consiglio di Stato,
sez. V, sent. 29.03.2010, n. 1790, lì affermandosi
espressamente che il servizio di illuminazione votiva
costituisce “concessione di pubblico servizio e non di opera
pubblica”; ed ancora, in senso analogo, Consiglio di Stato,
sez. V, sent. 11.08.2010, n. 5620 e Consiglio di Stato,
sez. V, sent. 14.04.2008, n. 1600)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 03.08.2012 n. 1993 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: a) non assume rilievo il
fatto che il bando o il disciplinare di gara prevedano che
soltanto il titolare della ditta o il legale rappresentante
debbano rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38 d.lgs.
n. 163/2006;
b) la “ratio” della disciplina in questione è,
infatti quella di consentire la partecipazione soltanto a
soggetti che abbiano comprovato -indipendentemente, quindi,
dall’effettiva situazione di fatto- la propria moralità
professionale, con la conseguenza che l’omissione delle
dichiarazioni da rendere ai sensi del citato art. 38
costituisce di per sé motivo di esclusione dalla procedura
ad evidenza pubblica;
c) poiché il citato art. 38 ha un chiaro
contenuto di ordine pubblico, esso si applica a prescindere
dal suo richiamo, inserimento espresso o inserzione fra le
specifiche clausole che regolano la singola gara.
---------------
a) “l’art. 38… impone, a pena di esclusione dalla gara, la
dichiarazione, con riferimento a tutti i soggetti ivi
previsti, dell’assenza di tutti gli elementi ostativi
espressamente ed analiticamente ivi indicati… anche in caso
di mancata espressa previsione del bando di gara, attesa la
natura di ordine pubblico dell’obbligo in questione”;
b) ciò in quanto le “predette dichiarazioni sono richieste
per una finalità che non è solo di garanzia sull'assenza di
ostacoli pure di natura etica all’aggiudicazione del
contratto, ma anche per una ordinaria verifica
sull’affidabilità dei soggetti partecipanti: la concreta
carenza di condizioni ostative costituisce un elemento
successivo rispetto alla conoscenza di una situazione di
astratta sussistenza dei requisiti morali e giuridici che
lambiscono in modo determinante la professionalità degli
amministratori”.
Con sentenza n. 117/2010, il Consiglio di
Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha condivisibilmente affermato che:
a) non assume rilievo il
fatto che il bando o il disciplinare di gara prevedano che
soltanto il titolare della ditta o il legale rappresentante
debbano rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38 d.lgs.
n. 163/2006;
b) la “ratio” della disciplina in questione è,
infatti quella di consentire la partecipazione soltanto a
soggetti che abbiano comprovato -indipendentemente, quindi,
dall’effettiva situazione di fatto- la propria moralità
professionale, con la conseguenza che l’omissione delle
dichiarazioni da rendere ai sensi del citato art. 38
costituisce di per sé motivo di esclusione dalla procedura
ad evidenza pubblica (sul punto, cfr. anche Cons. St., Sez.
V, n. 131/ 2009);
c) poiché il citato art. 38 ha un chiaro
contenuto di ordine pubblico, esso si applica a prescindere
dal suo richiamo, inserimento espresso o inserzione fra le
specifiche clausole che regolano la singola gara.
La natura di ordine pubblico dell’art. 38 e la sua funzione
di eterointegrazione della legge di gara indipendentemente
dal suo richiamo, inserimento espresso o inserzione fra le
specifiche clausole che regolano la singola gara, è stata
ribadita dal Tar di Palermo, con la sentenza della Sezione I
n. 1933/2011.
In tale pronuncia il Tar di Palermo ha anche richiamato la
precedente sentenza n. 70/2011 della medesima Sezione, in
cui, tra l’altro, si è condivisibilmente affermato che:
a)
“l’art. 38… impone, a pena di esclusione dalla gara (ex multis: TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 15.03.2010 n. 2915;
TAR Piemonte Torino, Sez. II, 05.03.2010 n. 1426; TAR
Campania, Napoli, Sez. I, 01.03.2010 n. 1206), la
dichiarazione, con riferimento a tutti i soggetti ivi
previsti, dell’assenza di tutti gli elementi ostativi
espressamente ed analiticamente ivi indicati… anche in caso
di mancata espressa previsione del bando di gara, attesa la
natura di ordine pubblico dell’obbligo in questione (TAR
Sicilia, Palermo, Sez. I, 04.12.2008 n. 1565; TAR
Sardegna, Cagliari, Sez. I, 14.02.2008 n. 190)”;
b) ciò in
quanto le “predette dichiarazioni sono richieste per una
finalità che non è solo di garanzia sull'assenza di ostacoli
pure di natura etica all’aggiudicazione del contratto, ma
anche per una ordinaria verifica sull’affidabilità dei
soggetti partecipanti: la concreta carenza di condizioni
ostative costituisce un elemento successivo rispetto alla
conoscenza di una situazione di astratta sussistenza dei
requisiti morali e giuridici che lambiscono in modo
determinante la professionalità degli amministratori” (sul
punto cfr. anche C.d.S., Sez. Sez. V, 12.06.2009, n.
3742).
Ne consegue che non può condividersi la tesi della
controinteressata secondo cui l’esclusione dalla procedura
dovrebbe essere disposta nel solo caso di effettiva
sussistenza di una delle condizioni ostative previste dal
primo comma dell’art. 38, mentre tale conseguenza dovrebbe
escludersi nell’ipotesi in cui, in difetto di una specifica
previsione di esclusione contenuta nella “lex specialis”, un
concorrente abbia omesso di rendere alcuna delle
dichiarazioni previste.
Il secondo comma dell’art. 38 prevede, infatti, che il
candidato o concorrente attesti il possesso dei requisiti
mediante dichiarazione sostitutiva in conformità alla
previsioni di cui al d.p.r. n. 445/2000 e ciò impone di
interpretare l’espressione di cui al comma precedente (“sono
esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento
delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e
servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non
possono stipulare i relativi contratti i soggetti che si
trovano…, etc.”) nel senso che tale esclusione non dipende
dall’effettiva insussistenza -in concreto- della
situazione ostativa, ma dalla semplice assenza della
dichiarazione sostitutiva prevista dal comma successivo, in
ragione della funzione di eterointegrazione della “lex specialis” riconosciuta al citato art. 38, la cui finalità -come evidenziato dalla giurisprudenza indicata-
è (anche) quella di consentire all’Amministrazione di
accertare in via preliminare, nel rispetto della “par
condicio” di tutti i partecipanti alla gara, l’astratta
insussistenza delle condizioni ostative di cui alla
disposizione in questione
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 03.08.2012 n. 1989 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L'atto
amministrativo di convalida di un precedente provvedimento
viziato di incompetenza non vale a riaprire i termini per
l'impugnazione dell'atto convalidato, avendo per sua natura
carattere retroattivo.
Ciò in quanto, con la convalida, e con la ratifica, gli
effetti giuridici, a differenza della rinnovazione dell’atto
amministrativo, vanno imputati all’atto convalidato, con la
conseguenza che l’intervenuta convalida/ratifica di un atto
amministrativo viziato per incompetenza, proprio per il suo
carattere retroattivo, non riapre i termini per
l’impugnazione dell’atto convalidato.
Il Collegio rileva come, per orientamento
pacifico (Cons. Stato, Sez. V, 21.02.1987, n. 111 e
TAR Calabria, Catanzaro, 30.05.2001, n. 878), l'atto
amministrativo di convalida di un precedente provvedimento
viziato di incompetenza non vale a riaprire i termini per
l'impugnazione dell'atto convalidato, avendo per sua natura
carattere retroattivo.
Ciò in quanto, con la convalida, e con la ratifica, gli
effetti giuridici, a differenza della rinnovazione dell’atto
amministrativo, vanno imputati all’atto convalidato, con la
conseguenza che l’intervenuta convalida/ratifica di un atto
amministrativo viziato per incompetenza, proprio per il suo
carattere retroattivo, non riapre i termini per
l’impugnazione dell’atto convalidato (cfr. TAR Lazio, II
Sez., 11.10.1982 n. 838)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 03.08.2012 n. 1971 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
potere di sospensione dei lavori in corso, attribuito
all’Autorità comunale dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché dall’art. 3 della l.r.
Umbria 03.11.2004, n. 21, è di tipo cautelare, in
quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori
determini un aggravarsi del danno urbanistico; alla natura
interinale del potere consegue che il provvedimento emanato
nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà,
fino all’adozione dei provvedimenti definitivi.
Logico
corollario di ciò è che a seguito dello spirare del termine
di quarantacinque giorni, ove l’Amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo,
l’ordine in questione perde ogni efficacia, mentre
nell’ipotesi di adozione del provvedimento sanzionatorio, è
quest’ultimo che determina la lesione della sfera giuridica
del destinatario, con assorbimento dell’ordine di
sospensione dei lavori.
---------------
In presenza di un abuso edilizio, non vi è spazio per
apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del
potere repressivo costituisce atto dovuto, per il quale è in
re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione.
Il potere di reprimere abusi edilizi non è soggetto a
prescrizione né a decadenza, stante il carattere di illecito
permanente dell’abuso; il lungo tempo trascorso può assumere
rilievo solo allorché l’opera sia stata ritenuta, anche
implicitamente, regolare dall’Amministrazione, in occasione
dell’esame di precedenti pratiche edilizie, di attività di
vigilanza sul territorio o di altre attività amministrative.
Ed invero, secondo il consolidato indirizzo
giurisprudenziale, il potere di sospensione dei lavori in
corso, attribuito all’Autorità comunale dall’art. 27, comma
3, del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché dall’art. 3 della l.r.
Umbria 03.11.2004, n. 21, è di tipo cautelare, in
quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori
determini un aggravarsi del danno urbanistico; alla natura
interinale del potere consegue che il provvedimento emanato
nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà,
fino all’adozione dei provvedimenti definitivi. Logico
corollario di ciò è che a seguito dello spirare del termine
di quarantacinque giorni, ove l’Amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo,
l’ordine in questione perde ogni efficacia, mentre
nell’ipotesi di adozione del provvedimento sanzionatorio, è
quest’ultimo che determina la lesione della sfera giuridica
del destinatario, con assorbimento dell’ordine di
sospensione dei lavori.
Nel caso di specie l’ordine di sospensione è stato impugnato
congiuntamente all’ordine di demolizione n. 29 del 22.09.2010, e comunque allorché era già decorso il
termine di efficacia della sospensione dei lavori, con
conseguente inammissibilità, in parte qua, del ricorso (in
termini, tra le tante, TAR Veneto, Sez. II, 08.02.2012, n. 198; TAR Lazio, Sez. I-quater,
08.06.2011, n.
5121; 08.11.2010, n. 33243; Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008, n. 6550).
---------------
Ciò chiarito, è
sufficiente ricordare il costante indirizzo
giurisprudenziale secondo cui, in presenza di un abuso
edilizio, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali,
atteso che l’esercizio del potere repressivo costituisce
atto dovuto, per il quale è in re ipsa l’interesse pubblico
alla sua rimozione (tra le tante, da ultimo, Cons. Stato,
Sez. IV, 06.03.2012, n. 1260).
Anche di recente, questo Tribunale Amministrativo ha avuto
modo di affermare che il potere di reprimere abusi edilizi
non è soggetto a prescrizione né a decadenza, stante il
carattere di illecito permanente dell’abuso; il lungo tempo
trascorso può assumere rilievo solo allorché l’opera sia
stata ritenuta, anche implicitamente (il che non è nel caso
di specie, come si è cercato in precedenza di chiarire),
regolare dall’Amministrazione, in occasione dell’esame di
precedenti pratiche edilizie, di attività di vigilanza sul
territorio o di altre attività amministrative (TAR
Umbria, 30.05.2012, n. 197)
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 03.08.2012 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
potere-dovere di sanzionare gli abusi edilizi non si consuma
per il trascorrere del tempo, avendo i termini previsti
dalla normativa in materia carattere ordinatorio. L’ordine
di demolizione, al pari di tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, e quindi
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti.
E’ perciò legittima l’ordinanza di demolizione il cui
presupposto sia costituito soltanto
dalla constatata esecuzione dell’opera in difformità dal
titolo abilitativo od in carenza dello stesso, con la
conseguenza che, ove ricorrano tali requisiti, il
provvedimento è sufficientemente motivato, essendo in re ipsa
l’interesse pubblico alla sua rimozione.
Il lungo tempo trascorso dal momento della realizzazione
dell’opera può assumere rilievo solamente allorché l’opera
stessa sia stata ritenuta, anche implicitamente, regolare
dalla stessa Amministrazione, in occasione dell’esame di
precedenti pratiche edilizie, di attività di vigilanza sul
territorio, o di altre attività amministrative.
Non ha perciò alcuna importanza che la capanna adibita a
manufatto agricolo preesistesse da oltre cinquanta anni e
che solo nel 2001 l’abuso sia stato contestato. Ed è
altrettanto irrilevante che gli altri manufatti
preesistessero da oltre quaranta anni, non potendo
l’amministrazione abdicare alle proprie funzioni di
vigilanza sulle trasformazioni del territorio.
Per le stesse ragioni sinora evidenziate va
anche disatteso il secondo motivo di violazione dell’art. 3,
L. n. 241/1990, dedotto sotto il profilo della mancanza di
idonea motivazione sull’interesse al ripristino della
legalità edilizia dopo il lunghissimo tempo trascorso (fra i
quaranta e i cinquanta anni) d’inattività del comune.
Per giurisprudenza costante del Tribunale, il
potere-dovere di sanzionare gli abusi edilizi non si consuma
per il trascorrere del tempo, avendo i termini previsti
dalla normativa in materia carattere ordinatorio (TAR
Umbria Perugia, 07.12.2010, n. 522). L’ordine di
demolizione, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori
in materia edilizia, è atto vincolato, e quindi non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti (TAR Umbria 30.05.2012, n.
197).
E’ perciò legittima l’ordinanza di demolizione il cui
presupposto, come quella impugnata, sia costituito soltanto
dalla constatata esecuzione dell’opera in difformità dal
titolo abilitativo od in carenza dello stesso, con la
conseguenza che, ove ricorrano tali requisiti, il
provvedimento è sufficientemente motivato, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione (TAR Umbria 11.06.2012, n. 205).
Il lungo tempo trascorso dal momento della
realizzazione dell’opera può assumere rilievo solamente
allorché l’opera stessa sia stata ritenuta, anche
implicitamente, regolare dalla stessa Amministrazione, in
occasione dell’esame di precedenti pratiche edilizie, di
attività di vigilanza sul territorio, o di altre attività
amministrative (TAR Umbria, 21.01.2010, n. 23).
Non ha perciò alcuna importanza che la capanna adibita a
manufatto agricolo preesistesse da oltre cinquanta anni e
che solo nel 2001 l’abuso sia stato contestato. Ed è
altrettanto irrilevante che gli altri manufatti
preesistessero da oltre quaranta anni, non potendo
l’amministrazione abdicare alle proprie funzioni di
vigilanza sulle trasformazioni del territorio (TAR Umbria
Perugia, 07.12.2010, n. 522)
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 03.08.2012 n. 316 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
provvedimento di revoca dell’atto amministrativo, quando
incide su posizioni in precedenza acquisite dal privato,
deve essere adeguatamente motivato non soltanto con
riferimento ai motivi di interesse pubblico che la
giustificano, ma anche in considerazione delle posizioni
consolidate in capo al privato e all’affidamento di
quest’ultimo ingenerato dal provvedimento sottostante.
... per l'annullamento
dell’ordinanza sindacale n. 178 del 29.03.1995 con la quale si è
disposta la rimozione di quattro insegne luminose frontali
l’esercizio di agenzia di viaggi della ricorrente società;
di ogni atto connesso.
...
E’ controverso nel presente giudizio la legittimità dell’atto, in epigrafe
meglio specificato, con il quale la resistente
amministrazione ha disposto la rimozione di quattro insegne
luminose frontali l’esercizio di agenzia di viaggi della
ricorrente società che nelle proprie censure si duole
dell’illegittimità del provvedimento sotto molteplici
profili.
Deduce al riguardo che l’atto si caratterizza, oltre che per
la sua natura sanzionatoria, anche quale criptico
provvedimento di annullamento dell’autorizzazione a suo
tempo rilasciata, il tutto in violazione dei principi di
autotutela.
La censura coglie nel segno.
E’ consolidato in giurisprudenza il principio in forza del
quale il provvedimento di revoca dell’atto amministrativo,
quando incide su posizioni in precedenza acquisite dal
privato, deve essere adeguatamente motivato non soltanto con
riferimento ai motivi di interesse pubblico che la
giustificano, ma anche in considerazione delle posizioni
consolidate in capo al privato e all’affidamento di
quest’ultimo ingenerato dal provvedimento sottostante (ex multis Cons. St. Sez. V 25.09.2006 n. 5622).
Poiché nell’atto gravato le ragioni che giustificano la
misura adottata dall’amministrazione comunale, incidente
sfavorevolmente sulla sfera giuridica dell’azienda, non
appare conforme al paradigma emergente dai citati principi
giurisprudenziali siccome carente di adeguata motivazione in
ordine all’affidamento riposto dalla parte , la censura in
esame deve stimarsi fondata e come tale va accolta, con
l’annullamento del provvedimento impugnato, fatti salvi gli
ulteriori provvedimenti dell’amministrazione
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.08.2012 n. 1604 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Circa gli atti preparatori c.d endoprocedimentali, non dotati di
autonoma lesività, eventuali suoi vizi possono essere fatti
valere, unicamente in via derivata, impugnando il
provvedimento finale.
Parimenti non impugnabile è la nota del 06.04.1994, con cui
l’amministrazione regionale ha comunicato all’interessato
l’avvio del procedimento di recupero, ai sensi degli artt. 7
ed 8 della legge n. 241/1990, della somma indebitamente
percepita secondo quanto specificato nella stessa
comunicazione.
Tale nota infatti rientra nella categoria
degli atti preparatori c.d endoprocedimentali, non dotati di
autonoma lesività; pertanto, eventuali suoi vizi possono
essere fatti valere, unicamente in via derivata, impugnando
il provvedimento finale (TAR Lazio Latina, sez. I,
14.0.2009, n. 24; TAR Piemonte Torino, sez. I, 25.10.2008 ,
n. 2684) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.08.2012 n. 1602 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
realizzazione di un muro di recinzione, peraltro di
consistenza piuttosto limitata, il quale non comporta alcuna
trasformazione urbanistica del territorio, né ha alcuna particolare
incidenza sul carico urbanistico e sulla conformazione dei
luoghi, esprime una facoltà accessoria al diritto
dominicale, consistente nel potere di escludere l'accesso
indebito di terzi nell'area di proprietà e non risulta
soggetto ad alcun titolo abilitativo.
Invero, qualora la recinzione, collocata in zona non urbana,
abbia una ridotta incidenza e consistenza, non altera
sensibilmente il territorio e costituisce solo minimale
espressione del diritto di proprietà: detto manufatto
apparendo non idoneo a mutare l'aspetto del territorio in
essere non richiede il titolo abilitativo edilizio.
Deduce il ricorrente difetto di motivazione del
provvedimento impugnato poiché, a fronte di una DIA
finalizzata alla mera costruzione di un muro di recinzione
nei pressi del fabbricato di proprietà del ricorrente sito
in località Case Campoli (area PEEP), il provvedimento di
inammissibilità della DIA non risulta sufficientemente
motivato.
La censura è fondata posto che la realizzazione di
un muro di recinzione, peraltro di consistenza piuttosto
limitata, il quale non comporta alcuna trasformazione
urbanistica del territorio, né ha alcuna particolare
incidenza sul carico urbanistico e sulla conformazione dei
luoghi, esprime una facoltà accessoria al diritto
dominicale, consistente nel potere di escludere l'accesso
indebito di terzi nell'area di proprietà e non risulta
soggetto ad alcun titolo abilitativo.
A tal proposito il
TAR Brescia Lombardia sez. I, 15.02.2012, n. 234 ha
affermato che “Qualora la recinzione, collocata in zona
non urbana, abbia una ridotta incidenza e consistenza, non
altera sensibilmente il territorio e costituisce solo
minimale espressione del diritto di proprietà: detto
manufatto apparendo non idoneo a mutare l'aspetto del
territorio in essere non richiede il titolo abilitativo
edilizio”
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 02.08.2012 n. 637 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In ragione del contenuto rigidamente vincolato
che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia
edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione
abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione di
avvio del relativo procedimento.
In caso di ordine di demolizione delle opere abusive, non è
necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ex
art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto dovuto e
rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario; né, per lo
stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia
conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico
alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che
sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990;
il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è
costituito, infatti, esclusivamente dalla constatata
esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del
titolo abilitativo con la conseguenza che il provvedimento,
ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua
rimozione.
Anzitutto, con riferimento alla dedotta violazione delle garanzie
partecipative, la giurisprudenza prevalente ha avuto modo di
stabilire che: “in ragione del contenuto rigidamente
vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in
materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di
costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla
comunicazione di avvio del relativo procedimento” (TAR
Liguria Genova, sez. I, 22.04.2011, n. 666).
Analogamente: “in caso di ordine di demolizione delle opere
abusive, non è necessaria la comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di
atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al
quale non sono richiesti apporti partecipativi del
destinatario; né, per lo stesso motivo, si richiede una
specifica motivazione che dia conto della valutazione delle
ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna
violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990; il presupposto
per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito,
infatti, esclusivamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo
abilitativo con la conseguenza che il provvedimento, ove
ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato
con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera,
essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione”
(TAR Campania Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702) (TAR Lazio-Latina,
sentenza 02.08.2012 n. 635 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’ordinanza che dispone la sospensione di lavori ritenuti abusivi,
è dotata di una efficacia temporanea che viene meno
se nel termine di 45 giorni dalla sua adozione non vengono
adottati provvedimenti sanzionatori definitivi (art. 27 del
D.P.R. 380 del 2001); conseguentemente, qualora
l’inefficacia intervenga nel corso del giudizio la relativa
impugnazione va dichiarata improcedibile.
L’ordinanza che dispone la sospensione di lavori ritenuti abusivi,
è dotata infatti di una efficacia temporanea che viene meno
se nel termine di 45 giorni dalla sua adozione non vengono
adottati provvedimenti sanzionatori definitivi (art. 27 del
D.P.R. 380 del 2001); conseguentemente, qualora
l’inefficacia intervenga nel corso del giudizio la relativa
impugnazione va dichiarata improcedibile (ex multis
TAR Lazio n. 174/2009; TAR Liguria n. 66/2009) (TAR Lazio-Latina,
sentenza 02.08.2012 n. 634 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: I
vincoli di destinazione, imposti dai Piani per Insediamenti
Produttivi, decaduti per decorso del decennio ex art. 27,
comma 3, L. n. 865/1971, possono essere reiterati anche
mediante un atto di variante limitato ad una parte dell’area PIP
e/o ad alcuni lotti.
Tuttavia, in caso di reiterazione del vincolo preordinato
all’esproprio il Comune deve procedere con una ponderata
valutazione degli interessi coinvolti e perciò deve indicare
le ragioni che rendono necessaria la reiterazione del
vincolo, come per es. il raggiungimento di specifiche e
compravate esigenze pubbliche.
Pur tenendo conto della circostanza che i
vincoli di destinazione, imposti dai Piani per Insediamenti
Produttivi, decaduti per decorso del decennio ex art. 27,
comma 3, L. n. 865/1971, possono essere reiterati anche
mediante un atto di variante, come nella specie, limitato ad
una parte dell’area PIP e/o ad alcuni lotti, va rilevato che
in caso di reiterazione del vincolo preordinato
all’esproprio il Comune deve procedere con una ponderata
valutazione degli interessi coinvolti e perciò deve indicare
le ragioni che rendono necessaria la reiterazione del
vincolo, come per es. il raggiungimento di specifiche e
compravate esigenze pubbliche (sul punto cfr. C.d.S. Ad.
Plen. Sent. n. 7 del 24.05.2007) (TAR Basilicata,
sentenza 02.08.2012 n. 373 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Proroga termine validità concessione edilizia.
L’efficacia temporale dei titoli edilizi, com’è noto,
decorre con la comunicazione dell’inizio dei lavori e
termina con quella di comunicazione di fine dei lavori. L’eventuale protrazione della validità del titolo edilizio può
essere accordata solo nel caso di presentazione della
proroga prima della scadenza del titolo stesso.
Tuttavia,
l’efficacia di quest’ultimo non può essere posticipata
nell’ipotesi in cui, vi è una formale comunicazione
dell’avvenuta ultimazione delle opere edilizie. Inoltre, non
può nemmeno invocarsi il fatto che la comunicazione di
ultimazione dei lavori è stata effettuata al solo fine di
ottenere l’agibilità dei fabbricati, dacché
propedeutico all’attestazione della conformità ai requisiti
igienico-sanitari e di sicurezza dell’edificio è
l’adempimento dell’avvenuto collaudo o certificato di
regolare esecuzione delle opere.
I titoli edilizi hanno, com’è
noto, efficacia temporale che decorre, in particolare, con
la comunicazione dell’inizio dei lavori e termina con quella
di comunicazione di fine dei lavori.
La protrazione della validità del titolo edilizio può essere
accordata in relazione alla presentazione di proroga prima
della scadenza del titolo stesso, ma l’efficacia del
medesimo non può essere posticipata nell’ipotesi in cui,
come nella specie, è la concessionaria stessa a far presente
con formale comunicazione l’avvenuta ultimazione delle opere
edilizie.
Né può invocarsi il fatto che la comunicazione di
ultimazione dei lavori è stata effettuata al solo fine di
ottenere l’agibilità dei fabbricati, dacché propedeutico
all’attestazione della conformità ai requisiti
igienico-sanitari e di sicurezza dell’edificio è
l’adempimento dell’avvenuto collaudo o certificato di
regolare esecuzione delle opere (artt. 23, 24 e 25 del Testo
unico sull’edilizia di cui al DPR n. 320/2001)
(massima
tratta da www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza
01.08.2012 n.
4403 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il decreto di annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica deve spiegare il contrasto delle opere con
l’ambiente e non può travalicare in una non consentita
valutazione di merito.
La destinazione di un’area a zona agricola ben può essere
effettuata a salvaguardia del paesaggio o dell’ambiente, non
presuppone necessariamente che l’area stessa venga
utilizzata ad uso agricolo e ben può consentire la
realizzazione di manufatti nei limiti delle previsioni del
piano regolatore generale ad essa relative.
Nei casi in cui la discrezionalità tecnico/amministrativa
abbia un ruolo considerevole, un diniego di nulla osta deve
essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà
dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che
sconsigliano alla P.A. di non ammettere un determinato
intervento: affermare che un determinato intervento
compromette gli equilibri ambientali della zona interessata
per le incongruenze fra tipologia e materiali scelti e
contesto paesaggistico senza nulla aggiungere, non spiega
alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne
deriverebbe ed è un mero postulato apodittico.
Per quanto concerne la motivazione idonea a sorreggere un
provvedimento di diniego del richiesto nulla osta per la
costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, deve
chiarirsi che l’Amministrazione non può limitare la sua
valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio
ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule
stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una
sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le
quali si ritiene che un’opera non sia idonea ad inserirsi
nell’ambiente, attraverso l’individuazione degli elementi di
contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico
accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.
La giurisprudenza, relativamente all’esercizio dei poteri inibitori
della Soprintendenza, ha più volte sostenuto che “il decreto
di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica deve
spiegare il contrasto delle opere con l’ambiente e non può
travalicare in una non consentita valutazione di merito” (ex multis, Cons. St., Sez. VI, 27.02.2012 n. 1096).
Questo Collegio, di recente (sent. n. 882/2012, depositata
in data 11.05.2012), ha ricordato che la destinazione di
un’area a zona agricola ben può essere effettuata a
salvaguardia del paesaggio o dell’ambiente, non presuppone
necessariamente che l’area stessa venga utilizzata ad uso
agricolo (Cons. St., sez. VI, 03.11.2008, n. 5478) e ben
può consentire la realizzazione di manufatti nei limiti
delle previsioni del piano regolatore generale ad essa
relative (Cons. St., sez. VI, 25.09.2002, n. 259).
In fattispecie affini alla presente, la giurisprudenza
amministrativa ha avuto modo di precisare che “nei casi in
cui –come quello in esame– la discrezionalità
tecnico/amministrativa abbia un ruolo considerevole, un
diniego di nulla osta deve essere assistito da una
motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni
ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di non
ammettere un determinato intervento: affermare che un
determinato intervento compromette gli equilibri ambientali
della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e
materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla
aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle
bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero
postulato apodittico” (TAR Liguria, sez. I, 22.12.2008, n. 2187; TAR Piemonte, sez. I, n. 1153/2011).
Ed ancora: “Per quanto concerne la motivazione idonea a
sorreggere un provvedimento di diniego del richiesto nulla
osta per la costruzione in area soggetta a vincolo
paesaggistico, deve chiarirsi che l’Amministrazione non può
limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un
pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o
formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una
sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le
quali si ritiene che un’opera non sia idonea ad inserirsi
nell’ambiente, attraverso l’individuazione degli elementi di
contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico
accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche”
(TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23751) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 01.08.2012 n. 1591 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'art. 32 l. 47/1985 nel prevedere la necessità
del parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del
vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni
in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e
pertanto deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di
pronuncia dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo
sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento
in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a
prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato
introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde
all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il
vincolo dei manufatti realizzati abusivamente.
La variegata motivazione dell’atto impugnato si fonda, in primo luogo,
sulla pretesa inammissibilità di una autorizzazione
paesaggistica ex post cioè rilasciata rispetto ad opere già
realizzate.
In senso contrario, è sufficiente osservare che
l’istanza cui si riferisce il provvedimento impugnato è
stata avanzata ai sensi della legge n. 724/1994, la quale, ha
in sostanza comportato la riapertura dei termini del
precedente condono –ovverosia risalente al 1985–
prevedendo l’art. 39 del citato corpus normativo che “Le
disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come
ulteriormente modificate dal presente articolo, si applicano
alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.12.1993…”.
Il rinvio operato dalla legge alla
disciplina del precedente condono comporta che trova
applicazione per esso l’art. 32 della legge n. 47/1985 che
consente la sanatoria, almeno in linea generale, anche degli
immobili insistenti su aree sottoposte a vincolo
paesaggistico. Esso, al primo comma, primo periodo, infatti
statuisce che “Fatte salve le fattispecie previste
dall'articolo 33, il rilascio del titolo abilitativo
edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili
sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole
delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo
stesso”.
La giurisprudenza ha peraltro osservato, in ordine
a tale disposizione, che essa “nel prevedere la necessità
del parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del
vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni
in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e
pertanto deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di
pronuncia dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo
sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento
in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a
prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato
introdotto, atteso che tale valutazione corrisponde
all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il
vincolo dei manufatti realizzati abusivamente” (cfr. C.
Stato, 5517 - 12.10.2011 - Sez. VI) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 01.08.2012 n. 1587 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il presupposto per l'applicazione del rito
speciale è il silenzio della P.A. e, in particolare,
l'omissione di provvedimento che acquista rilevanza come
ipotesi di silenzio-rifiuto, attraverso il relativo,
caratteristico procedimento, quando la medesima si sia resa
inadempiente, restando inerte, ad un obbligo di provvedere.
Quest'ultimo può scaturire dalla legge, o dalla peculiarità
della fattispecie, per la quale ragioni di equità impongono
l'adozione di un provvedimento al fine, soprattutto, di
consentire al privato (data la particolarità del processo
amministrativo, che è sostanzialmente un processo sull'atto)
di adire la giurisdizione per far valere le proprie ragioni.
L'obbligo di provvedere dell'Amministrazione, poi, a sua
volta, presuppone che l'istanza del richiedente sia rivolta
ad ottenere un provvedimento cui questi abbia un diretto
interesse e che essa non appaia subito irragionevole ovvero
risulti all'evidenza infondata.
Pertanto, scopo del ricorso contro il silenzio-rifiuto è
ottenere un provvedimento esplicito dell'Amministrazione,
che elimini lo stato di inerzia ed assicuri al privato una
decisione che investe la fondatezza o meno della sua
pretesa.
La fonte dell'obbligo giuridico di provvedere consiste, di
solito, in una norma di legge, di regolamento od in un atto
amministrativo, ma non necessariamente deve derivare da una
disposizione puntuale e specifica, potendosi, talora,
desumere anche da prescrizioni di carattere generale e/o dai
principi generali regolatori dell'azione amministrativa.
Il rimedio giurisdizionale previsto dall'art. 117 c. p. a. è
volto esclusivamente a far accertare l'inerzia
dell'Amministrazione nel pronunziarsi in ordine ad una
istanza, a fronte della quale -a carico della stessa
Amministrazione- sussiste un obbligo a provvedere. Pertanto,
si può ritenere che, a prescindere dall'esistenza di una
specifica disposizione normativa impositiva, l'obbligo di
provvedere sussiste in tutte quelle ipotesi in cui, in
relazione al dovere di correttezza e di buona
amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato
una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le
ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) di
quest'ultima.
Il ricorso è fondato.
Occorre premettere che il presupposto per l'applicazione del
rito speciale è il silenzio della P.A. e, in particolare,
l'omissione di provvedimento che acquista rilevanza come
ipotesi di silenzio-rifiuto, attraverso il relativo,
caratteristico procedimento, quando la medesima si sia resa
inadempiente, restando inerte, ad un obbligo di provvedere.
Quest'ultimo può scaturire dalla legge, o dalla peculiarità
della fattispecie, per la quale ragioni di equità impongono
l'adozione di un provvedimento al fine, soprattutto, di
consentire al privato (data la particolarità del processo
amministrativo, che è sostanzialmente un processo sull'atto)
di adire la giurisdizione per far valere le proprie ragioni.
L'obbligo di provvedere dell'Amministrazione, poi, a sua
volta, presuppone che l'istanza del richiedente sia rivolta
ad ottenere un provvedimento cui questi abbia un diretto
interesse e che essa non appaia subito irragionevole ovvero
risulti all'evidenza infondata (cfr. TAR Lazio Roma, sez.
I, 01.12.2010, n. 34860).
Pertanto, scopo del ricorso contro il silenzio-rifiuto è
ottenere un provvedimento esplicito dell'Amministrazione,
che elimini lo stato di inerzia ed assicuri al privato una
decisione che investe la fondatezza o meno della sua pretesa
(ex multis: Cons. Stato: Sez. VI 10.06.2003 n. 3279;
Sez. V 12.10.2004 n. 6528; Sez. V 26.04.2005, n.
1913; Sez. V 05.02.2007, n. 457).
La fonte dell'obbligo giuridico di provvedere consiste, di
solito, in una norma di legge, di regolamento od in un atto
amministrativo, ma non necessariamente deve derivare da una
disposizione puntuale e specifica, potendosi, talora,
desumere anche da prescrizioni di carattere generale e/o dai
principi generali regolatori dell'azione amministrativa (cfr. Tar Calabria - Catanzaro - n. 939/2009).
Il rimedio giurisdizionale previsto dall'art. 117 c. p. a. è
volto esclusivamente a far accertare l'inerzia
dell'Amministrazione nel pronunziarsi in ordine ad una
istanza, a fronte della quale -a carico della stessa
Amministrazione- sussiste un obbligo a provvedere.
Pertanto, si può ritenere che, a prescindere dall'esistenza
di una specifica disposizione normativa impositiva,
l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle ipotesi in
cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona
amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato
una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le
ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) di
quest'ultima (cfr.: Cons. Stato Sez. V 22-11-1991 n. 1331).
Orbene, applicando i suesposti principi al caso di specie,
si può ritenere fondata la pretesa del ricorrente ad
ottenere la declaratoria di illegittimità del silenzio
serbato dall’Amministrazione del Comune di Tramonti a
seguito dell'avvio del procedimento ad iniziativa di parte
innescato dal ricorrente stesso con la domanda di proroga
per l’ultimazione dei lavori di cui al permesso di costruire
n. 65/2003 rilasciato per la realizzazione di un impianto di
distribuzione del carburante sulla sua proprietà in località
Chiunzi. Risulta dagli atti di causa che tale istanza è
stata ricevuta dagli uffici comunali in data 04.05.2012 e che
non è intervenuta in merito alcuna determinazione
dell’Amministrazione.
Conclusivamente, alla luce delle svolte considerazioni, si
ordina al Comune di Tramonti di adottare provvedimento
espresso relativo alla domanda di proroga inoltrata dal
ricorrente in data 07.01.2012, e successiva diffida del 04.05.2012, nel termine di 60 (sessanta) giorni dalla
notificazione ovvero dalla comunicazione della presente
decisione.
Nomina sin d’ora, per il caso di ulteriore inerzia alla
scadenza del termine anzidetto, il Prefetto della Provincia
di Salerno, o suo delegato, quale Commissario ad Acta,
che provvederà in luogo dell’Amministrazione inadempiente su
impulso di parte (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 01.08.2012 n. 1580 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Vano seminterrato visibile all’esterno.
E’ legittimo
l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata
dal comune, non avendo l’autorità comunale sufficientemente
valutato, tra l’altro, l’impatto negativo sul paesaggio
circostante che la realizzazione di un vano seminterrato ha
comportato.
Non è sostenibile il carattere neutro di detto
vano ai fini paesaggistici, dato che il manufatto spacciato
per interrato, si presenta in realtà quasi alla stregua di
un vano fuori terra, risultando scoperto su due lati e ben
visibile all’esterno da più punti di osservazione.
Dunque, non appare immotivata la conclusione della
Soprintendenza in ordine alla non sufficiente valutazione
della compromissione, ad opera dell’autorità comunale, dei
valori paesaggistici tutelati con il decreto di vincolo
sull’area.
Venendo alle censure afferenti i contenuti propri del
provvedimento soprintendentizio di annullamento della
autorizzazione, riproposti con i motivi aggiunti in primo
grado e riformulati in questa sede, il Collegio ritiene che
esse siano infondate e vadano respinte, poiché:
- il sindacato esercitato dalla Soprintendenza non ha
travalicato nel caso di specie i limiti propri che incontra
il potere di annullamento ministeriale nella disciplina
normativa transitoria (art. 159 d.lgs. cit.) applicabile
ratione temporis alla vicenda per cui è giudizio;
- in particolare, la Soprintendenza si è limitata a
rilevare, con valutazioni sul punto ineccepibili in quanto
scevre da vizi logici e da contraddittorietà dei dati
acquisiti, il vizio di difetto di motivazione e di
istruttoria che inficiava il decreto comunale oggetto di
annullamento (n. 44 del 2006), non avendo l’autorità
comunale sufficientemente valutato, tra l’altro, l’impatto
negativo che sul paesaggio circostante ha riverberato la
realizzazione del vano seminterrato;
- non appare condivisibile quanto sul punto osservato
dall’appellante a proposito del carattere ‘neutro’ di
detto vano ai fini paesaggistici, dato che, anche all’esame
del materiale fotografico acquisito agli atti di causa,
risulta che il manufatto assuntivamente “interrato”
si presenta in realtà quasi alla stregua di un vano fuori
terra, risultando scoperto su due lati e ben visibile
all’esterno da più punti di osservazione, di tal che non
appare immotivata la conclusione della Soprintendenza in
ordine alla non sufficientemente valutata compromissione, ad
opera dell’autorità comunale, dei valori paesaggistici
compendiati nel decreto di vincolo sull’area (d.m.
20.07.1966)
(massima
tratta da www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.07.2012 n. 4389
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Strada privata ad uso pubblico.
La proprietà privata di un’area non esclude l’uso pubblico
della stessa, infatti, un’area privata può ritenersi
assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l’uso
avvenga ad opera di una collettività indeterminata di
soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un
interesse pubblico di carattere generale, e non uti singuli
ossia quali soggetti che si trovano in una posizione
qualificata rispetto al bene gravato.
Inoltre, costituisce
strada pubblica quel tratto viario avente finalità di
collegamento, con funzione di raccordo o sbocco su pubbliche
vie, e che sia effettivamente utilizzata dalla collettività uti cives. L’uso del bene da parte della collettività
indifferenziata per lunghissimo tempo comporta l’assunzione
da parte del bene di caratteristiche analoghe a quelle di un
bene demaniale, ciò non può che comportare l’uso
altresì pubblico dell’area per parcheggio regolamentato in
quanto strumentale all’avvicinamento all’arenile, risultando
invero illogico e ingiustificato che ai cittadini, innovando
rispetto al consolidato e risalente stato dei luoghi, venga
consentito il libero accesso al mare vietando loro
un’attività risalente nel tempo e volta al medesimo fine.
Per la giurisprudenza
consolidata:
a) la proprietà privata di un’area non esclude l’uso
pubblico della stessa;
b) un’area privata può ritenersi assoggettata ad uso
pubblico di passaggio quando l’uso avvenga ad opera di una
collettività indeterminata di soggetti considerati uti
cives, ossia quali titolari di un interesse pubblico di
carattere generale, e non uti singuli ossia quali
soggetti che si trovano in una posizione qualificata
rispetto al bene gravato;
c) costituisce strada pubblica quel tratto viario avente
finalità di collegamento, con funzione di raccordo o sbocco
su pubbliche vie, e che sia effettivamente utilizzata dalla
collettività uti cives;
d) l’uso del bene da parte della collettività
indifferenziata per lunghissimo tempo comporta l’assunzione
da parte del bene di caratteristiche analoghe a quelle di un
bene demaniale (Cons. Stato, Sez. IV, 15.06.2012, n. 3531;
Sez. V, 10.01.2012, n. 43) (massima
tratta da www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.07.2012 n. 4386
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Gazebo in legno necessita permesso a costruire.
L’art. 3, lett. e.5), del d.P.R. n. 380/2001, ha lo scopo di
frenare il fenomeno dei c.d. abusi progressivi, infatti,
riconduce alla nozione di intervento di nuova costruzione,
anche le istallazioni di strutture non murarie, per le quali
è sempre necessario il permesso di costruire.
Una struttura
in legno costituita da un unico manufatto, non può essere
qualificata come semplice gazebo, in quanto assume la
consistenza di un vero e proprio piano in elevazione che
deve essere oggetto di concessione edilizia e di eventuale
autorizzazione paesaggistica. I caratteri della rimovibilità
della struttura e dell’assenza di opere murarie non rilevano
per nulla, quando l’installazione attua una consistente
trasformazione del tessuto edilizio, in conseguenza della
sua conformazione e della sua destinazione all’attività
imprenditoriale.
Inoltre, il carattere pertinenziale
dell'intervento non muta il suo regime giuridico (d.i.a. in
luogo di quello concessorio), in quanto la nozione di
pertinenza urbanistica ha peculiarità proprie che la
distinguono da quella civilistica, dal momento che il
manufatto, preordinato ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo
servizio, deve soprattutto avere un volume modesto, rispetto
all'edificio principale in modo da escludere ogni ulteriore
carico urbanistico.
In primo luogo, tale norma
regolamentare risulta implicitamente abrogata dall’art. 3,
lett. e.5), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, tra l’altro,
riconduce alla nozione di “intervento di nuova
costruzione" proprio “l'installazione di manufatti
leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi
genere… che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di
lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non
siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Pertanto, a tutto voler concedere, l’articolo 8 del
regolamento edilizio comunale, nel ricondurre la
realizzazione di un gazebo alla nozione di “manutenzione
straordinaria” da attuarsi con d.i.a. potrebbe, forse
riferirsi ai soli gazebo, con funzioni analoghe agli
ombrelloni, che costituiscono semplici arredi temporanei
della terrazza, ma sicuramente non concerneva una struttura
che, per le sue notevoli dimensioni strutturali e per il suo
impatto visivo, integrava un’ipotesi del tutto differente
(ma sul punto vedi amplius infra). In ogni caso cui
non vi era alcuna pregiudiziale necessità di impugnare la
detta normativa regolamentare.
Parimenti è inconferente l’assunto circa la pretesa
necessità di impugnativa della nota della Soprintendenza del
1998 sia perché per i “gazebo” occorre comunque il
permesso di costruire è conseguentemente e sia perché la
stessa risultava, comunque, del tutto superata della cogente
valenza dell'art. 167, comma 4°, lett. c) del D.L.vo
22.01.2004 n. 42, per cui, in zona vincolata, anche in caso
di “manutenzione straordinaria" di cui all'articolo 3
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 –come nel Comune di Forio-
devono essere comunque preceduti dalla previa verifica di
compatibilità paesaggistica dell'opera, con conseguente
irrilevanza dell'eventuale preventivo esercizio positivo del
controllo urbanistico/edilizio.
Per la giurisprudenza peraltro tale disciplina in caso di
realizzazione di “gazebo” deve sempre essere di
rigorosa applicazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2005
n. 714) (massima
tratta www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012 n. 4318 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Inammissibile sanatoria già rigettata.
E’
inammissibile la domanda di sanatoria presentata ex art. 13
della legge n. 47 del 1985 per essere stata rigettata,
precedentemente, domanda di condono, ex art. 39 della legge
n. 724 del 1994, avente identico contenuto e presupposti
essenziali, quale, nella specie, la mancanza del necessario
parere di compatibilità ambientale dell’intervento edilizio,
sempre per gli stessi manufatti.
Tutte dette critiche non sono fondate poiché ben può essere condivisa la
tesi comunale che è inammissibile la domanda di sanatoria
presentata ex art. 13 della legge n. 47 del 1985 per essere
stata rigettata , precedentemente, domanda di condono, ex
art. 39 della legge n. 724 del 1994, avente identico
contenuto e presupposti (essenziali) sempre per gli stessi
manufatti.
Ed invero, non può il Collegio non rilevare come
l’insanabilità dei manufatti in questione sia questione già
decisa e come, conseguentemente, sia preclusa sul punto ogni
nuova statuizione, in disparte ogni valutazione, per un
verso, circa la ripetibilità o meno di domande aventi la
stessa finalità e carenti dello stesso presupposto
essenziale, allorquando già la prima di esse sia stata
motivatamente rigettata proprio per la carenza di detto
presupposto essenziale, quale, nella specie, la mancanza del
necessario parere di compatibilità ambientale
dell’intervento edilizio e, per altro verso, circa la natura
di atto sostanzialmente confermativo del primo diniego,
essendo già stato legittimamente denegato, per la stessa
ragione, il condono ex lege n. 724 del 1994.
Inoltre, parte appellante erra nel ritenere:
- da un lato,che non sia possibile una declaratoria di
inammissibilità della sanatoria allorquando, come nella
specie, difetti comunque il presupposto necessario in
entrambe le ipotesi (cd. sanatoria ordinaria ex art. 13
citato, ovvero condono) e cioè l’assenso dell’Autorità
preposta alla tutela del vincolo, nella specie ambientale;
- dall’altro, a non riconoscere l’effetto costitutivo
proprio del giudicato, nel caso di specie ancor più
incidente proprio perché è insussistente il presupposto
essenziale richiesto, di conformità delle opere edilizie
abusive al vincolo ambientale invece esistente,
- dall’altro, ancora, l’inammissibilità in radice di ogni
forma di sanatoria, non essendo quest’ultima legittimamente
invocabile, alla luce delle norme di tutela del vincolo
ambientale (DM 17.05.1956, emanato ai sensi della legge
29.06.1939, n. 1497), stante che sono consentiti
esclusivamente il recupero conservativo degli edifici già
esistenti, nonché l’ordinaria e straordinaria manutenzione
degli stessi, nel necessario presupposto che gli immobili da
recuperare e/o manutenere siano stati ovviamente edificati
in conformità alle specifiche previsioni degli strumenti
urbanistici e delle leggi vigenti in materia, ipotesi che,
nella specie, non sono sussistenti trattandosi d nuove
edificazioni abusive.
Consegue alle considerazioni esposte che non v’era alcuna
necessità di emettere un nuovo provvedimento ingiuntivo
della demolizione dei manufatti abusivi in questione poiché,
diversamente da quanto ritenuto dall’appellante, il Comune
poteva ognora procedere di ufficio sulla base dei precedenti
provvedimenti adottati, stante la definitività
dell’accertamento di insanabilità ambientale dei manufatti,
e la Società ben poteva, qualora lo avesse effettivamente
voluto, procedere allo spontaneo abbattimento dei manufatti
abusivi, senza che vi fosse bisogno di un nuovo
provvedimentio ingiuntivo, incombendole soltanto l’obbligo
di preavvertire il Comune della propria intenzione, onde
evitare inutili aggravi procedimentali ed oneri finanziari
al Comune stesso, stante il suo iniziale inadempimento nei
termini allo scopo concessi (massima tratta www.lexambiente.it
- Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.07.2012
n. 4307 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il giudice può interrogare i dirigenti dell'ente
in causa.
Dirigenti sotto tiro. Se l'ente pubblico
finisce nel mirino dei cittadini in una causa davanti al
giudice amministrativo, il collegio può ben «interrogarne» i
dirigenti, sentendoli in udienza per chieder loro
chiarimenti in contraddittorio con le parti in causa. E il
merito è tutto del combinato disposto degli artt. 63 e 65
del nuovo codice del processo amministrativo.
È quanto emerge dall'ordinanza
27.07.2012 n. 2742 della III Sez. del TAR Lazio-Roma.
Capi «alla sbarra» -
Qualcosa non torna nell'esclusione di alcuni studenti
dall'iscrizione di un corso universitario a numero chiuso
(medicina, per la cronaca). E il collegio vuole vederci
chiaro nell'interpretazione delle norme offerta sul numero
dei posti da mettere a concorso per l'anno accademico «incriminato».
Resta da capire chi siano i dirigenti in grado di fornire i
chiarimenti che stanno a cuore ai giudici. Chi meglio del
direttore generale del Miur e del rettore dell'Ateneo?
Nessuno. E infatti sono loro i convocati per fare luce sullo
stop imposto agli aspiranti camici bianchi. I «big»
chiamati in causa possono ben farsi sostituire da alcuni
funzionari di fiducia e assistere da tecnici altrettanto
stimati. Ma qualcuno proveniente dall'ente dovrà comunque
intervenire in aula affrontando gli avvocati delle
controparti.
Audizione fondamentale -
Segnano un punto nella loro sfida per diventare medici i
giovani, che pure non riescono ancora a mettere piede in
facoltà. Al momento i giudizi non rinvengono elementi idonei
per accogliere la domanda degli studenti che chiedono
l'immediata ammissione con riserva al corso di laurea
indicato: sotto il profilo del «fumus» i magistrati
ritengono necessario acquisire ulteriori chiarimenti da
parte delle amministrazioni interessate, vale a dire
l'Ateneo e il ministero dell'istruzione. Ma viene comunque
fissata un'udienza a breve scadenza (mercoledì 7 novembre).
Il disposto dell'art. 55, comma 10, del codice processo
amministrativo risulta utile a tutelare i giovani
ricorrenti. Che audizione sia allora, con i dirigenti che
spiegheranno ai giudici perché la delibera del consiglio
della facoltà di medicina e chirurgia dell'Ateneo e i
successivi provvedimenti degli organi accademici di governo
hanno indicato un numero di posti pari a 200 (oltre i 20
riservati agli studenti extracomunitari)
(articolo ItaliaOggi dell'01.09.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni culturali. Estensione ambito di tutela.
È pienamente coerente con la funzione esercitata mediante
gli strumenti apportati dal D.lgs. 42/2004 Codice dei beni
culturali e del paesaggio, che una particolare ampiezza
della tutela si giustifica quando essa è applicata non in
relazione ad un singolo immobile, ma in relazione ad un
complesso il cui importante valore culturale si presenta in
modo unitario, che acquista o accresce interesse in
relazione alla percezione organica ed integrata
nell’ambiente in cui è inserito.
Per costante e condivisa
giurisprudenza, più volte ribadita da questo Consiglio di
Stato (per tutte, sez. VI, 06.06.2011, n. 3354) l’ampiezza
dell’ambito spaziale nel quale si rende necessario il regime
di tutela attiene alla stretta valutazione tecnica
dell’Amministrazione preposta alla cura dei beni culturali,
e che tale valutazione non è sottoposta al vaglio di
legittimità del giudice, se non per motivi di illogicità
estrinseca (massima tratta www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 25.07.2012 n. 4240
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Illegittimità spostamento manufatto.
E’ legittimo l’annullamento ministeriale dell’autorizzazione ex lege 1497/1939, rilasciata dal Comune in sanatoria, e la
conseguente ordinanza di demolizione disposta dal Sindaco a
seguito dell’annullamento ministeriale.
Infatti, lo
spostamento per cinquanta metri della collocazione del
manufatto, di notevole dimensione, avrebbe dovuto comportare
una valutazione specifica della compatibilità di tale non
autorizzata collocazione con le esigenze di tutela del
territorio protetto, essendo del tutto evidente che, anche
rimanendone ferme le dimensioni, la stessa disposizione
spaziale dell’immobile determina interferenza con il
paesaggio, e che proprio tale interferenza avrebbe dovuto
costituire oggetto di esame da parte del Comune.
Quanto alla seconda
considerazione, non è dubbio che lo spostamento per
cinquanta metri della collocazione del manufatto, di
notevole dimensione, avrebbe comportato una valutazione
specifica della compatibilità di tale non autorizzata
collocazione con le esigenze di tutela del territorio
protetto, essendo del tutto evidente che, anche rimanendone
ferme le dimensioni, la stessa disposizione spaziale
dell’immobile determina interferenza con il paesaggio, e che
proprio tale interferenza avrebbe dovuto costituire oggetto
di esame da parte del Comune.
L’autorizzazione ex lege 29.06.1939, n. 1497,
rilasciata in sanatoria dal Sindaco il 13.02.1996, omette
invece del tutto di considerare la compatibilità della nuova
collocazione con le esigenze di tutela e perciò è stata
legittimamente annullata dal Ministero, che ne ha rilevato
il profilo estrinseco della carenza di motivazione, da solo
sufficiente a sostenere la validità del provvedimento
tutorio (massima
tratta www.lexambiente.it - Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 25.07.2012
n. 4229 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La “variante semplificata” di cui
all'art. 5 del D.P.R. n. 447/1998 è pur sempre uno strumento
derogatorio ed eccezionale, di guisa che essa non solo non è
obbligatoria, nel senso che il Comune può comunque decidere
di esaminare la proposta di variante, seguendo l'iter
normale, ma non fa venir meno, in alcun modo, l'ampia
discrezionalità di cui gode il Comune nell’attività di
pianificazione urbanistica circa “an” e “quomodo” della
prestazione dell'eventuale assenso.
La variante semplificata non può comportare uno
stravolgimento dei principi e delle regole essenziali per la
corretta e razionale gestione del territorio comunale.
Ammettere il contrario, affermando che la procedura in
argomento implichi l’impossibilità per il Comune di svolgere
le indagini ritenute opportune, significherebbe svuotare le
attribuzioni assegnate dalla legge al Consiglio Comunale,
vincolando le decisioni di esso al parere della conferenza
di servizi.
Pertanto, anche quando vi sia un parere favorevole
della conferenza di servizi inteso a favorire e semplificare
la realizzazione di una struttura ricettiva, esso non è da
ritenersi vincolante per il Consiglio Comunale, il quale
autonomamente valuta se aderire o meno alla proposta.
Si consideri, a tal riguardo, che la “variante
semplificata” di cui al citato art. 5 del D.P.R. n.
447/1998, è pur sempre uno strumento derogatorio ed
eccezionale, di guisa che essa non solo non è obbligatoria,
nel senso che il Comune può comunque decidere di esaminare
la proposta di variante, seguendo l'iter normale, ma non fa
venir meno, in alcun modo, l'ampia discrezionalità di cui
gode il Comune nell’attività di pianificazione urbanistica
circa “an” e “quomodo” della prestazione
dell'eventuale assenso.
La variante semplificata non può comportare uno
stravolgimento dei principi e delle regole essenziali per la
corretta e razionale gestione del territorio comunale.
Ammettere il contrario, affermando che la procedura in
argomento implichi l’impossibilità per il Comune di svolgere
le indagini ritenute opportune, significherebbe svuotare le
attribuzioni assegnate dalla legge al Consiglio Comunale,
vincolando le decisioni di esso al parere della conferenza
di servizi (cfr.: TAR Puglia Bari, III, 05-06-2008, n.
1399).
Pertanto, anche quando vi sia –come nel caso di specie- un
parere favorevole della conferenza di servizi inteso a
favorire e semplificare la realizzazione di una struttura
ricettiva, esso non è da ritenersi vincolante per il
Consiglio Comunale, il quale autonomamente valuta se aderire
o meno alla proposta (cfr.: Cons. Stato IV, 14.04.2006 n.
2170).
Anche la circostanza di precedenti deroghe concesse per
analoghi interventi in quella zona appare inconferente e non
integra il profilo della contraddittorietà o della disparità
di trattamento, per almeno quattro ragioni:
1) perché è difficile fare confronti tra interventi simili e
tra aree contigue;
2) perché le precedenti scelte potrebbero essere la
conseguenza di errori da non ripetere;
3) perché ci può essere un limite oltre il quale la presenza
di alberghi o altre strutture simili sulla fascia marina
determini una saturazione;
4) perché le scelte urbanistiche e di governo del territorio
sono altamente discrezionali e insindacabili, se non per
manifesta illogicità (cfr.: Cons. Stato IV, 21.10.2008 n.
5159) (TAR Molise,
sentenza 25.07.2012 n. 374 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'originario titolare di un permesso di
costruire può liberarsi dagli obblighi connessi al titolo,
nel caso in cui alieni il terreno da edificare -ovvero
l'edificio in costruzione- cedendo il titolo edilizio
mediante apposita volturazione.
Con tale atto, il Comune autorizza l'acquirente a subentrare
nella titolarità del permesso di costruire e nello stesso
tempo accetta l'accollo degli oneri concessori da parte
dell'acquirente stesso, con liberazione del precedente
titolare.
La voltura non implica il rilascio di un nuovo e autonomo
titolo edilizio e non richiede, né presuppone, una nuova
verifica in ordine alla compatibilità del progetto con la
normativa urbanistico-edilizia ma solo una verifica, a
contenuto non discrezionale, in ordine alla trasferibilità
del titolo ai successori o aventi causa.
Se è vero che la norma di cui all’art. 11 del D.P.R. n.
380/2001 consente soltanto il trasferimento dell’intero
titolo edilizio e non di una parte di esso, quel che impone
di dare alla detta norma un’interpretazione di stretto
diritto (cioè, non estensiva) è proprio la natura di atto
non discrezionale della volturazione, poiché l’ipotesi che
possa essere scorporata o frazionata una parte del titolo
pone problemi di valutazione della compatibilità del
risultato con la disciplina urbanistica, che snaturerebbero
la funzione dell’istituto.
L'originario titolare di un permesso di costruire può
liberarsi dagli obblighi connessi al titolo, nel caso in cui
alieni il terreno da edificare -ovvero l'edificio in
costruzione- cedendo il titolo edilizio mediante apposita
volturazione.
Con tale atto, il Comune autorizza l'acquirente a subentrare
nella titolarità del permesso di costruire e nello stesso
tempo accetta l'accollo degli oneri concessori da parte
dell'acquirente stesso, con liberazione del precedente
titolare (cfr.: TAR Veneto Venezia, II, 16-06-2011, n.
1042).
La voltura non implica il rilascio di un nuovo e autonomo
titolo edilizio e non richiede, né presuppone, una nuova
verifica in ordine alla compatibilità del progetto con la
normativa urbanistico-edilizia ma solo una verifica, a
contenuto non discrezionale, in ordine alla trasferibilità
del titolo ai successori o aventi causa (cfr.: Tar Lazio
Latina I, 12.01.2010 n. 3).
Se è vero che la norma di cui all’art. 11 del D.P.R. n.
380/2001 consente soltanto il trasferimento dell’intero
titolo edilizio e non di una parte di esso, quel che impone
di dare alla detta norma un’interpretazione di stretto
diritto (cioè, non estensiva) è proprio la natura di atto
non discrezionale della volturazione, poiché l’ipotesi che
possa essere scorporata o frazionata una parte del titolo
pone problemi di valutazione della compatibilità del
risultato con la disciplina urbanistica, che snaturerebbero
la funzione dell’istituto (TAR Molise,
sentenza 25.07.2012 n. 373 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Reato di abbandono o deposito
incontrollato.
Nel reato di
abbandono o deposito incontrollato di rifiuti non rileva l'occasionalità
della condotta ma la qualifica dell'agente per discernere
l'illecito amministrativo da quello penale.
La normativa opera differenziazioni tra i tipi di imprese
che conferiscono i rifiuti ritenendo evidentemente
sufficiente ad attribuire valenza maggiormente offensiva
alla condotta di colui il quale operi nell'ambito di
un'attività professionale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.07.2012 n. 30123 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Normativa antisismica e responsabilità del
direttore dei lavori.
Al direttore
dei lavori compete il controllo degli adempimenti prescritti
dalla normativa antisismica. Se è vero che il reato di cui
agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001 rientra fra quelli “a
soggettività ristretta", non può esservi dubbio che
l'obbligo di rispetto degli adempimenti e di verifica della
regolarità delle opere grava su chiunque "esplica
attività tecnica" correlata all'esecuzione delle opere e
nei limiti delle specifiche responsabilità.
In altre parole, la responsabilità del direttore dei lavori
è configurabile solo per effetto dell'omesso controllo sugli
adempimenti richiesti dalla normativa antisismica (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.07.2012 n. 29478 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Abbandono e natura di reato
eventualmente permanente.
La
contravvenzione di abbandono o deposito incontrollato di
rifiuti (art. 256, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, in precedenza
enunciata nell’art. 51 della L. 22/1997) costituisce una
ipotesi di reato commissivo eventualmente permanente, la cui
antigiuridicità cessa o con il sequestro del bene o con
l'ultimo abusivo conferimento di rifiuti o con la sentenza
di primo grado (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.07.2012 n. 29460 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Potere del giudice e illegittimità del titolo
abilitativo.
Il giudice
penale può accertare la illegittimità sostanziale del titolo
abilitativo non soltanto se l'atto medesimo sia illecito,
ovvero frutto di attività criminosa per eventuali collusioni
del soggetto beneficiario con organi dell'amministrazione,
ma anche nell'ipotesi in cui sussista la non conformità
dell'atto alla normativa che ne regola l'emanazione o alle
disposizioni legislative in materia urbanistico-edilizia (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2012 n. 28545 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque. Acque meteoriche.
Rientrano tra le acque reflue quelle che provengano
dall'insediamento produttivo nella sua totalità e cioè
dall'inscindibile composizione dei suoi elementi confluenti
nel corpo recettore, a nulla rilevando che parte di essi sia
composto da liquidi non direttamente derivanti dal ciclo
produttivo, come ad esempio quelli delle acque meteoriche
necessariamente legate alla composizione chimica-fisica,
diverse da quelle proprie delle acque metaboliche e
domestiche.
L'art. 74, comma 1, lett. h),
d.lgs. n. 152 del 2006 definisce "acque reflue
industriali" qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da
edifici od installazioni in cui si svolgono attività
commerciali o di produzioni di beni, diverse dalle acque
reflue domestiche e dalle acque meteoriche o di dilavamento.
Secondo condivisibile orientamento, il refluo deve essere
considerato nell'inscindibile composizione dei suoi
elementi, a nulla rilevando che parte di esso sia composta
da liquidi non direttamente derivanti dal ciclo produttivo,
come quelli delle acque meteoriche o dei servizi igienici,
immessi in un unico corpo recettore. (Cassazione Sezione 3
n. 13376/1998, 10/11/1998 - 18/12/1998).
Ne consegue che rientrano tra le acque reflue quelle che
provengano dall'insediamento produttivo nella sua totalità e
cioè dall'inscindibile composizione dei suoi elementi
confluenti nel corpo recettore, a nulla rilevando che parte
di essi sia composto da liquidi non direttamente derivanti
dal ciclo produttivo, come ad esempio quelli delle acque
meteoriche necessariamente legate alla composizione chimica-
fisica, diverse da quelle proprie delle acque metaboliche e
domestiche (Cassazione Sezione 3, n. 42932/2002, 24/10/2002
- 19/12/2002) (massima
tratta www.lexambiente.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 12.07.2012 n. 1261 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Piantumazione di una siepe.
La posa di una semplice siepe non appare soggetta alla
necessità di un titolo edilizio e ciò ancorché l’area sia
sottoposta a vincolo paesaggistico e risulta diretta
principalmente a far valere lo ius excludendi alios, che
costituisce contenuto tipico del diritto di proprietà.
Con il ricorso in epigrafe la
Immobiliare Giade ha dedotto, in primo luogo,
l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in quanto la
piantumazione di una siepe per delimitare l’area di
proprietà, senza l’apposizione, peraltro, di alcuna rete
metallica né tantomeno l’edificazione di un muretto, non
necessiterebbe -a differenza di quanto ritenuto
dall’Amministrazione Comunale- di titolo edilizio,
rientrando tra le facoltà del proprietario.
Tale censura è fondata e meritevole di accoglimento.
Come già evidenziato dal Collegio in sede di accoglimento
della domanda cautelare, la posa di una semplice siepe non
appare soggetta alla necessità di un titolo edilizio e ciò
ancorché l’area sia sottoposta a vincolo paesaggistico (TAR
Veneto, Sez. II, 23.04.2010. n. 1547) e risulta diretta
principalmente a far valere lo ius excludendi alios,
che costituisce contenuto tipico del diritto di proprietà
(TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 05.02.2008 n. 40).
Eguali considerazioni possono ben valere anche per il
cartello “proprietà privata” (massima
tratta www.lexambiente.it - TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 05.07.2012 n. 808
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Autorizzazione alle emissioni e valori limite e
prescrizioni più severi di quelli contenuti negli allegati.
E’ la legge a prevedere il potere dell’amministrazione di
stabilire, nel provvedimento autorizzativo, valori limite e
prescrizioni “più severi di quelli contenuti negli allegati
I, II, III, e V alla parte quinta del presente decreto,
nelle normative di cui al comma 3 e nei piani e programmi di
cui al comma 4” (art. 271, comma 7, D.Lgs. 03.04.2006, n.
152).
L’esercizio di tale potere non presuppone l’esistenza
di Piani regionali per il risanamento della qualità
dell’aria, pur dovendo fondarsi su ragioni connesse alla
tutela della qualità dell’aria, emerse in sede istruttoria e
adeguatamente evidenziate in sede procedimentale (massima
tratta www.lexambiente.it - TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 29.06.2012 n. 782
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: Rifiuti. Ubicazione impianto di smaltimento.
L'impianto di smaltimento dei rifiuti non necessariamente
deve essere realizzato in zona industriale.
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La destinazione agricola di una determinata area è volta non
tanto e non solo a garantire il suo effettivo utilizzo a
scopi agricoli, quanto piuttosto a preservarne le
caratteristiche attuali di zona di salvaguardia da ogni
possibile nuova edificazione, con la conseguenza che, salvo
diverse specifiche previsioni, essa non può considerarsi
incompatibile con la realizzazione di un impianto di
discarica, tanto più che quest’ultimo deve essere
ragionevolmente localizzato al di fuori della zona abitata.
Il potere di pianificazione del territorio non può
precludere del resto insediamenti industriali in zone a
destinazione agricola, salvo che in via eccezionale, quando
cioè si sia in presenza di un assetto agricolo di
particolare pregio, consolidato da tempo remoto ovvero
favorito da opere di bonifica, ciò anche in considerazione
del fatto che la destinazione agricola ha in realtà lo scopo
di impedire insediamenti abitativi residenziali e non già
quello di precludere in via assoluta e radicale qualsiasi
intervento urbanisticamente rilevante.
Deve rilevarsi che, come emerge
dalla lettura della determinazione REGTA/669/2009 del
04.11.2009 del dirigente del Settore Tutela Territoriale ed
Ambientale della Provincia di Lodi, il diniego di
autorizzazione (per la realizzazione e l’esercizio di un
impianto di stoccaggio e trattamento di fanghi biologici, da
avviarsi a recupero mediante spandimento in agricoltura, su
un’area di sua proprietà sita nel Comune di Meleti) è stato
innanzitutto imperniato proprio sulla destinazione
urbanistica dell’area, classificata -nello strumento
urbanistico vigente del Comune di Meleti, sia in quello
vigente, sia nel PGT adottato- come zona E, agricola,
precisandosi poi, per un verso, che l’articolo 196 del
D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, prevedeva che per la
realizzazione di impianti di smaltimento e recupero dei
rifiuti dovevano essere privilegiate le aree industriali, e,
per altro verso, che la previsione contenuta nell’art 27,
comma 5, del D.Lgs. n. 22 del 1997 (ora 208 del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152), secondo cui l’approvazione del progetto
di un nuovo impianto di smaltimento o di recupero di
rifiuti, anche pericolosi, costituiva automatica variante
allo strumento urbanistico “ove occorra”, comportava
che la collocazione dell’impianto in zona diversa da quella
industriale doveva essere considerata un’eccezione,
dovendosi provare l’impossibilità di una diversa
collocazione dell’impianto da realizzare.
Peraltro detta motivazione, ad avviso della Sezione, è
frutto di un’erronea interpretazione delle disposizioni
contenute nei ricordati articoli 196 e 208 del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152.
Invero lo stesso tenore letterale del terzo comma
dell’articolo 196 esclude che la realizzazione di impianti
di smaltimento e recupero dei rifiuti debba avvenire
necessariamente ed esclusivamente in aree industriale, così
esprimendo una previsione tendenziale e di massima, un
criterio direttivo di preferenza cui devono attenersi in
linea di principio le regioni, coerentemente con la
peculiare forma verbale usata dal legislatore, secondo cui
le regioni “privilegiano” la realizzazione dei
predetti impianti in tali zone.
Del resto è agevole intuire la ratio di un simile
criterio direttivo, volto a sottolineare la natura
industriale di tali impianti, collocandoli quindi
preferibilmente, in coerenza con il disegno urbanistico
delineato dallo strumento di governo del territorio, nella
zona da quest’ultimo individuata per le attività
industriali; tuttavia, la circostanza che tale collocazione
costituisca solo una indicazione di massima ovvero un
criterio preferenziale è confermata dalla espressa
previsione che essa deve essere comunque compatibile con le
peculiari caratteristiche dell’area: insomma il legislatore
ha inteso fissare una indicazione preferenziale, astratta,
salvo poi a demandare in concreto la verifica e la
valutazione della sua compatibilità.
Di per sé, quindi, il fatto che l’area su cui era stata
prevista la realizzazione dell’impianto, oggetto della
negata autorizzazione, non fosse urbanisticamente
classificata quale zona industriale non costituiva motivo
ostativo al rilascio dell’approvazione, né imponeva, così
come suggestivamente insinuato dalle appellanti, al soggetto
richiedente di provare l’impossibilità di collocare
l’impianto da realizzare in zona industriale, spettando
piuttosto all’amministrazione il potere/dovere di verificare
comunque la compatibilità del sito prescelto con l’impianto
da realizzare.
Né poteva essere invocato, a fondamento del diniego di
autorizzazione, la circostanza che l’area su cui era stata
prevista la realizzazione dell’impianto fosse
urbanisticamente classificata, come zona agricola E.
E’ sufficiente ricordare al riguardo che, secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è
motivo di discostarsi, la destinazione agricola di una
determinata area è volta non tanto e non solo a garantire il
suo effettivo utilizzo a scopi agricoli, quanto piuttosto a
preservarne le caratteristiche attuali di zona di
salvaguardia da ogni possibile nuova edificazione, con la
conseguenza che, salvo diverse specifiche previsioni, essa
non può considerarsi incompatibile con la realizzazione di
un impianto di discarica, tanto più che quest’ultimo deve
essere ragionevolmente localizzato al di fuori della zona
abitata (C.d.S., sez. V, 01.10.2010, n. 7243; 16.06.2009, n.
3853).
E’ stato anche sottolineato che il potere di pianificazione
del territorio non può precludere del resto insediamenti
industriali in zone a destinazione agricola, salvo che in
via eccezionale, quando cioè si sia in presenza di un
assetto agricolo di particolare pregio, consolidato da tempo
remoto ovvero favorito da opere di bonifica, ciò anche in
considerazione del fatto che la destinazione agricola ha in
realtà lo scopo di impedire insediamenti abitativi
residenziali e non già quello di precludere in via assoluta
e radicale qualsiasi intervento urbanisticamente rilevante
(C.d.S., sez. V, 18.09.2007, n. 4861).
In questa ottica deve essere apprezzata la previsione
contenuta nel sesto comma dell’art. 208 del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152, secondo cui “L’approvazione
sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e
concessioni di organi regionali, provinciali e cominciali,
costituisce, ove occorra, variante allo strumento
urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità,
urgenza ed indifferibilità dei lavori”.
Essa invero sarebbe ultronea e priva di qualsiasi utilità se
l’impianto da realizzare dovesse essere collocato
obbligatoriamente ed esclusivamente in zona industriale,
laddove la ricordata previsione normativa ne permette invece
la collocazione anche in una zona che, secondo le previsioni
urbanistiche, non la tollererebbe, subordinatamente al
riscontro ed alla valutazione di compatibilità in concreto
da parte dell’amministrazione (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 28.06.2012 n. 3818
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Meno
burocrazia per i raccoglitori. Rifiuti, l'ambulante è fuori
dai registri.
L'attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi
prodotti da terzi effettuata in forma ambulante da chi
possiede il relativo titolo abilitativo deve ritenersi
sottratta alla disciplina dei rifiuti (art. 266, comma
5, dlgs 152/2006) limitatamente ai rifiuti che formano
oggetto del loro commercio.
Al contrario se viene provato che il soggetto non è un
ambulante, la raccolta e il trasporto devono essere
autorizzati. L'ambulante, secondo quanto stabilito
dall'articolo 266, comma 5, del dlgs n. 152/2006, non è
obbligato né all'iscrizione all'Albo nazionale gestori
ambientali, né alla tenuta del registro di carico e scarico
e del formulario di identificazione. Ma affinché tale
esclusione dalla disciplina sui rifiuti operi l'interessato
deve comunque essere abilitato all'esercizio dell'attività
in forma ambulante, attraverso una licenza comunale, ed
essere iscritto nel Registro delle imprese tenuto dalla Cdc.
Questo è quanto precisato dalla Corte di Cassazione, Sez.
III penale, con la
sentenza 27.06.2012 n. 25352.
Gli Ermellini a sostegno
della loro tesi ricordano che il dlgs n. 114 del 1998,
all'art. 28 prevede che «il commercio sulle aree
pubbliche può essere svolto «su qualsiasi area purché in
forma itinerante». L'esercizio dell'attività di cui al comma
1 è soggetto ad apposita autorizzazione rilasciata a persone
fisiche o a società di persone regolarmente costituite
secondo le norme vigenti. L'autorizzazione all'esercizio
dell'attività di vendita sulle aree pubbliche esclusivamente
in forma itinerante è rilasciata, in base alla normativa
emanata dalla regione, dal comune nel quale il richiedente
ha la residenza, se persona fisica, o la sede legale».
A sua volta l'art. 29 dispone che «chiunque eserciti il
commercio sulle aree pubbliche senza la prescritta
autorizzazione... è punito con la sanzione amministrativa
del pagamento di una somma da euro 2.582 a euro 25.822 e con
la confisca delle attrezzature e della merce»
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Procedimento bonifica.
Il procedimento di bonifica (disciplinato dall’art. 242
D.Lgs. 152/2006) si svolge attraverso un complesso iter
procedimentale caratterizzato da fasi ben definite e
collocate in sequenza propedeutica l’una (quella precedente)
rispetto all’altra (quella successiva). In particolare alle
misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza
segue l’elaborazione e l’approvazione del piano di
caratterizzazione nonché l’avvio della procedura di analisi
del rischio.
All’esito di tali adempimenti viene redatto e
approvato il progetto operativo degli interventi di bonifica
o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove
necessario, delle ulteriori misure di riparazione e di
ripristino ambientale. All’approvazione del progetto segue,
infine, la relativa fase esecutiva. Risulta quindi evidente
che il procedimento entra in stallo se non viene conclusa
una fase dello stesso propedeutica all’avvio della fase
successiva.
Va ricordato che il
procedimento di bonifica (disciplinato dall’art. 242 D.Lgs.
152/2006) si svolge attraverso un complesso iter
procedimentale caratterizzato da fasi ben definite e
collocate in sequenza propedeutica l’una (quella precedente)
rispetto all’altra (quella successiva). In particolare alle
misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza
segue l’elaborazione e l’approvazione del piano di
caratterizzazione nonché l’avvio della procedura di analisi
del rischio.
All’esito di tali adempimenti viene redatto e approvato il
progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa
in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario,
delle ulteriori misure di riparazione e di ripristino
ambientale. All’approvazione del progetto segue, infine, la
relativa fase esecutiva (massima
tratta www.lexambiente.it - TAR
Marche,
sentenza 22.06.2012 n. 450
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Variazione urbanistica e V.i.a.-V.a.s..
La V.A.S., ai
sensi dell’art. 11 del d.lgs. 152 del 2006, non è un
procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla
procedura di pianificazione, ma un passaggio
endoprocedimentale di esso, che si concreta nell’espressione
di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità
ambientale della pianificazione medesima.
---------------
In presenza di una variazione urbanistica funzionale alla
realizzazione di un progetto contemporaneamente interessato
dalla procedura di valutazione di impatto ambientale,
quest’ultima esaurisce le verifiche in tale fase richieste
dalla legge, mentre la V.A.S e la relativa verifica di
assoggettabilità (art. 12 d.lgs. n. 152/2006) riguardano i
soli casi di autonoma elaborazione di piani e programmi
idonei ad incidere in modo rilevante sull’ambiente.
A
maggior ragione va ritenuto che, qualora sia comunque
sottoposta a V.A.S. una variante sostanzialmente diretta
alla realizzazione di un singolo intervento sottoposto a V.I.A., l’integrazione tra le due procedure risulta, oltre
che legittima, opportuna, ed è suggerita dalla stessa
lettera della legge che dà una lettura orientata allo scopo
delle procedure, nella parte in cui, all’art. 13, c.4, del d.lgs 152/2006, detta le disposizioni per l’applicazione
dell’allegato VI al d.lgs, prescrivendo che le sue
previsioni debbano tenere conto di determinate circostanze e
permettendo l’utilizzo di approfondimenti o informazioni
ottenute nell’ambito di altri livelli decisionali o
altrimenti acquisite.
Infine, è palesemente infondata
l’eccezione di tardività per avere impugnato la variante
unitamente alla Valutazione Ambientale Strategica, in quanto
contrastante con la più recente e condivisibile
giurisprudenza, che ha ritenuto come la V.A.S., ai sensi
dell’art. 11 del d.lgs. 152 del 2006, non sia un
procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla
procedura di pianificazione, ma un passaggio
endoprocedimentale di esso, che si concreta nell’espressione
di un “parere” che riflette la verifica di
sostenibilità ambientale della pianificazione medesima (CdS
Sez. IV 12.01.2011 n. 133)
---------------
In giurisprudenza si è condivisibilmente ritenuto che, in
presenza di una variazione urbanistica funzionale alla
realizzazione di un progetto contemporaneamente interessato
dalla procedura di valutazione di impatto ambientale,
quest’ultima esaurisca le verifiche in tale fase richieste
dalla legge, mentre la V.A.S e la relativa verifica di
assoggettabilità (art. 12 d.lgs. n. 152/2006) riguardano i
soli casi di autonoma elaborazione di piani e programmi
idonei ad incidere in modo rilevante sull’ambiente (Tar
Emilia Romagna Parma 22.12.2010 n. 552). A maggior ragione
va ritenuto che, qualora sia comunque sottoposta a V.A.S.
una variante sostanzialmente diretta alla realizzazione di
un singolo intervento sottoposto a V.I.A., come nel caso in
esame (come risulta dalla determinazione 177/2008 più volte
citata, alla pag. 21, e sostanzialmente incontestato dalla
ricorrente) l’integrazione tra le due procedure risulta,
oltre che legittima, opportuna, ed è suggerita dalla stessa
lettera della legge che dà una lettura orientata allo scopo
delle procedure, nella parte in cui, all’art. 13 c.4 del
d.lgs 152/2006, detta le disposizioni per l’applicazione
dell’allegato VI al d.lgs, prescrivendo che le sue
previsioni debbano tenere conto di determinate circostanze e
permettendo l’utilizzo di approfondimenti o informazioni
ottenute nell’ambito di altri livelli decisionali o
altrimenti acquisite (massima
tratta www.lexambiente.it - TAR
Marche,
sentenza 22.06.2012 n. 444
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Classificazione acustica.
L’attribuzione in concreto di una delle due classi previste
dal piano di classificazione acustica è connotata da margini
di apprezzamento discrezionale che, seppure ancorati
all’accertamento di specifici presupposti di fatto, devono
ricondurre a sintesi interessi tra loro confliggenti, quali
la tutela della salute e la salvaguardia della libertà di
iniziativa economica.
La censura con cui si contesta
l’illegittimità del piano di classificazione acustica per
aver attribuito all’area della parte ricorrente la classe V,
anziché la VI, non può essere condivisa.
L’attribuzione in concreto di una delle due classi in sede
di pianificazione è connotata infatti da margini di
apprezzamento discrezionale che, seppure ancorati
all’accertamento di specifici presupposti di fatto, devono
ricondurre a sintesi interessi tra loro confliggenti, quali
la tutela della salute e la salvaguardia della libertà di
iniziativa economica (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 30.03.2009,
n. 967; Tar Lombardia, Brescia, 02.04.2008, n. 348; Tar
Piemonte, Sez. II, 19.02.2007, n. 714; Tar Veneto, Sez. III,
24.01.2007, n. 187; Tar Lombardia, Milano, Sez. II,
07.04.2005, n. 751).
Nel caso all’esame si tratta di un’area che si inserisce in
un contesto urbano, e che è a ridosso di un complesso
abitativo di non recente formazione, e ciò fa apparire priva
di profili di illogicità la scelta operata dal Comune
(massima
tratta www.lexambiente.it - TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 15.06.2012
n. 845 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Legittimità controllo dell’ARPA senza preavviso.
Poiché la misurazione delle immissioni acustiche provenienti
da un'attività produttiva è suscettibile di poter essere
notevolmente influenzato dalle modalità con cui l’attività
si svolge, va riconosciuto all’Agenzia Regionale per
l’Ambiente (ARPA) la facoltà di svolgere i controlli senza
preavvisare gli interessati, perché altrimenti l’esito delle
misurazioni potrebbe risulterebbe non attendibile.
Inoltre, è conforme alla legge, la misurazione dei valori di
immissione anziché dei valori di emissione, in quanto è
evidente, che la pretesa di tener conto soltanto dei valori
di emissione vanificherebbe le finalità di tutela della
salute previste dalla normativa sull’inquinamento acustico,
che implica la necessità di misurare i livelli di pressione
acustica presenti nei ricettori sensibili e quindi
nell'ambiente abitativo.
Il primo motivo, con il quale la parte ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241,
per l’omessa acquisizione del suo apporto procedimentale non
può essere accolto.
Va in primo luogo rilevato che, poiché la misurazione delle
immissioni acustiche provenienti da un'attività produttiva è
suscettibile di poter essere notevolmente influenzato dalle
modalità con cui l’ attività si svolge, va riconosciuto all’Arpav
la facoltà di svolgere i controlli senza preavvisare gli
interessati, perché altrimenti l’esito delle misurazioni
potrebbe risulterebbe non attendibile (cfr. Cons. Stato, V,
05.03.2003, n. 1224).
In secondo luogo va osservato che l’omessa acquisizione
dell’apporto procedimentale nel caso di specie non avrebbe
comunque potuto condurre ad una diversa determinazione, in
quanto l’Amministrazione ha provato in giudizio la
correttezza delle rilevazioni e dell’applicazione della
normativa rilevante nel caso di specie, e trova pertanto
applicazione l’art. 21-octies della legge 07.08.1990, n.
241.
Anche le censure di cui al secondo motivo sono infondate.
Con una prima censura la parte ricorrente lamenta una
contraddizione tra le premesse e il dispositivo del
provvedimento impugnato, perché nella motivazione viene
contestata la violazione del valore differenziale, mentre
alla fine viene ordinata una riduzione dei valori di
immissione a meno di 50 dB (A).
La doglianza è priva di fondamento.
Dalla documentazione versata in atti risulta che il giorno
23.08.2005 è stato riscontrato un livello di rumore di 56,5
dB (A) con un differenziale di 13,5 dB (A), mentre il giorno
24.08.2005 sono stati registrati 55,5 dB (A) con un
differenziale di 12,5 dB (A).
Il provvedimento impugnato ha ordinato, alternativamente, o
la riconduzione ad un differenziale di 5 dB (A) che è quello
previsto per i limiti diurni, o il rispetto del valore di
immissione di 50 dB (A), il che è conforme a quanto prevede
la normativa in materia, atteso che il valore differenziale
non si applica, in quanto ogni effetto del rumore è da
ritenersi trascurabile, quando il rumore misurato a finestre
aperte sia inferiore a 50 dB(A) durante il periodo diurno
(cfr. l’art. 4, comma 2, del DPCM 14.11.1997).
E’ priva di fondamento anche la doglianza con la quale la
parte ricorrente lamenta la mancata misurazione dei valori
di emissione anziché quelli di immissione, in quanto è
evidente che la pretesa della parte ricorrente di tener
conto dei soli valori di emissione frustrerebbe le finalità
di tutela della salute previste dalla normativa
sull’inquinamento acustico, che implica la necessità di
misurare i livelli di pressione acustica presenti nei
ricettori sensibili e quindi nell'ambiente abitativo.
Va inoltre respinta perché generica e formulata in via
meramente ipotetica la doglianza con la quale la ricorrente
afferma la non correttezza delle operazioni tecniche
eseguite per le misurazioni, che risultano analiticamente
documentate nel rapporto di prova (cfr. doc. 5 allegato alle
difese del Comune) (massima tratta www.lexambiente.it - TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 15.06.2012
n. 845 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Classificazione acustica e rapporto con la
pianificazione urbanistica.
La classificazione acustica del territorio deve coordinarsi
e non sovrapporsi meccanicamente alla pianificazione
urbanistica, perché, pur caratterizzandosi per la
tendenziale omogeneità con la zonizzazione degli strumenti
urbanistici che costituisce l’imprescindibile punto di
partenza per la classificazione del territorio, deve al
contempo scontare una corrispondenza che non è perfettamente
biunivoca, atteso che esiste un naturale scollamento fra le
due tipologie di pianificazione, poiché lo strumento
urbanistico disciplina l'assetto del territorio ai fini
prettamente urbanistici ed edilizi, individuando le zone
omogenee con criteri quantitativi, mentre la classificazione
acustica ha riguardo all'effettiva fruibilità dei luoghi,
valendosi di indici qualitativi.
L’assunto del Comune secondo il quale la classificazione in
classe VI è necessaria perché l’immobile ricade in zona
urbanistica territoriale omogenea di tipo D e per non
operare microzonizzazioni, non può essere condiviso.
Va infatti considerato che la classificazione acustica del
territorio deve coordinarsi e non sovrapporsi meccanicamente
alla pianificazione urbanistica, perché, pur
caratterizzandosi per la tendenziale omogeneità con la
zonizzazione degli strumenti urbanistici che costituisce
l’imprescindibile punto di partenza per la classificazione
del territorio, deve al contempo scontare una corrispondenza
che non è perfettamente biunivoca, atteso che “esiste un
naturale scollamento fra le due tipologie di pianificazione,
poiché lo strumento urbanistico disciplina l'assetto del
territorio ai fini prettamente urbanistici ed edilizi,
individuando le zone omogenee con criteri quantitativi,
mentre la classificazione acustica ha riguardo all'effettiva
fruibilità dei luoghi, valendosi di indici qualitativi”
(cfr. Tar Liguria, Sez. I, 28.06.2005, n. 985; Tar Veneto,
Sez. III, 12.01.2011, n. 24; id. 30.03.2009, n. 967) (massima
tratta www.lexambiente.it - TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 15.06.2012 n. 841
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Ricorsi
doc contro il Prg. Serve una lesione concreta al diritto di
proprietà. Consiglio di stato: la
mancanza di un atto applicativo del piano è irrilevante.
Per impugnare i provvedimenti
urbanistico-edilizi (per esempio un piano regolatore) è
necessario avere un interesse a ricorrere, ossia aver subito
una lesione concreta ed effettiva al diritto di proprietà.
Non sono quindi ammissibili ricorsi «generici» diretti a
chiedere semplicemente un restyling della pianificazione
territoriale facendo leva solo sulla qualità di proprietari
di un suolo ricadente nel territorio comunale ma non inciso
dalle prescrizioni urbanistiche censurate. Se questi
requisiti sussistono è irrilevante la mancanza di un atto
applicativo dello strumento urbanistico e tale circostanza
«non determina di per sé l'inesistenza dell'interesse a
ricorrere».
Lo ha affermato l'adunanza generale del Consiglio di stato (parere
06.06.2012 n. 2735) in un parere chiesto dal ministero
dello sviluppo economico su un ricorso straordinario al
presidente della repubblica promosso da una srl di Seregno
(Mi) contro la delibera con cui il comune aveva escluso
dall'applicazione del Piano casa gran parte del territorio
municipale.
Facendo leva sull'art. 5, comma 6, della legge regionale
lombarda n. 13/2009 attuativa del Piano casa, l'ente, a
giudizio della società, «avrebbe conseguito l'obiettivo,
illegittimo e non consentito, di una generale
disapplicazione della normativa», escludendo intere zone
omogenee «laddove la legge avrebbe consentito di
estromettere solo parti individuate del territorio comunale».
La società era proprietaria di un compendio immobiliare nel
comune di Seregno, in passato sede di una rilevante
attività, ma attualmente completamente dismesso da alcuni
anni. Ma ciononostante accusava il comune di aver «completamente
vanificato le aspettative edificatorie dell'area, maturate
in modo specifico con riguardo al piano casa».
I giudici di palazzo Spada si sono prima di tutto chiesti se
la srl potesse o meno agire in giudizio. E in particolare,
essendo indubitabile la legittimazione a ricorrere da parte
della società (in quanto proprietaria di suoli ricadenti nel
territorio del comune), hanno affrontato il tema
dell'interesse a ricorrere. Il Consiglio di stato ha
riconosciuto che «la presenza di un atto applicativo di
diniego delle facoltà edificatorie sostanzia la posizione
legittimante nel senso della sussistenza dell'interesse a
ricorrere».
Ma l'assenza di un applicativo, tuttavia, «non determina
di per sé l'inesistenza dell'interesse a ricorrere». Un
piano regolatore, infatti, una volta adottato, «nella
misura in cui è suscettibile di applicazione o non necessita
di ulteriori atti esecutivi, in quanto per il suo contenuto
ha già immediata portata prescrittiva, è immediatamente
lesivo e direttamente impugnabile». A legittimare il
ricorso basta, infatti, «che la delibera impugnata si
applichi anche all'area di proprietà della società
ricorrente incidendo su aspettative edificatorie qualificate».
Il riconoscimento dell'interesse ad agire non è stato però
sufficiente a convincere nel merito i giudici di palazzo
Spada che hanno considerato «ragionevoli» le
motivazioni addotte dal comune per tutelare le peculiarità
storiche, paesaggistico-ambientali e urbanistiche
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2012
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
Sui limiti applicativi, in capo al comune, del "piano
casa" in Lombardia.
Sono legittimati ad impugnare i provvedimenti
urbanistico-edilizi i soggetti che vantino un interesse
personale, diretto ed attuale all'annullamento dell'atto -perché proprietari dei fondi, più in generale, secondo
l'indirizzo che ormai prevale, per essere titolari di
diritti reali su immobili situati nella zona interessata
dalla costruzione assentita, o anche per il solo fatto di
trovarsi con la zona stessa in una situazione di stabile
collegamento o di essere insediati abitativamente in essa-
che lamentino una lesione dei valori urbanistici, intesi in
senso ampio, garantiti dalle previsioni urbanistiche
relative alla zona.
---------------
In giurisprudenza su pianificazione ed interesse a ricorrere
si sono avute ricostruzioni differenti: di recente si è
messo in rilievo che nel contenzioso avente ad oggetto
procedure di pianificazione urbanistica, non sono
direttamente trasferibili le ricostruzioni sulla natura
dell'interesse strumentale svolte nell'ambito delle
questioni riguardanti gli atti di una procedura concorsuale
o selettiva, trattandosi di situazioni profondamente
differenti, in quanto, in queste ultime fattispecie, il
ricorrente mira al perseguimento di un'utilità
(aggiudicazione dell'appalto o posizionamento utile in
graduatoria) che l'Amministrazione ha attribuito ad altro
soggetto o ad altri soggetti specificamente individuati,
nell'ambito di una procedura competitiva la cui ripetizione
è ex se suscettibile di formare oggetto di un interesse
giuridicamente qualificato e differenziato, mentre tali
considerazioni non possono estendersi alla pianificazione
urbanistica che attiene a posizioni riguardanti un’intera
comunità ed un vasto territorio, assunte in base a
valutazioni che potrebbero anche non essere ripetute non
essendovi un obbligo simile a quello di rinnovazione delle
operazioni di gara.
--------------
Il c.d. interesse strumentale alla rinnovazione della gara,
riguardato nella sua oggettività, non è altro che un
interesse al rispetto della legalità, che viene paludato da
riferimenti soggettivi (utilità di ripetere la procedura che
il ricorrente si propone di conseguire con la deduzione di
vizi che, ove fondati, sono in grado di travolgere l'intera
gara), al fine di accreditarne la valenza personale, che è
un requisito necessario per poter promuovere un ricorso
giurisdizionale che comunque si atteggia in modo diverso e
peculiare nelle procedure di pianificazione.
Alla luce di tale orientamento va rilevato che l'interesse a
una immediata impugnazione di un P.R.G. va ancorato al dato
della concreta ed effettiva lesività delle stesse, nel senso
che le prescrizioni censurate devono incidere direttamente
sulla proprietà del ricorrente ovvero, pur senza riguardarle
direttamente, devono determinare un significativo decremento
del loro valore di mercato o della loro utilità.
Non può, al contrario, ammettersi un generico interesse
"strumentale" alla riedizione dell'attività di
pianificazione del territorio comunale, connesso alla
semplice qualità di proprietario di un suolo comunque
ricadente nel territorio medesimo (ancorché non
immediatamente inciso dalle prescrizioni urbanistiche
censurate).
---------------
L'autonoma impugnativa degli atti a contenuto generale è
configurabile soltanto quando sussista una lesione immediata
e diretta delle posizioni dei destinatari. Ove, peraltro,
l'incertezza del contenuto degli atti medesimi dia luogo a
dubbi interpretativi tali che non possa essere desunta
chiaramente l'immediata e concreta lesività, deve, a
garanzia dei privati, ritenersi ammissibile il ricorso
avverso atti e/o comportamenti applicativi che incidano
nella sfera degli interessati.
---------------
Un piano regolatore generale o uno strumento urbanistico una
volta adottato, nella misura in cui è suscettibile di
applicazione, o in cui non necessita di ulteriori atti
esecutivi, in quanto per il suo contenuto ha già in sé
immediata portata prescrittiva (o limitativa, come in caso
di esclusione di attività edificatorie in via generale
consentite dalla legislazione regionale), è immediatamente
lesivo e direttamente impugnabile.
È immediatamente impugnabile lo strumento urbanistico quando
dalla sua adozione consegue la eliminazione o limitazione di
alcune facoltà proprie del diritto di proprietà in forza
delle previsioni vincolistiche in esso racchiuse od in forza
del suo valore derogatorio rispetto ad una disciplina
permissiva di carattere generale.
Si è ritenuto così che il proprietario di aree edificabili,
poste all'interno del territorio oggetto di pianificazione
urbanistica di dettaglio, ha interesse ad impugnarne il
relativo provvedimento, segnatamente nel caso in cui il
Comune fissi regole direttamente conformative della capacità
edificatoria del ricorrente.
In modo analogo si è ritenuto che sussista l'interesse a
ricorrere contro un piano di lottizzazione, qualora una
disposizione del regolamento edilizio, subordinando ogni
attività edificatoria alla previa redazione di un piano
unitario, abbia creato in capo al ricorrente l' interesse
legittimo a partecipare attivamente all'attività di
pianificazione, o in sede di iniziativa, se essa assume la
forma di lottizzazione, o in sede di apporto collaborativo
(osservazioni o opposizioni) se essa assume la forma del
piano particolareggiato o del piano quadro.
Con impostazione più restrittiva si è ritenuto che le
prescrizioni di dettaglio contenute nelle norme tecniche di
attuazione del piano regolatore generale comunale, che, per
la loro natura regolamentare, sono suscettibili di ripetuta
applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui
è adottato l'atto applicativo, possono formare oggetto di
censura in occasione della impugnazione di quest'ultimo; lo
stesso non si può affermare, invece, in riferimento alle
disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio
negli aspetti urbanistici ed edilizi che in via immediata
stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di
territorio interessata.
---------------
L'interesse a un’immediata impugnazione di un p.r.g. (o di
un atto analogo) va ancorato al dato della concreta ed
effettiva lesività delle prescrizioni di piano, nel senso
che le prescrizioni censurate devono incidere direttamente
sulla proprietà del ricorrente ovvero, pur senza riguardarle
direttamente, devono determinare un significativo decremento
del loro valore di mercato o della loro utilità non potendo,
al contrario, ammettersi un generico interesse "strumentale"
alla riedizione dell'attività di pianificazione del
territorio comunale, connesso alla semplice qualità di
proprietario di un suolo comunque ricadente nel territorio
medesimo (ancorché non immediatamente inciso dalle
prescrizioni urbanistiche censurate).
Resta fermo invece che sono inammissibili le censure alle
prescrizioni del p.r.g. (o di atto analogo) che disciplinano
aree non di proprietà del ricorrente e per le quali non sia
chiarito quale sia l’interesse all’impugnazione.
---------------
Sussiste l'interesse a ricorrere contro le varianti agli
strumenti di pianificazione urbanistica, anche se riguardano
aree non di proprietà del ricorrente, allorché la nuova
destinazione incida in qualche modo sul godimento o sul
valore di mercato dell'area, o comunque su interessi propri
del ricorrente stesso, come quello alla salute o al valore
ambientale.
Sono legittimati ad impugnare i provvedimenti
urbanistico-edilizi i soggetti che vantino un interesse
personale, diretto ed attuale all'annullamento dell'atto -perché proprietari dei fondi, più in generale, secondo
l'indirizzo che ormai prevale, per essere titolari di
diritti reali su immobili situati nella zona interessata
dalla costruzione assentita, o anche per il solo fatto di
trovarsi con la zona stessa in una situazione di stabile
collegamento o di essere insediati abitativamente in essa-
che lamentino una lesione dei valori urbanistici, intesi in
senso ampio, garantiti dalle previsioni urbanistiche
relative alla zona.
Analizzando più specificamente la posizione legittimante, va
rilevato che quanto alla legittimazione a ricorrere essa ben
può ritenersi sussistente per la società ricorrente
proprietaria di suoli ricadenti nel Comune la cui delibera
di applicazione del Piano casa è impugnata.
L’interesse a ricorrere richiede invece una disamina
ulteriore.
L’Amministrazione competente all’istruttoria ha eccepito che
nella specie l’atto impugnato –avente portata generale se
non carattere normativo- non sarebbe lesivo in difetto di
un atto applicativo.
La società ricorrente ha fatto valere la propria posizione
di operatore del settore.
In primo luogo va rilevato che l’atto di cui all’art. 5,
comma 6, della legge regionale n. 13 del 2009 non ha valore
normativo, essendo motivato, e volto solo ad individuare
parti di territorio nelle quali escludere l’applicabilità
delle norme del Piano casa.
Esso ha quindi valore di un atto di pianificazione
derogatorio rispetto a potenzialità edificatorie fissate in
via generale ed astratta dalla legge regionale.
In giurisprudenza su pianificazione ed interesse a ricorrere
si sono avute ricostruzioni differenti: di recente si è
messo in rilievo che nel contenzioso avente ad oggetto
procedure di pianificazione urbanistica, non sono
direttamente trasferibili le ricostruzioni sulla natura
dell'interesse strumentale svolte nell'ambito delle
questioni riguardanti gli atti di una procedura concorsuale
o selettiva, trattandosi di situazioni profondamente
differenti, in quanto, in queste ultime fattispecie, il
ricorrente mira al perseguimento di un'utilità
(aggiudicazione dell'appalto o posizionamento utile in
graduatoria) che l'Amministrazione ha attribuito ad altro
soggetto o ad altri soggetti specificamente individuati,
nell'ambito di una procedura competitiva la cui ripetizione
è ex se suscettibile di formare oggetto di un interesse
giuridicamente qualificato e differenziato, mentre tali
considerazioni non possono estendersi alla pianificazione
urbanistica che attiene a posizioni riguardanti un’intera
comunità ed un vasto territorio, assunte in base a
valutazioni che potrebbero anche non essere ripetute non
essendovi un obbligo simile a quello di rinnovazione delle
operazioni di gara (Consiglio Stato, sez. IV, 12.10.2010, n. 7439).
Tale ricostruzione merita condivisione.
Va ricordata la ricostruzione critica della nozione di
interesse strumentale effettuata dalla Sezione quarta del
Consiglio di Stato nella sentenza prima citata.
La Sezione quarta nella sentenza citata ha espresso le sue
perplessità in merito alla ricostruzione dommatica del
concetto di interesse strumentale con argomenti che
l’Adunanza Generale condivide.
In particolare si è fatto riferimento alla pronuncia
Consiglio di Stato, sez. IV, 26.11.2009, n. 7441
secondo la quale il c.d. interesse strumentale alla
rinnovazione della gara, riguardato nella sua oggettività,
non è altro che un interesse al rispetto della legalità, che
viene paludato da riferimenti soggettivi (utilità di
ripetere la procedura che il ricorrente si propone di
conseguire con la deduzione di vizi che, ove fondati, sono
in grado di travolgere l'intera gara), al fine di
accreditarne la valenza personale, che è un requisito
necessario per poter promuovere un ricorso giurisdizionale
che comunque si atteggia in modo diverso e peculiare nelle
procedure di pianificazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4542).
Alla luce di tale orientamento va rilevato che l'interesse a
una immediata impugnazione di un P.R.G. va ancorato al dato
della concreta ed effettiva lesività delle stesse, nel senso
che le prescrizioni censurate devono incidere direttamente
sulla proprietà del ricorrente ovvero, pur senza riguardarle
direttamente, devono determinare un significativo decremento
del loro valore di mercato o della loro utilità (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 31.12.2009, nr. 9301; id., 19.03.2009, nr. 1653; id., 21.05.2007, nr. 2572; id., 28.07.2005, nr. 4018).
Non può, al contrario (e come sarà di seguito argomentato),
ammettersi un generico interesse "strumentale" alla
riedizione dell'attività di pianificazione del territorio
comunale, connesso alla semplice qualità di proprietario di
un suolo comunque ricadente nel territorio medesimo
(ancorché non immediatamente inciso dalle prescrizioni
urbanistiche censurate).
Sorge poi l’ulteriore problema di verificare se l’atto
generale sia impugnabile solo in presenza di un atto
applicativo ovvero se, in ricorrenza di alcune specifiche
condizioni di fatto, da individuarsi nell’incisione diretta
delle previsioni pianificatorie sulla proprietà, sia
ammissibile anche l’impugnazione diretta dell’atto generale.
E resta da verificare –questione di indubbia delicatezza-
cosa debba intendersi per incisione diretta sull’interesse
del proprietario.
Senza dubbio la presenza di un atto applicativo di diniego
di facoltà edificatorie determina e sostanzia la posizione
legittimante nel senso della sussistenza dell’interesse a
ricorrere.
Ma l’assenza dell’atto applicativo non determina di per sé
l’inesistenza dell’interesse a ricorrere.
Infatti anche in assenza di tale atto applicativo
l’interesse ad impugnare un atto generale di pianificazione
urbanistica può sussistere (ed il tema assume un aspetto
particolarmente delicato poiché se si ammette tale
impostazione –ossia l’immediata impugnabilità- la
decorrenza del termine per impugnare diviene immediata, con
correlativa eventuale inammissibilità dell’impugnazione
dell’atto applicativo per tardiva impugnazione dell’atto
presupposto).
Va da sé che l'autonoma impugnativa degli atti a contenuto
generale è configurabile soltanto quando sussista una
lesione immediata e diretta delle posizioni dei destinatari.
Ove, peraltro, l'incertezza del contenuto degli atti
medesimi dia luogo a dubbi interpretativi tali che non possa
essere desunta chiaramente l'immediata e concreta lesività,
deve, a garanzia dei privati, ritenersi ammissibile il
ricorso avverso atti e/o comportamenti applicativi che
incidano nella sfera degli interessati (Consiglio Stato,
sez. V, 10.06.1989, n. 372).
Ciò premesso, rileva l’Adunanza Generale che un piano
regolatore generale o uno strumento urbanistico una volta
adottato, nella misura in cui è suscettibile di
applicazione, o in cui non necessita di ulteriori atti
esecutivi, in quanto per il suo contenuto ha già in sé
immediata portata prescrittiva (o limitativa, come in caso
di esclusione di attività edificatorie in via generale
consentite dalla legislazione regionale), è immediatamente
lesivo e direttamente impugnabile.
È immediatamente impugnabile lo strumento urbanistico quando
dalla sua adozione consegue la eliminazione o limitazione di
alcune facoltà proprie del diritto di proprietà in forza
delle previsioni vincolistiche in esso racchiuse od in forza
del suo valore derogatorio rispetto ad una disciplina
permissiva di carattere generale.
Si è ritenuto così che il proprietario di aree edificabili,
poste all'interno del territorio oggetto di pianificazione
urbanistica di dettaglio, ha interesse ad impugnarne il
relativo provvedimento, segnatamente nel caso in cui il
Comune fissi regole direttamente conformative della capacità
edificatoria del ricorrente (Consiglio Stato, sez. V, 04.05.1995, n. 695).
In modo analogo si è ritenuto che sussista l'interesse a
ricorrere contro un piano di lottizzazione, qualora una
disposizione del regolamento edilizio, subordinando ogni
attività edificatoria alla previa redazione di un piano
unitario, abbia creato in capo al ricorrente l' interesse
legittimo a partecipare attivamente all'attività di
pianificazione, o in sede di iniziativa, se essa assume la
forma di lottizzazione, o in sede di apporto collaborativo
(osservazioni o opposizioni) se essa assume la forma del
piano particolareggiato o del piano quadro (Consiglio Stato,
sez. IV, 19.05.1981 , n. 396).
Con impostazione più restrittiva si è ritenuto che le
prescrizioni di dettaglio contenute nelle norme tecniche di
attuazione del piano regolatore generale comunale, che, per
la loro natura regolamentare, sono suscettibili di ripetuta
applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui
è adottato l'atto applicativo, possono formare oggetto di
censura in occasione della impugnazione di quest'ultimo; lo
stesso non si può affermare, invece, in riferimento alle
disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio
negli aspetti urbanistici ed edilizi che in via immediata
stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di
territorio interessata (Consiglio Stato, sez. VI, 05.08.2005, n. 4159).
Nella specie non si è di fronte ad una pianificazione
urbanistica di dettaglio o ad attività convenzionate ma ad
una situazione che merita comunque di essere apprezzata
positivamente, sotto il profilo dell’aspettativa
edificatoria, per la società ricorrente e della conseguente
lesività della sua negazione per atto di piano.
Infatti la società ha impugnato una delibera che dispone in
via generale sulla possibile deroga ad una legge regionale
attuativa del c.d. Piano casa che, in assenza di tale
deroga, avrebbe concesso ai proprietari ampie possibilità di
sviluppo volumetrico degli edifici esistenti.
Ne deriva che la circostanza che difetti nella specie un
atto applicativo non è tuttavia rilevante in senso
assolutamente preclusivo dell’interesse a ricorrere, essendo
sufficiente a radicare la legittimazione al ricorso sia la
circostanza che la delibera impugnata si applichi anche
all’area di proprietà della società ricorrente incidendo su
aspettative edificatorie qualificate, sia il rilievo che
questa esercita in zona la propria attività imprenditoriale.
Evidente è la sussistenza dell'interesse al ricorso,
quantomeno parziale, poiché la ricorrente persegue il fine
del mantenimento della disciplina urbanistica della zona
stabilita dalla legge regionale n. 13 del 2009, che le era
sicuramente più favorevole e che è stata esclusa dal Comune
in riferimento ad alcune aree.
Ciò in relazione al già menzionato orientamento –da
condividersi– secondo il quale l'interesse a un’immediata
impugnazione di un p.r.g. (o di un atto analogo) va ancorato
al dato della concreta ed effettiva lesività delle
prescrizioni di piano, nel senso che le prescrizioni
censurate devono incidere direttamente sulla proprietà del
ricorrente ovvero, pur senza riguardarle direttamente,
devono determinare un significativo decremento del loro
valore di mercato o della loro utilità non potendo, al
contrario, ammettersi un generico interesse "strumentale"
alla riedizione dell'attività di pianificazione del
territorio comunale, connesso alla semplice qualità di
proprietario di un suolo comunque ricadente nel territorio
medesimo (ancorché non immediatamente inciso dalle
prescrizioni urbanistiche censurate) (Consiglio Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546).
Resta fermo invece che sono inammissibili le censure alle
prescrizioni del p.r.g. (o di atto analogo) che disciplinano
aree non di proprietà del ricorrente e per le quali non sia
chiarito quale sia l’interesse all’impugnazione (Consiglio
Stato, sez. IV, 02.03.2001, n. 1162).
Ne deriva che, nella specie, sono inammissibili le censure
relative alle zone A centro storico e BP2, BP3, BP4 nonché
le censure avanzate con riferimento ai CRU ed ai CRUI ed
ancora per gli interventi soggetti a piano attuativo (vedasi
ricorso ove si specifica che la società ricorrente è
proprietaria di immobili ricadenti in aree B1, BP1 e BV1 e
memoria del Comune ove si eccepisce l’inammissibilità del
ricorso con riferimento alle altre aree diverse da quelle
prima indicate).
Né la società ricorrente ha provato un suo interesse anche
indiretto all’eliminazione di tali prescrizioni.
Tanto sarebbe stato necessario in ossequio all’insegnamento
per cui sussiste l'interesse a ricorrere contro le varianti
agli strumenti di pianificazione urbanistica, anche se
riguardano aree non di proprietà del ricorrente, allorché la
nuova destinazione incida in qualche modo sul godimento o
sul valore di mercato dell'area, o comunque su interessi
propri del ricorrente stesso, come quello alla salute o al
valore ambientale (Consiglio Stato, sez. IV, 10.08.2004,
n. 5516).
Nel merito poi va rilevato che il Comune di Seregno non ha
manifestato una volontà di precludere in modo assoluto sul
suo territorio l’applicazione della legge regionale n. 13
del 2009, non essendo poi illegittimo, nell’individuare le
parti del proprio territorio nelle quali il Piano casa in
tutto od in parte non trova applicazione, fare riferimento
alle aree come individuate dagli strumenti urbanistici
esistenti (in particolare alle norme ed alle classificazioni
delle aree poste nelle NTA vigenti nel Comune).
Alcune zone sono escluse già dalla legge regionale (ad es. i
centri storici e le zone individuate dagli strumenti
urbanistici vigenti o adottati quali nuclei di antica
formazione: in proposito cfr. art. 3 della legge regionale
citata) sicché è evidente che anche il Comune nell’adottare
la delibera di cui all’art. 5, comma 6, della legge
regionale della Lombardia n. 13 del 2009 può fare
riferimento agli strumenti urbanistici ed alle
classificazioni delle NTA, non potendosi accettare
un’interpretazione della normativa secondo la quale il
Comune sarebbe legittimato ad escludere solo specifiche
parti del territorio (difficile da individuarsi un limite) e
non potrebbe fare riferimento alla vigente zonizzazione.
Resta fermo che la disciplina posta dal Comune non può
determinare preclusioni o limiti assoluti all’operatività
della disciplina del Piano casa regionale.
Ma tanto non è avvenuto nel caso di specie.
Più in particolare va rilevato che il Comune, con
motivazione ragionevole tenuto conto della natura dell’area
disciplinata quale già definita dalle NTA, ha escluso
l’applicazione dell’art. 3 della predetta legge regionale
nelle zone B1, al fine di tutelare le loro peculiarità
storiche, paesaggistico ambientali ed urbanistiche ed ha
disposto che tale esclusione non sia assoluta perché sono
stati fatti salvi gli interventi che rispettino l’altezza
delle gronde esistenti, con la sola possibilità di
allineamento alla gronda adiacente se di altezza superiore.
La finalità dell’esclusione della zona BP1 può individuarsi
anche -come si evince complessivamente dalla relazione
allegata alla delibera- nell’esigenza di evitare gravi
ripercussioni in termini di carichi urbanistici derivante
dalla trasformazione di destinazioni produttive in
destinazioni residenziali sicché anche sotto questo profilo
appare ragionevole ed immune da censure la specifica
motivazione dell’atto.
Va ricordato, nella specie, che la legge regionale della
Lombardia richiede una specifica motivazione sul punto, a
sostegno dell’individuazione delle parti del territorio
nelle quali le disposizioni indicate nell’art. 6 non trovano
applicazione (art. 5, comma 6, della legge regionale n. 13 del
2009 ).
Sicché ammesso –come si è detto- che le parti del
territorio possano anche astrattamente coincidere con le
zone individuate dalla strumentazione urbanistica in via
generale, occorre tuttavia che l’ente comunale chiarisca
concretamente per quali ragioni è addivenuto a tale scelta.
Ciò il Comune ha fatto nella relazione allegata alla
delibera.
Vanno a questo proposito riportate testualmente le
motivazioni della relazione allegata alla delibera
impugnata.
Circa la zona B1 la relazione si esprime nel modo seguente:
“Propone inoltre di escludere dall’applicazione dell’art. 3
le Cortine edilizie ricadenti nelle zone residenziali B1 B2
B3.
Al fine di conservare la struttura urbana consolidata,
mantenere l’omogeneità insediativa, preservare i fronti
continui di edificazione e consentire microtrasformazioni
che garantiscano la conservazione del principio insediativo
esistente e consentano la riqualificazione dell’immagine
della strada.
Sono fatti salvi gli interventi che rispettino le altezze
delle grondaie esistenti, con la sola possibilità di
allineamento alla gronda adiacente se di altezza superiore”.
Il Comune ha poi escluso dall’applicazione del “piano casa”
anche –e ciò rileva per quanto prima detto circa
l’incidenza diretta sull’interesse proprietario- la zona
BP1.
Circa la zona BP1 si è deciso di escludere tali aree
motivando nel modo seguente: “Zone produttive esistenti BP1
… gli edifici produttivi esistenti nelle zone BP1… ubicate
in zona a prevalente destinazione residenziale in quanto
l’eventuale riuso potrebbe comportare la dismissione delle
attività produttive esistenti e, in assenza di una
pianificazione attuativa, avere gravi ripercussioni in
termini di carichi urbanistici, carenza di servizi e
parcheggi anche in relazione all’elevata consistenza
volumetrica degli edifici”.
La scelta effettuata, motivata nei suddetti limiti, risulta
ben concreta e specifica; essa poi non è generalizzata a
tutto il territorio comunale che è suddiviso in ben sette
zone.
Inoltre la deroga alla legge regionale, non assoluta in zona
B1, è adottata per salvaguardare le cortine esistenti e, fra
l’altro, per mantenere omogeneità insediativa, mentre nella
zona BP1 è adottata per mitigare i carichi urbanistici.
Ciò è, in definitiva, conforme al ruolo riservato dalla
Costituzione al Comune, quale ente titolare delle funzioni
amministrative nel disegno del c.d. federalismo d’esecuzione
(art. 118 Cost. ed art. 5, comma 6, della legge regionale n.
13 del 2009) sicché il potere di deroga va letto nel quadro
di un generale ruolo dell’ente locale –riconosciuto dalla
stessa legislazione regionale lombarda- di salvaguardia
delle esigenze della comunità amministrata anche quando, nel
governo del territorio, per scelte nazionali, prevalgano
spinte e direttive chiare verso una maggiore suscettibilità
edificatoria dei suoli.
Nessuno sviamento od eccesso di potere quindi sussiste nella
specie ma solo l’esercizio delle potestà assegnate al Comune
dalla legge regionale in ossequio al dettato costituzionale
sul riparto di funzioni fra amministrazione regionale (cui
spetta legiferare) e locale (cui spetta pur sempre
amministrare ossia concretizzare il disegno legislativo).
In ultimo va rilevato che la prescrizione della delibera in
esame che, dopo aver dettato una disciplina di indici di
fabbricabilità dei parcheggi (1 mq. per ogni 10 mc. di
costruzione), prevede un nesso di pertinenzialità avuto
riguardo al lotto in cui preesistono i fabbricati oggetto di
intervento ed escludendo la monetizzazione, è legittima.
Essa appare esercizio di facoltà concesse al Comune dalla
legge regionale più volte citata che, all’art. 5, comma 6,
legittima il Comune a fornire “prescrizioni circa modalità
di applicazione della presente legge con riferimento alla
necessità di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali”.
Né rileva la legge urbanistica generale n. 12 del 2005
atteso il valore specifico della prescrizione in esame volta
ad ovviare ad una situazione di eccezionale ed improvviso
incremento abitativo, a fini di ordinato sviluppo dell’urbe.
La mancata riduzione degli oneri di urbanizzazione poi non è
illegittima alla luce dell’art. 5, comma 4, della legge
regionale n. 13 del 2009 che riconosce ai Comuni una mera
facoltà di ridurre tali oneri e non un obbligo (Consiglio
di stato, Adunanza Generale,
parere 06.06.2012 n. 2735 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - VARI:
Il danno da calunnia.
Responsabilità civile e onere probatorio.
La semplice presentazione di una
denuncia penale, poi archiviata, non costituisce, di per sé,
fonte di responsabilità e risarcimento del danno, dovendo
necessariamente ricorrere, al fine della qualificazione
della denuncia in termini di calunnia, il dolo e non
semplicemente la colpa del denunciante.
Da ciò deriva che il denunciante non incorre in
responsabilità civile se non quando, agendo con dolo, si
rende colpevole di calunnia, essendo irrilevante la mera
colpa, determinata da leggerezza o avventatezza ed essendo
richiesto, per contro, per l’imputabilità del reato di
calunnia ed il conseguente risarcimento del danno, la
precisa volontà dolosa del denunciante.
È onere del danneggiato dimostrare tutti i presupposti
dell’illecito addebitato al convenuto, cioè non solo la
materialità delle accuse, ma anche la consapevolezza della
loro falsità ed infondatezza
(Corte di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 12.01.2012 n. 300).
---------------
IL COMMENTO/ R. Foffa: Il danno da calunnia presuppone la
prova della sussistenza di tutti gli elementi, soggettivi ed
oggettivi, della fattispecie criminosa. La sentenza in
commento si sofferma, con estrema precisione, sul contenuto
del relativo onere probatorio, che è a carico del
danneggiato (link a www.ipsoa.it). |
URBANISTICA:
È illegittimo, per eccesso di potere, il
provvedimento con cui il comune non adotta una congrua
motivazione, ma si limita a "prendere atto" dell'intervenuta
decadenza del termine quinquennale di vigenza della
convenzione di lottizzazione, respingendo le istanze della
cooperativa interessata volte all'autorizzazione
all'esecuzione delle opere di urbanizzazione e di variante
al piano, qualora vi fosse stata una richiesta di proroga
del termine e il comune avesse già iniziato l'esame per
l'adozione della variante, sospendendolo in attesa delle
risultanze di un contenzioso "inter partes".
---------------
La scadenza del termine di esecuzione del piano di
lottizzazione, se determina la sua inefficacia, non per ciò
solo comporta l'irrilevanza del piano medesimo sotto il
profilo della specifica qualificazione dell'interesse di
colui che sottoscrisse la convenzione a veder mantenuta la
destinazione urbanistica data dal piano regolatore all'area
ed alla corrispondente cura dell'amministrazione a non
compromettere quell'interesse senza la sua ponderazione
insieme con l'interesse pubblico.
---------------
La scadenza d'una convenzione di lottizzazione edilizia già
attuata non fa venir meno gli obblighi da essa scaturenti,
con riguardo al mantenimento anche per il futuro della
sistemazione edilizia prevista per l'area lottizzata.
Invero non ignora il Collegio il consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo cui l’amministrazione è
condizionata, nella modifica del piano regolatore, dalla
preesistente sussistenza di un piano di lottizzazione,
essendosi detto, in giurisprudenza che “È illegittimo,
per eccesso di potere, il provvedimento con cui il comune
non adotta una congrua motivazione, ma si limita a "prendere
atto" dell'intervenuta decadenza del termine quinquennale di
vigenza della convenzione di lottizzazione, respingendo le
istanze della cooperativa interessata volte
all'autorizzazione all'esecuzione delle opere di
urbanizzazione e di variante al piano, qualora vi fosse
stata una richiesta di proroga del termine e il comune
avesse già iniziato l'esame per l'adozione della variante,
sospendendolo in attesa delle risultanze di un contenzioso "inter
partes" (TAR Lazio, sez. I, 01.06.1999, n. 1155).
Del pari si è affermato, in giurisprudenza, che “La
scadenza del termine di esecuzione del piano di
lottizzazione, se determina la sua inefficacia, non per ciò
solo comporta l'irrilevanza del piano medesimo sotto il
profilo della specifica qualificazione dell'interesse di
colui che sottoscrisse la convenzione a veder mantenuta la
destinazione urbanistica data dal piano regolatore all'area
ed alla corrispondente cura dell'amministrazione a non
compromettere quell'interesse senza la sua ponderazione
insieme con l'interesse pubblico” (TAR Abruzzo L'Aquila,
30.12.1994, n. 1014);
“La scadenza d'una convenzione di lottizzazione edilizia
già attuata non fa venir meno gli obblighi da essa
scaturenti, con riguardo al mantenimento anche per il futuro
della sistemazione edilizia prevista per l'area lottizzata”
(Consiglio Stato, sez. V, 20.03.2000, n. 1509) (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 16.04.2004 n. 305 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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