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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di LUGLIO 2012

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aggiornamento al 30.07.2012

aggiornamento al 23.07.2012

aggiornamento al 16.07.2012

aggiornamento al 09.07.2012

aggiornamento al 02.07.2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.07.2012

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IN EVIDENZA

     L’uscita della nuova DGRL IX 2727 del 21.12.2011, Criteri e procedure per l’esercizio delle funzioni amministrative in materia di beni paesaggistici in attuazione alla LR 12/2005, ha portato ad una rivisitazione e aggiornamento della precedente DGRL 2121 del 2006 ed alla sua conseguente revoca.
     Come abbiamo avuto modo di sentire nella presentazione esposta lo scorso 21.03.2012, in una giornata di studio in quel di Bergamo -con la relazione dell’arch. Sergio Cavalli di Regione Lombardia, dell’avv. Mario Viviani e dell’arch. Domenico Palezzato, questi nuovi criteri non modificano sostanzialmente quelli già esistenti, ma li completano e li rendono più accessibili per l’applicazione.
     In logica conseguenza anche l’arch. Domenico Palezzato, che aveva già predisposto nel 2007 una relazione di indirizzo sulla redazione della prescritta Relazione Paesaggistica pubblicata a suo tempo sul Portale PTPL, ha integrato ed aggiornato il proprio lavoro.
     Per dare maggiore consistenza e peso “difendibili” alla Relazione (già approvata dalla Direzione Regionale del Mibac e dalla Soprintendenza di Milano) è stato edito da Tecnograph s.r.l. di Bergamo (pagg. 132, 2012) un testo ufficiale del lavoro svolto dall’arch. Palezzato che è stato completato anche con il nuovo modello di Esame dell’Impatto Paesistico di cui alla parte IV del Piano Paesistico Regionale riferito agli ambiti non oggetto di vincolo specifico di tutela.
     Sulla via dell’informatizzazione e quale tecnica di ausilio al tema paesaggistico, al testo è stato allegato un software (prodotto da Cadline software s.r.l.) che consente di redigere, in forma semplice e corretta, l’elaborato richiesto dal pianificatore regionale.

     Il costo del volume, comprensivo del software, è di € 36,50 ma la stretta e continua collaborazione con l’autore ha permesso di concordare per gli utenti del Portale PTPL un prezzo di € 30,00 per i liberi professionisti e di € 25,00 per gli enti pubblici. Di seguito si indicano i link di indirizzo per poter accedere all’acquisto scontato:
1. ACQUISTO RISERVATO A PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI: http://bookstorepublic.cadlinesw.com
2. ACQUISTO RISERVATO A PRIVATI O LIBERI PROFESSIONISTI: http://bookstoreprivate.cadlinesw.com
     Ci auguriamo che anche questo sia un ulteriore tassello significativo, messo a disposizione, per la composizione e miglioramento del progetto generale formativo del Portale PTPL.
     Cordialmente.
30.07.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATASCIA, super-DIA, permesso di costruire: tutto quello che c’è da sapere, in un documento semplice e sintetico.
Per la realizzazione di interventi edilizi, dalla semplice manutenzione alla costruzione di un nuovo fabbricato, è necessario possedere opportuno titolo abilitativo.
Ma quando occorre utilizzare la SCIA o la super-DIA, oppure il permesso di costruire?
Che differenza esiste tra le diverse attività edilizie?
Quali sono le spese da sostenere per l’uno o l’altro?
Qual è la validità in termini di tempo?
In questo articolo proponiamo un documento di sintesi, contenente le definizioni relative alle diverse attività edilizie, le tipologie dei permessi previsti, le relative normative di riferimento, i costi, i vincoli, le sanzioni previste.
Il documento risulterà certamente utile a tutti i tecnici dell’edilizia e non solo (26.07.2012 - link a www.acca.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAFalse partite Iva, appalti, sportello unico, bonus per riqualificazione e riforma del lavoro: ecco le novità dell’emendamento al Decreto Sviluppo.
Sono stati approvati importanti emendamenti al Disegno di Legge di conversione al Decreto Sviluppo, D.L. 83/2012.
Le modifiche contenute negli emendamenti, approvati dalle Commissioni Finanze e Attività Produttive alla Camera, riguardano il settore edile, la proroga della mobilità, le modifiche sulla flessibilità in entrata, gli ammortizzatori sociali, le modifiche al Testo Unico in Edilizia.
Approvate alcune importanti novità; di seguito un documento di sintesi delle modifiche enunciate negli emendamenti:
● False partite Iva
● Sportello Unico Edilizia
● Liberalizzazione degli appalti
● Proroga bonus detrazione 55%
● Politiche urbane
● Riqualificazione urbana (26.07.2012 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATANuovo sportello unico per l’edilizia? Ecco le probabili novità.
Lo sportello unico per l’edilizia è stato istituito nel 2001 con il Testo Unico per l’Edilizia, ossia con il D.P.R. 380/2001. Tutti i comuni devono esserne dotati.
Il DPR 380/2001 afferma, all’art. 5, comma 1: “Le amministrazioni comunali, nell'ambito della propria autonomia organizzativa, provvedono a costituire un ufficio denominato sportello unico per l'edilizia, che cura tutti i rapporti fra il privato, l'amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso o di denuncia di inizio attività”.
Si tratta di un vero e proprio intermediario tra l’amministrazione pubblica ed il privato con il compito di:
fornire informazioni in materia edilizia;
ricevere le denunce di inizio attività;
ricevere le domande per il rilascio di permessi di costruire o ogni altro atto amministrativo volto a disciplinare interventi edilizi.
Ricevute le richieste, l'ufficio è tenuto al rilascio dei permessi di costruire, dei certificati di agibilità, delle certificazioni attestanti il rispetto delle norme edilizie e dei piani paesaggistici, ambientali e urbanistici vigenti.
Nel processo di conversione del Decreto Sviluppo 2012 (D.L. 83/2012), attualmente in corso, è stato approvato un emendamento contenente misure di semplificazione per il settore delle costruzioni.
Sono previste misure di semplificazione e rafforzamento dello Sportello Unico, con le seguenti novità:
velocizzazione delle procedure amministrative, inclusa la procedura del silenzio-assenso per il rilascio del permesso di costruire;
maggiori poteri decisionali.
In allegato a questo articolo proponiamo il testo con le modifiche al D.P.R. 380/2001 (Testo Unico in materia Edilizia) con gli emendamenti approvati nelle commissioni Attività Produttive, Finanza e Bilancio della Camera al Decreto Sviluppo (26.07.2012 - link a www.acca.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA - EDILIZIA PRIVATA: M. Viviani Spunti di riflessione in tema di applicazione della disciplina del comma 3-bis dell’art. 5 D.L. n. 70/2011.
L'art. 5, comma 3-bis, del D.L. n. 70/2011, convertito dalla L. n. 106/2011, così recita: "3-bis. Per agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari, dopo il comma 49 dell'articolo 31 della legge 23.12.1998, n. 448, sono inseriti i seguenti:
«49-bis. I vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze nonché del canone massimo di locazione delle stesse, contenuti nelle convenzioni di cui all'articolo 35 della legge 22.10.1971, n. 865, e successive modificazioni, per la cessione del diritto dì proprietà, stipulate precedentemente alla data di entrata in vigore della legge 17.02.1992, n. 179, ovvero per la cessione del diritto di superficie, possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con convenzione in forma pubblica stipulata a richiesta del singolo proprietario e soggetta a trascrizione per un corrispettivo proporzionale alla corrispondente quota millesimale, determinato, anche per le unità in diritto di superficie, in misura pari ad una percentuale del corrispettivo risultante dall'applicazione del comma 48. La percentuale di cui al presente comma è stabilita, anche con l'applicazione di eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa con la Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281.
49-ter. Le disposizioni di cui al comma 49-bis si applicano anche alle convenzioni di cui all'articolo 18 del testo unico di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
".
Al riguardo si possono svolgere le seguenti considerazioni:
1.- La disciplina introdotta (inserendo il comma 49-bis nell’art. 31 L. n.448/1998) dal comma 3-bis dell’art. 5 D.L. n. 70/2011, come convertito dalla L. n. 106/2011 -volta a far fissare dal Comune “i vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze nonché del canone massimo di locazione delle stesse”-, si riferisce alle convenzioni di concessione di aree (per alloggi eep) in proprietà e stipulate prima dell’entrata in vigore della L. n. 179/1992 in quanto da tale data (15.03.1992) sono venute meno le norme dell’art. 35 L. n. 865/1971 che ponevano i suddetti vincoli.
Tali vincoli sono, di solito indicati esplicitamente nelle convenzioni; essi sussistono anche in forza di un eventuale rinvio (ricettizio) alle disposizioni dettate dal ricordato art. 35 (che sostituiva l’art. 10 L. n. 167/1962).
2.- La disciplina del menzionato comma 3-bis si applica anche ai vincoli fissati, nelle convenzioni di concessione del diritto di superficie, per “la determinazione e la revisione periodica dei canoni di locazione nonché per la determinazione del prezzo di cessione degli alloggi, ove questa è consentita” senza alcun limite relativo alla data di stipulazione della convenzione in quanto l’ottavo comma dell’art. 35 non è mai stato abrogato.
3.- Conseguentemente, se un Comune ha convenzioni di concessione in proprietà stipulate prima del 15.03.1992, può applicare la disciplina di cui al precedente punto 1. Con riferimento alle convenzioni di concessione in diritto di superficie, invece, il Comune può rimuovere, alle condizioni previste dal menzionato comma 3-bis, i vincoli relativi alla cessione od alla locazione dei relativi alloggi.
Risulta perciò evidente la differenza tra i due regimi: per gli alloggi in proprietà, regolati da convenzioni anteriori al 15.03.1992, i vincoli che possono essere rimossi sono quelli dettati dall’art. 35 ai commi 15, 16, 17 e 19, mentre, per gli alloggi in diritto di superficie, i vincoli che possono essere rimossi sono quelli fissati dalle convenzioni in qualsiasi data stipulate.
4.- Nei casi di alloggi realizzati in funzione di convenzioni di concessione del diritto di superficie per i quali i proprietari abbiano ottenuto la conversione in proprietà, valgono le regole sopra indicate per la concessione del diritto di superficie con riferimento -perciò- ai vincoli definiti in convenzione e mantenuti all’atto della conversione in proprietà.
5.- La possibilità di rimozione dei vincoli suddetti si può applicare alle speciali convenzioni di cui agli artt. 7 e 8 L. n. 10/1977 o 17 e 18 DPR n. 380/2001 (così dispone il quarto comma dell’art. 5 d.l. n. 70/2011). Non altrettanto si può dire per eventuali vincoli sulla commerciabilità degli immobili eventualmente stabiliti da convenzioni di p.i.i o di piani attuativi.
6.- La delibera comunale definisce il corrispettivo per la rimozione dei vincoli da calcolare applicando il comma 48 dell’art. 31 L. n. 448/1998 con “eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo”.
In proposito, l’art. 29, comma 16-undicies, D.L. n. 216/2011 convertito dalla L. n. 14/2012 pare escludere la necessità del previo provvedimento ministeriale di cui al ricordato comma 49-bis L. n.448/1998.
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Ringraziamo l'amico Avv. Mario VIVIANI per gli interessanti spunti fornitici.
30.07.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

PUBBLICO IMPIEGO: D. Serra, Incompatibilità nel pubblico impiego (Risorse Umane n. 2/2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: R. Nobile, Le assunzioni di personale negli enti locali nel 2012 - Patto di stabilità, rilevazione degli esuberi, programmazione triennale condizioni di ammissibilità (Risorse Umane n. 2/2012).

LAVORI PUBBLICI: M. Dell'Unto, INDICAZIONI OPERATIVE INERENTI LA PROCEDURA NEGOZIATA SENZA PREVIA PUBBLICAZIONE DEL BANDO DI GARA NEI CONTRATTI DI IMPORTO INFERIORE ALLA SOGLIA COMUNITARIA DOPO LE MODIFICHE INTRODOTTE DALLA LEGGE 12.07.2011, N. 106 (Gazzetta Amministrativa n. 1/2012 - link a www.gazzettaamministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Botteon, L’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria sotto soglia: il d.l. 201/2011 "salva Italia" sopprime l’obbligo dell’evidenza pubblica ed equipara il piano attuativo e l’intervento diretto agli effetti dello scomputo (gennaio 2012 - link a www.lexitalia.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIAE’ necessario il consenso del Comune interessato per l’autorizzazione alla localizzazione di un impianto di smaltimento rifiuti? (17.07.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAQuale è la differenza tra il potere di ordinanza ex art. 192, D.Lgs n. 152/2006 e le ordinanze contingibili e urgenti? (17.07.2012 - link a www.ambientelegale.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI SERVIZI: Prime osservazioni sull’affidamento dei Servizi Pubblici Locali di rilevanza economica alla luce della Sentenza della Corte Costituzionale del 20.07.2012 n. 199 (ANCI, nota 24.07.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Emissioni in atmosfera di stabilimenti esistenti: chiarimenti regionali (ANCE Bergamo, circolare 24.07.2012 n. 187).

AMBIENTE-ECOLOGIAOggetto: Disposizioni applicative in materia di emissione in atmosfera in applicazione della Parte Quinta del d.lgs. 152/2006 e smi: chiarimenti in merito alle procedure autorizzative per gli impianti/attività ricadenti nell'ambito di applicazione dell'art. 281, comma 3, del d.lgs. 152/2006 e smi - circolare esplicativa in merito all'attuazione del dduo del 23.12.2011 n. 12772 inerenti le attività di ... (Regione Lombardia, Direzione Generale Ambiente, Energia e Reti, Protezione Aria e Prevenzione Inquinamenti Fisici e Industriali, Attività Produttive e Rischio Industriale, nota 20.07.2012 n. 15030 di prot.).
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Autorizzazioni in deroga art. 272, comma 1, dlgs 152/2006.
L'entrata in vigore del D.lgs. 128/2010 che ha modificato e integrato la Parte Quinta del D.Lgs. 152/2006 "Norme in materia di tutela dell'aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera ha apportato modifiche alla disciplina delle emissioni cosiddette scarsamente rilevanti ai fini dell'inquinamento atmosferico" di cui all'art. 272, comma 1, del D.Lgs 152/2006.
La Regione Lombardia ha aggiornato i contenuti della CIRCOLARE esplicativa del 28/01/2010 prot. n. 1711 emanando l'allegato 4 alla circolare 20.07.2012 n. 15030 di prot..
In particolare la Regione Lombardia con la nuova circolare ha:
• aggiornato l'elenco delle attività in riferimento a quanto riportato nell'allegato IV, parte I alla Parte Quinta del D.Lgs. 152/2006 come modificato dal D.lgs. 128/2010
• confermato le modalità e procedure applicative per gli impianti/attività con emissioni cosiddette scarsamente rilevanti
• definito le tempistiche per la presentazione delle comunicazioni in accordo a quanto riportato nell'art. 281 del D.lgs. 152/2006 come modificato dal d.Lgs. 128/2010.
Per ATTIVITA' NUOVE:
I gestori di attività ad emissioni scarsamente rilevanti, prima dell'avvio dell'attività o dell'impianto devono comunicare, al comune competente per territorio, di ricadere nella casistica di cui all'art. 272, comma 1, del D.lgs. 152/2006 e s.m.i.; qualora non venga effettuata tale comunicazione, che può essere ricompresa all'interno della SCIA, il gestore incorre nelle sanzioni previste dall'art. 279, comma 3, del D.Lgs. 152/2006 e s.m.i.
Per le ATTIVITA' ESISTENTI:
I gestori di impianti e attività individuate dall'art. 272, comma 1, in esercizio alla data di entrata in vigore della Parte Quinta del D.Lgs. 152/2006 e s.m.i. che non ricadevano nel campo di applicazione del DPR 203/1988 o che erano esentati dall'autorizzazione alle emissioni (ad esempio attività di cui ai punti da bb) a kk) ) si adeguano alle disposizioni della Parte Quinta D.Lgs. 152/2006 e s.m.i., ossia trasmettono la comunicazione al Comune competente per territorio, entro il 01.09.2013 (commento tratto da www.provincia.bergamo.it).

APPALTI: OGGETTO: ulteriori disposizioni organizzative ed operative per l’applicazione dell’articolo n. 15 della Legge 12.11.2011, n. 183 (INPS, circolare 18.07.2012 n. 98).
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Il Ministero per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione, con le circolari n. 5 del 23.05.2012 e n. 6 del 31.05.2012, ha emanato direttive in merito, rispettivamente, all’ambito di applicazione dell’art. 40, comma 02, del D.P.R. n. 445 del 2000 ed all’applicazione al DURC delle disposizioni in materia di certificati e dichiarazioni sostitutive introdotte dalla medesima norma.
Con la presente circolare vengono adeguate alle sopra citate direttive ministeriali le indicazioni fornite alle Sedi con la circolare n. 47 del 27.03.2012.
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DURC, ecco il punto della situazione grazie alla Circolare dell’Inps.
L’Inps ha emanato la Circolare 98 del 18.07.2012 in cui fornisce indicazioni sulle modalità per il rilascio del DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva) alla luce delle nuove norme.
In particolare, il documento contiene indicazioni su:
Þ Certificati rilasciati per l’estero
Þ Certificati da depositare nei fascicoli delle cause giudiziarie
Þ Documento Unico di Regolarità Contributiva
Viene chiarito che il divieto per un ente pubblico di produrre un certificato per altra Amministrazione Pubblica si applica solo tra Amministrazioni dello Stato italiano. Pertanto, qualora il privato chieda un certificato da consegnare ad Amministrazione di un paese estero, il certificato dovrà riportare la dicitura: “Ai sensi dell’art. 40, D.P.R. 28.12.2000, n. 445, il presente certificato è rilasciato solo per l’estero”.
In merito ai certificati da depositare nei fascicoli delle cause giudiziarie, si rammenta che gli uffici giudiziari non vanno considerati pubbliche amministrazioni.
La Circolare ribadisce che le Pubbliche Amministrazioni acquisiscono d’ufficio il Documento Unico di Regolarità Contributiva (con le modalità di cui all'articolo 43 del T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445 e successive modificazioni).
Pertanto, il DURC non potrà essere consegnato dal privato all’Amministrazione, ma sarà la stessa Amministrazione a doverlo richiedere agli Enti preposti al suo rilascio.
Nei rapporti tra privati restano, invece, restano valide le disposizioni previste dal D.Lgs. 81/2008: lo stesso privato potrà richiedere alla Pubblica Amministrazione il rilascio del DURC che dovrà contenere la seguente dicitura: “Il presente Certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica Amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”.
Per quanto concerne l’acquisizione d'ufficio del DURC in materia di lavori pubblici viene precisato che questa deve avvenire, come espressamente previsto dall'articolo 6, comma 3, del D.P.R. 207/2010, in tempi rapidi, sia nella fase di gara che in quella successiva, al fine di evitare ritardi nei pagamenti che possano far scattare responsabilità erariale a carico del dipendente pubblico incaricato di richiedere il DURC. (commento tratto da www.acca.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Trasmissione circolare impianti mobili di trattamento rifiuti (inerti) (Regione Lombardia, Direzione Generale Qualità dell'Ambiente, Struttura Prevenzione Inquinamento Atmosferico e Impianti,, nota 03.08.2009 n. 14992 di prot.).

NEWS

APPALTI FORNITURE: Forniture. Le nuove regole si applicheranno solo agli acquisti conclusi dopo la conversione del decreto.
Metodo Consip solo sui nuovi contratti.

I contratti di acquisto di beni e servizi già stipulati dalla Pa, anche se non conformi al metodo Consip –cioè alla standardizzazione dei parametri di valore– sono salvi. Le regole contenute nel testo sulla spending review si applicheranno solo ai nuovi accordi, in particolare a quelli successivi all'entrata in vigore del decreto di conversione.
È questa una delle due modifiche di sostanza uscite dal passaggio del testo alla Commissione bilancio del Senato, alla vigilia dell'approdo in Aula per la conversione, attesa per lunedì e che sarà probabilmente accorpata al provvedimento sulle dismissioni. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 29.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Processo amministrativo a dieta. Atti brevi e chiari. Ne va dell'ammissibilità del ricorso. Il consiglio dei ministri ha approvato il secondo decreto correttivo della riforma del Cpa.
Atti brevi e chiari. Davanti al giudice amministrativo la prolissità e la confusione nell'esposizione può costare caro in termini rispettivamente ... (articolo ItaliaOggi del 28.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI PUBBLICO IMPIEGO: Nella p.a. ritornano le pagelle. Dirigenti, contano obiettivi individuali e capacità organizzative. Gli emendamenti al dl 95 rispolverano il tormentone della valutazione delle performance.
Tornano le fasce di valutazione, sia pure edulcorate e semplificate. Si ripresenta, dunque, ... (articolo ItaliaOggi del 28.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contrattazione decentrata doc. Relazioni illustrative complete e certificazione dei revisori. Circolare della Ragioneria dello Stato dà attuazione alle norme della legge Brunetta.
Le amministrazioni possono procedere unilateralmente nelle materie relative alla organizzazione interna che sono state sottratte alla contrattazione dalla legge Brunetta. ... (articolo ItaliaOggi del 27.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI FORNITURE: Nulli i contratti stipulati senza la Consip. Ma la sanzione vale solo per il futuro.
I contratti di appalto stipulati senza ricorrere alla Consip e alle centrali di acquisto regionali saranno considerati nulli, ma soltanto dopo la conversione in legge del decreto 95 sulla spending review; sono quindi salvi i contratti ... (articolo ItaliaOggi del 27.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: P.a., più certezza sul danno all'immagine.
Fra i tanti effetti della crisi finanziaria che scuote un'Eurozona ormai in forte sofferenza e ingenera una diffusa sensazione ... (articolo ItaliaOggi del 27.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Interrogazioni ai politici. Ai quesiti rispondono solo il sindaco o l'assessore.
Esistono disposizioni che consentono ai responsabili d'area di rispondere, in luogo degli organi politici, alle interrogazioni presentate dai consiglieri ex art. 43 del dlgs 267/2000?
L'art. 43 del dlgs n. 267/2000, al comma 3, riconosce ai consiglieri comunali ... (articolo ItaliaOggi del 27.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum.
Qual'è il quorum deliberativo ai fini della votazione delle deliberazioni del consiglio comunale, con particolare riferimento alla problematica del computo degli astenuti?

L'art. 38, comma 2, dlgs 267/2000 demanda al regolamento comunale ... (articolo ItaliaOggi del 27.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATAFisco, edilizia e lavoro: primo sì al Dl sviluppo. La Camera approva le misure dopo la trentesima fiducia.
Con la trentesima fiducia in 8 mesi il Governo Monti mette in sicurezza il decreto sviluppo e "ipoteca" la sua conversione in legge. La Camera ha dato ieri il via libera in prima lettura al provvedimento che riforma gli incentivi alle imprese e punta a sostenere alcuni settori chiave come infrastrutture ed energia. Approvando il Dl nella versione uscita lunedì sera dalle commissioni competenti, che molto probabilmente sarà anche quella finale. L'Esecutivo conta infatti di far passare a Palazzo Madama, se possibile già la settimana prossima, lo stesso testo. Che a Montecitorio si è arricchito di due nuovi capitoli: le semplificazioni in edilizia e la correzione della riforma Fornero sul lavoro.
Incassare il disco verde dei deputati è stato forse più complicato del previsto per il Governo. Che è andato sotto per tre voti di scarto su un ordine del giorno del pidiellino Manlio Contento sull'udienza filtro per le cause in appello. Anche se il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha successivamente ridimensionato l'episodio, dicendo di condividerne il contenuto ma non la premessa che non era stata stralciata dall'odg.
Nessuna sorpresa invece sulle votazioni che hanno aperto e chiuso la giornata di ieri. Sia in occasione del voto di fiducia mattutino –che è passato con 475 sì, 80 no e 9 astenuti– sia nell'ok serale sull'intero Dl  che ha avuto 382 voti a favore, 80 contrari e 4 astenuti. Complice l'assenza dai banchi di quasi metà Pdl.
Come dimostrano le schede in basso, dalla Camera è uscito un provvedimento ancora più ampio e articolato rispetto a quello d'ingresso, di per sé voluminoso. I capisaldi principali del decreto sono rimasti gli stessi. Si va dall'addio a 43 norme settoriali di incentivazione alle imprese con la contestuale nascita di un unico Fondo per la crescita alla possibilità di finanziare la realizzazione di opere pubbliche in partenariato pubblico-privato con l'emissione di project bond tassati al 12,5% per tre anni. Fino alla proroga al 30 giugno 2013 di due dei bonus fiscali più "amati" dagli italiani: quello sulle ristrutturazioni edilizie che sale dal 36% al 50% con un tetto di spesa di 96mila euro anziché 48mila; quello del 55% sull'efficienza energetica.
Strada facendo il Dl si è arricchito di altre misure. È il caso del lavoro (su cui si veda la pagina accanto) e delle costruzioni, che vedono uscire decisamente rafforzato lo sportello unico per l'edilizia. Senza dimenticare le norme sull'emergenza terremoto. Tanto in Abruzzo quanto in Emilia. Anche se, su quest'ultimo punto, gran parte dei fondi arriverà dall'altro decreto in odore di approvazione (stavolta al Senato): quello sulla spending review (articolo Il Sole 24 Ore del 26.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATADECRETO SVILUPPO/ In azienda opere edili senza vincoli. Ammesso anche il cambio di destinazione d'uso dei locali adibiti alle attività.
VIA I PALETTI/ Gli interventi edilizi interni (sia in muratura che prefabbricati) sono sottratti al passaggio burocratico in Comune.

Novità per i fabbricati adibiti a esercizio d'impresa, nei quali possono essere realizzate modifiche interne di carattere edilizio o mutamenti di destinazione d'uso senza alcun titolo abilitativo.
Lo consente l'articolo 13-bis del decreto legge «sviluppo» (n. 83 del 22.06.2012), che amplia una previsione valida in precedenza solo per la manutenzione straordinaria, le pavimentazioni, i pannelli solari, le aree ludiche e le opere temporanee.
Dal giugno 2012, quindi, gli interventi edilizi interni (sia in muratura che prefabbricati) sono sottratti al passaggio burocratico del Comune, perché sono equiparati alle opere libere, che non esigono titoli edilizi. L'innovazione non riguarda le aree produttive scoperte, né quelle (quali le tettoie) che ricadono in zone prive di delimitazioni e che quindi non presentano caratteristiche di zone «interne».
In aggiunta alle opere di carattere edilizio, sono disciplinati in modo innovativo anche i mutamenti di destinazione d'uso dei locali adibiti a esercizio di impresa: ciò significa che all'interno di un immobile di impresa i singoli locali (uffici, magazzini, depositi, servizi) possono trasmigrare da una destinazione all'altra.
Le nuove libertà riguardano non solo le aree produttive, ma in generale le destinazioni ad esercizio di impresa, quindi qualsiasi intervento di tipo produttivo purché interno all'attività.
Sino a oggi la materia era regolata dalla circolare del ministero Lavori pubblici n. 1918 del 16.11.1977 in tema di opere da realizzare all'interno di stabilimenti industriali. Questa circolare riguardava tuttavia soprattutto gli elementi tecnologici, quali cabine, canalizzazioni, serbatoi baracche, palloni pressostatici chioschi, pali, passerelle basamenti e tettoie di protezione.
Si tratta di elementi di libera realizzazione purché non in contrasto con aspetti ambientali igienico sanitari e comunque senza incremento di densità (aumento di addetti).
Solo in casi particolari (come stabilito dal Tar Parma 537/2003) si riusciva a superare le previsioni dei Comuni, ottenendo la suddivisione di un ampio capannone attraverso tramezzature interne e l'ampliamento del numero degli accessi; spesso poi la modifica interna era, per il Comune, un'occasione per esigere il pagamento di oneri di concessione, quanto meno su una delle due frazioni di capannone ottenuta sezionando la precedente unità.
Questi problemi sembrano ora superati dal decreto legge del 2012, norma che va oltre gli aspetti della tecnica produttiva (le innovazioni necessarie per esigenze tecnologiche e di sicurezza), poiché vengono agevolate anche le modifiche di stampo edilizio e le destinazioni d'uso.
Un limite all'agevolazione può tuttavia desumersi dal comma 4 dell'articolo 6 del Dpr 380/2001, introdotto dal l'articolo 13-bis del decreto legge 83/2012: subito dopo aver reso liberi gli interventi nei luoghi produttivi, il legislatore prevede che l'interessato debba comunicare al Comune l'inizio dei lavori, i dati dell'impresa esecutrice e una relazione tecnica di data certa, con elaborati progettuali, a firma di un professionista abilitato.
Il tecnico deve asseverare, sotto la propria responsabilità, che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti e che per essi la normativa statale e regionale non prevede il rilascio di un titolo abilitativo.
Sembra quindi che il nuovo comma 4 dell'articolo 6 del Dpr 380/2001 (richiedendo l'asseverazione) contrasti con il precedente comma 2, lettera e-bis (che parla di esecuzione senza alcun titolo abilitativo). Ciò accade proprio ora che la Corte costituzionale (164 del 27.06.2012) ha sancito la supremazia della legislazione nazionale in materia di Scia rispetto alle più severe norme locali.
In ogni caso, la liberalizzazione delle opere interne in edifici produttivi e quella dei cambi di destinazione vede entrare in azione le agenzie per le Imprese (regolate dalla legge 112/2008, articolo 38, comma 3), le quali devono certificare (su richiesta degli interessati) la sussistenza dei requisiti e i presupposti per considerare le modifiche interne e quelle di destinazione d'uso conformi al decreto legge 83/2012.
Anche in tal caso, quindi, la maggiore snellezza della procedura è attuata chiedendo un ausilio ai privati.
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Tutte le misure di snellimento antiburocrazia
Le novità introdotte dal decreto sviluppo incidono profondamente sull'attività edilizia, liberalizzando
le procedure soprattutto se i lavori si svolgono all'interno delle unità produttive
SPORTELLO UNICO
Lo sportello unico per l'edilizia diventa il punto di riferimento obbligato per tutti gli atti «riguardanti il titolo abitativo e l'intervento edilizio oggetto dello stesso». Lo sportello fornisce una risposta tempestiva in luogo di tutte le Pa comunque coinvolte.
Tutti gli atti dovranno essere gestiti da questa struttura, e altri uffici comunali o altre amministrazioni coinvolte dal procedimento non potranno trasmettere autonomamente «ai richiedenti» atti autorizzatori, pareri, nulla osta o consensi.
PERMESSO DI COSTRUIRE
Per il rilascio del permesso di costruire, rientra nelle competenze dello sportello unico l'acquisizione, diretta o tramite conferenza di servizi, di pareri di amministrazioni finora escluse. Tra queste, Regione, Difesa e autorità sui vincoli idrogeologici.
Il responsabile dello sportello unico ha l'obbligo di indire la conferenza di servizi se entro sessanta giorni dalla domanda manca ancora qualche nulla osta o c'è il dissenso di qualche amministrazione.
STOP ALLA DUPLICAZIONE DI DOCUMENTI
Scatta un taglio consistente della documentazione richiesta per tutti gli interventi, compresi quelli minori fatti in casa, grazie all'acquisizione d'ufficio dei documenti già in possesso degli uffici pubblici, come documenti catastali o variazioni di mappa.
In base alle nuove disposizioni contenute nella versione definitiva del Dl Sviluppo le amministrazioni «non possono richiedere attestazioni, comunque denominate, o perizie, sulla veridicità e l'autenticità di tali documenti, informazioni e dati».
LAVORI NELLE IMPRESE
Novità importanti nei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, nei quali possono essere realizzate modifiche interne di carattere edilizio o mutamenti di destinazione d'uso senza alcun titolo abilitativo. Lo consente l'articolo 13-bis del Dl "sviluppo".
Dal giugno 2012 tutti gli interventi edilizi interni sono sottratti al passaggio burocratico del Comune, perché sono equiparati alle opere libere, che non esigono titoli edilizi. Prima erano esclusi solo manutenzione straordinaria, pannelli solari e aree ludiche.
CAMBI DI DESTINAZIONI D'USO IN AZIENDA
Vengono regolati anche i mutamenti di destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio di impresa: all'interno di un immobile d'impresa i singoli locali (uffici, magazzini, depositi, servizi) possono trasmigrare da una destinazione all'altra.
Le nuove libertà riguardano non solo le aree produttive, ma in generale tutte le destinazioni ad esercizio di impresa, quindi anche qualsiasi intervento di tipo produttivo purché interno all'attività (articolo Il Sole 24 Ore del 26.07.2012).

ATTI AMMINISTRATIVILa conferenza di servizi detta legge. Le indicazioni possono essere disattese solo in casi eccezionali.
Molte le novità in materia di finanza di progetto. E arriva il contratto di disponibilità.

Per i project financing la conferenza dei servizi preliminare sarà svolta sulla base dello studio di fattibilità o del progetto preliminare; ridotte le possibilità di modificare successivamente quanto deciso in conferenza di servizi. Lo studio di fattibilità necessario a promuovere un'opera in finanza di progetto dovrà essere predisposto da tecnici delle amministrazioni in possesso di adeguati requisiti tecnici o affidati a terzi. Precisate le responsabilità e i rischi dei soggetti che intervengono nei contratti di disponibilità.
Sono queste alcune delle novità che il decreto legge n. 83 sulla crescita approvato ieri dall'aula della camera prevedono per la finanza di progetto e il contratto di disponibilità, innovativa tipologia contrattuale da poco inserita nel nostro ordinamento.
Project financing. Un primo intervento di rilievo del provvedimento attiene allo snellimento e alla semplificazione delle procedure autorizzative per interventi in materia di finanza di progetto. In particolare si prevede che in relazione alle procedure disposte per la opere realizzate con finanza di progetto sia comunque indetta la conferenza dei servizi e che questa si esprima sulla base dello studio di fattibilità oppure sulla base del progetto preliminare.
Una importante precisazione riguarda poi la possibilità di modificare le indicazioni fornite in sede di conferenza dei servizi: ciò sarà possibile soltanto -in presenza di elementi significativi emersi nelle fasi successive del procedimento.
Studi di fattibilità. Il provvedimento interviene poi ... (articolo ItaliaOggi del 26.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIPartecipate, il Governo ci ripensa. Niente dismissioni delle società in house controllate dalle P.a..
Il dietrofront dell'esecutivo Monti arriva con un emendamento alla Spending review.

Sulle dismissioni delle partecipate il governo Monti ha scherzato. E così la mannaia, che nel testo originale della spending review avrebbe dovuto portare allo scioglimento entro il 31.12.2013 di tutte le società in house -controllate direttamente o indirettamente- da pubbliche amministrazioni centrali e locali (compresi i colossi Consip e Sogei controllati dal Met), diventerà un intervento di micro-chirurgia. Perché scamperanno ai tagli non solo le società «che svolgono servizi di interesse generale» o «compiti di centrali di committenza» (la Consip appunto) o «che gestiscono banche dati strategiche per il conseguimento di obiettivi economico-finanziari» (la Sogei), ma anche quelle degli enti locali. I comuni potranno infatti sempre dimostrare di essere costretti agli affidamenti diretti tutte le volte in cui -per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento, non sia possibile per l'amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato.
Basterà inviare una relazione all'Antitrust per poter proseguire nelle gestioni. Come anticipato da ItaliaOggi il 17/7/2012, il capitolo delle dismissioni, su cui evidentemente il governo si è reso conto di aver scritto una norma potenzialmente esplosiva (perché, tra le altre, avrebbe travolto anche la società per la gestione dell'Expo 2015 di Milano) è stato uno dei primi sui cui si sono concentrati gli interventi correttivi dei relatori al decreto legge di riduzione della spesa pubblica (dl 95/2012).
Ma negli emendamenti di Gilberto Pichetto Fratin e Paolo Giaretta, approvati ieri dalla commissione bilancio del senato, vi sono molti altri dietrofront rispetto al testo iniziale e anche qualche sorpresa. Tra i ripensamenti si segnala lo stop ... (articolo ItaliaOggi del 26.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALISPENDING REVIEW/ «In house», salta il taglio automatico. Braccio di ferro su Province e pubblico impiego - Ipotesi ritocchi al patto di stabilità.
I NODI/ Sugli statali possibile ritorno alla concertazione con vincolo di 30 giorni. Maggiori risparmi dalle Prefetture e ufficio per garantire i cittadini.

Salvataggio di una grande fetta delle società pubbliche in house con lo stop al meccanismo della chiusura automatica. Eliminazione dell'obbligo di sopprimere o accorpare enti strumentali e agenzie delle autonomie locali a patto che venga comunque garantita una riduzione di spesa del 20% nella loro gestione. Raddoppio dei risparmi previsti, dal 10% al 20% delle uscite sostenute, dal riordino delle Prefetture e nascita di un nuovo ufficio unico di garanzia tra rapporti tra cittadini e Stato.
Su questo primo pacchetto di modifiche dei relatori alla spending review ieri è arrivato il via libera della commissione Bilancio del Senato, dove fino a notte fonda è andato avanti un serrato braccio di ferro tra maggioranza e Governo sul taglio del Province ed è proseguita una sorta di trattativa a oltranza sugli altri nodi del decreto: ricerca, pubblico impiego, sanità ed enti locali.
Proprio sugli enti locali si è giocata una partita nella partita per effetto del pressing del Pd e dei comuni, con il Governo che ha cominciato a valutare un alleggerimento della stretta o ritocchi al patto di stabilità mantenendo comunque invariati i saldi del decreto. Dopo l'incontro del leader del Pd, Pier Luigi Bersani con Mario Monti e i successivi contatti tra il premier e il ministro dell'Economia Vittorio Grilli, un intervento sugli enti locali veniva considerato probabile.
Emendamento che potrebbe vedere la luce oggi. Dopo i numerosi stop and go della giornata di ieri con più di un momento di tensione, uno slittamento della conclusione dei lavori della Commissione veniva considerato quasi scontato nonostante la maratona notturna. Il testo, quindi, non approderà più in Aula al Senato in giornata ma domani.
Nel primo pacchetto modifiche dei relatori, Paolo Giaretta (Pd) e Gilberto Pichetto Fratin (Pdl), spicca la rivisitazione, quasi integrale, del dispositivo previsto dal decreto per tagliare le società pubbliche in house, ovvero quelle che erogano servizi alla Pa. Anzitutto viene precisato che la soppressione non interessa le società che svolgono servizi di interesse generale, «anche aventi rilevanza economica», e quelle che svolgono prevalentemente compiti di centrali di committenza come Consip e Sogei.
Salve anche tutte le società finanziarie regionali e quelle che gestiscono banche dati necessarie per ottenere fondi Ue e per la tutela della privacy. Salvataggio anche per le società in house costituite nell'ambito della realizzazione di Expo Milano 2015. Soppressione evitabile, seppure con un parere vincolante dell'Authority per la concorrenza, anche quando «per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto non sia possibile per la Pa controllante un utile e efficace ricorso al mercato».
Sempre per evitare il taglio automatico è stata data la possibilità alle amministrazioni di predisporre entro i prossimi tre mesi piani di ristrutturazione delle società controllate, che dovranno essere approvati dopo il parere favorevole del super-commissario Enrico Bondi.
Salta, con un altro emendamento dei relatori, anche l'obbligo di abolizione di agenzie ed enti strumentali degli enti locali (dalle aziende speciali alle istituzioni che gestiscono servizi socio-assistenziali, educativi e culturali) a patto che questi ultimi garantiscano la prevista riduzione di spesa del 20%. Via libera anche all'immediata istituzione di una Conferenza metropolitana nelle nuove 10 città metropolitane.
Ma la vera partita si è giocata sulle Province con Pdl e Pdl a spingere per tutto il giorno per un alleggerimento del tagli, a partire dal salvataggio di Terni, Matera e Isernia (con conseguenti frizioni con Coesione nazionale) e il ministro Filippo Patroni Griffi ad opporsi fino a tarda sera.
Tensioni nella maggioranza anche sugli statali. Con il Pd in pressing per tornare a una concertazione vincolante per il riassetto del pubblico impiego, su cui il Pdl però ha mostrato più di una perplessità. In serata l'ipotesi di mediazione, anche sulla base del lavoro di tessitura di Patroni Griffi, era di inserire un termine di 30 giorni per la consultazione dei sindacati.
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Le ultime modifiche
SOCIETÀ IN HOUSE
Dai relatori è arrivata ieri la riscrittura delle norme sulle società in house: non saranno chiuse automaticamente, ma ci sarà la possibilità di una selezione. L'articolo in questione prevede la privatizzazione delle società pubbliche e il ricorso al mercato
SPA LOCALI
Salta l'obbligo per Regioni, Province e Comuni di sopprimere o accorpare i propri enti o agenzie, a patto che realizzino comunque un risparmio del 20% per la loro gestione. La norma è stata votata ieri in Commissione al Senato
PROVINCE
Altra questione spinosa è quella delle province, per cui il testo del governo prevedeva un sostanziale dimezzamento, con un taglio dei piccoli enti. Terni, Matera e Isernia sono attualmente al centro di un braccio di ferro tra il Governo e la maggioranza.
SANITÀ
Gli interventi sui farmaci riguardano in particolare gli sconti più leggeri richiesti a farmacisti e industrie. Quelli sui beni e servizi soprattutto i tagli ai contratti in essere. Sul taglio dei posti letto negli ospedali si è ragionato fino all'ultimo sulla necessità di evitare automatismi
PUBBLICO IMPIEGO
Tensioni nella maggioranza sul pubblico impiego. Con il Pd in pressing per tornare a una concertazione vincolante per il riassetto, su cui il Pdl però ha mostrato perplessità. In serata l'ipotesi mediazione di inserire un termine di 30 giorni per la consultazione dei sindacati
PREFETTURE
I risparmi che dovrà assicurare la trasformazione delle Prefetture da Ufficio territoriale del Governo ad Ufficio territoriale dello Stato, dovranno essere del 20% e non più solo del 10%. Prevista la nascita di un nuovo ufficio unico di garanzia tra rapporti tra cittadini e Stato (articolo Il Sole 24 Ore del 26.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOLinea dura sugli statali "inefficienti". Sanzioni per chi non rispetta i tempi.
L'emendamento al decreto Sviluppo. Oggi il voto di fiducia.

Tempi duri per il pubblico dipendente che non completi un procedimento nei tempi prescritti.
Un emendamento al decreto Sviluppo, presentato dai relatori Alberto Fluvi (Pd) e Raffaello Vignali (Pdl) con il parere favorevole del governo ... (articolo Corriere della Sera del 25.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIAppalti del settore pubblico senza responsabilità solidale.
LE PREVISIONI/ L'esonero riguarda anche le società partecipate e i privati che appaltano i lavori a scomputo.
Stazioni appaltanti pubbliche escluse dalla responsabilità solidale, che in tutti gli altri casi si applica nell'ambito degli appalti di lavori, servizi e forniture. In questi casi, prima di effettuare il pagamento, il committente deve prendere visione dei documenti che attestano da parte dell'appaltatore e di eventuali subappaltatori il rispetto degli obblighi fiscali. Se non vede i documenti, il committente può sospendere i versamenti, anche perché un pagamento che non passi da questa verifica comporta una sanzione fino a 200mila euro.

Viene corretta in questi termini la materia della responsabilità solidale degli appalti nel nuovo articolo 13-ter del decreto sviluppo, inserito nel maxiemendamento alla legge di conversione.
La novità principale è l'esclusione del mondo pubblico, rappresentato dagli enti ma anche dalle società partecipate: le definizioni di riferimento sono quelle contenute all'articolo 32 del Codice dei contratti (decreto legislativo 163/2006), e di conseguenza l'esclusione riguarda anche i soggetti privati quando appaltino i lavori a scomputo (lo prevede la lettera d dell'articolo 32). Con il nuovo ambito applicativo, la norma viene incontro in particolare alle difficoltà degli enti locali, che nell'ultima versione della regola scritta nella legge di conversione al decreto sulle «semplificazioni fiscali» (Dl 16/2012) si erano visti arruolare nelle verifiche sulla «fedeltà» fiscale e contributiva delle imprese esecutrici o fornitrici.
Sull'oggetto dei controlli, la nuova regola conferma l'estensione della responsabilità al versante fiscale, concentrata in particolare sulle ritenute e sull'Iva, e rafforza le procedure di controllo: essenziale, in questa chiave, è il blocco dei pagamenti da parte del committente a cui non viene consegnata la documentazione che attesta il rispetto degli adempimenti. Molto alte, come accennato, le sanzioni per chi effettua pagamenti senza seguire questo passaggio.
Sempre in tema di Pa, il maxiemendamento al decreto Sviluppo torna sul tema dell'«amministrazione aperta» estendendo alle società partecipate l'obbligo di pubblicare su Internet la radiografia di tutti i pagamenti superiori a mille euro, con nome del beneficiario, curriculum, contratto e somma erogata. Stretta drastica, invece, sugli acquisti di software proprietari con licenza: le Pubbliche amministrazioni potranno imboccare questa strada solo dopo aver verificato che è impossibile scegliere un software sviluppato per conto di altre amministrazioni oppure a sorgente aperta (articolo Il Sole 24 Ore del 25.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Nel caso di esclusione di una impresa dalla gara da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, il rinnovo degli atti deve consistere nella sola valutazione dell'offerta illegittimamente pretermessa.
Nella gara per l'affidamento di contratti pubblici l'interesse fatto valere dal ricorrente che impugna la sua esclusione è volto a concorrere per l'aggiudicazione nella stessa gara; pertanto, anche nel caso dell'offerta economicamente più vantaggiosa, in presenza del giudicato di annullamento dell'esclusione stessa sopravvenuto alla formazione della graduatoria, il rinnovo degli atti deve consistere nella sola valutazione dell'offerta illegittimamente pretermessa, da effettuarsi ad opera della medesima commissione preposta alla procedura (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 26.07.2012 n. 30 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Ai fini del godimento del beneficio di riduzione della cauzione provvisoria, non è necessaria la corrispondenza della certificazione di qualità alla categoria prevalente dei lavori oggetto dell'appalto.
La possibilità per i concorrenti di poter accompagnare l'offerta con una garanzia di importo dimidiato è contemplata, per ciò che concerne gli appalti di lavori nell'ambito della disciplina del sistema unico di qualificazione per gli esecutori di lavori pubblici, all'art. 40, c. 7, del d. lgv. n. 163 del 2006 (Codice dei Contratti pubblici), che prevede che gli operatori economici certificati beneficiano della riduzione della cauzione sia provvisoria che definitiva, alla sola e unica condizione che la certificazione del sistema di qualità sia rilasciata in conformità alle norme della serie europea UNI ENI ISO 9000 da organismi di certificazione a loro volta accreditati sulla base di norme UNI CEI EN 4500.
Dello stesso tenore è la disposizione di cui all'art. 75, c. 7, del Codice dei Contratti pubblici che regolamenta le garanzie a corredo dell'offerta, che ribadisce la possibilità della riduzione dell'importo delle garanzie per le imprese in possesso di certificazione conforme alle norme europee senza null'altro aggiungere, prescindendo da qualsivoglia necessità di corrispondenza della certificazione di qualità all'oggetto dell'appalto cui di volta in volta l'impresa partecipi. Ne consegue che nessuna norma prevede la sussistenza di specifiche condizioni, oltre al possesso della certificazione di qualità con le formalità su descritte, per poter beneficiare del dimezzamento della cauzione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.07.2012 n. 4225 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini del rilascio della concessione edilizia, deve parlarsi di “nuova costruzione” in presenza di opere che comunque implichino una stabile -ancorché non irreversibile- trasformazione urbanistico-edilizia del territorio preordinata a soddisfare esigenze non precarie del committente sotto il profilo funzionale e della destinazione dell'immobile.
Sicché, come esattamente affermato dal Tar, le strutture installate avrebbero dovuto essere qualificate come "intervento di nuova costruzione" a nulla rilevando che si trattasse di manufatti mobili (come la roulotte) o leggeri (come la tenda in metallo e plastica o il bagno chimico) data la loro funzione a servizio permanente all’attività di autolavaggio.
Trattandosi di strutture stabilmente destinate all'esercizio di un'attività dell’appellante, queste non potevano esser considerate meramente temporanee.

L’appellante contesta la sentenza del TAR con cui è stato respinto il ricorso avverso diniego dell’intera domanda di condono edilizio, relativa ad una roulotte, un bagno chimico ed un tendone, sulla scorta di un parere legale, richiamato nel provvedimento in questione, con il quale si afferma che “le nuove costruzioni non residenziali e le opere abusive realizzate su aree vincolate dopo l’imposizione del vincolo stesso, non possono essere suscettibili di sanatoria”.
Con il primo motivo di gravame si lamenta che erroneamente la sentenza ha escluso la condonabilità sulla considerazione per cui “al fine di escludere la necessità della concessione edilizia –ora permesso di costruire–, la precarietà della costruzione va desunta dalla funzione assolta dal manufatto, non dalla struttura o dalla qualità dei materiali usati, essendo in ogni caso subordinata al previo titolo abilitativo l’opera destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo" (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 28.03.2008 n. 1354); non è, dunque, significativo che il manufatto sia solo aderente al suolo e non anche infisso allo stesso, se alteri tuttavia in modo rilevante e duraturo lo stato del territorio, e cioè non si traduca in un uso oggettivamente preordinato a soddisfare esigenze del tutto contingenti e transitorie.
Afferma al contrario l’appellante che, come sarebbe stato affermato dalla giurisprudenza, la struttura in questione avendo natura precaria e strumentale, non avrebbe richiesto concessione edilizia e quindi non avrebbe avuto alcuna necessità di ottenere la sanatoria, richiesta dall’appellante al solo fine di risolvere la situazione.
L’assunto va respinto.
L’art. 3, lett. e.5) del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 riconduce, tra l’altro, alla nozione di “intervento di nuova costruzione" proprio “l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
In tale scia interpretativa, la giurisprudenza ha costantemente affermato che, ai fini del rilascio della concessione edilizia, debba parlarsi di “nuova costruzione” in presenza di opere che comunque implichino una stabile -ancorché non irreversibile- trasformazione urbanistico-edilizia del territorio preordinata a soddisfare esigenze non precarie del committente sotto il profilo funzionale e della destinazione dell'immobile (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 20.06.2011 n. 3683; Consiglio Stato, sez. IV, 22.12.2007 n. 6615; Consiglio di Stato, sez. VI, 16.02.2011 n. 986).
Nel caso in esame dunque non vi sono dubbi che, come esattamente affermato dal Tar, le strutture installate avrebbero dovuto essere qualificate come "intervento di nuova costruzione" a nulla rilevando che si trattasse di manufatti mobili (come la roulotte) o leggeri (come la tenda in metallo e plastica o il bagno chimico) data la loro funzione a servizio permanente all’attività di autolavaggio.
Trattandosi di strutture stabilmente destinate all'esercizio di un'attività dell’appellante, queste non potevano esser considerate meramente temporanee.
Il motivo è dunque infondato e va respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.07.2012 n. 4214 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina del condono edilizio del 2003, a differenza dei precedenti, non è applicabile all’istallazione di nuove strutture ad uso diverso da quello residenziale in quanto come esattamente rilevato nella sentenza impugnata dal TAR “Le tipologie di “abusi minori” come definite dall’art. 32, comma 25, del d.l. n. 269/2003 conv in l. n. 326/2003 non contemplano evidentemente, tra le fattispecie di abuso sanabili, le “nuove costruzioni con destinazione non residenziale”.
La normativa (c.d. del “piccolo condono”) di cui al comma 25 dell’art. 32 del d.l. 30.09.2003 n. 269 (conv. in L. n. 326/2003) riaprì la possibilità di richiedere il condono delle opere abusive che risultino essere ultimate entro il 31.03.2003 limitatamente:
- all’ampliamento di manufatti esistenti non superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria, con il limite dei 750 metri cubi;
- alle “nuove costruzioni residenziali” non superiori a 750 metri cubi per singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria, a condizione che la nuova costruzione non superi complessivamente i 3.000 metri cubi.
In base alla costruzione letterale stessa della norma, in linea di principio la disciplina del condono edilizio del 2003, a differenza dei precedenti, non era dunque applicabile all’istallazione di nuove strutture ad uso diverso da quello residenziale in quanto come esattamente rilevato nella sentenza impugnata dal TAR “Le tipologie di “abusi minori” come definite dall’art. 32, comma 25, del d.l. n. 269/2003 conv in l. n. 326/2003 non contemplano evidentemente, tra le fattispecie di abuso sanabili, le “nuove costruzioni con destinazione non residenziale”.
Nessun rilievo al contrario può assurgere nella specie la tesi riportata dalla Circolare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del 07.12.2005, n. 2699, secondo cui sono condonabili tutte le opere, "ab origine" prive di titolo abilitativo, residenziali e non, in quanto la natura eccezionale dell'istituto del condono edilizio e la sua incidenza su illeciti amministrativi, a rilevanza penale, implicano che la tipologia e consistenza delle opere suscettibili di sanatoria devono essere individuate con rigorosa tassatività dalle singole leggi istitutive, senza possibilità di integrazioni con le diverse fattispecie previste dalle leggi precedenti (cfr. Consiglio Stato, A. Plen., 23.04.2009 n. 4; Cassazione penale, sez. III, 02.12.2010, n. 762; idem, 24.02.2004, n. 15283, ecc. ).
Sotto altro profilo deve poi annotarsi che, come si evince dall’attestazione del responsabile del servizio versata dalla controinteressata –come esattamente affermato nel provvedimento impugnato ma non contestato dall’appellante- l’area in parte è classificata come “Zona G1 Verde di rispetto stradale” con divieto di qualsiasi nuova costruzione ed in parte rientra nella fascia di rispetto dei 150 mt del vallone Acqualaggia sottoposto a vincolo ambientale ai sensi della lett. c) dell’art. 142 del D.lgs. n. 42/2004.
A tal proposito si ricorda che il 27° co. d) dell’art. 32 cit., prevedeva che le opere abusive non fossero comunque suscettibili di sanatoria, “qualora siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
In definitiva, nel caso di specie, alle strutture impiantate non era dunque applicabile il "nuovo" condono edilizio di cui all’art. 32 del d. I. n. 269 del 2003:
- poiché, dovendo qualificarle come “nuove costruzioni” non attenti all’edilizia residenziale, non potevano essere ricomprese nell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 32 cit.;
- perché comunque insistevano in un’area per una parte sottoposta a vincoli ambientali imposti antecedentemente al momento di realizzazione dell’abuso.
In conclusione l’appello è infondato e deve essere respinto e per l’effetto la sentenza impugnata deve essere integralmente confermata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.07.2012 n. 4214 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: In sede di pubblico concorso la Commissione esaminatrice è, di norma, titolare di un'ampia discrezionalità in ordine:
- alla catalogazione dei singoli tipi di titoli valutabili nell'ambito delle categorie generali predeterminate dal bando;
- all’attribuzione della rilevanza e dell'importanza dei titoli stessi;
- all'individuazione dei criteri per l'attribuzione ai candidati dei punteggi spettanti per i titoli da essi vantati nell'ambito del punteggio massimo stabilito dal bando, all'evidente fine di rendere concreti, attuali e utilizzabili gli stessi criteri del bando.
Naturalmente l'esercizio di tale discrezionalità sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, impingendo nel merito dell'azione amministrativa, salvo che il suo uso non sia caratterizzato da macroscopici vizi di eccesso di potere per irragionevolezza,manifesta iniquità, e palese arbitrarietà.

Come è noto, in sede di pubblico concorso la Commissione esaminatrice è, di norma, titolare di un'ampia discrezionalità in ordine:
- alla catalogazione dei singoli tipi di titoli valutabili nell'ambito delle categorie generali predeterminate dal bando;
- all’attribuzione della rilevanza e dell'importanza dei titoli stessi;
- all'individuazione dei criteri per l'attribuzione ai candidati dei punteggi spettanti per i titoli da essi vantati nell'ambito del punteggio massimo stabilito dal bando, all'evidente fine di rendere concreti, attuali e utilizzabili gli stessi criteri del bando.
Naturalmente l'esercizio di tale discrezionalità sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, impingendo nel merito dell'azione amministrativa, salvo che il suo uso non sia caratterizzato da macroscopici vizi di eccesso di potere per irragionevolezza,manifesta iniquità, e palese arbitrarietà (cfr. infra multa Consiglio Stato, sez. IV, 01.06.2010, n. 3477; Consiglio Stato, sez. IV, 27.06.2007 , n. 3745; Consiglio Stato, sez. V, 12 marzo 2009 , n. 1506), ecc.) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.07.2012, n. 4212 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOCassazione. La «privatizzazione» è possibile. Sottotetto comune solo se utilizzabile.
IL PRINCIPIO/ Quando il locale svolge funzione di «camera d'aria» rispetto all'appartamento sottostante va considerato pertinenza di quest'ultimo.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 23.07.2012 n. 12840 torna nel sottotetto, quello spazio un tempo destinato a ospitare ciarpame o semplicemente a restare vuoto per evitare pericoli di crolli e incendi, e ora potenziale e ambitissima mansarda. E torna per confermare il suo orientamento: se può servire all'uso comune è condominiale, se serve solo come «camera d'aria» è pertinenza del piano di sotto.
Le norme regionali hanno reso appetibile (e agibile) migliaia di solai, magari con piccole modifiche, dall'abbassamento dell'altezza media di 2,7 metri alla possibilità di alzare la falde del tetto. Ma molti, in realtà, non erano ufficialmente pertinenze di appartamenti bensì semplicemente "camere d'aria" immaginate per evitare un contatto diretto tra ultimo piano e tetto, che avrebbe creato non pochi problemi di caldo e freddo.
Ora, con le moderne tecniche di coibentazione, questo non è più un problema. Un problema è invece la proprietà di questi beni, che valgono anche molto: sono del condominio o dell'appartamento sottostante?
La polemica è andata avanti per decenni, sinché l'orientamento della Cassazione si è consolidato con un principio: non essendo il sottotetto espressamente ricompreso nel novero delle parti comuni individuate dall'articolo 1117 del Codice civile, l'appartenenza del sottotetto si determina in base al titolo e, in mancanza, in base alla funzione cui esso è destinato in concreto. Quindi, se si tratta di vano destinato esclusivamente a servire da protezione dell'appartamento dell'ultimo piano dal caldo, dal freddo e dall'umidità tramite la creazione di una camera d'aria, è pertinenza e proprietà esclusiva del proprietario dell'ultimo piano; mentre è una parte comune se è utilizzabile, anche solo potenzialmente, per gli usi comuni, perché in questo caso si può applicare la presunzione di comunione prevista dall'articolo 1117 del Codice civile, la quale opera ogni volta che nel silenzio del titolo il bene sia per le sue caratteristiche suscettibile di utilizzazione da parte di tutti i proprietari. In concreto, quindi, nella maggioranza dei casi il sottotetto è una pertinenza dell'appartamento sottostante, anche se naturalmente questo solleva le proteste degli altri condomini che si sentono defraudati se non di un'utilità comune (di fatto il sottotetto serve solo all'unità sottostante) quanto meno di un valore immobiliare.
Ma anche l'ultima pronuncia della II sezione civile della Cassazione, l'ordinanza 12840 (presidente Umberto Goldoni e relatore Aldo Carrato), depositata ieri, ha confermato l'orientamento.
Nel caso di specie, le Corti di merito avevano già verificato proprio che il sottotetto non era utilizzabile in alcun modo a scopi comuni (e anzi era collegato all'appartamento sottostante da una scala interna e non era accessibile da altre parti), e avevano già condannato il condomino che aveva promosso l'azione a 2mila euro di spese di risarcimento danni più tutte le spese giudiziarie e legali in primo e secondo grado. La Cassazione ha ritenuto il ricorso «manifestamente infondato» con ordinanza e ha ulteriormente condannato il ricorrente a pagare 1.700 euro di spese di giudizio (articolo Il Sole 24 Ore del 24.07.2012).

LAVORI PUBBLICIAppalti. Danni causati da lavori stradali. La colpa del sinistro è anche del Comune.
I PALETTI/ Se l'area durante i lavori viene comunque utilizzata per la circolazione delle vetture il municipio risponde con l'appaltatore.

Diventa più facile ottenere il risarcimento danni per i sinistri stradali causati da lavori in corso.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, interviene infatti (sentenza 23.07.2012 n. 12811) con dettagli che distinguono il tipo di lavori e di cantiere, nonché le caratteristiche dell'appalto che modifica la strada. Nel caso esaminato, risalente al 1989, si discuteva di tubi e cavi collocati nel sottosuolo, in un'area completamente delimitata: il principio applicato è che l'omessa segnalazione, l'imprevedibilità del trabocchetto genera responsabilità del solo appaltatore (o subappaltatore) che ha eseguito o i lavori e ne è custode. Se invece durante i lavori l'area continua a essere utilizzata per la circolazione, rispondono dei danni sia l'appaltatore che l'ente proprietario della strada. Per giungere a questa conclusione, la Cassazione ricorda che in tema di appalto vige il principio secondo cui l'appaltatore (o il subappaltatore) opera in piena autonomia, a proprio rischio, specialmente se il committente non si ingerisce nei lavori con direttive vincolanti.
In altri termini, se nella scala dei soggetti che tendono al risultato (quale il posizionamento di tubi in sede stradale) vi sono direttive specifiche del soggetto a monte (ad esempio, del proprietario della strada) che riducono l'imprenditore a valle al ruolo di mero esecutore, la responsabilità rimane in capo a colui che, ingerendosi nella gestione delle modalità esecutive, ha indotto gli altri (avendone le capacità e l'autorità) ad eseguire come "nudus minister" (soggetto privo di capacità di scelta). Se quindi vi è un'impresa contrattualmente obbligata a sorvegliare in generale tuta la viabilità, con compiti di manutenzione ordinaria, in caso di sinistro la responsabilità si arresta al confine di specifici cantieri: risponde del cantiere solo l'appaltatore che vi opera, tanto più se si discute di opere (come il posizionamento di tubi) diverse dalla usuale gestione della sede stradale.
Un'ulteriore distinzione è operata tra aree di cantiere delimitate ed enucleate rispetto alla sede stradale aperta al traffico, sulle quali vi è la custodia (e responsabilità) esclusiva dell'appaltatore, rispetto agli interventi che vengono effettuati con strada aperta al pubblico. I giudici di legittimità ricordano infatti che, nel caso di lavori di rifacimento di marciapiedi e del manto stradale, su area che continua ad essere adibita a circolazione, permane il rapporto di custodia tra ente pubblico (Comune, Provincia, Stato) proprietario della strada e soggetto appaltatore (Cassazione, sentenza 12425/2008). Diventa quindi importante verificare se, al momento dell'incidente, la sede stradale sia aperta al traffico e se vi fossero specifiche delimitazioni di cantiere.
Inoltre, le opere in corso devono essere tanto specialistiche da non coinvolgere il soggetto proprietario o il manutentore in generale della strada, e infine non vi deve essere alcuna interferenza (suggerimenti o imposizioni) tra ciò che avviene nella viabilità generale e ciò che accade nel cantiere. Ad esempio, se per motivi di viabilità il Comune consente il traffico stradale in una zona adiacente una trincea scavata per collocare impianti interrati, senza rispettare margini di sicurezza, la responsabilità è della pubblica amministrazione (articolo Il Sole 24 Ore del 24.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI SERVIZI: Nelle procedure di evidenza pubblica, un'offerta non può ritenersi senz'altro anomala e comportante l'automatica esclusione dalla gara per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali, che costituiscono non parametri inderogabili ma indici del giudizio di congruità; invero, affinché possa propendersi per l'anomalia dell'offerta, occorre che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata.
Si è detto in proposito, infatti, che “nelle gare pubbliche indette per l'aggiudicazione di appalti di servizi con la p.a., se è vero che le tabelle ministeriali recanti il costo della manodopera espongono dati non inderogabili, si deve altresì convenire che le medesime assolvono ad una funzione di parametro di riferimento dal quale è possibile discostarsi, in sede di giustificazione dell'anomalia, solo sulla scorta di una dimostrazione puntuale e rigorosa, tanto più se si considera che il dato delle ore annue mediamente lavorate dal personale coinvolge eventi (malattie, infortuni, maternità) che non rientrano nella disponibilità dell'impresa e che quindi necessitano, per definizione, di stima di carattere prudenziale.”.
Parimenti, è stato rilevato in passato che devono considerarsi anomale solo le offerte che si discostano in misura rilevante dai valori risultanti dalle tabelle ministeriali. I dati risultanti dalle tabelle de quibus non costituiscono, infatti, parametri assoluti e inderogabili, ma sono ben suscettibili di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali svolte dall'offerente, che, evidenziando una particolare organizzazione imprenditoriale, rimettono alla stazione appaltante ogni valutazione tecnico discrezionale di congruità. Conseguentemente, è da reputarsi ammissibile l'offerta che da essa si discosti, purché il divario non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva.

Passando al merito dell’appello principale, è certamente da disattendere il motivo volto a sostenere l’obbligo della stazione appaltante di escludere l’appellata fondato sulla circostanza che l’offerta della medesima con riferimento al costo della manodopera, della lex specialis, si era discostata di circa il 19% rispetto ai minimi previsti dalle Tabelle in materia di costo del lavoro.
Rammenta in proposito il Collegio, che per costante quanto condivisa giurisprudenza amministrativa tale scostamento non può essere causa di esclusione dell’offerta, fondata sulla presunzione iuris et de iure di inaffidabilità della stessa (proprio a cagione del detto riscontrato scostamento).
Nelle procedure di evidenza pubblica, infatti, un'offerta non può ritenersi senz'altro anomala e comportante l'automatica esclusione dalla gara per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali, che costituiscono non parametri inderogabili ma indici del giudizio di congruità; invero, affinché possa propendersi per l'anomalia dell'offerta, occorre che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata.
Si è detto in proposito, infatti, che (Consiglio di Stato sez. V 28.06.2011 n. 3865) “nelle gare pubbliche indette per l'aggiudicazione di appalti di servizi con la p.a., se è vero che le tabelle ministeriali recanti il costo della manodopera espongono dati non inderogabili, si deve altresì convenire che le medesime assolvono ad una funzione di parametro di riferimento dal quale è possibile discostarsi, in sede di giustificazione dell'anomalia, solo sulla scorta di una dimostrazione puntuale e rigorosa, tanto più se si considera che il dato delle ore annue mediamente lavorate dal personale coinvolge eventi (malattie, infortuni, maternità) che non rientrano nella disponibilità dell'impresa e che quindi necessitano, per definizione, di stima di carattere prudenziale.”.
Parimenti, è stato rilevato in passato che devono considerarsi anomale solo le offerte che si discostano in misura rilevante dai valori risultanti dalle tabelle ministeriali. I dati risultanti dalle tabelle de quibus non costituiscono, infatti, parametri assoluti e inderogabili, ma sono ben suscettibili di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali svolte dall'offerente, che, evidenziando una particolare organizzazione imprenditoriale, rimettono alla stazione appaltante ogni valutazione tecnico discrezionale di congruità. Conseguentemente, è da reputarsi ammissibile l'offerta che da essa si discosti, purché il divario non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva (TAR Roma Lazio sez. III 05.12.2011 n. 9570).
Ciò implica la sicura reiezione della detta corrispondente censura, riproposta nell’appello principale,anche tenuto conto della circostanza che nessuna clausola del bando o del disciplinare imponeva la immediata esclusione della impresa offerente in detta evenienza: in particolare, non certamente in tali termini può essere intesa la prescrizione contenuta al quarto capoverso del punto 2 del disciplinare (rubricato: procedimento di verifica delle giustificazioni ed esclusione delle offerte anormalmente basse) posto che la detta ultima clausola, peraltro in maniera sostanzialmente non perspicua fa riferimento alla non ammissibilità di giustificazioni in relazione “ai trattamenti minimi salariali stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge” e tali non possono considerarsi le tabelle ministeriali in quanto costituenti, come si è prima dimostrato, meri parametri di valutazione e che il bando faceva espresso riferimento, richiamandoli integralmente, agli artt. 86 ed 87 del d.Lgs. n. 163/2006, ratione temporis vigenti .
Ciò comporta altresì che la verifica giudiziale si incentri sulle ulteriori doglianze sollevate dall’appellante principale, il che investe la verifica svolta dall’amministrazione sull’offerta predetta (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.07.2012 n. 4206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: I parametri della illogicità ed arbitrarietà sono gli unici cui deve restare ancorata la verifica giudiziale, a fronte della penetrante discrezionalità amministrativa sia in sede di valutazione dell’anomalia che, a fortiori, di scelta di quali “strumenti” di indagine e verifica avvalersi per dissipare i dubbi di anomalia dell’offerta riconosciuti in capo alla stazione appaltante.
Come è noto, infatti, per evidenti fini di tutela del pubblico interesse, la "ratio" cui è preordinato il meccanismo di verifica della offerta anomala è la piena affidabilità della proposta contrattuale.
Conseguenzialmente alla detta premessa, ancora di recente è stato affermato che il giudizio di verifica della congruità di un'offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, con conseguente irrilevanza di eventuali singole voci di scostamento. Altresì, non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile. In merito al procedimento di verifica dell'anomalia delle offerte, il Giudice Amministrativo può sindacare le valutazioni compiute dalla P.A. sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, ma non può operare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta presentata e delle sue singole voci, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della P.A., in esercizio di discrezionalità tecnica.
In coerenza con l’orientamento per cui la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, ma mira ad accertare se l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell'appalto, ancora recentemente è stato ribadito che il procedimento di verifica è avulso da ogni formalismo ed è improntato alla massima collaborazione tra stazione appaltante e offerente; il contraddittorio deve essere effettivo; non vi sono preclusioni alla presentazione di giustificazioni, ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; mentre l'offerta è immodificabile, modificabili sono le giustificazioni, e sono ammesse quelle sopravvenute e compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione, a garanzia di una seria esecuzione del contratto.
Nei limiti della ragionevolezza (discendente da dati variabili tra i quali va annoverato, anche, anche quello rappresentato dalla complessità dell’appalto, dal valore del medesimo, dal numero delle voci oggetto di rilievo e giustificazioni, etc.), non vi sono limitazioni prefissate al potere di verifica della stazione appaltante, e, per altro verso, per la pacifica giurisprudenza infatti non è escluso che si possa procedere in sede di verifica di anomalia ad un limitato rimaneggiamento dei suoi elementi, purché la proposta contrattuale non venga modificata o alterata.
Non può essere fissata, ai fini della valutazione di anomalia delle offerte presentate nelle gare di appalto, una quota rigida di utile al di sotto della quale l'offerta debba considerarsi per definizione incongrua, dovendosi invece avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale e risultando in sé ingiustificabile solo un utile pari a zero, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante (si pensi alle ricadute positive che possono discendere in termine di qualificazione, pubblicità, curriculum discendenti per una impresa dall’essersi aggiudicata e dall’avere poi portato a termine un prestigioso appalto).

La problematica, quindi, si sposta, sulla valutazione che di tali giustificazioni è stata resa dalla stazione appaltante,e, in ultima analisi, sulla valutazione di affidabilità complessiva della offerta che dalla stessa è stata resa, tenendo conto, sul punto, comunque, di una rilevante circostanza: neppure parte appellante, che richiama principi di matrice giurisprudenziale in materia di rimaneggiamento dell’offerta e di successiva riduzione dei margini di utile, si spinge ad affermare che l’offerta dell’appellata mancasse di un margine di utile o che questo fosse pari allo zero.
Sul punto, è bene rammentare che il Collegio non intende discostarsi dai consolidati principi in punto di verifica dell’anomalia delle offerte cui è in passato approdata la giurisprudenza amministrativa.
Si rimarca in proposito che per pacifica giurisprudenza i parametri della illogicità ed arbitrarietà sono gli unici cui deve restare ancorata la verifica giudiziale, a fronte della penetrante discrezionalità amministrativa sia in sede di valutazione dell’anomalia che, a fortiori, di scelta di quali “strumenti” di indagine e verifica avvalersi per dissipare i dubbi di anomalia dell’offerta riconosciuti in capo alla stazione appaltante (ex multis, in merito alla discrezionalità tecnica che assiste il seggio di gara in materia di valutazione dell’anomalia dell’offerta si veda, tra le tante, Consiglio Stato, sez. IV, 05.08.2005, n. 4196).
Come è noto, infatti, per evidenti fini di tutela del pubblico interesse, la "ratio" cui è preordinato il meccanismo di verifica della offerta anomala è la piena affidabilità della proposta contrattuale” (Consiglio Stato, sez. V, 05.10.2005, n. 5315).
Conseguenzialmente alla detta premessa, ancora di recente è stato affermato che “il giudizio di verifica della congruità di un'offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, con conseguente irrilevanza di eventuali singole voci di scostamento. Altresì, non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile. In merito al procedimento di verifica dell'anomalia delle offerte, il Giudice Amministrativo può sindacare le valutazioni compiute dalla P.A. sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, ma non può operare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta presentata e delle sue singole voci, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della P.A., in esercizio di discrezionalità tecnica.” (Cons. Stato Sez. III, 26-01-2012, n. 343).
Rammenta il Collegio che in coerenza con l’orientamento per cui la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, ma mira ad accertare se l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell'appalto, ancora recentemente è stato ribadito che (Consiglio di Stato, Sezione Sesta n. 4801/2011) il procedimento di verifica è avulso da ogni formalismo ed è improntato alla massima collaborazione tra stazione appaltante e offerente; il contraddittorio deve essere effettivo; non vi sono preclusioni alla presentazione di giustificazioni, ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; mentre l'offerta è immodificabile, modificabili sono le giustificazioni, e sono ammesse quelle sopravvenute e compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione, a garanzia di una seria esecuzione del contratto. (Consiglio Stato, sez. VI, 21.05.2009, n. 3146).
Nei limiti della ragionevolezza (discendente da dati variabili tra i quali va annoverato, anche, anche quello rappresentato dalla complessità dell’appalto, dal valore del medesimo, dal numero delle voci oggetto di rilievo e giustificazioni, etc.), non vi sono limitazioni prefissate al potere di verifica della stazione appaltante, e, per altro verso, per la pacifica giurisprudenza infatti non è escluso che si possa procedere in sede di verifica di anomalia ad un limitato rimaneggiamento dei suoi elementi, purché la proposta contrattuale non venga modificata o alterata (Consiglio Stato, sez. VI, 07.03.2008, n. 1007; sez. VI, 26.04.2005, n. 1889; sez. V, 11.11.2004, n. 7346).
Ciò che rileva è che l’offerta rimanga nel complesso “seria”.
E seria rimane, anche laddove l’utile d’impresa si riduca, purché non risulti del tutto azzerato.
Si rammenta in proposito che l’art. 87, comma 1, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, nella versione antecedente alla modifica introdotta dall’articolo 4-quater, comma 1, lettera c), punto 1), del D.L. 01.07.2009, n. 78 disponeva che, “Quando un'offerta appaia anormalmente bassa, la stazione appaltante richiede all'offerente le giustificazioni, eventualmente necessarie in aggiunta a quelle già presentate a corredo dell'offerta, ritenute pertinenti in merito agli elementi costitutivi dell'offerta medesima”.
L’utilizzo dell’inciso “in aggiunta” consente di rilevare che, purché l’utile di impresa sia indicato e risulti permanere all’esito della verifica d’anomalia, e purché non si registrino indebite “sostituzioni di voci”, anche un eventuale rimaneggiamento dell’offerta appare non soltanto consentito, ma addirittura fisiologico.
Ma ciò che maggiormente giova ribadire, alla luce delle censure proposte dall’appellante, è che, armonicamente con le conclusioni della giurisprudenza (Consiglio Stato, sez. VI, 16.01.2009, n. 215) non può essere fissata, ai fini della valutazione di anomalia delle offerte presentate nelle gare di appalto, una quota rigida di utile al di sotto della quale l'offerta debba considerarsi per definizione incongrua, dovendosi invece avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale e risultando in sé ingiustificabile solo un utile pari a zero, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante (si pensi alle ricadute positive che possono discendere in termine di qualificazione, pubblicità, curriculum discendenti per una impresa dall’essersi aggiudicata e dall’avere poi portato a termine un prestigioso appalto)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.07.2012 n. 4206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di istanza di sanatoria edilizia per opere abusive realizzate in aree sottoposte a vincolo, il silenzio-assenso per decorso del termine di ventiquattro mesi dall'emissione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo si forma solo nel caso di parere favorevole, e non anche di parere contrario, poiché il rilascio della concessione in sanatoria per abusi in zone vincolate presuppone necessariamente il parere favorevole, e non il parere "sic et simpliciter" della predetta autorità.
Il parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, di cui all'art. 32 l. n. 47 del 1985, è pregiudiziale ad ogni altra valutazione e, se sfavorevole, rende impossibile la sanatoria dell'opera. Conseguentemente, nel caso in cui l'espressione del parere e l'adozione del provvedimento sull'istanza di sanatoria siano di competenza della medesima Amministrazione (nella specie, il Comune), è ben possibile che l'esito negativo dell'esame sulla compatibilità con il vincolo consenta all'Amministrazione di adottare uno actu la determinazione negativa sul complesso procedimento di cui al citato art. 32.
Tale principio appare sovrapponibile a quello espresso dalla giurisprudenza penale di legittimità, secondo cui “a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 32 d.l. 30.09.2003 n. 269 (conv., con mod. in l. 24.11.2003 n. 326) all'art. 32, comma 1, della l. 28.02.1985 n. 47, non opera più, anche per le istanze di sanatoria già presentate, la procedura del silenzio-assenso per gli interventi di ampliamento eseguiti su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico. (In motivazione la Corte ha precisato che il rilascio della sanatoria è subordinato al parere dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo da rilasciarsi nel termine di 180 gg. dall'istanza conseguendo, in caso di inerzia, l'impugnabilità del silenzio-rifiuto).".
In ordine alla problematica relativa alla epoca di apposizione del vincolo, dopo qualche iniziale incertezza, la giurisprudenza si è ormai stabilmente orientata verso l’affermazione della rilevanza di quest’ultimo, purché sussistente al momento della richiesta di sanatoria, a nulla rilevando che esso non preesistesse al momento della esecuzione dell’intervento abusivo.
Si è quindi condivisibilmente affermato, che “ai sensi dell'art. 32, l. 28.02.1985 n. 47 l'esistenza di un vincolo paesaggistico esclude la possibilità della formazione del silenzio assenso sulle domande di rilascio di concessione edilizia in sanatoria.” e si è soprattutto, puntualizzato, che “è irrilevante che il vincolo paesaggistico sia sopravvenuto rispetto alla commissione dell'abuso e alla data di presentazione della domanda di condono, perché secondo il consolidato orientamento della giustizia amministrativa sono rilevanti i vincoli paesaggistici sopravvenuti ed esistenti al momento dell'adozione del provvedimento sulla domanda di condono edilizio (nel caso di specie, il provvedimento di condono non aveva valutato adeguatamente la compatibilità paesaggistica dell'opera e pertanto risultava affetto dal vizio del difetto di motivazione, rilevato dalla Soprintendenza).".

Rammenta in proposito il Collegio che costituisce costante approdo della giurisprudenza amministrativa quello per cui dal combinato disposto degli art. 35, comma 19, e 32, comma 1, della l. 28/02/1985 n. 47 si evince che, in caso di istanza di sanatoria edilizia per opere abusive realizzate in aree sottoposte a vincolo, il silenzio-assenso per decorso del termine di ventiquattro mesi dall'emissione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo si forma solo nel caso di parere favorevole, e non anche di parere contrario, poiché il rilascio della concessione in sanatoria per abusi in zone vincolate presuppone necessariamente il parere favorevole, e non il parere "sic et simpliciter" della predetta autorità.
Si è detto peraltro, ancora di recente, che “il parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, di cui all'art. 32 l. n. 47 del 1985, è pregiudiziale ad ogni altra valutazione e, se sfavorevole, rende impossibile la sanatoria dell'opera. Conseguentemente, nel caso in cui l'espressione del parere e l'adozione del provvedimento sull'istanza di sanatoria siano di competenza della medesima Amministrazione (nella specie, il Comune), è ben possibile che l'esito negativo dell'esame sulla compatibilità con il vincolo consenta all'Amministrazione di adottare uno actu la determinazione negativa sul complesso procedimento di cui al citato art. 32.” (Consiglio Stato, sez. VI, 24.02.2011 , n. 1156).
Tale principio appare sovrapponibile a quello espresso dalla giurisprudenza penale di legittimità, secondo cui “a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 32 d.l. 30.09.2003 n. 269 (conv., con mod. in l. 24.11.2003 n. 326) all'art. 32, comma 1, della l. 28.02.1985 n. 47, non opera più, anche per le istanze di sanatoria già presentate, la procedura del silenzio-assenso per gli interventi di ampliamento eseguiti su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico. (In motivazione la Corte ha precisato che il rilascio della sanatoria è subordinato al parere dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo da rilasciarsi nel termine di 180 gg. dall'istanza conseguendo, in caso di inerzia, l'impugnabilità del silenzio-rifiuto).” (Cassazione penale, sez. III, 16.03.2010, n. 14312).
In ordine alla problematica relativa alla epoca di apposizione del vincolo, dopo qualche iniziale incertezza, la giurisprudenza si è ormai stabilmente orientata verso l’affermazione della rilevanza di quest’ultimo, purché sussistente al momento della richiesta di sanatoria, a nulla rilevando che esso non preesistesse al momento della esecuzione dell’intervento abusivo. Si è quindi condivisibilmente affermato, che “ai sensi dell'art. 32, l. 28.02.1985 n. 47 l'esistenza di un vincolo paesaggistico esclude la possibilità della formazione del silenzio assenso sulle domande di rilascio di concessione edilizia in sanatoria.” (Consiglio Stato , sez. IV, 31.03.2009, n. 2024) e si è soprattutto, puntualizzato, che “è irrilevante che il vincolo paesaggistico sia sopravvenuto rispetto alla commissione dell'abuso e alla data di presentazione della domanda di condono, perché secondo il consolidato orientamento della giustizia amministrativa sono rilevanti i vincoli paesaggistici sopravvenuti ed esistenti al momento dell'adozione del provvedimento sulla domanda di condono edilizio (nel caso di specie, il provvedimento di condono non aveva valutato adeguatamente la compatibilità paesaggistica dell'opera e pertanto risultava affetto dal vizio del difetto di motivazione, rilevato dalla Soprintendenza)." (Consiglio Stato, sez. VI, 23.02.2011, n. 1127, ma anche, in passato, Consiglio Stato, sez. VI, 22.01.2001, n. 181 “l'art. 32 l. n. 47 del 1985, laddove impone una congrua valutazione da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in merito alla compatibilità del mantenimento dell'"opus" con le ragioni poste a fondamento del regime vincolistico, si applica anche in caso di vincolo sopravvenuto rispetto all'esecuzione ma vigente al momento della domanda.”).
Ne consegue pertanto che tutte le censure volte ad ipotizzare che le opere realizzate non dovevano essere soggette al rilascio di autorizzazione paesaggistica devono essere respinte, anche a volere considerare sussistente (il che non è) il presupposto ( sul quale comunque il Collegio non intende immorare, stante la pratica inutilità di simile approfondimento motivazionale) della erezione delle opere in epoca antecedente alla apposizione del vincolo mercé la istituzione del Parco Monte San Bartolo (motivo 2 del ricorso n. 1500/2004, e motivo 2 del ricorso n. 1499/2004)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.07.2012 n. 4204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La compatibilità ambientale da esprimersi dalla soprintendenza per i beni ambientali e architettonici in merito ad istanza di concessione in sanatoria, ai sensi dell'art. 31 l. 28.02.1985 n. 47, è affidata alla valutazione discrezionale dell'organo preposto, non sindacabile in sede di legittimità se non per errata o incompleta istruttoria o per manifesta illogicità.
Rammenta in proposito il Collegio che “la compatibilità ambientale da esprimersi dalla soprintendenza per i beni ambientali e architettonici in merito ad istanza di concessione in sanatoria, ai sensi dell'art. 31 l. 28.02.1985 n. 47, è affidata alla valutazione discrezionale dell'organo preposto, non sindacabile in sede di legittimità se non per errata o incompleta istruttoria o per manifesta illogicità.“ (Consiglio Stato, sez. VI, 18.10.1999, n. 1438 e, più di recente, Consiglio Stato, sez. VI, 14.10.2009, n. 6294, laddove si è fatto riferimento al giudizio tecnico-discrezionale di compatibilità ambientale e paesaggistica che viene articolato dall'autorità periferica) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.07.2012 n. 4204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lo spianamento e la deruralizzazione del piazzale antistante un container da adibire ad ufficio é da considerare un intervento di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio previsto dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, come tale subordinato a permesso di costruire, allorché comporti un'alterazione dello stato dei luoghi di rilievo anche solo funzionale, evidente nel caso di specie nella utilizzazione economica dell'opera e dunque nel mutamento di destinazione dell'area interessata..
La realizzazione di un piazzale attraverso il disboscamento e lo spianamento di un'area agricola -pur non comportando la realizzazione di opere in muratura- determina comunque una alterazione dello stato dei luoghi, con consequenziale non ascrivibilità del suddetto intervento alla tipologia della modifica di destinazione d'uso funzionale, o senza opere.
Allorché spianamento, livellamento e disboscamento interessino, per la loro rilevanza, la conformazione del territorio che ne è oggetto, non è sufficiente addurre la futura destinazione agricola dell'area, ma occorre un preventivo controllo dell'autorità comunale, nelle forme della concessione urbanistica; concetto distinto da quello tradizionale di concessione edilizia, e ciò perché nel concetto di urbanistica di cui all'art. 80 del d.P.R. 24.07.1977, n. 616 rientrano l'assetto del territorio e l'utilizzazione del suolo, e non soltanto l'edilizia in senso stretto.
La realizzazione di un parcheggio scoperto di autovetture comporta una trasformazione del suolo mediante opere, anche se modeste, (spianamento del terreno, sua battitura, suddivisione degli spazi, creazione di accessi e piazzole di lavaggio) per cui si è fuori dalle ipotesi di mera utilizzazione che il proprietario ritenga di fare del proprio terreno e per le quali è esclusa la necessità di un titolo concessorio.

Si rammenta in proposito che le opere abusive riguardanti la realizzazione del piazzale per deposito di inerti che si era richiesto di condonare sono consistite “nello scortecciamento e spalteamento del terreno con susseguente riporto di materiale lapideo di grossa pezzatura, livellato e rullato, e che, sul piazzale così formatosi, insistevano, oltre a cumuli di inerti di non trascurabile entità, un silos ed una tramoggia per il preconfezionamento di conglomerati cementizi”.
Rammenta il Collegio che per unanime quanto condivisibile giurisprudenza, simili opere (tanto più ove insistenti in area vincolata) richiedono il preventivo rilascio di permesso di costruire.
Invero, la modifica della destinazione d'uso "funzionale" o "senza opere" (che esclude logicamente un successivo provvedimento ripristinatorio) richiede che non vi sia stata alcuna trasformazione fisica dell'immobile o di parte di esso.
Non può ascriversi a tale tipologia, invece, la modifica che, pur senza dare luogo all'esecuzione di opere in muratura, abbia comportato un'effettiva alterazione dello stato dei luoghi, come verificatosi nella fattispecie in esame, ove la realizzazione di un piazzale sul terreno di proprietà ha richiesto il disboscamento e lo spianamento di un'area agricola. L'intervenuta trasformazione del territorio rileva sotto il profilo urbanistico ed esclude che il cambio di destinazione d'uso possa considerarsi di tipo meramente funzionale e, cioè, "senza opere".
Si è evidenziato infatti, in passato che:
- “lo spianamento e la deruralizzazione del piazzale antistante un container da adibire ad ufficio é da considerare un intervento di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio previsto dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, come tale subordinato a permesso di costruire, allorché comporti un'alterazione dello stato dei luoghi di rilievo anche solo funzionale, evidente nel caso di specie nella utilizzazione economica dell'opera e dunque nel mutamento di destinazione dell'area interessata." (TAR Puglia Bari, sez. III, 26.02.2009, n. 404);
- ”la realizzazione di un piazzale attraverso il disboscamento e lo spianamento di un'area agricola -pur non comportando la realizzazione di opere in muratura- determina comunque una alterazione dello stato dei luoghi, con consequenziale non ascrivibilità del suddetto intervento alla tipologia della modifica di destinazione d'uso funzionale, o senza opere.“ (TAR Piemonte Torino, sez. I, 25.10.2007, n. 3242).
Del pari, è stato rettamente colto dalla giurisprudenza di merito amministrativa e da quella penale, che:
- “allorché spianamento, livellamento e disboscamento interessino, per la loro rilevanza, la conformazione del territorio che ne è oggetto, non è sufficiente addurre la futura destinazione agricola dell'area, ma occorre un preventivo controllo dell'autorità comunale, nelle forme della concessione urbanistica; concetto distinto da quello tradizionale di concessione edilizia, e ciò perché nel concetto di urbanistica di cui all'art. 80 del d.P.R. 24.07.1977, n. 616 rientrano l'assetto del territorio e l'utilizzazione del suolo, e non soltanto l'edilizia in senso stretto.” (Cassazione penale, sez. III, 14.07.1998, n. 2239);
- “la realizzazione di un parcheggio scoperto di autovetture comporta una trasformazione del suolo mediante opere, anche se modeste, (spianamento del terreno, sua battitura, suddivisione degli spazi, creazione di accessi e piazzole di lavaggio) per cui si è fuori dalle ipotesi di mera utilizzazione che il proprietario ritenga di fare del proprio terreno e per le quali è esclusa la necessità di un titolo concessorio.“ (TAR Toscana, sez. I, 17.11.1989, n. 959)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.07.2012 n. 4204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In una zona interessata da vincolo paesaggistico la formazione del provvedimento tacito di assenso alla concessione in sanatoria, previsto dall'art. 35, comma 18, l. n. 47 del 1985, postula indefettibilmente la previa acquisizione del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sulla compatibilità ambientale della costruzione senza titolo; ne consegue che, se al momento dell'esame della domanda di sanatoria non risulta acquisito il parere favorevole sulla conformità dell'intervento alla disciplina paesaggistica, la formazione del silenzio-assenso è preclusa.
Ai sensi dell'art. 32, l. 28.02.1985 n. 47 l'esistenza di un vincolo paesaggistico esclude la possibilità della formazione del silenzio assenso sulle domande di rilascio di concessione edilizia in sanatoria.

In ogni caso, è appena il caso di rilevare la assoluta infondatezza, nel merito, della doglianza, a tenore della concordante giurisprudenza amministrativa, laddove si è affermato che:
- “in una zona interessata da vincolo paesaggistico la formazione del provvedimento tacito di assenso alla concessione in sanatoria, previsto dall'art. 35, comma 18, l. n. 47 del 1985, postula indefettibilmente la previa acquisizione del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sulla compatibilità ambientale della costruzione senza titolo; ne consegue che, se al momento dell'esame della domanda di sanatoria non risulta acquisito il parere favorevole sulla conformità dell'intervento alla disciplina paesaggistica, la formazione del silenzio-assenso è preclusa.” (TAR Campania Salerno, sez. II, 21.01.2010, n. 845);
- ”ai sensi dell'art. 32, l. 28.02.1985 n. 47 l'esistenza di un vincolo paesaggistico esclude la possibilità della formazione del silenzio assenso sulle domande di rilascio di concessione edilizia in sanatoria.” (Consiglio Stato, sez. IV, 31.03.2009, n. 2024)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.07.2012 n. 4204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste obbligo di avviso di avvio del procedimento in caso di procedimento promosso su istanza di parte e culminato in un provvedimento vincolato (anche alla luce dell'art. 21-octies, l. 1990 n. 241).
L'ingiunzione di demolizione, emessa successivamente all'adozione di un diniego di concessione edilizia in sanatoria, non necessita del previo avviso di avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto vincolato e meramente consequenziale, nell'ambito di un procedimento sanzionatorio sostanzialmente unitario.
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Nel sistema successivo all’entrata in vigore del d.lg. 42/2004, la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all'annullamento del nulla osta paesaggistico da parte del competente organo statale non richiede più la previa comunicazione ex art. 7, l. n. 241 del 1990. Tanto, in base al disposto di cui al comma 1 dell'art. 159, d.lgs. n. 42/2004, il quale (innovando "in parte qua" rispetto al previgente disposto di cui all'art. 151 d.lgs. n. 490 del 1999) stabilisce in modo espresso che la comunicazione relativa all'avvenuto rilascio del nulla osta da parte dell'Ente a ciò competente "costituisce avviso di inizio di procedimento, ai sensi e per gli effetti della legge 07.08.1990 n. 241.
Alla luce della l. 07.08.1990 n. 241 l'applicazione del potere di annullamento del nulla osta paesaggistico, rilasciato, nell'ambito del procedimento di sanatoria edilizia, dall'autorità regionale (o subregionale) non postula la previa comunicazione dell'avvio del procedimento, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241 cit. ai destinatari del provvedimento ministeriale, in quanto soggetti cui è imputabile l'iniziativa del procedimento.
Può essere considerato equipollente alla comunicazione dell'avvio del procedimento, prevista dall'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, l'invio all'interessato della nota di trasmissione alla Soprintendenza del parere del Comune, rilasciato ex art. 32, l. 28.02.1985 n. 47, favorevole alla sanatoria di opere abusive realizzate in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, contenente l'avvertimento della possibilità di partecipare al relativo procedimento.

Rimarca in proposito il Collegio, che per condivisa giurisprudenza “non sussiste obbligo di avviso di avvio del procedimento in caso di procedimento promosso su istanza di parte e culminato in un provvedimento vincolato (anche alla luce dell'art. 21-octies, l. 1990 n. 241)”. (Consiglio Stato, sez. VI, 05.10.2006, n. 5942).
Tenuto conto della circostanza che tutti i procedimenti per cui è causa sono stati avviati su istanza di parte appellante, tale principio –del quale il Collegio ribadisce la condivisibilità- sarebbe ex se idoneo a respingere le connesse censure. Più in particolare, si è detto in passato che:
- “l'ingiunzione di demolizione, emessa successivamente all'adozione di un diniego di concessione edilizia in sanatoria, non necessita del previo avviso di avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto vincolato e meramente consequenziale, nell'ambito di un procedimento sanzionatorio sostanzialmente unitario.” (TAR Liguria Genova, sez. I, 22.01.2011, n. 150);
- ”l'ingiunzione di demolizione, emessa successivamente all'adozione di un diniego di concessione edilizia in sanatoria, non necessita del previo avviso di avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto vincolato e meramente consequenziale, nell'ambito di un procedimento sanzionatorio sostanzialmente unitario.” (TAR Emilia Romagna, II, 16.05.2008, n. 1940).
Inoltre, seppur non decisivo ratione temporis, può essere interessante rilevare, in punto di dequotazione della violazione procedimentale formale in materia di tutela paesaggistica, che la giurisprudenza più recente, anche di primo grado, è pervenuta al condivisibile approdo che di seguito si riporta: “nel sistema successivo all’entrata in vigore del d.lg. 42/2004, la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all'annullamento del nulla osta paesaggistico da parte del competente organo statale non richiede più la previa comunicazione ex art. 7, l. n. 241 del 1990. Tanto, in base al disposto di cui al comma 1 dell'art. 159, d.lgs. n. 42/2004, il quale (innovando "in parte qua" rispetto al previgente disposto di cui all'art. 151 d.lgs. n. 490 del 1999) stabilisce in modo espresso che la comunicazione relativa all'avvenuto rilascio del nulla osta da parte dell'Ente a ciò competente "costituisce avviso di inizio di procedimento, ai sensi e per gli effetti della legge 07.08.1990 n. 241". (Consiglio Stato, sez. VI, 27.08.2010, n. 5980).
Già in passato, peraltro, era stato posto in luce che:
- ”alla luce della l. 07.08.1990 n. 241 l'applicazione del potere di annullamento del nulla osta paesaggistico, rilasciato, nell'ambito del procedimento di sanatoria edilizia, dall'autorità regionale (o subregionale) non postula la previa comunicazione dell'avvio del procedimento, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241 cit. ai destinatari del provvedimento ministeriale, in quanto soggetti cui è imputabile l'iniziativa del procedimento." (Consiglio Stato, sez. VI, 01.12.1999, n. 2069);
- ”può essere considerato equipollente alla comunicazione dell'avvio del procedimento, prevista dall'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, l'invio all'interessato della nota di trasmissione alla Soprintendenza del parere del Comune, rilasciato ex art. 32, l. 28.02.1985 n. 47, favorevole alla sanatoria di opere abusive realizzate in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, contenente l'avvertimento della possibilità di partecipare al relativo procedimento.” (TAR Lazio Latina, sez. I, 09.06.2008, n. 703)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.07.2012 n. 4204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa perdita di efficacia di un piano di zona per l’edilizia economica e popolare, quale piano urbanistico attuativo, comporta che lo stesso non può più essere portato ad esecuzione per la parte in cui è rimasto inattuato, non potendosi pertanto più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né potendosi procedere all’edificazione residenziale, fermo restando invece che devono continuare ad osservarsi le prescrizioni previste dallo stesso, destinate ad essere applicate a tempo indeterminato anche in presenza di un piano urbanistico generale.
Le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di zona si esauriscono pertanto nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi di edilizia economica e popolare, che solo mediatamente trovano fonte nel piano urbanistico attuativo (nel caso di specie, piano di zona), radicandosi piuttosto nelle convenzioni urbanistiche, disciplinate dall’art. 11 della legge n. 167 del 1962, come modificato dalla legge n. 865 del 1971, ovvero negli atti d’obbligo accessivi al provvedimento di assegnazione, come nel caso di specie, del tutto svincolati dalla efficacia del piano stesso.
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Rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia concernente l’osservanza degli obblighi assunti dal privato nei confronti dell’ente locale, in connessione con l’assegnazione di aree comprese in un piano di zona, volti alla realizzazione di opere di urbanizzazione ed alla cessione gratuita all’ente delle aree stradali e dei servizi, In tale ambito è esperibile dinanzi a detto giudice l’azione di cui all’art. 2932 c.c..
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Il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. a fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege (Cass. n. 6792 del 08/08/1987; v. Cass. n. 7157 del 15/04/2004; v. Cass. n. 13403 del 23/05/2008 in tema di rifiuto di prestare il consenso di una cooperativa edilizia all’atto traslativo dell’immobile al socio assegnatario; Cass. n. 8568 del 05/05/2004 in tema di stipulazione di contratto di lavoro).

Con il terzo motivo di gravame, rubricato “III) Violazione di legge. Violazione dell’articolo 9 e 18 della legge 18.04.1962, n. 167 in combinato disposto con l’articolo 17, comma 1, legge 17.08.1942, n. 1150. Decadenza della validità ed efficacia del piano di zona”, le appellanti hanno infine sostenuto che, essendo scaduto in data 17.08.1984, il termine di validità del primo PEEP del Comune di Roma, in cui è compreso il Piano di zona n. 40 di Vigna Murata, era venuta meno anche la possibilità per il Comune di Roma di acquisire le aree oggetto dell’atto d’obbligo, con conseguente inutilità della stessa ricostruzione di quest’ultimo come atto endoprocedimentale.
La censura è priva di pregio.
Come ha affermato la giurisprudenza, la perdita di efficacia di un piano di zona per l’edilizia economica e popolare, quale piano urbanistico attuativo, comporta che lo stesso non può più essere portato ad esecuzione per la parte in cui è rimasto inattuato, non potendosi pertanto più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né potendosi procedere all’edificazione residenziale, fermo restando invece che devono continuare ad osservarsi le prescrizioni previste dallo stesso, destinate ad essere applicate a tempo indeterminato anche in presenza di un piano urbanistico generale (C.d.S., sez. IV, 27.10.2009, n. 6572; 12.12.2008, n. 6182; sez. V, 20.03.2008, n. 1216).
Le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di zona si esauriscono pertanto nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi di edilizia economica e popolare, che solo mediatamente trovano fonte nel piano urbanistico attuativo (nel caso di specie, piano di zona), radicandosi piuttosto nelle convenzioni urbanistiche, disciplinate dall’art. 11 della legge n. 167 del 1962, come modificato dalla legge n. 865 del 1971, ovvero negli atti d’obbligo accessivi al provvedimento di assegnazione, come nel caso di specie, del tutto svincolati dalla efficacia del piano stesso.
L’appello deve pertanto essere respinto; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
In conclusione, in base alle esposte considerazioni, l’Adunanza plenaria afferma il seguente principio di diritto: “Rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia concernente l’osservanza degli obblighi assunti dal privato nei confronti dell’ente locale, in connessione con l’assegnazione di aree comprese in un piano di zona, volti alla realizzazione di opere di urbanizzazione ed alla cessione gratuita all’ente delle aree stradali e dei servizi, In tale ambito è esperibile dinanzi a detto giudice l’azione di cui all’art. 2932 c.c.”.
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La giurisprudenza ha anche recentemente di ribadito (Cass. civ., sez. II, 30.03.2012, n. 5160) che “il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. a fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege (Cass. n. 6792 del 08/08/1987; v. Cass. n. 7157 del 15/04/2004; v. Cass. n. 13403 del 23/05/2008 in tema di rifiuto di prestare il consenso di una cooperativa edilizia all’atto traslativo dell’immobile al socio assegnatario; Cass. n. 8568 del 05/05/2004 in tema di stipulazione di contratto di lavoro)”.
Non vi è pertanto motivo per ritenere che non possa essere oggetto dell’azione ex art. 2932 c.c. il mancato adempimento da parte del Consorzio dell’obbligo, assunto con i ricordati atti d’obbligo del 14.09.1972 e del 18.12.1981 di cessione delle aree ivi indicate, tale adempimento non essendo peraltro minimamente condizionato ad eventuali contrapposti adempimenti da parte del Comune ricorrente.
Né può addursi, a fondamento della pretesa inammissibilità dell’azione in questione, la sua asserita natura speciale ed eccezionale, in quanto mista, cognitiva ed esecutiva insieme, derogatoria pertanto della normale separazione tra azione cognitoria e azione esecutiva, Invero tale natura non la rende incompatibile (né è stata fornita alcuna significativa argomentazione al riguardo) con la struttura del processo amministrativo come delineato dal relativo codice, tanto più che, da un lato, non solo è espressamente prevista un’azione (di ottemperanza), anch’essa caratterizzata dalla coesistenza in capo al giudice di poteri di cognizione ed esecuzione insieme e, d’altro lato, non può neppure sostenersi la tesi di una eventuale “tipicità” delle azioni proponibili nel processo amministrativo, tipicità che sarebbe in stridente ed inammissibile contrasto, oltre che con i fondamentali principi di pienezza ed effettività della tutela, ex art. 1 c.p.a., con la stessa previsione dell’art. 24 della Costituzione.
Ma a prescindere da tali considerazioni di carattere generale, sta comunque il fatto che nella specie, per quanto innanzi esposto, si verte in una ipotesi di giurisdizione esclusiva la quale, là dove vengano in discussione questioni su diritti, come è per l’appunto nel caso in esame, non può che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque, le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice ordinario.
Né può condividersi la tesi secondo cui l’effetto dell’acquisizione delle aree in questione avrebbe potuto essere conseguito dall’amministrazione pubblica utilizzando i propri poteri autoritativi, quale l’acquisizione d’ufficio: a tacer d’altro, è sufficiente al riguardo rilevare che l’eventuale possibilità di esperire poteri amministrativi non rende di per sé inammissibile la proposizione di una domanda giudiziale (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 20.07.2012 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare: anche il vicepresidente deve presentare la dichiarazione ex art. 38, del d.lgs. n. 163/2006.
Occorre ricordare, come peraltro già sostenuto da questa Sezione, che, anche nell’ipotesi in cui dallo Statuto societario e dalla visura camerale emergesse che i poteri di rappresentanza siano attribuiti al solo Presidente del Consiglio di amministrazione, il vicepresidente sarebbe comunque tenuto alla dichiarazione ex art. 38, del d.lgs. n. 163/2006, essendo insita nella stessa natura vicaria della vice-presidenza la possibilità di esercizio dei poteri di rappresentanza della società in caso di temporanea assenza o impedimento del titolare, dovendo considerarsi che l'onere di produrre la dichiarazione di che trattasi è correlato all'astratta attribuzione della carica e non all'effettivo svolgimento della funzione in concreto (cfr. TAR Sardegna, Sez. I, 20.03.2012, n. 295; TAR Palermo Sicilia, sez. III, 19.01.2012, n. 136).
Giova, inoltre, sottolineare che, in tal senso, si è espresso anche il Supremo Consesso giurisdizionale amministrativo (si veda Cons. Stato, Sezione III, 31.08.2011 n. 4892), sulla base della considerazione per cui la persona fisica che ricopre la carica in questione è in grado di impegnare la Società verso terzi e non assume rilievo che tali poteri possano essere esercitati soltanto in funzione vicaria.
Ciò che rileva, infatti, non è tanto la circostanza che il potere di rappresentanza possa essere esercitato esclusivamente in via vicaria, bensì la astratta titolarità del potere, non dunque il suo concreto esercizio (cfr. TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 26.01.2012, n. 73) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 19.07.2012 n. 729 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il locale fungente da mero disimpegno può computarsi quale “volume tecnico”.
Il Collegio rammenta che secondo consolidato orientamento giurisprudenziale per “volume tecnico” deve intendersi quello destinato ad ospitare esclusivamente gli impianti tecnologici a servizio di una abitazione, e che deve pertanto computarsi quale volume utile il locale fungente da mero disimpegno o da “sgabuzzino” (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 13.07.2012 n. 883 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: A nulla vale apporre timbri se la busta è confezionata in modo tale da poter essere aperta senza che ve ne sia traccia.
Il bando di gara richiedeva ai concorrenti di presentare le offerte “in plico chiuso sigillato”, precisando che “... con tale espressione (si intende) la necessità che sia apposto un timbro, impronta o firma sui lembi di chiusura del plico medesimo tale da confermare l’autenticità della chiusura originaria proveniente dal mittente ed escludere così qualsiasi possibilità di manomissione del contenuto”.
Risulta agli atti che il plico usato dalla ricorrente, un’ordinaria busta bianca a sacchetto, era predisposto per l’ispezione postale, con la possibilità di essere aperto e chiuso senza danneggiamento o alterazione.
Ne consegue, come evidenziato in sentenza, che i timbri e le firme pure apposte sui lembi di chiusura non costituivano garanzia sufficiente ad assicurare l’autenticità del contenuto e ad escludere l’eventuale manomissione, proprio perché la busta usata era confezionata in modo tale da poter essere aperta senza danneggiamento che ne lasciasse traccia.
Correttamente, quindi, il TAR ha ritenuto legittimo il provvedimento di esclusione adottato dall’amministrazione.
Non ha fondamento, pertanto, quanto asserisce la società ricorrente di aver adottato ogni necessaria misura al fine di garantire l’inviolabilità del plico, né hanno pregio le osservazioni circa il mancato uso della ceralacca, atteso che mai l’amministrazione ha contestato che non fosse stata usata tale modalità di chiusura del plico, avendo solo rilevato che mancava la “sigillatura”.
Il termine “sigillatura” sta ad indicare, secondo la comune nozione, una modalità di chiusura che garantisca l’integrità del contenuto e quindi, è indicativa di tutte le precauzioni che garantiscono la non manomissione della busta e che rendono evidente ogni tentativo di apertura.
In perfetta armonia con il significato etimologico del termine sigillare, l’offerta della Edilgosma, contenuta in plico solo apparentemente chiuso, non poteva non essere esclusa perché in contrasto con tutte le modalità in materia di offerte segrete, già fissate dall’art. 75 del R.D. n. 827 del 1927 e dal bando di gara.
Le circostanze di fatto rappresentate, tolgono pregio ad ogni altra considerazione, a nulla rilevando, in tale contesto, che un funzionario comunale abbia attestato di aver preso in consegna la busta al momento del ricevimento e di averla custodita in luogo sicuro, essendosi concretizzata la violazione della lex di gara, che è inequivoca nel porre a carico del partecipante l’onere della sigillatura.
Quanto al riferimento al principio del favor partecipationis, esso si applica in presenza di regole dubbie mentre nel caso il bando di gara contiene precise indicazioni sulle modalità di chiusura dei plichi.
L’appello va, quindi, respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.07.2012 n. 4076 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla presentazione dell’offerta la cui spedizione a mezzo posta sia stata effettuata nel termine, ma risultante protocollata oltre il termine previsto dal bando.
Va ribadito, conformemente a consolidata giurisprudenza, che il registro di protocollo è atto accompagnato da fede privilegiata e che pertanto la data nonché la numerazione progressiva che viene attribuita all’atto in esso annotato sono oggetto di una specifica attività certificativa propria del pubblico ufficiale e integrano la connotazione pubblicistica anche di questa scrittura (Cass., sez. V, 09.04.2008, n. 240446; 23.01.2004, n. 228752). Costituendo il registro di protocollo prova privilegiata, esso fa fede fino a querela di falso, per la posizione e la responsabilità di cui sono investiti gli addetti alla relativa tenuta (Cons. Stato, sez. VI, 05.10.2010, n. 7309).
Né rileva in alcun modo la settorialità del registro di protocollo poiché, anche se destinato ad un ambito più ristretto del registro generale del Comune, l’annotazione svolge la medesima funzione attestativa che assume interesse pubblico (Cass. penale, sez. V, 22.09.2010, n. 39623).
Ne consegue che non è contestabile la data di ricezione di un atto da parte di un’amministrazione, ove questa risulti dal protocollo, se nei confronti dell’amministrazione non venga proposta querela di falso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.07.2012 n. 4066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi: il giusto equilibrio tra efficienza e legalità.
In materia di abusivismo edilizio,
il punto di equilibrio fra efficienza e legalità è stato individuato dal legislatore nel consentire la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò costituisce applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le norme che disciplinano il procedimento da osservare nell'attività edificatoria, e ciò in applicazione dei principi di efficienza e buon andamento, che sarebbero violati ove agli aspetti solo formali si desse un peso preponderante rispetto a quelli del rispetto sostanziale delle norme generali e locali in materia di uso del territorio.
Esaminando i motivi di appello, infatti, quanto al primo motivo si deve considerare che il richiamo operato dall’Amministrazione sia alla variante n. 60-93 sia alla variante n. 5-95 per verificare la sanabilità delle opere eseguite sia conforme alla previsione di cui all’art. 13 della legge n. 47/1985, il quale dispone che le opere eseguite in assenza di concessione possono essere sanate quando siano conformi agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati (nel caso di specie, la variante n. 811-90 e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera (variante n. 60-93, risalendo la realizzazione dell’opera al novembre 1994), sia al momento della presentazione della domanda (variante n. 5-95 in relazione alla domanda di sanatoria del 24.01.1995.
Si tratta del noto criterio della cd. “doppia conformità”, ormai pienamente recepito dalla giurisprudenza nell’interpretare il chiaro disposto dell’art. 13 richiamato.
Peraltro, occorre ricordare che l’ordinamento conosce anche il diverso istituto della cd. sanatoria giurisprudenziale, di matrice appunto pretoria, che, nel tentativo di mitigare la rigorosa applicazione del dettato del cit. art. 13, ha ritenuto sanabili anche gli interventi edilizi abusivi conformi solo alla normativa urbanistica sopravvenuta.
Di detta giurisprudenza, ancorché minoritaria, la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi nell'esigenza di non imporre la demolizione di un'opera che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il privato autore dell'abuso non solo no si condivide l’assunto di tipo concettuale sulla qual essa si basa, ma si rileva che essa non è neppure applicabile nel caso di specie.
Sotto il primo profilo, si deve evidenziare, infatti, che tale regola giurisprudenziale ha l'effetto di accogliere una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità, dando prevalenza al primo rispetto al secondo.
Tuttavia, secondo il Collegio, l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 97, 24, 101 e 113 Cost.).
Pertanto, non è ipotizzabile un’antinomia tra efficienza e legalità atteso che non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., se non vi è nel contempo rispetto del principio di legalità.
Nella materia oggetto del contendere, il punto di equilibrio fra efficienza e legalità è stato individuato dal legislatore nel consentire la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò costituisce applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le norme che disciplinano il procedimento da osservare nell'attività edificatoria, e ciò in applicazione dei principi di efficienza e buon andamento, che sarebbero violati ove agli aspetti solo formali si desse un peso preponderante rispetto a quelli del rispetto sostanziale delle norme generali e locali in materia di uso del territorio (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.07.2012 n. 3961 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il parere emesso dalla conferenza di servizi, quale atto interno al procedimento, non è idoneo ad incidere in via immediata sull'interesse del soggetto a carico del quale vengono individuati obblighi inerenti alla bonifica di siti contaminati, la cui concreta lesione scaturisce solo dal provvedimento conclusivo.
L'esito della conferenza dei servizi, anche decisoria, costituisce, infatti, il necessario atto di impulso di un'autonoma fase, volta all'emanazione di un nuovo provvedimento dell'amministrazione che ha indetto la conferenza dei servizi. Solo quest'ultimo atto è direttamente ed immediatamente lesivo ed è contro esso, pertanto, che deve dirigersi l'impugnazione, in quanto gli altri atti o hanno carattere meramente endoprocedimentale ovvero non risultano impugnabili, se non unitamente al provvedimento conclusivo, in quanto non immediatamente lesivi.

Questa Sezione, esprimendo un orientamento peraltro condiviso dalla prevalente giurisprudenza, ha più volte avuto modo di affermare che il parere emesso dalla conferenza di servizi, quale atto interno al procedimento, non è idoneo ad incidere in via immediata sull'interesse del soggetto a carico del quale vengono individuati obblighi inerenti alla bonifica di siti contaminati, la cui concreta lesione scaturisce solo dal provvedimento conclusivo (cfr. TAR Toscana, sez. II, 19.05.2005, n. 396; id., 14.03.2007, n. 383; TAR Calabria Catanzaro, sez. I, 02.10.2007, n. 1426; TAR Friuli Venezia Giulia, 05.04.2007, n. 291).
L'esito della conferenza dei servizi, anche decisoria, costituisce, infatti, il necessario atto di impulso di un'autonoma fase, volta all'emanazione di un nuovo provvedimento dell'amministrazione che ha indetto la conferenza dei servizi. Solo quest'ultimo atto è direttamente ed immediatamente lesivo ed è contro esso, pertanto, che deve dirigersi l'impugnazione, in quanto gli altri atti o hanno carattere meramente endoprocedimentale ovvero non risultano impugnabili, se non unitamente al provvedimento conclusivo, in quanto non immediatamente lesivi (Cons. Stato, Sez. IV, 07.05.2004 n. 2874; id., sez. VI, 11.11.2008, n. 5620; TAR Toscana, sez. II, 03.03.2010, n. 586; TAR Lazio, sez. II, 02.04.2008, n. 2815) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 05.07.2012 n. 1263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’autorizzazione alla installazione di impianti pubblicitari è subordinata alla valutazione in ordine alla sua compatibilità con il diverso interesse pubblico generale alla ordinata regolamentazione degli spazi pubblicitari (che non possono essere indiscriminatamente lasciati alla libera iniziativa privata), e, quindi, costituisce oggetto di una specifica disciplina, non sovrapponibile o confondibile con quella edilizia.
Il Comune è chiamato ad esercitare, al riguardo, un potere sicuramente caratterizzato da profili di discrezionalità, in quanto titolare sia delle funzioni relative alla sicurezza della circolazione (ciò che comporta la titolarità del potere autorizzatorio dell'installazione di impianti pubblicitari, nel rispetto delle prescrizioni del Codice della Strada), sia di quelle relative all'uso del proprio territorio, anche sotto l’aspetto dei monumenti, dell'estetica cittadina e del paesaggio, ben potendo individuare limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie, in connessione ad esigenze di pubblico interesse.
Siffatto potere, inerente alla ponderazione comparativa degli interessi coinvolti, quali, da un lato, quelli pubblici e, dall’altro, quello privato, alla libertà di iniziativa economica -di cui l'attività pubblicitaria rappresenta estrinsecazione- si esprime, innanzitutto, nella potestà pianificatoria e, dunque, nella potestà regolamentare, attraverso la quale il Comune disciplina le modalità dello svolgimento della pubblicità, la tipologia e quantità degli impianti pubblicitari e le modalità per ottenere l'autorizzazione all'installazione di questi, senza violare l’art. 41 Cost., ma, anzi, ponendosi nell'ambito semantico della “utilità sociale” e nel contesto di valori costituzionali equiordinati, quali quello alla difesa dell'ambiente e delle valenze estetiche del patrimonio culturale della Nazione, riconducibili all’art. 9 della Costituzione.
Inoltre, nei casi in cui viene richiesta l’affissione di impianti pubblicitari direttamente su suolo pubblico, l’Amministrazione -nella cui disponibilità, oltretutto, si trova il suolo stesso- è tenuta ad espletare una valutazione complessiva, non limitata soltanto alla mera compatibilità dell’impianto pubblicitario con l’interesse pubblico (come nell’ipotesi in cui il suolo si trovi nella disponibilità dell’interessato), ma estesa anche alla verifica che, attraverso detto uso privato della risorsa pubblica, si realizzino quegli interessi collettivi, di cui l’Amministrazione stessa è portatrice.
Invero, in questi casi, viene richiesto un esame più approfondito e attento, che si articola nell’ambito di un procedimento destinato a sfociare in un provvedimento non già meramente autorizzatorio, ma di natura concessoria, il cui rilascio presuppone la canalizzazione dell’attività privata nell’alveo del pubblico interesse, e non solo la non incompatibilità dell’una rispetto all’altro.
In altri termini, l’installazione di mezzi pubblicitari su suolo pubblico postula un provvedimento di concessione dell’uso del medesimo, non bastando a tale scopo il solo provvedimento autorizzatorio, poiché, mentre il procedimento autorizzatorio si esaurisce nel sopra menzionato giudizio di "non incompatibilità" dell’attività privata con l’interesse pubblico, il procedimento concessorio involve la valutazione della conformità di tale attività con il pubblico interesse.
Ne segue che, quando l’esposizione degli impianti di pubblicità avviene su suolo pubblico, l’occupazione del predetto suolo fa sì che non si possa in alcun modo prescindere dalla citata valutazione di conformità, la cui complessità non consente che si possa formare tacitamente il provvedimento finale concessorio, in quanto involve l’esercizio di una potestà discrezionale, escludente l’applicabilità del regime del silenzio- assenso.
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Non sussiste un rapporto di tipo derogatorio fra la normativa edilizia, oggi compendiata nel D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e la normativa per le pubbliche affissioni di cui al D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, giacché trattasi di discipline differenti, avente differenti contenuti e finalità, che concorrono nella valutazione della medesima fattispecie ai fini della tutela di interessi pubblici diversi nonché ai fini della definizione di differenti procedimenti amministrativi.
Ed invero, la normativa edilizia trova applicazione in tutte le ipotesi in cui si configura un mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio ed entro questi limiti pertanto assume rilevanza la violazione dei regolamenti edilizi.
Conseguentemente, nelle ipotesi in cui la sistemazione di una insegna o di una tabella (cosiddetta tabellone) pubblicitaria o di ogni altro genere, per le sue consistenti dimensioni, comporti un rilevante mutamento territoriale, è richiesto l’assenso mediante “permesso di costruire” e mediante semplice s.c.i.a. negli altri casi, in coerenza con le previsioni della normativa edilizia di cui agli artt. 2, 6 e 7 del D.P.R. n. 380 del 2001 e succ. mod..
La collocazione di impianti pubblicitari su suolo pubblico implica necessariamente un formale provvedimento di concessione del bene pubblico, non essendo configurabile la formazione di un titolo abilitativo tacito attraverso il silenzio-assenso sulla domanda di installazione.
Né, infine, il regolare pagamento dell’imposta di pubblicità può valere ad integrare un’autorizzazione inesistente, dovendosi affermare l’irrilevanza ai fini di che trattasi della circostanza per cui la ricorrente ha con regolarità corrisposto la relativa imposta comunale sulla pubblicità ed il canone per la occupazione di spazi ed aree pubbliche, non essendo siffatti elementi idonei e sufficienti a fondare una presunzione di non abusività dell’impianto di cui è questione.

Il Collegio ha già affermato con precedenti pronunce che l’autorizzazione alla installazione di impianti pubblicitari è subordinata alla valutazione in ordine alla sua compatibilità con il diverso interesse pubblico generale alla ordinata regolamentazione degli spazi pubblicitari (che non possono essere indiscriminatamente lasciati alla libera iniziativa privata), e, quindi, costituisce oggetto di una specifica disciplina, non sovrapponibile o confondibile con quella edilizia (TAR Calabria, Catanzaro, I sezione 14.02.2012, n. 183; 31.12.2011 n. 1675).
Il Comune è chiamato ad esercitare, al riguardo, un potere sicuramente caratterizzato da profili di discrezionalità, in quanto titolare sia delle funzioni relative alla sicurezza della circolazione (ciò che comporta la titolarità del potere autorizzatorio dell'installazione di impianti pubblicitari, nel rispetto delle prescrizioni del Codice della Strada), sia di quelle relative all'uso del proprio territorio, anche sotto l’aspetto dei monumenti, dell'estetica cittadina e del paesaggio, ben potendo individuare limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie, in connessione ad esigenze di pubblico interesse (ex plurimis: TAR Lombardia-Brescia, Sez. I 28.02.2008 n. 174).
Siffatto potere, inerente alla ponderazione comparativa degli interessi coinvolti, quali, da un lato, quelli pubblici e, dall’altro, quello privato, alla libertà di iniziativa economica -di cui l'attività pubblicitaria rappresenta estrinsecazione- si esprime, innanzitutto, nella potestà pianificatoria e, dunque, nella potestà regolamentare, attraverso la quale il Comune disciplina le modalità dello svolgimento della pubblicità, la tipologia e quantità degli impianti pubblicitari e le modalità per ottenere l'autorizzazione all'installazione di questi, senza violare l’art. 41 Cost., ma, anzi, ponendosi nell'ambito semantico della “utilità sociale” e nel contesto di valori costituzionali equiordinati, quali quello alla difesa dell'ambiente e delle valenze estetiche del patrimonio culturale della Nazione, riconducibili all’art. 9 della Costituzione (conf.: Corte Cost. sent. 17.07.2002 n. 355).
Inoltre, nei casi in cui viene richiesta l’affissione di impianti pubblicitari direttamente su suolo pubblico, l’Amministrazione -nella cui disponibilità, oltretutto, si trova il suolo stesso- è tenuta ad espletare una valutazione complessiva, non limitata soltanto alla mera compatibilità dell’impianto pubblicitario con l’interesse pubblico (come nell’ipotesi in cui il suolo si trovi nella disponibilità dell’interessato), ma estesa anche alla verifica che, attraverso detto uso privato della risorsa pubblica, si realizzino quegli interessi collettivi, di cui l’Amministrazione stessa è portatrice.
Invero, in questi casi, viene richiesto un esame più approfondito e attento, che si articola nell’ambito di un procedimento destinato a sfociare in un provvedimento non già meramente autorizzatorio, ma di natura concessoria, il cui rilascio presuppone la canalizzazione dell’attività privata nell’alveo del pubblico interesse, e non solo la non incompatibilità dell’una rispetto all’altro.
In altri termini, l’installazione di mezzi pubblicitari su suolo pubblico postula un provvedimento di concessione dell’uso del medesimo, non bastando a tale scopo il solo provvedimento autorizzatorio, poiché, mentre il procedimento autorizzatorio si esaurisce nel sopra menzionato giudizio di "non incompatibilità" dell’attività privata con l’interesse pubblico, il procedimento concessorio involve la valutazione della conformità di tale attività con il pubblico interesse.
Ne segue che, quando l’esposizione degli impianti di pubblicità avviene su suolo pubblico, l’occupazione del predetto suolo fa sì che non si possa in alcun modo prescindere dalla citata valutazione di conformità, la cui complessità non consente che si possa formare tacitamente il provvedimento finale concessorio (TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 26.07.2005, n. 3421), in quanto involve l’esercizio di una potestà discrezionale, escludente l’applicabilità del regime del silenzio- assenso (conf.: Corte Cost. 27.07.1995 n. 408).
Sotto altro profilo, deve poi rilevarsi che non sussiste un rapporto di tipo derogatorio fra la normativa edilizia, oggi compendiata nel D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e la normativa per le pubbliche affissioni di cui al D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, giacché trattasi di discipline differenti, avente differenti contenuti e finalità, che concorrono nella valutazione della medesima fattispecie ai fini della tutela di interessi pubblici diversi nonché ai fini della definizione di differenti procedimenti amministrativi.
Ed invero, la normativa edilizia trova applicazione in tutte le ipotesi in cui si configura un mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio ed entro questi limiti pertanto assume rilevanza la violazione dei regolamenti edilizi.
Conseguentemente, nelle ipotesi in cui la sistemazione di una insegna o di una tabella (cosiddetta tabellone) pubblicitaria o di ogni altro genere, per le sue consistenti dimensioni, comporti un rilevante mutamento territoriale, è richiesto l’assenso mediante “permesso di costruire” e mediante semplice s.c.i.a. negli altri casi, in coerenza con le previsioni della normativa edilizia di cui agli artt. 2, 6 e 7 del D.P.R. n. 380 del 2001 e succ. mod..
Per quanto concerne la formazione del silenzio-assenso invocato dalla ricorrente osserva il Collegio che la collocazione di impianti pubblicitari su suolo pubblico implica necessariamente un formale provvedimento di concessione del bene pubblico, non essendo configurabile la formazione di un titolo abilitativo tacito attraverso il silenzio-assenso sulla domanda di installazione (cfr. TAR Milano Lombardia sez. IV, 23.01.2009 n. 208).
Né, infine, il regolare pagamento dell’imposta di pubblicità può valere ad integrare un’autorizzazione inesistente, dovendosi affermare l’irrilevanza ai fini di che trattasi della circostanza per cui la ricorrente ha con regolarità corrisposto la relativa imposta comunale sulla pubblicità ed il canone per la occupazione di spazi ed aree pubbliche, non essendo siffatti elementi idonei e sufficienti a fondare una presunzione di non abusività dell’impianto di cui è questione (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 05.07.2012 n. 716 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare: sul risarcimento da mancato affidamento non si deve provare la colpa dell'Amministrazione.
Non è necessario provare la colpa dell'amministrazione aggiudicatrice, in materia di risarcimento da (mancato) affidamento di gare pubbliche di appalto. In materia di risarcimento da (mancato) affidamento di gare pubbliche di appalto non è necessario provare la colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere detto risarcimento non sia subordinata alla constatazione dell'esistenza di un comportamento colpevole, in relazione ai principi di cui alla giurisprudenza comunitaria (Corte CE, Sez. III, 30.09.2010, C-314/2009), secondo cui in tema di appalti pubblici la direttiva Cons. C.E.E. 21.12.1989 n. 665, modificata dalla direttiva Cons. C.E.E. 18.06.1992 n. 50, osta a una normativa nazionale che subordini il diritto a ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina di settore da parte di un'Amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l'applicazione della normativa in questione sia incentrata s u una presunzione di colpevolezza in capo alla P.A. stessa e sull'impossibilità per quest'ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali, e dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.
Il concorrente a una gara d'appalto che non ha conseguito l'aggiudicazione per fatto dell'Amministrazione non ha diritto al risarcimento delle spese sostenute per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara, atteso che queste restano a carico delle imprese sia in caso di aggiudicazione che di mancata aggiudicazione. Ciò perché tali costi di, rilevano come "danno emergente" solo nell'ipotesi di illegittima esclusione, collegandosi alla pretesa del contraente a non essere coinvolto in trattative inutili ma nell'ipotesi in cui l'impresa benefici del risarcimento del danno per mancata aggiudicazione (o per la perdita della possibilità di aggiudicazione) non vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione alla gara, dal momento che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all'impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall'aggiudicazione medesima (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 27.06.2012 n. 5920 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In materia di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti non sussiste un indiscriminato obbligo di rimozione in capo al proprietario del fondo, necessitando l’accertamento dell’esistenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa; l’ordinanza sindacale emanata dall’amministrazione locale ex art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 è pertanto illegittima se adottata senza il dovuto e preventivo accertamento della responsabilità e/o della corresponsabilità del proprietario del terreno, nei confronti del quale non è ipotizzabile una responsabilità oggettiva per violazione di un obbligo generico di vigilanza.
L’ordinanza di rimozione di rifiuti abbandonati ex art. 192 d. lg. n. 152 del 2006 deve essere preceduta dalla comunicazione, prevista dall’art. 7, l. n. 241 del 1990, di avvio del procedimento ai soggetti interessati, stante la rilevanza dell’eventuale apporto procedimentale che tali soggetti possono fornire, quanto meno in riferimento all’accertamento delle effettive responsabilità per l’abusivo deposito dei rifiuti.

Carattere decisivo, con assorbimento di ogni altra censura, rivestono le doglianze con cui è stata denunziata la violazione dell’art. 192 del d. l.vo 152/2006 e dell’art. 7 l. 241/1990, giusta il precedente costituito dalla sentenza di questo Tribunale –Seconda Sezione– n. 13801/2010, le cui massime recitano quanto segue: “In materia di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti non sussiste un indiscriminato obbligo di rimozione in capo al proprietario del fondo, necessitando l’accertamento dell’esistenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa; l’ordinanza sindacale emanata dall’amministrazione locale ex art. 192 d. lg. n. 152 del 2006 è pertanto illegittima se adottata senza il dovuto e preventivo accertamento della responsabilità e/o della corresponsabilità del proprietario del terreno, nei confronti del quale non è ipotizzabile una responsabilità oggettiva per violazione di un obbligo generico di vigilanza”;
L’ordinanza di rimozione di rifiuti abbandonati ex art. 192 d. lg. n. 152 del 2006 deve essere preceduta dalla comunicazione, prevista dall’art. 7, l. n. 241 del 1990, di avvio del procedimento ai soggetti interessati, stante la rilevanza dell’eventuale apporto procedimentale che tali soggetti possono fornire, quanto meno in riferimento all’accertamento delle effettive responsabilità per l’abusivo deposito dei rifiuti”.
Nella specie, non è stata inviata, alle ricorrenti, la comunicazione d’avvio del procedimento, necessaria perché le stesse potessero far presente la effettiva situazione dell’area de qua e contribuire all’accertamento delle effettive responsabilità nell’abbandono dei rifiuti, che invece sono state loro apoditticamente e disinvoltamente attribuite dal Comune, mercé la seguente pseudomotivazione: “Visto che non è stato possibile accertare il responsabile della violazione e che la stessa è imputabile a titolo di dolo o colpa ai seguenti comproprietari dell’area in questione, in quanto permettevano che la detta area diventasse luogo di deposito incontrollato dei rifiuti” (seguiva l’elenco dei proprietari del terreno in oggetto, tra cui le ricorrenti).
In pratica, il Comune s’è determinato ad adottare il provvedimento gravato, nei confronti, tra gli altri, delle ricorrenti, sulla base di una vera e propria, non consentita, forma di responsabilità oggettiva a carico dei comproprietari dell’area, prescindendo da una seria istruttoria sulle effettive condotte causative della discarica abusiva, nonché inibendo la partecipazione delle ricorrenti al procedimento, omettendo l’invio alle medesime dell’avviso di inizio del procedimento (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 20.06.2012 n. 1254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L’approvazione del progetto di un'opera pubblica, quando comporti la dichiarazione della p.u., indifferibilità ed urgenza della stessa, è atto che deve essere notificato al privato, proprietario del terreno, in quanto impositivo di vincolo specifico preordinato all’espropriazione e produttivo di effetti giuridici lesivi immediati e diretti nei confronti del destinatario individuato, così che il decorso del termine per l’impugnazione non può essere collegato alla semplice pubblicazione, ma trova il suo parametro temporale di riferimento nella data della sua notificazione o della sua piena conoscenza.
Altra questione è quella relativa alla legale conoscenza dell’imposizione del vincolo, la cui individuabilità con ogni evidenza reagisce sulla tempistica di reazione processuale consentita alla parte a tutela dell’interesse oppositivo del quale assuma la titolarità.
In tal senso, un copioso insegnamento giurisprudenziale (ex multis: Cons. Stato, sez. IV, 22.02.2000 n. 939; nonché TAR Piemonte, sez. I, 21.05.2010 n. 2438, TAR Sicilia, Catania, sez. II, 04.06.2008 n. 1071, TAR Sardegna, sez. II, 19.10.2006 n. 2248, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 24.10.2002 n. 6609) ha rilevato come l’approvazione del progetto di un'opera pubblica, quando comporti la dichiarazione della p.u., indifferibilità ed urgenza della stessa, è atto che deve essere notificato al privato, proprietario del terreno, in quanto impositivo di vincolo specifico preordinato all’espropriazione e produttivo di effetti giuridici lesivi immediati e diretti nei confronti del destinatario individuato, così che il decorso del termine per l’impugnazione non può essere collegato alla semplice pubblicazione, ma trova il suo parametro temporale di riferimento nella data della sua notificazione o della sua piena conoscenza (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 14.06.2012 n. 5467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROInfortunio sul cantiere: può essere responsabile anche il committente?
In materia di affidamento di lavori in appalto per un cantiere edile, il committente ha l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie al fine di tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori e dipendenti dell’impresa appaltatrice, tanto più se utilizzano macchinari pericolosi.

Nel caso in esame, committente e appaltatore vengono condannati entrambi per l'infortunio accaduto ad un lavoratore durante l’uso di un muletto che risultava in cattivo stato di conservazione (freni non funzionanti).
Il dovere di garantire adeguata sicurezza e formazione ai singoli lavoratori è un obbligo ascrivibile oltre al datore di lavoro anche al committente.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 11.06.2012 n. 9441 che, facendo riferimento alla normativa di settore (art. 2087 del Codice Civile, art. 7 del D.Lgs. 626/1994, art. 26 del D.Lgs. n. 81/2008), ha ritenuto responsabile il committente per aver omesso di verificare l'idoneità tecnico professionale dell’impresa e per non aver sorvegliato nella fase esecutiva del contratto di appalto.
Pertanto, è sempre necessario che il committente verifichi l’idoneità delle imprese a cui affida i lavori e si accerti che siano adottate tutte le misure di sicurezza necessarie (link a www.acca.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore - Immissioni: il limite di tollerabilità ex art. 844 cod. civ. ha carattere relativo.
Il limite di tollerabilità di cui all’art. 844 cod. civ. non ha carattere assoluto, ma relativo, e deve essere fissato tenendo conto delle peculiarità del caso concreto (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 11.06.2012 n. 9434 - link a www.tuttoambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo ambientale di cui si tratta ha per scopo anche quello di preservare la percezione della visuale terra-mare.
Ciò posto il ricorso è infondato, in quanto la motivazione del parere favorevole non spiega le ragioni per le quali tale visuale, quantomeno nella parte già non ostruita dall’edificazione, possa essere garantita in presenza delle opere sopradescritte, in quanto i soli profili dell’assimilabilità dell’opera alle altre già presenti non considera tutti i valori tutelati dal vincolo.
Inoltre manca una adeguata comparazione, in relazione ai valori paesaggistici tutelati dal vincolo, della situazione dei luoghi prima e dopo l’intervento autorizzato.
Il parere di cui si tratta ha per scopo quello di valutare l’impatto delle opere sugli aspetti tutelati dal vincolo, impatto che, pur nell’ambito della tipologia ammessa, può essere diverso a seconda delle modalità costruttive, della collocazione, delle dimensioni, della relazione con altre strutture ecc..
Per quanto sopra sussistono i vizi di mancata (insufficiente) verifica che, nella sostanza, la Soprintendenza di Ravenna ha posto a fondamento del diniego col terz’ultimo, riassuntivo, capoverso.

Col ricorso in epigrafe viene impugnato il decreto del Soprintendente per i beni ambientali ed architettonici di Ravenna del 29.10.2003 di annullamento del provvedimento del 09.09.2003 n. 162675 cui comune di Rimini aveva espresso parere favorevole ai sensi dell’art. 32 della L. n. 47/1985 al rilascio della concessione in sanatoria a seguito di istanza di condono per la realizzazione di un chiosco bar con servizi igienici in area sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi dell’art. 146, punto a), del D. L.vo n. 490/1999.
...
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento del Soprintendente di Ravenna, come risulta espressamente dal terz’ultimo, riassuntivo, capoverso, pone a fondamento del disposto annullamento del parere il fatto che lo stesso è viziato in quanto lo scopo dell’art. 32 della L. n. 47/1985 è quello di vincolare il rilascio del condono alla preventiva verifica della compatibilità delle opere con la salvaguardia dei valori ambientali protetti dal vincolo, con conseguente deroga al vincolo stesso nel caso in cui detta verifica manchi o sia insufficiente.
L’autorizzazione comunale poi annullata ritiene non incompatibile col vincolo ambientale l’opera in quanto la stessa è assimilabile alle altre realtà presenti.
Sul punto il collegio osserva che il vincolo ambientale di cui si tratta ha certamente per scopo anche quello di preservare la percezione della visuale terra-mare.
Ciò posto il ricorso è infondato, in quanto la motivazione del parere favorevole non spiega le ragioni per le quali tale visuale, quantomeno nella parte già non ostruita dall’edificazione, possa essere garantita in presenza delle opere sopradescritte, in quanto i soli profili dell’assimilabilità dell’opera alle altre già presenti non considera tutti i valori tutelati dal vincolo.
Inoltre manca una adeguata comparazione, in relazione ai valori paesaggistici tutelati dal vincolo, della situazione dei luoghi prima e dopo l’intervento autorizzato.
Il parere di cui si tratta ha per scopo quello di valutare l’impatto delle opere sugli aspetti tutelati dal vincolo, impatto che, pur nell’ambito della tipologia ammessa, può essere diverso a seconda delle modalità costruttive, della collocazione, delle dimensioni, della relazione con altre strutture ecc..
Per quanto sopra sussistono i vizi di mancata (insufficiente) verifica che, nella sostanza, la Soprintendenza di Ravenna ha posto a fondamento del diniego col terz’ultimo, riassuntivo, capoverso.
Per quanto riguarda la violazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990, si deve osservare che costituisce un orientamento consolidato quello della non necessità di un formale avviso di avvio del procedimento quando l'interessato abbia avuto conoscenza del procedimento aliunde. Ciò sia con riferimento alla legge n. 241 del 1990 che disciplina la generalità dei procedimenti amministrativi, sia con riferimento allo speciale procedimento oggetto di causa (vedi tra le tante Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 22.02.2010, n. 1013; Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 10.12.2009, n. 7756; Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 09.02.2007, n. 533; TAR Campania–Napoli, sez. II, 08.01.2010, n. 19; TAR per l’Emilia Romagna, sez. II, n. 344 del 10/03/2004).
Nel caso concreto il provvedimento di autorizzazione comunale specifica che il Ministero dei beni Culturali può esercitare il potere di annullamento nel termine di 60 giorni dal suo ricevimento.
In tale contesto i ricorrenti conoscevano la pendenza del procedimento davanti alla Soprintendenza; pertanto le esigenze partecipative cui è preordinato l’articolo 7 della legge 241 del '90 citata sono state, nel caso concreto, soddisfatte (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 11.06.2012 n. 401 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli interventi edilizi che alterano, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportano l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia.
In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che siano modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
La stessa attività di ristrutturazione, del resto, può attuarsi attraverso una serie di interventi che, singolarmente considerati, ben potrebbero ricondursi agli altri tipi dianzi enunciati. L’elemento caratterizzante, però, è la connessione finalistica delle opere eseguite, che non devono essere riguardate analiticamente, ma valutate nel loro complesso al fine di individuare se esse siano o meno rivolte al recupero edilizio dello spazio attraverso la realizzazione di un edificio in tutto o in parte nuovo.

Secondo l’orientamento della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, gli interventi edilizi che alterano, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportano l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia (cfr. da ultimo TAR Lombardia, Brescia, II, 02.03.2012, n. 355).
In altre parole, affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che siano modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l’ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d’uso esistente: anche in questi casi si configurano il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
La stessa attività di ristrutturazione, del resto, può attuarsi attraverso una serie di interventi che, singolarmente considerati, ben potrebbero ricondursi agli altri tipi dianzi enunciati. L’elemento caratterizzante, però, è la connessione finalistica delle opere eseguite, che non devono essere riguardate analiticamente, ma valutate nel loro complesso al fine di individuare se esse siano o meno rivolte al recupero edilizio dello spazio attraverso la realizzazione di un edificio in tutto o in parte nuovo.
Orbene, ad avviso del Collegio, l’intervento eseguito dalla ricorrente, valutato nella sua unitarietà, deve essere ricondotto a quelli di ristrutturazione edilizia, come definiti dall’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 380/2001, avendo alterato, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica dell’immobile, comportato l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi (cfr. TAR Lombardia, Brescia, I, 19.04.2011 n. 582; TAR Molise, 27.03.2009 n. 99), tutte opere incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo che presuppongono, al contrario, la realizzazione di lavori che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie (cfr. Consiglio di Stato, V, 18.10.2002 n. 5775).
Il Collegio ravvisa, pertanto, nel caso sottoposto la radicale trasformazione e la ricollocazione degli ambienti con conseguente necessità del previo rilascio del permesso di costruire.
Tanto premesso, secondo l’orientamento della giurisprudenza condiviso dal Collegio, l’intervento de quo è stato legittimamente sanzionato a termini dell'art. 31 (e non dell'art. 33) del D.P.R. n. 380/2001, che qualifica come "interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile", sanzionando con la rimozione o la demolizione -e, in caso di inottemperanza, con l'acquisizione di diritto del bene alla mano pubblica- "l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'art. 32"
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 07.06.2012 n. 2712 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA fronte del divieto assoluto di rilasciare l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria per i lavori che hanno determinato la creazione di nuovi volumi e superfici utili, ovvero un aumento di quelli legittimamente realizzati, va esclusa qualsiasi rilevanza ad un'eventuale istanza di accertamento di conformità.
L'art. 146, comma 4, del D.lgs. n. 42/2004 esclude dal divieto di rilasciare l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria (ossia successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi) i casi previsti dal successivo art. 167, comma 4, costituiti -oltre che dall'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica e dai lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria- dai "lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati".
Pertanto, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Sezione (cfr. tra le tante TAR Campania, Napoli, VII, 22.02.2012, n. 885; TAR Campania Napoli, VII, 28.12.2007, n. 16539), a fronte del divieto assoluto di rilasciare l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria per i lavori che hanno determinato la creazione di nuovi volumi e superfici utili, ovvero un aumento di quelli legittimamente realizzati, va esclusa qualsiasi rilevanza ad un'eventuale istanza di accertamento di conformità
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 07.06.2012 n. 2712 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini dell’applicazione dell’art. 27 D.P.R. 380/2001, non rileva se l’opera sia o meno ultimata. L’articolo citato, infatti, dispone: «qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa».
La norma in questione, all’esito delle modifiche apportate con D.L. 269/2003, è applicabile tanto se venga accertato l’inizio quanto l’avvenuta esecuzione di opere abusive su area vincolata, per cui non può trovare accoglimento la prospettazione del ricorrente nel senso dell’inapplicabilità della norma a causa dell’avvenuto completamento dei lavori.

Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questo Tribunale, ai fini dell’applicazione dell’art. 27 D.P.R. 380/2001, non rileva se l’opera sia o meno ultimata. L’articolo citato, infatti, dispone: «qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa».
La norma in questione, all’esito delle modifiche apportate con D.L. 269/2003, è applicabile tanto se venga accertato l’inizio quanto l’avvenuta esecuzione di opere abusive su area vincolata (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III, 11.03.2009, n. 1376), per cui non può trovare accoglimento la prospettazione del ricorrente nel senso dell’inapplicabilità della norma a causa dell’avvenuto completamento dei lavori (Sent. TAR Napoli sez. VI n. 8987/2009) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 07.06.2012 n. 2705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di “pertinenza urbanistica” nel campo urbanistico-edilizio è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale.
L
a nozione di “pertinenza urbanistica” nel campo urbanistico-edilizio è, infatti, meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale.
All’opposto, deve dirsi che la natura pertinenziale dell’opera va esclusa per il muro in questione che ha una ragguardevole dimensione, presentando una lunghezza di metri lineari 37,00, un’altezza di metri 0,75 e una profondità di metri 0,45; inoltre, lo stesso è stato elevato di ulteriori metri 2,00 e ha raggiunto una lunghezza di metri 12,00.
Per quanto le osservazioni appena svolte appaiano dirimenti, deve, osservarsi, ‘ad abundantiam’ che, quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 27 D.P.R. 380/2001 non potrebbe essere esclusa in ragione della insistenza delle opere in questione in area vincolata.
Le stesse argomentazioni valgono a respingere l’obiezione che si tratterebbe di opere di modesta entità e irrilevanti sotto il profilo urbanistico, posto che a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, la costruzione di un muro delle riportate dimensioni ha una valenza di tipo paesaggistico e comporta una duratura trasformazione del territorio, che è assoggettato a vincolo paesaggistico.
Tali interventi necessitano, quindi, sia del previo titolo abilitativo sotto il profilo paesaggistico che di quello edilizio/urbanistico, ovvero, quanto a quest’ultimo, del permesso di costruire (o di titolo alternativo ai sensi dell’art. 22, comma 3, d.P.R. 380 del 2001)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 07.06.2012 n. 2705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 27 del t.u. dell'edilizia, applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi, non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta, dovendo la nozione di "vincolo di inedificabilità" da esso articolo contemplata essere intesa come comprensiva non solo dell'inedificabilità assoluta, ma anche di quella relativa.
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Gli ordini di demolizione sono sufficientemente giustificati con l'affermazione della abusività dell'opera, senza necessità di una più una specifica motivazione circa la sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione ovvero di soffermarsi a meglio motivare sul contrasto con la normativa urbanistica/paesaggistica, profili questi sui quale parte ricorrente non ha introdotto elementi validi a contrastare utilmente le conclusioni dell’amministrazione.
In definitiva, una volta accertata la violazione, la sanzione va doverosamente applicata, né occorre motivazione specifica sull’interesse pubblico alla demolizione dell’opera, e neppure il previo accertamento della sua conformità o meno alla vigente disciplina urbanistica.

Per costante orientamento della giurisprudenza condivisa dal Collegio, alla luce della disciplina vigente, l'art. 27 del t.u. dell'edilizia, applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi, non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta, dovendo la nozione di "vincolo di inedificabilità" da esso articolo contemplata essere intesa come comprensiva non solo dell'inedificabilità assoluta, ma anche di quella relativa (cfr. TAR Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2382 del 28.04. 2011; n. 1338 dell'08.03.2011; n. 24017 del 12.11.2010; n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376: e anche sezione seconda, 23.06.2010, n. 15729).
Per quanto concerne il difetto di motivazione e di istruttoria, a differenza di quanto sostenuto dalla ricorrente, ancora per consolidata e pacifica giurisprudenza dal Collegio condivisa, gli ordini di demolizione sono sufficientemente giustificati con l'affermazione della abusività dell'opera, senza necessità di una più una specifica motivazione circa la sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione ovvero di soffermarsi a meglio motivare sul contrasto con la normativa urbanistica/paesaggistica, profili questi sui quale parte ricorrente non ha introdotto elementi validi a contrastare utilmente le conclusioni dell’amministrazione: cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. quinta, 11.01.2011, n. 79; sezione quarta, n. 3955/2010; TAR Campania, questa sesta sezione, n. 2382 del 28.04.2011; nn. 2126, 2128, 2129 del 13.04.2011; n. 160 del 14.01.2011, n. 24017 del 12.11.2010, n. 17238 del 26.08.2010, n. 16996 del 27.07.2010 e n. 2812 del 06.05.2010; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.02.2011, n. 240.
In definitiva, “una volta accertata la violazione, la sanzione va doverosamente applicata, né occorre motivazione specifica sull’interesse pubblico alla demolizione dell’opera, e neppure il previo accertamento della sua conformità o meno alla vigente disciplina urbanistica…” (Cons. Stato, sezione quinta, sentenza 07.04.2011, n. 2159 cit.)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 07.06.2012 n. 2705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAFerma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte comunali di programmazione urbanistica del territorio, secondo il noto principio per il quale «in sede di pianificazione urbanistica le scelte discrezionali dell'amministrazione in ordine alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre a quella che si può ricavare dai criteri generali seguiti nell'impostazione del piano essendo sufficiente, in linea generale, l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale», è nondimeno necessario che dette scelte, soprattutto quando incidono sulla libera disponibilità dei beni e su consolidate situazioni di affidamento del privato –in ossequio ai principi legislativamente codificati del «giusto procedimento amministrativo»–, risultino verificabili quanto meno sul piano della attendibilità e della proporzione del bilanciamento fra gli opposti interessi realizzato, poiché logiche, non arbitrarie e non fondate su travisamento dei fatti o su di un'istruttoria incompleta.
Invero, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte comunali di programmazione urbanistica del territorio, secondo il noto principio per il quale «in sede di pianificazione urbanistica le scelte discrezionali dell'amministrazione in ordine alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre a quella che si può ricavare dai criteri generali seguiti nell'impostazione del piano essendo sufficiente, in linea generale, l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale» (cfr. C.d.S., Ad. Plen., 22.12.1999, n. 24; C.d.S., sez. IV, 19.01.2000 n. 245; C.d.S., sez. IV, 24.12.1999, n. 1943; C.d.S., sez. IV, 02.11.1995, n. 887; C.d.S., sez. IV, 25.02.1988, n. 99; TAR Ve, n. 2153 del 2004 e da ultimo TAR Ve n. 634 del 2012), è nondimeno necessario che dette scelte, soprattutto quando incidono sulla libera disponibilità dei beni e su consolidate situazioni di affidamento del privato –in ossequio ai principi legislativamente codificati del «giusto procedimento amministrativo»–, risultino verificabili quanto meno sul piano della attendibilità e della proporzione del bilanciamento fra gli opposti interessi realizzato, poiché logiche, non arbitrarie e non fondate su travisamento dei fatti o su di un'istruttoria incompleta (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 06.06.2012 n. 782 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Ai fini del calcolo delle distanze devono essere computate scale, terrazze, corpi avanzati ed opere di contenimento.
2. Nozione di opera interrata.
3. Calcolo della cubatura. Inclusione nel caso di opere non completamente interrate.

1. In tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso (1).
2. Al fine di individuare se un manufatto sia o meno interrato, va fatto riferimento al livello naturale del terreno, con la conseguenza che la sporgenza di un manufatto dal suolo va riscontrata con riferimento al piano di campagna, cioè al livello naturale del terreno, e non al livello eventualmente inferiore cui si trovi un finitimo edificio realizzato con abbassamento di quel piano (2).
3. Ai sensi dell'art. 9 della l. 24.03.1989 n. 122, la realizzazione di autorimesse e parcheggi è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra, se non effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale (3).
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(1) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3539.
V. anche Cassazione civile, sez. II, 17.06.2011, n. 13389, secondo cui, "ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.
La giurisprudenza civile di merito, altrettanto condivisibilmente, ad avviso del Collegio ha poi fatto presente che ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale "costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio). "(Cassazione civile, sez. II, 24.05.1997, n. 4639).
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 06.12.2010, n. 8547 ed in passato Cons. Stato, sez. V, 21.10.1991, n. 1231, secondo la quale soltanto "i locali costruiti al di sotto dell'originario piano di campagna non sono infatti computabili ai fini dell'applicazione degli standards urbanistici e non concernono al computo della volumetria.".
(3) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8260
(massima tratta da www.regione-piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2012 n. 2847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Provvedimento di esclusione da una gara d’appalto con riferimento ad inadempienze contrattuali nei confronti di un'altra stazione appaltante, nel caso in cui tali inadempienze risultino da un formale provvedimento della P.A. non contestato dalla ditta interessata.
E’ legittimo il provvedimento con il quale un ente locale ha escluso una ditta da una gara di appalto di servizi (nella specie, si trattava del servizio di accertamento, liquidazione e riscossione di tributi, entrate patrimoniali e sanzioni pecuniarie), che sia motivato con riferimento a gravi inadempienze poste in essere dalla stessa ditta nei rapporti contrattuali con un altro ente locale, nel caso in cui tali inadempienze risultino dalla motivazione di una deliberazione della giunta comunale non contestata in s.g. dalla ditta interessata, a nulla rilevando che l’esclusione sia stata disposta a procedura conclusa e/o nel corso del giudizio promosso dalla stessa ditta avverso l’esito positivo della verifica effettuata dalla stazione appaltante in merito al possesso dei requisiti di partecipazione in capo all’aggiudicatario; infatti, la P.A. conserva il potere di verificare il possesso dei requisiti posti in capo ai partecipanti alla gara, quando questa non sia conclusa o l’esito di questa sia incerto in quanto oggetto di impugnativa giudiziale; e ciò sul rilievo che è interesse pubblico primario della procedura di gara quello relativo alla stipula dell’Amministrazione con un soggetto privato che sia in possesso dei requisiti di affidabilità previsti dalla legge (1).
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(1) Sull’esclusione dalla gara per grave negligenza o malafede v. da ult. Cons. Stato, Sez. VI, 15.05.2012 n. 2761 (massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 17.05.2012 n. 860 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 23.07.2012

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QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Mutamento della destinazione d’uso senza opere edilizie (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, risposta e-mail del 20.07.2012).
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Pubblichiamo l'interessante quesito redatto dall'U.T. di un comune bergamasco con annessa risposta.
La questione non è affatto chiara, tant'é che da un'indagine -ancorché non approfondita- con alcuni UTC lombardi se ne sono sentite di cotte e di crude circa il modus operandi ...
Adesso, però, si spera che con questa risposta regionale si possa avere -d'ora in avanti- un comportamento uniforme sull'intero territorio regionale.
23.07.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

AMBIENTE-ECOLOGIAAll’indomani della Spending Review, le province in vita avranno competenza in materia ambientale? E i Comuni? (16.07.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa legislazione regionale può derogare alla disciplina nazionale relativa ai piani di raccolta e gestione dei rifiuti prodotti dalle navi? (16.07.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAE’ legittima l’estensione della nozione di “acque superficiali”? (16.07.2012 - link a www.ambientelegale.it).

NOVITA' NEL SITO

● Inserito il nuovo bottone dossier SOPPALCO.

● Inserito il nuovo bottone dossier VERANDA.

SINDACATI

ENTI LOCALI: Spending review: riduzione della spesa per gli enti territoriali (CGIL-FP di Bergamo, nota 14.07.2012).

ENTI LOCALI: Spending review: ancora incertezze sul futuro delle province (CGIL-FP di Bergamo, nota 13.07.2012).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: attuazione del DPR 01.08.2011, n. 151. Depositi di GPL in serbatoi fissi di capacità complessiva non superiore a 5 metri cubi ed attività inerenti il settore del GPL - Indirizzi applicativi e chiarimenti (Ministero dell'Interno, lettera-circolare 27.06.2012 n. 8660 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 20.07.2012, "L’impiego di apparecchiature per il trattamento dell’acqua da destinare al consumo umano: linee guida per l’attività di vigilanza e controllo" (decreto D.G. 11.07.2012 n. 6154).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 19.07.2012, "Disposizioni tecnico-operative per l’esercizio, la manutenzione, il controllo e ispezione degli impianti termici e per la gestione del relativo catasto" (decreto D.U.O. 13.07.2012 n. 6260).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 13.07.2012 n. 162 "Condizioni e limiti entro i quali, lungo ed all’interno degli itinerari internazionali, delle autostrade, delle strade extraurbane principali e relativi accessi, sono consentiti cartelli di valorizzazione e promozione del territorio indicanti siti di interesse turistico e culturale" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 23.05.2012).

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROSicurezza sui cantieri: ecco un pratico vademecum sugli obblighi e le responsabilità del committente e delle imprese.
Il Testo Unico sulla Sicurezza prevede obblighi ben precisi per le diverse figure legate al cantiere.
Gli adempimenti variano in funzione di alcuni aspetti, quali ad esempio l’entità del cantiere (uomini/giorno impiegati) e la presenza di rischi particolari (v. Allegato XI D.Lgs. 81/2008).
Ance Giovani L’Aquila ha pubblicato un interessante vademecum, utile a tutti i datori di lavoro, alle imprese, ai lavoratori autonomi e a tutte le figure impegnate nella sicurezza (RSPP, RLS, preposto, etc.), che illustra in maniera chiara e precisa i ruoli e i compiti di ciascuno di essi.
Il documento, contenente varie tabelle riepilogative e schemi di sintesi, definisce:
● le figure chiave della sicurezza
● l’elenco della documentazione che l’impresa deve fornire al committente, in funzione della tipologia di cantiere
● quando è possibile ricorrere all’autocertificazione dei rischi
● le modalità di redazione del DVR (Documento di Valutazione dei Rischi)
● quando fare la riunione periodica
● le modalità di formazione e informazione dei lavoratori
Vengono, inoltre, analizzati gli obblighi per le imprese affidatarie, esecutrici e il lavoratore autonomo, quali, ad esempio:
● comunicazione al committente
● trasmissione del PSC, Piano di Sicurezza e Coordinamento alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi
● prima di iniziare i lavori
● trasmissione del POS al coordinatore, dopo averne verificato la congruità
● verifica delle condizioni di sicurezza dei lavori
● modalità di verifica dell’idoneità tecnico-professionale
● misure generali di tutela della salute
Alla fine è riportata una pratica check-list che permette al datore di lavoro o al direttore di cantiere di verificare che il luogo di lavoro sia in regola con tutta la documentazione e tutti gli adempimenti previsti (19.07.2012 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATASCIA per i depositi di GPL. Ecco come procedere.
Il Dipartimento dei Vigili del Fuoco ha diramato la lettera-circolare 27.06.2012 n. 8660 di prot. contenente indicazioni sui depositi di GPL in serbatoi fissi con capacità inferiore a 5m³.
In particolare, viene specificato che, a seguito della segnalazione da parte di Assogasliquidi, inerente la richiesta di alcuni Comandi dei Vigili del Fuoco di ulteriore documentazione rispetto a quella prevista, la procedura da seguire per la presentazione della SCIA è quella indicata nella circolare 21.10.2011 n. 13722 di prot..
Al riguardo si rinviano i lettori al precedente articolo di BibLus-net “Prevenzione incendi e nuovo regolamento: ulteriori Indirizzi applicativi e correzione di alcuni modelli”.
Pertanto i modelli da adottare, proposti in allegato a questa notizia, sono quelli introdotti dalla Circolare dello scorso ottobre.
Infine, per le pratiche presentate ai sensi del D.P.R. 214/2006 e per le quali alla data di entrata in vigore del nuovo regolamento (07.10.2011) non era ancora stato effettuato il sopralluogo, il Comando non può richiedere la presentazione della SCIA, ma deve solo ricatalogare la pratica (19.07.2012 - link a www.acca.it).

VARIPuò un professionista pubblicizzare le proprie prestazioni professionali?
Le professioni regolamentate possono essere pubblicizzate anche attraverso il volantinaggio!
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione accogliendo il ricorso presentato da un dentista abilitato alla professione.
Un odontoiatra viene condannato alla sospensione per un mese dell’esercizio della professione dall’Ordine di appartenenza per aver pubblicizzato le prestazioni professionali dell’azienda sanitaria di cui era direttore, anche con prezzi più bassi rispetto ai minimi tariffari, ormai aboliti.
Il professionista presenta ricorso nei confronti dell’Ordine alla Corte di Cassazione.
La Corte Suprema, Sez. VI civile, con la sentenza 12.07.2012 n. 11816, accoglie il ricorso del professionista, affermando che la competenza degli Ordini professionali è finalizzata alla sola verifica della trasparenza e della veridicità del messaggio. Inoltre, la Direttiva Comunitaria n. 123/2006, così come pure il Decreto Bersani (Legge 248/2006), prevede la massima liberalizzazione della concorrenza, annullando il divieto di fare pubblicità sui servizi offerti da professioni regolamentate (19.07.2012 - link a www.acca.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA: L. Spallino, Lombardia, Esiti della mancata approvazione dei PGT al 31.12.2012 (14.11.2011 aggiornato il 17.07.2012 - link a www.studiospallino.it).

SICUREZZA LAVORO: A.G. Riu e L. Riu., Luoghi di lavoro diversi dai Cantieri Temporanei o Mobilii e relativi obblighi - L'idoneità tecnica professionale ai sensi del D.Lgs. n. 81/2008, gli obblighi del Datore di Lavoro Committente nei luoghi di lavoro diversi dai Cantieri Temporanei o Mobili, gli obblighi del Committente o del Responsabile dei Lavori e gli obblighi del Datore di Lavoro dell'Impresa Affidataria nei Cantieri Temporanei o Mobili (link a www.lexambiente.it).

SICUREZZA LAVORO: G. Cuccui, Morti sul lavoro: chi il responsabile? La responsabilità del datore di lavoro e del lavoratore in caso di decesso del secondo (link a www.leggioggi.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: M. Taina, Gestione toner esausti: è intermediazione? (link a www.tuttoambiente.it).

APPALTI: P.L. Portaluri, LA DISCREZIONALITÀ STRUMENTALE DELLA STAZIONE APPALTANTE E IL MODELLO ORGANIZZATIVO EX D.LGS. N. 231/2001 (link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: M. Amadei, L'OFFERTA ECONOMICAMENTE PIÙ VANTAGGIOSA: DEFINIZIONE DEI CRITERI QUALITATIVI-INNOVATIVI AL FINE DI GARANTIRE LA CORRETTA ESECUZIONE DEI SERVIZI DI SANIFICAZIONE AMBIENTALE (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: G. Naimo,  I “SERVIZI LEGALI”: NOZIONE E CENNI SULLA DISCIPLINA DI AFFIDAMENTO (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

APPALTI: L. Savelli, I CONTRATTI PUBBLICI NELLA STAGIONE DEI DECRETI-LEGGE: DAL DECRETO-SVILUPPO AD OGGI - Aggiornamento al 24.05.2012 (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

APPALTI: L. Savelli, IL CODICE DEI CONTRATTI ED IL REGOLAMENTO DOPO I DECRETI-LEGGE (MAGGIO 2011- MAGGIO 2012) - Vedemecum I.G.I. riguardante le modifiche apportate alla legislazione degli appalti pubblici - aggiornato alla legge 18.05.2012 n. 62 (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Sul potere del Consiglio comunale di riduzione della fascia di rispetto a protezione dei cimiteri (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: M.C. Ribera e G. Auriemma, I crimini in danno dell’ambiente e del territorio - Le tecniche investigative e l’acquisizione della prova in materia ambientale (22.05.2012 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Scognamiglio, I crimini in danno dell’ambiente e del territorio - I reati edilizi nel dialogo tra dottrina e giurisprudenza (21-23.05.2012 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. De Chiara, I crimini in danno dell'ambiente e del territorio - I protocolli di indagine in materia di reati urbanistici (21-23.05.2012 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: I crimini in danno dell’ambiente e del territorio - Novità legislative e giurisprudenziali in materia di reati urbanistici.
SOMMARIO: 1. Attività edilizia e titoli abilitativi. – 2. Il regime attuale dei titoli abilitativi. – 3. La DIA (denuncia di inizio attività) in materia edilizia: successione delle disposizioni normative. – 4. La sostituzione della DIA con la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) in materia edilizia. – 5. SCIA ed immobili abusivi. – 6. SCIA ed immobili vincolati. – 7. La DIA alternativa (cd. superDIA) e l’art. 22, 3° comma, del T.U. n. 380/2001. – 8. Natura giuridica della denuncia di inizio dell’attività. – 9. SCIA, DIA e silenzioassenso. – 10. La procedura di SCIA in materia edilizia. – 11. La procedura applicabile alla c.d. «superDIA». – 12. Lavori eseguiti in base a permesso di costruire illegittimo. – 13. Confisca penale e lottizzazioni abusive. – 14. Strumenti processuali di tutela dei terzi acquirenti. – 15. Estensione della confisca. – 16. La confisca del ricavato della vendita di lotti abusivi. – 17. Confisca ed effetti di sopravvenute determinazioni comunali (CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, Nona Commissione, Tirocinio e Formazione Professionale - 21-23.05.2012 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, Responsabilità penali e contaminazione dei siti (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: D. Palombella, Trasformazione del balcone in veranda - Chiusura di balconi e terrazze con infissi e strutture vetrate, casistica completa dei possibili interventi e dei profili autorizzatori: il punto di vista della Giurisprudenza, problematiche condominiali, situazione nelle varie regioni, ruolo dei regolamenti comunali, riflessi fiscali, sanzioni (Quaderni di Legislazione Tecnica n. 2/2012).

APPALTI SERVIZI: V. Veneroso, Procedure di gara e avvalimento dei requisiti: l'iscrizione all'Albo Nazionale Gestori Ambientali (link a www.ipsoa.it).

APPALTI SERVIZI: A. Barbiero e C. Bonaccorso, Note di analisi sulla disciplina per lo scioglimento delle società che gestiscono servizi strumentali (art. 4 d.l. n. 95/2012) (link a www.dirittodeisevizipubblici.it).

APPALTI: M. Carpagnano e P. Fattori, LE PRINCIPALI PROBLEMATICHE ANTITRUST CONNESSE ALLA PARTECIPAZIONE AD UN’ASTA COMPETITIVA (estratto della relazione per il seminario su Il bene concorrenza e le tutele predisposte dall'ordinamento nelle gare pubbliche svoltosi il 20.04.2012 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento - link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità amministratori locali.
Torna sull'argomento la sezione regionale Piemonte della Corte dei Conti. Con il parere 06.07.2012 n. 278, conferma le seguenti interpretazioni delle norme in vigore:
- "... a partire dal 2008, essendo stata abolita la possibilità per gli enti di modificare autonomamente l'importo dell'indennità, le delibere contenenti eventuali riduzioni, superiori a quelle fissate dal legislatore, vanno intese come rinunce volontarie ad una parte dell'indennità, che non hanno alcuna influenza sull'ammontare della stessa per gli esercizi successivi";
- "... le indennità restano fissate nella misura conseguente alla riduzione prevista dalla legge 266/2005, che non opera sull'ammontare dell'indennità deliberata al 30/09/2005 soltanto se gli organi dell'ente, avvalendosi delle facoltà previste dal c. 11 dell'art. 82 nel testo allora vigente, si erano autonomamente determinati nel senso di ridurne l'ammontare in misura pari o superiore al 10% rispetto all'importo base fissato dal d.m. 119 del 2000 (in tal senso si era già espresso il Ministero dell'Interno con circolare Circ. 28.06.2006, n. 5/2006)" (tratto da www.publika.it)

ENTI LOCALI: Corte dei conti. Delibera della sezione di controllo della Lombardia. I limiti al turn-over si estendono a tutte le società partecipate.
IL TETTO/ Possibile assumere nel limite del 40% del costo delle uscite dell'anno prima se si resta entro il 50% della spesa corrente.

I limiti quantitativi per le assunzioni di personale valgono anche per le società partecipate da enti locali assoggettati al patto di stabilità, che non possono trasferire alle stesse la loro capacità assunzionale.
Lo ha precisato la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, che, con il parere 31.05.2012 n. 260, si è soffermata sull'applicazione del rapporto tra spesa per il personale e spesa corrente, previsto dall'articolo 76, comma 7, della legge 133/2008.
La disposizione consente agli enti locali, se non si supera il 50% nel rapporto, di assumere nel limite del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente. La norma prevede inoltre che, per il computo della percentuale derivante dal rapporto tra spesa del personale e spesa corrente, si calcolino anche le spese sostenute dalle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali senza gara.
Secondo la Corte dei conti lombarda, la disciplina ha come destinatario l'ente locale, mentre derivano da autonome disposizioni gli adempimenti sulle politiche retributive per il personale e i divieti o le limitazioni alle assunzioni per determinate categorie di società partecipate. In particolare, l'articolo 25 del decreto legge 1/2012 dispone che le società in house devono adottare con propri provvedimenti criteri e modalità per reclutare il personale e conferire gli incarichi nel rispetto delle disposizioni che stabiliscono a carico degli enti locali divieti o limitazioni alle assunzioni di personale.
Il rispetto dei limiti imposti all'ente locale per le assunzioni determina quindi per la società partecipata la possibilità di reclutare risorse umane solo se il comune socio di controllo non è incorso in violazioni sanzionate con il divieto di assunzioni e se non è stato superato il parametro del 50% nel rapporto tra spesa di personale e spese correnti nel quadro economico consolidato. In base al rinvio operato dall'articolo 25 del decreto 1/2012, la disciplina è applicabile alla società in house che potrà assumere nel limite del 40% del costo corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente.
La Corte dei conti della Lombardia analizza anche il tema del possibile trasferimento della capacità assunzionale dall'ente locale alla partecipata. Quando il rapporto è rispettato, infatti, sia l'amministrazione sia la società possono assumere nel limite del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente. Tuttavia, trattandosi di limitazioni poste in capo ai due diversi enti, con distinta personalità giuridica e autonoma dotazione organica, l'ente locale non può trasferire una quota o tutta la propria capacità assunzionale alla società, né può sommare alle proprie cessazioni quelle della società partecipata. Né, all'inverso, la società può sommare la capacità assunzionale del comune e i benefici ai suoi. Tuttavia, la Corte ha anche precisato che ente locale e società partecipata possono utilizzare negli anni successivi le quote di turn-over non utilizzate negli anni precedenti.
I limiti assunzionali applicabili alle partecipate sono rafforzati dall'articolo 4 del decreto legge 95/2012. Il comma 9, infatti, stabilisce che per le società che gestiscono servizi strumentali, dall'entrata in vigore del decreto sino al 31.12.2015 si applicano le disposizioni limitative delle assunzioni previste per l'amministrazione controllante, mentre per la fase precedente la norma richiama l'articolo 9, comma 29, della legge 122/2010.
I commi 10 e 11, poi, stabiliscono l'applicazione del limite del 50% di spesa (riferita al 2009) per le assunzioni a tempo determinato e il blocco al 2011 del trattamento economico complessivo dei dipendenti, come previsto per le amministrazioni pubbliche (articolo Il Sole 24 Ore del 16.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

APPALTI SERVIZI: Corte costituzionale. Accolto il ricorso di sei regioni su affidamenti in house, diritti di esclusiva e società partecipate.
Servizi, liberalizzazioni bocciate. Illegittime le nuove regole: sono la copia di quelle abrogate dal referendum.
LA DECISIONE/ Con la manovra di Ferragosto 2011 è stato «tradito» il risultato delle consultazioni di appena due mesi prima.

Le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali scritte nella manovra-bis del Ferragosto 2011 sono la copia, ancor più decisa rispetto all'originale, di quelle abrogate per referendum solo due mesi prima, quindi sono illegittime.
Sulla base di questo ragionamento, tanto attendibile nei contenuti quanto deflagrante negli effetti, la Corte costituzionale ha assestato ieri (sentenza 199/2012: presidente Quaranta, relatore Tesauro) la bordata più dura all'ultima manovra anti-spread dell'estate scorsa (l'altro colpo arriva sui costi della politica: si veda l'articolo sotto), dando ragione al gruppo di sei Regioni (Emilia-Romagna, Marche, Umbria, Lazio, Puglia e Sardegna) che erano partite all'attacco della nuova normativa.
A salvare l'intervento non è bastata l'esclusione espressa del «servizio idrico integrato», perché i referendum abrogativi di giugno si erano concentrati sull'acqua solo per la propaganda, ma in realtà avevano cancellato tutte le liberalizzazioni contenute nel primo tentativo del 2008. Ancor meno utile è stata la rubrica della norma, che parlava di «adeguamento al referendum popolare». Riproporre norme appena cancellate dal voto, per di più a soli 23 giorni dal decreto di abrogazione, non si può.
Anche per questa ragione, la sentenza agisce di machete più che di bisturi, e dichiara l'illegittimità dell'articolo 4 del Dl 138/2011 «sia nel testo originario che in quello risultante dalle successive modificazioni», compresi i ritocchi apportati da ultimo con il «Cresci-Italia» del Governo Monti (articolo 53 del Dl 83/2012). Addio, quindi, ai limiti economici per gli affidamenti in house, preclusi per servizi di valore superiore ai 900mila euro annui (diventati poi 200mila con il decreto liberalizzazioni 1/2012 del Governo Monti), all'obbligo per gli enti locali di effettuare analisi di mercato entro il 13 agosto prossimo per giustificare l'attribuzione di diritti di esclusiva (già si parlava di una proroga da inserire nella legge di conversione al decreto di revisione della spesa) e, ovviamente, a tutte le norme dei provvedimenti attuativi. Ancora una volta, quindi, cadono le regole che provavano a chiudere le porte girevoli fra la politica e le società partecipate, impedendo agli ex amministratori locali di sedere nei consigli di amministrazione delle società.
Immediata l'esultanza della sinistra referendaria, a partire dal presidente della Puglia, Nichi Vendola, che sull'onda della sentenza chiede di cancellare subito anche la tagliola prevista dal decreto legge sulla revisione di spesa per le società strumentali della Pubblica amministrazione. Secondo gli operatori, come spiega il direttore generale di Federutility, Adolfo Spaziani, la sentenza è l'occasione per «cambiare rotta e pensare a normative serie di settore, come si è fatto con energia e gas, per premiare chi è efficiente e colpire chi non lo è: bisogna smetterla con questi continui tira e molla normativi, con i quali si vuole fare di più ma si finisce per fare di meno». Anche l'associazione dei Comuni, per bocca del suo vicepresidente Alessandro Cattaneo, chiede «regole certe subito», mentre a livello locale la pronuncia rinfocola le polemiche contro i processi di cessione di quote, a partire dalla romana Acea che si era appena incagliata al Consiglio di Stato.
Cancellata tutta l'architettura legislativa che si era accumulata con gli ultimi provvedimenti, la bussola torna per ora a essere la normativa europea (richiamata dagli stessi giudici costituzionali), che permette l'affidamento in house a tre condizioni: la società affidataria deve avere capitale interamente pubblico e svolgere la quota prevalente della propria attività con l'ente affidante, che a sua volta deve esercitare su questa un controllo «analogo» a quello assicurato sui propri uffici. Naturalmente nulla vieta nuove leggi, anche perché la stessa Corte costituzionale in passato ha chiarito che «il legislatore conserva il potere di intervenire nella materia oggetto del referendum», a patto che l'intento non sia di «far rivivere la normativa abrogata».
Prima di tutto, però, occorrerà chiarire bene alcuni punti rimasti aperti, come la sottoposizione delle società in house ai vincoli del Patto di stabilità (si attende il regolamento attuativo), prevista sia all'articolo 4 (abrogato) sia al 3-bis (sopravvissuto) della manovra estiva (articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Via allo sportello unico obbligatorio. Per edilizia e casa rafforzata la struttura antiburocrazia comunale per tutti i pareri.
IL PACCHETTO/ Semplificate le procedure per il permesso di costruire e ridotta la documentazione con il meccanismo dell'acquisizione d'ufficio.

Sportello unico per l'edilizia rafforzato, senza più passaggi frammentati tra varie amministrazioni per costruzioni e lavori. Semplificazione delle procedure per il permesso di costruire facendo leva su una sorta di gestione unificata. E –per tutti gli interventi, compresi quelli minori fatti in casa– divieto per gli uffici pubblici di continuare a chiedere documenti catastali, variazioni di mappa e altri certificati già in possesso della pubblica amministrazione.
A far scattare la "fase due" del piano di semplificazioni congegnato dal Governo è il via libera arrivato dalle commissioni Finanze e Attività produttive della Camera, seppure in extremis e non senza qualche tensione tra maggioranza ed Esecutivo, a un emendamento al decreto sviluppo firmato dai relatori del provvedimento.
Alla fine di una lunga maratona, tutti i gruppi parlamentari, di maggioranza e d'opposizione, hanno dato l'ok al correttivo che era stato congelato per qualche ora per consentire di avere sul testo dell'emendamento anche il parere del ministero per i Beni ambientali e culturali su alcuni aspetti relativi ai vincoli paesaggistici. A far notare che nel testo abbozzato dal Governo mancava l'assenso del Mibac è stato uno dei relatori, Alberto Fluvi (Pd), peraltro assolutamente d'accordo con i contenuti del correttivo così come il suo partito.
Di qui l'impasse in commissione con il congelamento del testo, il cui via libera era atteso giovedì. Questa mattina poco prima della conclusione dei lavori in commissione il parere è arrivato, e con una sorta di procedura "straordinaria" di recupero, grazie anche al lavoro di tessitura svolto dal sottosegretario ai rapporti con il Parlamento, Giampaolo D'Andrea. Il correttivo, firmato da Fluvi e dall'altro relatore Raffaello Vignali (Pdl) è stato alla fine approvato. Anche se Fluvi e altri parlamentari, dopo aver sottolineato la necessità di rispettare sempre l'autonomia del Parlamento, hanno mosso qualche critica al Governo per la ristrettezza dei tempi a disposizione delle Commissioni per la gestione di alcuni testi.
Un ruolo decisivo nell'elaborazione dell'emendamento l'ha avuto il ministero della Pubblica amministrazione che, d'intesa con quello delle Infrastrutture, ha contribuito a mettere nero su bianco l'accordo raggiunto nei giorni scorsi sul pacchetto edilizia con Regioni, enti locali e parti sociali. Non a caso il ministro Filippo Patroni Griffi ha espresso grande soddisfazione per il via libera delle Commissioni.
«Le semplificazioni si fanno soprattutto sul campo. Questa norma –ha affermato Patroni Griffi– si affianca al lavoro che stiamo facendo al tavolo tecnico della conferenza unificata con le autonomie per migliorare in concreto i servizi a cittadini e imprese sull'intero territorio». Il ministro ha poi voluto ringraziare i relatori e le forze politiche: «Il Parlamento –ha detto– sta svolgendo un ruolo fondamentale nel miglioramento del provvedimento, in particolare in materia di semplificazione per le imprese».
Il cardine del pacchetto è lo sportello unico per l'edilizia rafforzato. Tutti gli atti dovranno essere gestiti da questa struttura, e altri uffici comunali o altre amministrazioni non potranno in alcun modo trasmettere autonomamente «ai richiedenti» pareri, nulla-osta o documenti di consenso. Anche tutti gli atti collegati al rilascio del permesso di costruire (dal parere della asl, a quelli dei Vigili del fuoco o le certificazioni degli uffici tecnici delle Regioni) dovranno essere acquisiti dallo sportello unico «direttamente o tramite Conferenza dei servizi». Scatterà poi un taglio consistente della documentazione oggi richiesta per effetto dell'acquisizione d'ufficio dei documenti già in possesso degli uffici pubblici.
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Le novità nel settore costruzioni
SPORTELLO PER L'EDILIZIA - Competenze accentrate
Lo sportello unico per l'edilizia diventa il punto di riferimento obbligato per tutti gli atti «riguardanti il titolo abitativo e l'intervento edilizio oggetto dello stesso». Lo sportello fornisce una risposta tempestiva in luogo di tutte le Pa comunque coinvolte.
Tutti gli atti dovranno essere gestiti da questa struttura, e altri uffici comunali o altre amministrazioni coinvolte dal procedimento non potranno trasmettere autonomamente «ai richiedenti» atti autorizzatori, pareri, nulla-osta o documenti di consenso
CONFERENZA DEI SERVIZI - Più pareri acquisibili
Ai fini del rilascio del permesso di costruire, rientra nelle competenze dello sportello unico l'acquisizione, diretta o tramite conferenza di servizi, di pareri di amministrazioni finora escluse. Tra queste, gli uffici tecnici della Regione, la Difesa, le Dogane, le autorità competenti in materia di vincoli idrogeologici.
Il responsabile dello sportello unico indice la conferenza di servizi se entro sessanta giorni dalla domanda manca ancora qualche nulla osta o c'è il dissenso di qualche amministrazione
DOCUMENTAZIONE - Meno certificati richiesti
Scatta un taglio consistente della documentazione richiesta per tutti gli interventi, compresi quelli minori fatti in casa, grazie all'acquisizione d'ufficio dei documenti già in possesso degli uffici pubblici, come documenti catastali, variazioni di mappa e altri certificati già a disposizione della pubblica amministrazione.
In base alle nuove disposizioni le amministrazioni «non possono richiedere attestazioni, comunque denominate, o perizie, sulla veridicità e l'autenticità di tali documenti, informazioni e dati» (articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI FORNITURESPENDING REVIEW/ Senza Consip approvigionamenti nulli. Non c'è una norma di diritto transitorio.
Acquisti p.a., procedure a rischio. Nessuna certezza sulla sorte delle gare già in corso.

Nella spending review manca una norma di diritto transitorio per regolamentare le acquisizioni di beni e servizi al di fuori del sistema Consip, che rischia di mettere fortemente in crisi le amministrazioni. l'articolo 1 del dl 95/2012, nel regolamentare l'obbligo per tutte le amministrazioni di avvalersi della Consip o delle centrali di committenza regionali per i contratti di beni e servizi, non ha minimamente tenuto conto delle procedure di gara avviate e non ancora concluse al momento dell'entrata in vigore del decreto.
Le disposizioni in merito agli acquisti sono sin troppo drastiche: «I contratti stipulati in violazione dell'articolo 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488 e i contratti stipulati in violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip spa sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa. Ai fini della determinazione del danno erariale si tiene anche conto della differenza tra il prezzo, ove indicato, dei detti strumenti di acquisto e quello indicato nel contratto. Non sono comunque nulli i contratti stipulati tramite altra centrale di committenza a condizioni economiche più favorevoli».
Si sanziona con la nullità, che è insanabile, non solo e non tanto l'approvvigionamento che avvenga a costi maggiori di quelli rilevabili dal sistema Consip-centrali di committenza, ma specificamente qualsiasi procedura di acquisizione al di fuori del sistema. Il legislatore, ... (articolo ItaliaOggi del 20.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALITagli ai comuni ma più funzioni. Rispetto al federalismo cresce la lista delle competenze. Ridisegnati i poteri dei sindaci. Si complicano i fabbisogni standard.
La nuova mappa delle funzioni fondamentali dei comuni tracciata dal decreto sulla spending review ricalca solo in parte quella contenuta nella legge sul federalismo fiscale. Nel complesso, il nuovo elenco pare più ampio di quello preesistente. E quindi lecito attendersi un ulteriore allungamento dei tempi per l'individuazione dei fabbisogni standard di spesa.
L'art. 19, comma 1, del dl 95/2012, nel quadro della complessiva revisione della disciplina sull'obbligo di gestione associata da parte dei piccoli comuni, provvede a ridefinire il core business dei municipi, «ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p), Cost.». Proprio tale riferimento alla Carta fondamentale rivela la portata generale della disposizione, che sembra destinata ad applicarsi (a differenza dei commi successivi) anche agli enti di maggiori dimensioni, sostituendo quella di cui all'art. 21, comma 3, della legge 42/2009.
Quest'ultimo, come noto, aveva operato una prima cernita delle funzioni fondamentali comunali, al fine di avviare la determinazione dei fabbisogni standard relativi alle connesse spese, cui agganciare i nuovi meccanismi di finanziamento previsti dal federalismo fiscale. A completare il quadro, era poi intervenuto il digs 85/2010, che aveva affidato tale compito a Sose ed Anci-Ifel, che lo stanno (faticosamente) svolgendo.
Ora, la novella legislativa spariglia nuovamente le carte. In effetti, mentre la legge 42 aveva mutuato l'articolazione delle funzioni (e relativi servizi) prevista dal dpr 194/1996 sui modelli di bilancio, «scremando. (per così dire) quelle (ritenute) fondamentali, il dl 95 introduce una classificazione meno «familiare ... (articolo ItaliaOggi del 20.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATAAbusivismo, fondi alle demolizioni. La Cdp anticiperà ai comuni le spese per gli interventi. Le amministrazioni possono agire più velocemente grazie alla Cassa depositi e prestiti.
La Cassa depositi e prestiti mette a disposizione finanziamenti senza interessi, per anticipare ai comuni i fondi per la copertura di spese per la demolizione di opere abusive. Tutti i comuni italiani possono accedere a sportello al finanziamento previsto dl n. 269/2003.
Il Fondo rotativo ha un importo massimo pari a 50 milioni. Questi possono essere erogati, per concedere ai comuni anticipazioni senza interessi sui costi da sostenere. Tra questi, sono ammissibili anche le spese giudiziarie, tecniche e amministrative, relativi agli interventi di demolizione delle opere abusive, anche disposti dall'autorità giudiziaria. Il capitale anticipato, unitamente alle spese di gestione del Fondo, pari allo 0,1% annuo sul capitale erogato, deve essere restituito entro 5 anni, utilizzando le somme riscosse a carico degli esecutori degli abusi.
Gli enti locali possono quindi contare su una maggior rapidità nell'esecuzione delle demolizioni grazie alla possibilità di ottenere liquidità dalla Cassa depositi e prestiti, senza dover attendere il pagamento dei lavori da parte di chi ha realizzato gli abusi edilizi.
Necessario il provvedimento di demolizione.
Possono accedere alle anticipazioni esclusivamente i comuni nel cui ambito territoriale si è realizzata l'opera abusiva, oggetto di un provvedimento di demolizione. Sono oggetto delle anticipazioni esclusivamente i costi relativi agli interventi di demolizione delle opere abusive.
Il finanziamento può essere accordato esclusivamente per spese per le quali il soggetto competente alla demolizione, non abbia concluso la fase contabile dell'impegno in data anteriore a 90 giorni. Non sono previste soglie minime o massime di accesso al Fondo. Ogni domanda di anticipazione può far riferimento ad un solo intervento di demolizione. ... (articolo ItaliaOggi del 20.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATAIn bilico le semplificazioni in edilizia. Confronto fino a notte sul Dl sviluppo ma il Pd frena – Iva per cassa, il tetto sale a 2 milioni.
IN COMMISSIONE/ Via libera con tensioni alla modifica sull'Abruzzo Ostruzionismo della Lega superato con un'apertura sui Comuni dell'Emilia.

Pacchetto sulle semplificazioni edilizie in bilico alla Camera fino a tarda notte. Con il Pd a frenare sull'intesa raggiunta mercoledì tra Governo, Regioni, enti locali e le parti sociali. Nel pomeriggio inaspettatamente è stato uno dei due relatori, Alberto Fluvi (Pd), a non sottoscrivere l'emendamento che era stato affinato dai ministeri delle Infrastrutture e della Pubblica amministrazione, mentre l'altro relatore, Raffaele Vignali (Pdl) confermava la sua adesione. L'ossatura del correttivo era quella ormai nota (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), con lo sportello unico per l'edilizia "rafforzato", la semplificazione del permesso di costruire e l'acquisizione d'ufficio della documentazione già in possesso della pubblica amministrazione.
Misure anti-burocrazia soprattutto per l'edilizia con cui il Governo punta a dare la via alla "fase due" delle semplificazioni. E proprio per accelerare il più possibile l'Esecutivo aveva deciso di sfruttare subito il veicolo del decreto sviluppo, che la prossima settimana dovrà essere approvato dalla Camera per poi passare al Senato per l'ok definitivo, facendo leva su un emendamento ad hoc. Emendamento che nella mattinata di ieri era stato discusso con i relatori senza grosse obiezioni.
Nel pomeriggio però a sorpresa, il correttivo è rimasto fuori dall'ultimo pacchetto di correttivi dei relatori per lo stop di Fluvi, motivato con perplessità su alcuni aspetti del testo alla tutela dell'ambiente, ma in gran parte collegato alla giornata di tensione vissuta ieri alla Camera tra maggioranza e Governo. A quel punto è scattata la trattativa fino a tarda notte per recuperare l'emendamento.
Era stato presentato già nel pomeriggio quello dei relatori sull'estensione dell'opzione Iva per cassa a imprese con volume d'affari fino a 2 milioni (oggi il limite è a 200mila euro). L'imposta diviene, comunque, esigibile dopo il decorso di un anno dal momento di effettuazione dell'operazione. Per Vignali si libera «ossigeno per le imprese più strutturate che operano nella subfornitura del manifatturiero». A firma dei relatori anche l'emendamento che, i fini della bonifica, include tra i siti di interesse nazionale quelli interessati da raffinerie, impianti chimici, raffinerie, e quello che stabilisce la responsabilità degli impiegati pubblici che determinano ritardi nel rilascio di autorizzazioni.
Via libera, con momenti di tensione, all'emendamento del Governo che dà il via alla gestione ordinaria della ricostruzione post-terremoto in Abruzzo. L'Esecutivo è stato battuto su una subemendamento Pd-Pdl-Idv relativo a procedure amministrative e ha dovuto accettare la cancellazione della norma che sopprimeva diversi nuclei di valutazione attivi nell'amministrazione. L'ostruzionismo della Lega sull'emendamento del Governo si è interrotto solo quando, con il sostegno del Pd, è passata la norma che estende il numero dei comuni che riceveranno gli aiuti dopo il sisma dell'Emilia. Approvato l'emendamento Pd e Pdl che importa nel Dl un disegno di legge già in esame in commissione con incentivi all'acquisto dei veicoli elettrici da 3.000 a 5.000 euro e agevolazioni per diffondere i punti di ricarica. Lo stanziamento triennale, non senza polemiche tra Governo e maggioranza, è stato però dimezzato a 210 milioni.
Il decreto, al quale tra l'altro sono stati presentati da deputati Pdl emendamenti sul patto di famiglia ribattezzati «anti-Veronica Lario», imbarca novità sul fronte energetico. La durata delle concessioni idroelettriche si riallunga per un periodo «da venti anni fino ad un massimo di trenta anni, rapportato all'entità degli investimenti ritenuti necessari». Le Regioni potranno destinare una quota dei canoni alla riduzione dei costi dell'energia. Una svolta per il settore, secondo Stefano Saglia (Pdl) che aveva proposto la prima versione dell'emendamento. Lo stesso Saglia difende l'emendamento sulla remunerazione della generazione elettrica di riserva, criticato da Confindustria. L'emendamento «intende rendere meno onerosa la crescita delle fonti rinnovabili».
«Si è cercato inoltre di rendere operativo il principio del Dl liberalizzazioni che ha previsto l'introduzione del servizio di flessibilità per garantire la sicurezza e la qualità delle forniture» (articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).
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Sportello unico, nessuna Pa esclusa.
IL PROJECT BOND/ Ciaccia lancia l'ipotesi di una super-obbligazione che tenga insieme più società di progetto in un piano integrato.

Contiene una norma di forte impatto, che potrebbe cambiare la velocità di marcia di un pezzo dell'economia italiana, l'emendamento al decreto sviluppo che rafforza lo sportello unico per l'edilizia e la conferenza di servizi connessa, attribuendogli competenze non solo istruttorie, ma anche decisorie.
In sostanza, l'emendamento -messo a punto con una lunga riunione notturna fra Funzione pubblica e Infrastrutture con il consenso di Regioni, enti locali e parti sociali- fa rientrare nel perimetro di competenza dello sportello unico pareri di amministrazioni fino a oggi escluse: dagli uffici tecnici della Regione alla Difesa, dalle dogane al demanio marittimo, dalle tutele dei beni culturali e paesaggistiche alle autorità competenti sui vincoli idrogeologici.
Nel testo unico per l'edilizia finora erano ricompresi nell'attività dello sportello unico solo i pareri delle Asl e dei vigili del fuoco. L'emendamento prevede inoltre che lo sportello unico per l'edilizia «costituisce l'unico punto di accesso per il privato interessato in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l'intervento edilizio oggetto dello stesso che fornisce una risposta tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni, comunque coinvolte». Tra queste sono ricomprese le amministrazioni «preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità».
Ieri, intanto, il viceministro alle Infrastrutture, Mario Ciaccia, ha rilanciato in un seminario organizzato dall'Ance il tema del «project bond italiano», il cui decollo è garantito dalle recenti innovazioni introdotte nel decreto sviluppo. Ciaccia ha confermato che entro fine mese sarà emanato il decreto Economia-Infrastrutture che regola le garanzie prestate sui bond e i soggetti che possono prestare queste garanzie. Il viceministro ha anche ipotizzato un super project bond emesso congiuntamente da più società di progetto, «non solo al fine di trarre beneficio dalle condizioni finanziarie più favorevoli derivanti dal merito di credito complessivo, ma spinti anche dal forte grado di appetibilità del progetto integrato».
Un ruolo importante nell'avvio dei project bond in Italia sembra destinato ad averlo Cassa Depositi e prestiti. Lo ha spiegato Matteo Del Fante, direttore generale di Cdp: «Siamo pronti a valutare –ha detto al convegno Ance- la sottoscrizione di una parte importante di titoli nella prima emissione di project bond made in Italy, ferma restando ovviamente la valutazione sulla bontà del progetto». Cassa depositi valuta anche l'ipotesi di lanciare emissioni di project bond dove già è in pista per il finanziamento di infrastrutture (articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Appalti, la p.a. non paga in solido. Amministrazioni escluse dalla responsabilità verso il fisco. Lo prevede un emendamento dei relatori al dl crescita. Cause di esonero certe per l'appaltatore.
Stazioni appaltanti escluse dalla responsabilità solidale verso il fisco per ritenute di acconto e Iva. Un emendamento, presentato dai relatori ... (articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2012 - tratto da www.ecostrampa.it).

EDILIZIA PRIVATAUno sportello unico per l'edilizia. In arrivo misure per semplificare i lavori: procedura snella sulla licenza per costruire.
Il Governo è pronto ad avviare subito la "fase due" delle semplificazioni. Un nuovo pacchetto di misure, tarate soprattutto sull'edilizia, è in avanzato stato di definizione. E tra oggi e domani potrebbe essere inserito con un emendamento ad hoc nel decreto sviluppo, all'esame delle commissioni Finanze e Attività produttive della Camera. Anche se resta aperta l'ipotesi di un provvedimento mirato da varare nei prossimi giorni.
Tre i pilastri su cui poggiano gli interventi su cui sta lavorando da diversi giorni il Governo d'intesa con Regioni, enti locali e parti sociali: sportello unico per l'edilizia rafforzato, semplificazione del permesso di costruire e acquisizione d'ufficio della documentazione amministrativa già in possesso degli uffici pubblici.
A queste misure si aggiungerebbero altri interventi di sburocratizzazione per facilitare la definizione dei contratti nel settore delle costruzioni e per ridurre i passaggi amministrativi nell'intero settore dell'edilizia. Il ministero della Pubblica amministrazione, che ha gestito il grosso del l'operazione, e quello delle Infrastrutture starebbe apportando gli ultimi ritocchi prima di dare l'ok definitivo all'intervento.
Ma appare già chiaro che se il pacchetto sarà presentato dal Governo nell'attuale configurazione, il cuore della nuova fase di semplificazione sarà rappresentato dallo sportello unico per l'edilizia che funzionerebbe quasi a 360 gradi. Attualmente questo strumento anti-burocrazia funziona solo per un numero limitato di atti. Con le nuove misure la gamma di procedure, adempimenti e autorizzazioni gestita verrebbe sensibilmente ampliata. Tra le ipotesi allo studio c'è anche quello della Valutazione di impatto ambientale (Via) "standardizzata", senza più distinzioni tra livello nazionale e regionale. Ma nelle ultime ore questa opzione sembra aver perso quota.
Il lavoro compiuto dall'Esecutivo in sinergia con i governatori, anche sulla base delle indicazioni provenienti dalle imprese, ha comunque consentito di mettere a punto altri interventi. A cominciare dalla semplificazione del permesso di costruire cui si aggiungerebbe un'altra sburocratizzazione delle procedure sulla demolizione delle costruzioni. Un sensibile cambiamento di rotta ci sarebbe sul fronte documentazione: gli atti già in possesso della Pa verrebbero considerati acquisiti d'ufficio.
Già ieri sembrava che il nuovo pacchetto di semplificazioni fosse pronto ad entrare nel decreto sviluppo. Ma alla fine è stato deciso di valutare se ricorrere oggi o domani a un emendamento ad hoc dei relatori del provvedimento alla Camera, Raffaele Vignali (Pdl) e Alberto Fluvi (Pd). Sempre oggi dovrebbe essere presentato dai relatori l'emendamento sul rafforzamento dell'Iva per cassa.
Intanto ieri le commissioni hanno lavorato fino a tarda notte ma con diversi stop and go per un lungo braccio di ferro tra Lega e maggioranza sulle misure sul terremoto per l'Abruzzo. Per effetto del l'approvazione di due sub-emendamenti (presentati rispettivamente da Udc e Pd e Pdl e Idv) all'emendamento originario del ministro Fabrizio Barca sono stati esclusi dal patto di stabilità interno i fondi che i Comuni del l'Abruzzo spenderanno per la ricostruzione post terremoto, con il passaggio dalla gestione commissariale a quella ordinaria. Ma il Carroccio ha continuato a fare ostruzionismo chiedendo che venissero discussi anche gli emendamenti sul sisma in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto.
Prima della maratona notturna le commissioni hanno comunque approvato qualche altro ritocco: la velocizzazione delle procedure per realizzare le opere di Expo 2015; la remunerazione dei servizi di flessibilità energetica offerti dagli impianti appositi che entrano in funzione quando quelli a energia rinnovabile "staccano"; l'istituzione a Palazzo Chigi del Comitato per le politiche urbane (Cipu) che coordinerà l'azione delle amministrazioni centrali e di quelle locali. La commissione Giustizia, nel suo parere al Dl, ha chiesto di «riscrivere» la norma sull'udienza filtro in appello, voluta dal ministro Severino per accorciare la definizione dei processi civili.
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Le quattro misure per le costruzioni. Tempi certi e costi ridotti per imprese e cittadini
LE CORREZIONI/ Modifiche al silenzio-assenso per il permesso di costruire, riduzione dei documenti e modifica della sagoma nelle demolizioni e ricostruzioni.

Quattro misure per rilanciare e velocizzare l'edilizia. È quello che ha proposto ieri il nuovo tavolo istituzionale composto da Governo, Regioni, enti locali e parti sociali, riunitosi per la prima volta chiedendo, in nome della crescita del Pil, di varare un pacchetto di semplificazioni buone soprattutto per il settore delle costruzioni.
La prima misura è l'affidamento allo «sportello unico» per l'edilizia di competenze decisorie che possano velocizzare le procedure amministrative e ridurre gli oneri a capo dei privati. In questo modo si semplifica il front office per l'impresa: il procedimento diventa unico e tutti gli adempimenti passano per lo stesso ufficio.
Su questa misura il ministero delle Infrastrutture non muove rilievi di fondo, ma chiede che sia previsto un regime transitorio di sei mesi su cui, peraltro, non sembra esserci opposizione da parte di nessuno. La probabilità che la norma entri nel decreto sembrano quindi buone.
Anche sulla seconda proposta non sembrano esserci ostacoli particolari. È quella che prevede l'introduzione del principio generale dell'acquisizione d'ufficio dei documenti già in possesso della pubblica amministrazione. Che senso ha che in una domanda per una Dia presentata al comune si debba allegare anche la mappa catastale che è stata prodotta dal comune stesso? L'obiettivo è anche in questo caso la riduzione dei tempi e degli oneri amministrativi in capo ai privati.
Più difficoltoso sembra il percorso della terza norma proposta dal tavolo istituzionale: l'eliminazione del limite della sagoma nelle ristrutturazioni edilizie svolte mediante demolizione e ricostruzione.
È una questione su cui hanno già legiferato recentemente alcune Regioni, come la Lombardia: una questione che si dibatte da tempo e che ormai sembra matura, soprattutto perché non viene meno l'obbligo di rispettare né le norme sulla sicurezza né le prescrizioni in materia architettonica. Perché, se si demolisce e ricostruisce un edificio con una ristrutturazione edilizia, necessariamente la sagoma deve restare la stessa, anche se si parla di un brutto edificio?
Le innovazioni legislative regionali sono state bloccate dalla Consulta che, con la sentenza 309/2011, ha dichiarato illegittima la legge della Lombardia, ribadendo la titolarità esclusiva dello Stato a legiferare sulla materia.
Su questa norma, forse proprio per un presunto rispetto della sentenza della Corte costituzionale, le obiezioni del ministero delle Infrastrutture erano ieri più consistenti, al punto che sembrava difficile l'inserimento nel decreto legge sviluppo.
L'ultima modifica riguarda la correzione di alcune criticità esistenti nella disciplina del rilascio del permesso di costruire previsto dall'articolo 20 del testo unico per l'edilizia.
In sostanza si precisa che il termine per la formazione del silenzio-assenso decorre soltanto dalla presentazione della domanda di permesso di costruire e non dalla precedente fase istruttoria. La correzione riguarda soltanto gli interventi non soggetti a vincoli ambientali e paesaggistici. Anche su questa norma sembra esserci qualche difficoltà e la discussione in seno al Governo è andata avanti fino a tarda serata.
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MODIFICA ALLO STUDIO
Pa, sanzioni per chi non rispetta i tempi.
Per i responsabili di procedimenti pubblici la mancata osservanza dei termini relativi a permessi, autorizzazioni, licenze potrebbe portare come sanzione alla riduzione pari a un terzo della normale retribuzione giornaliera per ogni giornata di ritardo.
«I contratti di lavoro prevedono sanzioni disciplinari più gravi per i casi in cui l'inadempienza sia reiterata dai medesimi soggetti». Lo prevede un emendamento all'articolo 13 che, una volta superata l'ultima valutazione del governo, dovrebbe essere presentato oggi dal relatore Raffaello Vignali (Pdl) (articolo Il Sole 24 Ore del 19.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPrende piede la proposta del presidente della Corte dei conti, Giampaolino, a ItaliaOggi.
Controlli preventivi sugli enti locali. Solo così si può mettere il morso alla spesa pubblica impazzita.

Martedì prossimo i comuni italiani protesteranno davanti a palazzo Madama contro i tagli alla spesa pubblica. Senza distinzione di colore politico, i sindaci, organizzati dall'Anci, faranno sentire ai senatori le proprie doglianze. E chiaro a tutti, meno che agli amministratori comunali, che se la spesa pubblica va bastonata, gli enti locali debbono pagare come e più degli altri enti.
Se i comuni ottenessero di essere esenti o quasi dalla diminuzione delle spese loro imputate, è evidente che resteremmo ancora fermi alla partenza, come siamo fermi da mesi, perché le manovre (svolte prima dal governo Berlusconi, poi dal governo Monti) hanno sostanzialmente riguardato l'incremento del carico fiscale, non la decapitazione della spesa pubblica.
 L'ascesa incontrollata della spesa periferica si può far risalire al progressivo decadere dei controlli sugli enti locali. In età liberale, nel ventennio, successivamente fino all'istituzione delle regioni, la cosiddetta tutela sui comuni (ma non solo: pure sulle province, sui consorzi, sulle ex opere pie, istituzioni di assistenza e beneficenza, ospedali) era svolta dalla giunta provinciale amministrativa.
La presenza in essa del prefetto e di alti funzionari di prefettura (c'erano poi membri elettivi) era garanzia che il controllo, non solo di legittimità, ma altresì nel ... (articolo ItaliaOggi del 19.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALISocietà pubbliche in house al bivio. Uscita di scena per chi riceve l'affidamento diretto di servizi dalla p.a.. Escluse le quotate.
Società pubbliche in house al tramonto. Il decreto sulla spending review (95/2012), all'articolo 4, programma l'uscita di scena delle società che ricevono l'affidamento diretto di servizi da parte della pubblica amministrazione e ridimensiona i consigli di amministrazione.
Si chiude qualche rubinetto della spesa pubblica (i compensi degli amministratori, da scegliere in prevalenza tra dipendenti pubblici) e si apre al mercato. Le novità non si applicano, però, alle società quotate e alle loro controllate. Il primo obiettivo è, dunque, ridurre il numero delle società in house esistenti, quando le stesse non prestino almeno il 10% (in termini di fatturato) delle proprie attività a favore di soggetti diversi dalla pubblica amministrazione, con alcune eccezioni individuate dalla legge o da successivo dpcm, motivate da particolare esigenze di interesse pubblico.
Le società in house se non stanno sul mercato devono eclissarsi e i servizi devono essere gestiti da soggetti scelti su base concorrenziale. Così si prevedono effetti finanziari positivi, che potranno essere accertati a seguito dell'avvenuto scioglimento delle società in house con conseguente affidamento del servizio a terzi nel rispetto della normativa nazionale e comunitaria, ovvero della alienazione delle partecipazioni. Vediamo dunque le misure previste per il settore delle public company.
Nel dettaglio l'ipotesi è quella delle società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni istituzionali (articolo 1, dlgs 165/2001), che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento.
Queste società, che lavorano quasi esclusivamente per il settore pubblico, vanno incontro a una delle seguenti alternative: sono sciolte entro il 31.12.2013; oppure le partecipazioni devono essere ... (articolo ItaliaOggi Sette del 16.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

SEGRETARI COMUNALI: Personale. Ricambio fermo all'80% delle uscite dell'anno precedente. Un tetto ai nuovi ingressi per i segretari comunali.
Una disposizione a sorpresa che si ritrova nella bozza del decreto spending review riguarda i segretari comunali laddove si prevede (all'articolo 14, comma 6, del Dl 95/2012) che: «A decorrere dal 2012 le assunzioni dei segretari comunali e provinciali sono autorizzate con le modalità di cui all'articolo 66, comma 10, del decreto-legge 25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 06.06.2008, n. 133 per un numero di unità non superiore all'80 per cento a quelle cessate dal servizio nel corso dell'anno precedente».
Si tratta di fatto di una norma che limita il turn-over dei segretari nella misura dell'ottanta per cento, norma che si ricollega a quelle in materia di personale statale .
Una norma tuttavia che, se convertita in legge, avrà effetti sia a breve che a lungo termine sulla categoria ma anche sull'organizzazione degli enti locali .
A breve termine, la disposizione andando a limitare la possibilità di scelta dei sindaci non potrà che determinare un ampliamento delle convenzioni di segreteria già esistenti. Convenzioni che, spesso costituite da tre o quattro comuni, già oggi con enorme difficoltà assicurano un servizio ottimale ed efficiente anche se tale forma associativa comunque per sua natura non può consentire di ovviare alla carenza ormai atavica della figura in determinate aree del territorio nazionale.
A lungo termine la norma sancisce, di fatto, la configurazione della categoria dei segretari, come categoria ad esaurimento con la conseguenza che per gli enti locali si porrà, quanto prima, il problema del vertice organizzativo atteso che la dotazione dei segretari, via via, sarà sempre più numericamente insufficiente a garantire il servizio.
Questa scelta, infine, appare in contrasto con la rivalutazione della figura del segretario che sembrava emergere dal disegno di legge anti-corruzione recentemente licenziato dalla Camera che attribuisce maggiori funzioni ai segretari.
In realtà, a ben vedere, la scelta di ridurre il turn-over dei segretari comunali si spiega con il collegamento con la disciplina sempre prevista dal decreto sulla spending review.
Il decreto legge sempre in materia di gestioni associate, sostanzialmente lascia presagire un aumento delle unioni e delle convenzioni che di fatto determinerà una riduzione di sedi di segreteria, almeno quelle singole, nei piccoli comuni.
Questo nonostante sia noto che le convenzioni di segreteria sono oggetto di disciplina speciale che deve essere derogata espressamente dalla normativa generale.
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L'operazione
01 | IL TAGLIO
Già da quest'anno il decreto sulla spending review n. 2 (Dl 95/2012) ha messo un tetto alle assunzioni di segretari comunali.
I nuovi ingressi non devono superare l'80% di quelli fuoriusciti nell'anno precedente
02 | GLI EFFETTI
A breve termine i sindaci saranno spinti ad ampliare il ricorso alle convenzioni di segreteria già esistenti, di solito costituite fra tre-quattro comuni.
A lungo andare potrebbero sorgere problemi nel reperimento di questa figura professionale (articolo Il Sole 24 Ore del 16.07.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decreto Sviluppo. Ora è possibile sostituire pareri e nullaosta con le dichiarazioni dei professionisti.
Dia con autocertificazione. Restano escluse le autorizzazioni per paesaggio, ambiente e sicurezza.

Semplificare, snellire, velocizzare. Con il decreto legge 83 del 22 giugno (il decreto sviluppo), il Governo ritorna sulla disciplina dei titoli edilizi nel tentativo di dare nuovo impulso alle costruzioni e all'economia.
In buona sostanza, si tratta di estendere alla Dia la possibilità, già prevista per la Scia, di autocertificare il ricorso dei presupposti e delle condizioni per lo svolgimento dell'attività edilizia che la legge (e ora anche i regolamenti) demandano al parere o all'esecuzione di verifiche preventive di organi o enti appositi (si veda anche l'articolo a fianco).
Se la modifica è di poco conto per la Scia (sono ora autocertificabili anche le verifiche previste dai regolamenti, quali il piano regolatore e il regolamento edilizio) perché si limita a chiarire quanto poteva essere fonte di dubbio, per la Dia (cui sono soggette anche le opere di ristrutturazione e che in alcune Regioni consente la realizzazione di tutti gli interventi edilizi) l'innovazione è rilevante e non è detto che sia a tutta vantaggio del privato.
La novella dell'articolo 23, comma 1-bis, del testo unico dell'edilizia, stabilisce dunque che «nel caso in cui la normativa vigente preveda l'acquisizione di atti o pareri di organi e enti appositi, ovvero l'esecuzione di verifiche preventive... essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di tecnici abilitati relative alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti».
Con l'eccezione dei pareri relativi ai vincoli e ai vari profili della sicurezza pubblica, la cui assunzione preventiva continua a essere necessaria per l'avvio dei lavori, la nuova disciplina modifica il rapporto pubblico-privato. Mentre prima l'interessato poteva limitarsi a presentare la Dia demandando all'amministrazione di assumere –nei 30 giorni entro cui il comune può diffidare l'inizio dei lavori– i pareri e le verifiche previste, ora di queste attività (alcune con una forte componente discrezionale, si pensi ad esempio, al parere della commissione edilizia) deve farsi comunque carico il privato, assumendosi ulteriori responsabilità e spese tecnico-professionali.
La semplificazione parrebbe così forse più a vantaggio della Pa, anche se la nuova funzione di controllo rispetto alle attestazioni del privato può essere più rischiosa in termini di danni da risarcire qualora sia disposto un ordine di non eseguire i lavori che sia riconosciuto illegittimo dal Tar (si veda l'articolo a fianco).
Scia promossa
La nuova previsione, che comunque rafforza il ruolo del privato nella dialettica con l'amministrazione, giunge in un momento in cui si sono diradati i dubbi sulla legittimità dell'intervento statale nella disciplina dell'edilizia. La Corte costituzionale, con la decisione 164 depositata lo scorso 27 giugno, ha infatti chiarito che la Scia attiene ai livelli essenziali delle prestazioni che un cittadino vanta nei confronti della Pa ed è dunque materia riservata alla competenza esclusiva dello Stato. La sentenza ha così rigettato i ricorsi promossi da Valle d'Aosta, Toscana, Liguria, Emilia Romagna e Puglia per l'illegittimità del Dl 78/2010 che aveva introdotto la Scia.
Di conseguenza, le diverse leggi regionali che disciplinano compiutamente la procedura della Dia in modo difforme dalla novella statale sono da quest'ultima integrate, dovendosi ritenere che la possibilità di autocertificare i pareri, gli atti e le verifiche è prevista in relazione ai «diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».
Resta il rammarico che interventi non secondari rispetto alla disciplina edilizia vengano disposti attraverso la decretazione d'urgenza, mettendo a rischio la coerenza interna del sistema e creando -come accade ora- l'incertezza che si sviluppa nei 60 giorni che vanno dalla pubblicazione del decreto alla sua conversione in legge .
Senza peraltro che da questa innovazione si possa ragionevolmente attendere un contributo al rilancio dell'economia.
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Dalla domanda ai controlli
01 | LA DIA
La denuncia di inizio attività è una comunicazione che il proprietario dell'immobile o chi ne ha titolo presenta al Comune almeno 30 giorni prima dell'inizio dei lavori, corredata da una relazione dettagliata delle opere da eseguire e dagli elaborati grafici sottoscritti da un progettista abilitato
02 | I LAVORI
La Dia è necessaria per le opere di ristrutturazione. La sua applicazione è definita a livello regionale. In alcune Regioni la Dia è necessaria per tutti gli interventi edilizi, anche in sostituzione del permesso di costruire. Sono esclusi quelli liberi quali la manutenzione ordinaria.
03 | LA PROCEDURA
Nella relazione di accompagnamento il progettista deve asseverare la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici adottati o approvati e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie.
04 | LA SEMPLIFICAZIONE
Il decreto sviluppo
(Dl 83/2012, ora in fase di conversione alla Camera) ha esteso alla Dia la possibilità già prevista per la Scia di autocertificare nella relazione del tecnico l'esistenza dei presupposti che legittimano l'intervento edilizio, ovvero i pareri e i nullaosta non legati a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali.
05 | I CONTROLLI
Resta al Comune il compito di controllare le autocertificazioni, con l'onere di risarcire i danni in caso di stop illegittimi.
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Gli oneri
01|I TECNICI
I professionisti abilitati che autocertificano, attestano o asseverano gli atti e i pareri a corredo di una Scia o di una Dia si assumono l'onere con proprie valutazioni anche discrezionali di valutare la compatibilità dell'intervento sostituendosi ai giudizi degli enti preposti.
02|I COMUNI
L'ente pubblico non può più limitarsi a evidenziare eventuali contrasti con la normativa vigente. Deve individuare con precisioni eventuali errori. Se sbaglia, può essere condannato a pagare un indennizzo per aver bloccato i lavori in modo illegittimo.
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Sui progettisti ora gravano più responsabilità. L'impatto. Devono verificare la compatibilità
I COMUNI/ Più attenzione alla vigilanza: l'ente rischia di dover pagare un risarcimento se blocca in modo illegittimo i lavori già avviati.
Forse per il Comune è più comodo verificare la correttezza delle autocertificazioni del privato anziché attestare la rispondenza del progetto alle indicazioni di leggi e regolamenti, ma in questo modo aumenta per l'ente la responsabilità nel caso in cui il punto di vista del privato sia erroneamente disatteso bloccando la realizzazione di lavori che invece erano in regola.
Il decreto sviluppo estende alla Dia il principio di semplificazione già previsto per la Scia, secondo cui gli atti, i pareri e le verifiche preventive di organi o di enti appositi da acquisire sono sostituiti da autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di tecnici abilitati.
I tecnici devono così garantire la sussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge, dagli strumenti urbanistici approvati o adottati e dai regolamenti edilizi, sostituendo, responsabilmente, le proprie valutazioni a quelle dell'amministrazione.
Il Dl 83/2012, in ogni caso, fa salve le verifiche successive delle amministrazioni competenti, le quali, se riscontrano errori nelle valutazioni dei tecnici, possono diffidare dal realizzare l'intervento.
Ebbene, il nuovo procedimento certamente fa ricadere sui tecnici importanti responsabilità ma, a ben vedere, consente all'interessato di avere qualche garanzia in più sull'attuabilità dell'intervento e maggiori certezze riguardo al risarcimento del danno correlato a provvedimenti inibitori illegittimi della pubblica amministrazione.
L'amministrazione, infatti, non potrà diffidare un intervento limitandosi ad evidenziare un presunto contrasto con la normativa vigente, ma dovrà argomentare riguardo all'errata valutazione da parte del tecnico del privato.
A fronte di ciò, in sede giudiziale, una volta che è stato annullato un provvedimento di inibitoria illegittimo, sarà più semplice ottenere la condanna dell'ente a risarcire il danno dovuto per l'ingiustificata sospensione dei lavori.
La giustizia amministrativa ha già evidenziato che, a seguito dell'annullamento di un provvedimento di inibitoria, l'amministrazione può verificare nuovamente la sussistenza dei requisiti per l'attività costruttiva, ma è responsabile dei danni causati dall'illegittima sospensione dei lavori (Tar Milano-Lombardia sezione II, 05.04.2011, n. 901; Tar Milano-Lombardia, sezione II, 15.04.2010, n. 1092).
Per ottenere la condanna dell'amministrazione, secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, nemmeno è richiesto un particolare impegno probatorio: l'interessato può limitarsi ad invocare l'illegittimità dell'atto quale indice presuntivo di colpa. Spetterà, per contro, all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un "errore scusabile" o che comunque non fosse esigibile una alternativa condotta lecita (Consiglio di Stato, sezione IV, 31.01.2012, n. 483; Consiglio di Stato, sezione V, 06.12.2010, n. 8549).
A fronte di un provvedimento inibitorio illegittimo, mediante il quale siano state confutate considerazioni tecniche, poi giudicate corrette e conformi alla legge, è evidente che l'amministrazione difficilmente potrà sostenere di essere ricaduta in un errore scusabile e che una diversa valutazione non fosse possibile.
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L'iter. Esclusi gli atti legati a beni vincolati. Resta ancora necessario l'ok del sovrintendente.
La semplificazione che consente anche nella Dia di sostituire i pareri o le verifiche preventive necessarie con un'autocertificazione del tecnico abilitato prevista dal decreto sviluppo ha un limite: non si applica a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e agli atti delle amministrazioni preposte alla tutela di altri interessi preminenti, specificamente identificati dalla disposizione.
Con questa operazione il legislatore, rilevando che le leggi regionali prevedono per analoghi interventi Dia o Scia in termini spesso confusi ed alternativi, ha espressamente inteso rimettere ordine quantomeno procedimentale, dettando regole di semplificazione analoghe per i due istituti.
Il nuovo comma 1-bis dell'articolo 23 del Dpr 380/2001, introdotto dall'articolo 13 del decreto legge, prevede dunque che anche per la Dia i tecnici abilitati debbano, con la propria attestazione, garantire la sussistenza dei requisiti e presupposti previsti dalla legge, dagli strumenti urbanistici approvati o adottati e dai regolamenti edilizi. Resta fermo il potere dell'amministrazione di verificare la correttezza delle valutazioni dei tecnici.
La modifica del Testo unico edilizia prevede, inoltre, che le denunce, corredate da tutti gli elaborati previsti, possano essere presentate mediante raccomandata con avviso di ricevimento, fatti salvi i procedimenti per i quali è previsto l'utilizzo esclusivo della modalità telematica, modalità che, sulla base di un regolamento da adottare su proposta del ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, dovrebbe diventare la via esclusiva per la presentazione delle denunce.
Il Governo ha, infine, modificato la disciplina della Scia, precisando che sono sostituiti da autocertificazioni, attestazioni, asseverazioni o certificazioni, non solo gli atti, i pareri e le verifiche preventive previsti da legge, ma anche quelli imposti da regolamenti.
Continua dunque il processo di semplificazione dei procedimenti amministrativi, basato sulla limitazione dell'obbligo di ottenere un'autorizzazione preliminare ai soli casi indispensabili e sull'introduzione del principio comunitario di tacita autorizzazione (direttiva 2006/123/CE, attuata con Dlgs 59/2010) (articolo Il Sole 24 Ore del 16.07.2012).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Fra le cause di esclusione dalle gare pubbliche devono essere ricomprese, oltre alle ipotesi previste dall’art. 2359 C.C., anche quelle non codificate di collegamento sostanziale le quali, attestando la riconducibilità dei soggetti partecipanti alla procedura ad un unico centro decisionale, causano o possono causare la vanificazione dei principi generali in tema di par condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della competizione, risultando ininfluente che la rilevanza del collegamento anche sostanziale sia stata o meno esplicitata nel bando di gara.
In tal modo si tende ad evitare che il corretto e trasparente svolgimento delle gare di appalto ed il libero gioco della concorrenza possano essere irrimediabilmente alterati dalla eventuale presentazione di offerte che, pur provenendo formalmente da due o più imprese, siano tuttavia riconducibili ad un unico centro di interesse: la ratio di tale previsione è quella di evitare il rischio di ammissione alla gara di offerte provenienti da soggetti che, in quanto legati da stretta comunanza di interesse caratterizzata da una certa stabilità, non sono ritenuti, proprio per tale situazione, capaci di formulare offerte caratterizzate dalla necessaria indipendenza, serietà ed affidabilità, coerentemente quindi ai principi di imparzialità e buon andamento cui deve ispirarsi l’attività della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 della Costituzione.
E’ stato evidenziato che, mentre in assenza di situazioni di controllo di cui all’art. 2359 C.C. o di altri indici rivelatori di un collegamento sostanziale, non può dirsi comprovata l’esistenza di un unico centro di interesse tra due (o più) soggetti distinti, tale da consentire uno scambio di informazione, è sufficiente la presenza di significativi elementi rilevatori di un collegamento sostanziale tra le imprese affinché sorga l’onere in capo all’amministrazione di verificare se essi sia stato tale da alterare il normale, imparziale e concorrenziale meccanismo della gara; inoltre, mentre nelle ipotesi di situazioni di controllo ex art. 10, comma 1-bis, della legge 11.02.1994, n. 109, opera un meccanismo di presunzione iuris et de iure circa la sussistenza della turbativa del corretto svolgimento della procedura concorsuale, nel caso di collegamento sostanziale deve essere provata in concreto l’esistenza di elementi oggettivi concordanti, tali da ingenerare il pericolo per i principi di segretezza, serietà delle offerte e par condicio dei concorrenti.

Occorre rilevare al riguardo che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, fra le cause di esclusione dalle gare pubbliche devono essere ricomprese, oltre alle ipotesi previste dall’art. 2359 C.C., anche quelle non codificate di collegamento sostanziale le quali, attestando la riconducibilità dei soggetti partecipanti alla procedura ad un unico centro decisionale, causano o possono causare la vanificazione dei principi generali in tema di par condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della competizione, risultando ininfluente che la rilevanza del collegamento anche sostanziale sia stata o meno esplicitata nel bando di gara (C.d.S., sez. V, 06.04.2009, n. 2139; 08.09.2008, n. 4267; sez. VI, 05.08.2004, n. 5464; 13.06.2005, n. 3089), non rinvenendosi a tal fine alcun ostacolo dal contenuto delle disposizioni di cui al ricordato art. 2359 C.C. (C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 673; sez. V, 24.08.2010, n. 5923; sez. VI, 26.02.2008, n. 1094).
In tal modo si tende ad evitare che il corretto e trasparente svolgimento delle gare di appalto ed il libero gioco della concorrenza possano essere irrimediabilmente alterati dalla eventuale presentazione di offerte che, pur provenendo formalmente da due o più imprese, siano tuttavia riconducibili ad un unico centro di interesse: la ratio di tale previsione è quella di evitare il rischio di ammissione alla gara di offerte provenienti da soggetti che, in quanto legati da stretta comunanza di interesse caratterizzata da una certa stabilità, non sono ritenuti, proprio per tale situazione, capaci di formulare offerte caratterizzate dalla necessaria indipendenza, serietà ed affidabilità, coerentemente quindi ai principi di imparzialità e buon andamento cui deve ispirarsi l’attività della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 della Costituzione.
E’ stato evidenziato che, mentre in assenza di situazioni di controllo di cui all’art. 2359 C.C. o di altri indici rivelatori di un collegamento sostanziale, non può dirsi comprovata l’esistenza di un unico centro di interesse tra due (o più) soggetti distinti, tale da consentire uno scambio di informazione (C.d.S., sez. VI, 27.07.2011, n. 4477), è sufficiente la presenza di significativi elementi rilevatori di un collegamento sostanziale tra le imprese affinché sorga l’onere in capo all’amministrazione di verificare se essi sia stato tale da alterare il normale, imparziale e concorrenziale meccanismo della gara (C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 673); inoltre, mentre nelle ipotesi di situazioni di controllo ex art. 10, comma 1-bis, della legge 11.02.1994, n. 109, opera un meccanismo di presunzione iuris et de iure circa la sussistenza della turbativa del corretto svolgimento della procedura concorsuale, nel caso di collegamento sostanziale deve essere provata in concreto l’esistenza di elementi oggettivi concordanti, tali da ingenerare il pericolo per i principi di segretezza, serietà delle offerte e par condicio dei concorrenti (C.d.S., sez. V, 17.09.2009, n. 5578; sez. VI, 06.09.2010, n. 6469) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.07.2012 n. 4189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Se una istanza viene respinta da un assessore, si tratta di un diniego illegittimo per incompetenza e non di un parere politico.
Nel caso esaminato dalla sentenza 18.07.2012 n. 1022 del TAR Veneto, Sez. III, un assessore comunale rigettava l'istanza di integrazione retta alberghiera presentata da un cittadino, che presentava un ricorso al TAR, eccependo l'incompetenza dell'assessore a rispondere.
La difesa dell’amministrazione eccepiva l’inammissibilità della doglianza, atteso l’evidente carattere non provvedimentale, ma meramente politico della risposta inviata dal Comune.Il TAR ha accolto il ricorso, dicendo che: "Ritiene invece il Collegio che la risposta si confronti con una domanda il cui contenuto risulta inequivocabilmente quello di una istanza all’integrazione della retta, alla quale, semmai, l’amministrazione avrebbe dovuto replicare chiedendo che fosse l’attuale ricorrente, in qualità di richiedente, ad avanzare la domanda, proposta invece, come detto, dall’attuale difensore; invece, l’aver risposto in senso negativo qualifica la nota assessorile come arresto procedimentale immediatamente lesivo della posizione della richiedente, legittimandola dunque all’impugnazione. Il ricorso è dunque fondato, dovendosi riesaminare la domanda presentata da parte dell’organo comunale competente".
Dunque l'assessore non può firmare quello che compete ai funzionari (link a http://venetoius.myblog.it).

APPALTI: Quali certificazioni di qualità consentono di godere del beneficio della riduzione della cauzione?
Per quanto riguarda il dimezzamento della cauzione provvisoria deve ribadirsi che sono idonee a far conseguire il beneficio della riduzione le certificazioni di qualità che si riferiscono agli aspetti gestionali dell’impresa nel suo complesso.
La certificazione di qualità non riguarda il servizio o il prodotto finale erogato dall’impresa, quanto piuttosto la qualità dei processi operativi di questa considerati nel loro complesso. (cfr. C.G.A. n. 511 del 2012).
Del resto l’art. 4, comma 2, del D.P.R. n. 34 del 2000 (come oggi l’art. 63, comma 2, del D.P.R. n. 207 del 2010) prevede che “La certificazione del sistema di qualità aziendale e la dichiarazione della presenza degli elementi significativi e tra loro correlati del sistema di qualità aziendale si intendono riferite agli aspetti gestionali dell’impresa nel suo complesso, con riferimento alla globalità delle categorie e classifiche” (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - C.G.A.R.S., sentenza 18.07.2012 n. 652 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L'impresa che abbia richiesto in termini la verifica triennale del proprio attestato SOA può partecipare alle gare indette dopo il triennio anche se la verifica sia compiuta successivamente.
La proroga a cinque anni dell'efficacia delle attestazioni SOA disposta dall'art. 7, comma 1, della legge 01.08.2002, n. 166 e dall'art. 1 del d.P.R. 10.03.2004, n. 93, è subordinata alla richiesta di verifica triennale ed al suo positivo esito. L'impresa che abbia richiesto in termini la verifica triennale del proprio attestato SOA può partecipare alle gare indette dopo il triennio anche se la verifica sia compiuta successivamente, fermo restando che l'efficacia dell'aggiudicazione è subordinata, ai sensi dell'art. 11, comma 8, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, all'esito positivo della verifica stessa. Viceversa l'impresa che abbia presentato la richiesta fuori termine può partecipare alle gare soltanto dopo la data di positiva effettuazione della verifica (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 18.07.2012 n. 27 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTINelle gare di appalto sussiste il divieto per l’Amministrazione, sia a seguito di dichiarazioni correttive del partecipante, sia in conseguenza della sua attività interpretativa volta a riscontrare la reale volontà dell’offerente, di sottoporre l’offerta ad operazioni manipolative o di adattamento che non siano state previste dalle disposizioni di gara, determinandosi altrimenti una violazione della “par condicio” dei concorrenti e dell’affidamento da essi riposto nelle regole di gara e nella predisposizione delle rispettive offerte economiche.
Non può quindi ritenersi consentito alle Commissioni giudicatrici di modificare una delle componenti dell’offerta sostituendosi, anche solo parzialmente, alla volontà dell’offerente e interpretando la sua stessa volontà frutto di scelte insindacabili.
Mentre si è ritenuto possibile procedere alla correzione di un errore emendabile con una mera operazione matematica sulla base degli altri elementi contenuti nell’offerta economica presentata (come nel caso in cui il prezzo complessivo dell’offerta per un singolo bene non corrisponde, per un mero errore di calcolo, alla moltiplicazione del prezzo unitario offerto per il numero di pezzi richiesto). E sempre che le disposizioni di gara non abbiano inteso dare comunque esclusiva rilevanza al prezzo complessivo dell’offerta (o viceversa al prezzo unitario).

Si deve ricordare che, per principio pacifico (fra le più recenti, Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1699 del 26.03.2012), nelle gare di appalto sussiste il divieto per l’Amministrazione, sia a seguito di dichiarazioni correttive del partecipante, sia in conseguenza della sua attività interpretativa volta a riscontrare la reale volontà dell’offerente, di sottoporre l’offerta ad operazioni manipolative o di adattamento che non siano state previste dalle disposizioni di gara, determinandosi altrimenti una violazione della “par condicio” dei concorrenti e dell’affidamento da essi riposto nelle regole di gara e nella predisposizione delle rispettive offerte economiche.
Non può quindi ritenersi consentito alle Commissioni giudicatrici di modificare una delle componenti dell’offerta sostituendosi, anche solo parzialmente, alla volontà dell’offerente e interpretando la sua stessa volontà frutto di scelte insindacabili.
Mentre si è ritenuto possibile procedere alla correzione di un errore emendabile con una mera operazione matematica sulla base degli altri elementi contenuti nell’offerta economica presentata (come nel caso in cui il prezzo complessivo dell’offerta per un singolo bene non corrisponde, per un mero errore di calcolo, alla moltiplicazione del prezzo unitario offerto per il numero di pezzi richiesto). E sempre che le disposizioni di gara non abbiano inteso dare comunque esclusiva rilevanza al prezzo complessivo dell’offerta (o viceversa al prezzo unitario) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 17.07.2012 n. 4176 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul potere sanzionatorio dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e fornitura ex art. 48, c. 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, in sede di controlli sul possesso dei requisiti di partecipazione.
L'art. 48, c. 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, prevede che le stazioni appaltanti richiedono, tra gli altri, all'aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria di comprovare il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico organizzativa eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito.
Qualora tale prova non sia fornita ovvero non confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell'offerta l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e fornitura può adottare determinati provvedimenti sanzionatori. In particolare, può disporre la sospensione dell'impresa, per un periodo da uno a dodici mesi, dalla partecipazione alle procedure di affidamento, nonché irrogare una sanzione amministrativa fino ad euro 25.822,00 ovvero, in presenza di informazioni o documenti falsi, fino ad euro 51.545,00.
La suddetta normativa non impone all'Autorità, di svolgere accertamenti ulteriori, rispetto alla falsità della dichiarazione, volti a verificare la sussistenza del requisito oggettivo della gravità della violazione e a prendere in esame la "situazione soggettiva del dichiarante", ma può soltanto accertare se la notizia comunicata dalla stazione appaltante sia inconferente ovvero se la falsità sia innocua o se la stessa abbia ad oggetto fatti e circostanze irrilevanti ai fini della aggiudicazione della gara (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.07.2012 n. 4160 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: La cauzione definitiva deve essere valida ed operante sino alla data di collaudo provvisorio a prescindere dal fatto che quest’ultimo intervenga o meno entro il termine stabilito in astratto per il suo espletamento.
L’articolo 30 della legge 109/1994 come recepita in Sicilia –applicabile ratione temporis alla vicenda esaminata dal CGA- sancisce chiaramente che la cauzione definitiva deve essere valida ed operante sino alla data di collaudo provvisorio (molto chiaro il dettato di legge che non a caso si esprime nel senso che la garanzia deve cessare di avere effetto solo alla data di emissione del certificato di collaudo provvisorio), a prescindere dal fatto che quest’ultimo intervenga o meno entro il termine stabilito in astratto per il suo espletamento.
Ne consegue che la dichiarazione preventiva di impegno del garante, quanto alla vigenza temporale, doveva necessariamente conformarsi alla concreta realizzazione di un evento (intervento del collaudo provvisorio), non bastando all’uopo l’indicazione di un termine prefissato di durata, seppur in via astratta superiore al termine entro il quale, di norma, l’evento (collaudo) dovrebbe realizzarsi (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - C.G.A.R.S., sentenza 16.07.2012 n. 631 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe sanzioni amministrative pecuniarie previste dall’art. 42 d.P.R. 380/2001, per i casi (tra l’altro) di ritardato versamento del contributo di costruzione, sono soggette, in mancanza di una diversa disciplina legale, al termine di prescrizione di cinque anni, stabilito dall'art. 28 della legge 24.11.1981, n. 689 e decorrente, in relazione a ciascuna fattispecie di ritardo, dal giorno dell'intervenuto pagamento del contributo.
Le sanzioni amministrative pecuniarie previste, dapprima, dall'art. 3 della legge 28.02.1985, n.47 (abrogato a decorrere dal 30.06.2002 dall'art. 136, comma 2, lett. f), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380), ora dall’art. 42 d.P.R. cit., per i casi (tra l’altro) di ritardato versamento del contributo di costruzione, sono soggette, in mancanza di una diversa disciplina legale, al termine di prescrizione di cinque anni, stabilito dall'art. 28 della legge 24.11.1981, n. 689 e decorrente, in relazione a ciascuna fattispecie di ritardo, dal giorno dell'intervenuto pagamento del contributo (così, Cassazione Sez. I, sent. n. 23633 del 06-11-2006; TAR Lombardia, Milano, II, 08.09.2011 n. 2189) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.07.2012 n. 2002 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Se il lavoratore è depresso il licenziamento è illegittimo.
La sentenza 12.07.2012 n. 11798, della Corte di Cassazione, ha dichiarato che il provvedimento, se preso nei confronti di un dipendente che abbia disturbi di ansia, soffra di attacchi di panico e abbia una labilità emotiva esasperata, è inefficace.
E ciò, nonostante sia stata omessa la tempestiva comunicazione della malattia. Il lavoratore infatti sotto questo punto di vista è tutelato dalla disciplina del contratto collettivo, per la quale in caso di patologia caratterizzata da ansia e panico non è possibile sanzionare il dipendente sul piano disciplinare.
Quando, poi, la labilità emotiva perdura nel tempo, si aggrava, e sfocia in una vera e propria sintomatologia depressiva, vi è un vero e proprio giustificato impedimento idoneo ad escludere la sanzionabilità disciplinare dei fatti addebitati.
Nel caso di specie c’era stata questa evoluzione della patologia, riconducibile tra l’altro al tempo del licenziamento: probabilmente la condotta del lavoratore era imputabile al suo fragile equilibrio psicologico ma, trattandosi di una vera e propria malattia, il licenziamento è illegittimo e al lavoratore viene riconosciuta tutela in base al contratto collettivo (tratto da www.diritto.it).

APPALTIAi fini della individuazione del dies a quo per la proposizione del ricorso, deve farsi riferimento alla data di pubblicazione (ndr: del bando di gara) nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.
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L'immediata impugnazione delle clausole del bando è ammissibile laddove queste siano oggettivamente ed immediatamente escludenti della possibile partecipazione alla gara del ricorrente, in relazione, come nel caso in questione, all'illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione.
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Se non può considerarsi irragionevole restringere il novero delle imprese che possano partecipare alla gara a quelle in grado di fornire le necessarie credenziali di affidabilità, tuttavia, tenuto conto del tenore altamente specialistico del servizio oggetto di gara e della peculiarità delle modalità esecutive richieste, le due clausole, come sopra richiamate, operano in concreto un effetto selettivo –in ordine ai requisiti congiuntamente richiesti a pena di esclusione, delle capacità tecniche ed economiche-finanziarie necessarie per l’affidamento in questione– del tutto sproporzionato e irragionevole, poiché in patente violazione dei limiti della necessità, idoneità ed adeguatezza, nei quali si compendia la nozione di proporzionalità della previsione rispetto allo scopo selettivo perseguito, ai quali soggiace la facoltà della stazione appaltante di introdurre requisiti di capacità economica e tecnico-professionale diversi o comunque più rigorosi rispetto a quelli previsti dalla legge, ai sensi degli artt. 41 e 42 del d.lgs. 163 del 2006.

In via preliminare, deve essere respinta l’eccezione di tardività della proposizione del ricorso opposta dall’Amministrazione resistente in considerazione della pubblicazione, nel caso di specie “obbligatoria”, del bando sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE, avvenuta il 31.01.2012.
Al riguardo, è sufficiente osservare che la disposizione di cui all’art. 66, comma 8, del d.lgs. n. 163 del 2006 secondo cui «gli effetti giuridici che l’ordinamento connette alla pubblicità in ambito nazionale decorrono dalla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana» assegna a quest’ultima forma di pubblicazione una generale ed infungibile funzione di pubblicità legale da cui dipende la tutela dell’affidamento dei terzi e del connesso principio di certezza dei termini entro cui esercitare i propri diritti.
Pertanto, ai fini della individuazione del dies a quo per la proposizione del ricorso, deve farsi riferimento alla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (cfr. ex plurimis TAR Veneto, sez. I, 02.12.2011, n. 1791), anziché a quella (anteriore) di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’UE, a prescindere dall’obbligatorietà o meno di tale incombente.
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Del pari, non può essere accolta l’ulteriore eccezione svolta in ordine alla pretesa inammissibilità del ricorso fondata sull’asserito difetto di prova, da parte della ricorrente, della concreta lesività delle disposizioni della legge di gara impugnate, con conseguente carenza di interesse a ricorrere.
Infatti, l'immediata impugnazione delle clausole del bando è ammissibile laddove queste siano oggettivamente ed immediatamente escludenti della possibile partecipazione alla gara del ricorrente, in relazione, come nel caso in questione, all'illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Roma, sez. II, 18.04.2012, n. 3552), non sussistendo nemmeno, a carico di colui che intenda contestarle un onere di partecipazione alla procedura di gara (cfr. Cons. di stato, sez. III, 03.10.2011, n. 5421).
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Se non può considerarsi irragionevole restringere il novero delle imprese che possano partecipare alla gara a quelle in grado di fornire le necessarie credenziali di affidabilità (cfr. Cons. di stato, sez. V, 02.02.2010, n. 426), tuttavia, tenuto conto del tenore altamente specialistico del servizio oggetto di gara e della peculiarità delle modalità esecutive richieste, le due clausole, come sopra richiamate, operano in concreto un effetto selettivo –in ordine ai requisiti congiuntamente richiesti a pena di esclusione, delle capacità tecniche ed economiche-finanziarie necessarie per l’affidamento in questione– del tutto sproporzionato e irragionevole, poiché in patente violazione dei limiti della necessità, idoneità ed adeguatezza, nei quali si compendia la nozione di proporzionalità della previsione rispetto allo scopo selettivo perseguito, ai quali soggiace la facoltà della stazione appaltante di introdurre requisiti di capacità economica e tecnico-professionale diversi o comunque più rigorosi rispetto a quelli previsti dalla legge, ai sensi degli artt. 41 e 42 del d.lgs. 163 del 2006 (cfr. TAR Veneto, sez. I, 09.03.2012, n. 345) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 12.07.2012 n. 985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La comunicazione via fax rappresenta una modalità tipica di comunicazione di notizie e informazioni ai partecipanti alle gare d'appalto ed è uno strumento idoneo ai fini della decorrenza del termine di decadenza.
L'aggiudicazione provvisoria, caratterizzandosi per la sua natura endoprocedimentale, è un provvedimento instabile i cui effetti interinali non impongono che la stessa sia preceduta dall'avviso di cui all'art. 7 L. 241/1990.

La comunicazione via fax è espressamente contemplata dall'art. 77 del d.lgs. n. 163/2006 quale modalità tipica di comunicazione di notizie e informazioni ai partecipanti alle gare d'appalto e rappresenta uno dei modi in cui può concretamente svolgersi la cooperazione tra i soggetti, in quanto essa viene attuata mediante l'utilizzo di un sistema basato su linee di trasmissione di dati ed apparecchiature che consentono di poter documentare sia la partenza del messaggio dall'apparato trasmittente che, attraverso il cosiddetto rapporto di trasmissione, la ricezione del medesimo in quello ricevente. Tali modalità, garantite da protocolli universalmente accettati, indubbiamente ne fanno uno strumento idoneo a garantire l'effettività della comunicazione.
Posto, quindi, che gli accorgimenti tecnici che caratterizzano il sistema garantiscono, in via generale, una sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne consegue non solo l'idoneità del mezzo a far decorrere termini perentori, ma anche che un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente, senza che colui che ha inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova. Semmai la prova contraria può solo concernere la funzionalità dell'apparecchio ricevente; ma questa non può che essere fornita da chi afferma la mancata ricezione del messaggio.
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L'aggiudicazione provvisoria, caratterizzandosi per la sua natura endoprocedimentale, è considerata, dalla consolidata giurisprudenza amministrativa, quale provvedimento instabile i cui effetti interinali non impongono che la stessa sia preceduta dall'avviso di cui all'art. 7 L. 241/1990.
L'aggiudicazione provvisoria, infatti, quale atto che determina una scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario della gara, non costituisce atto conclusivo del procedimento, facendo nascere in capo all'interessato un mera aspettativa alla conclusione del procedimento. Ne consegue che l'aggiudicazione provvisoria è per sua natura inidonea, al contrario dell'aggiudicazione definitiva, ad attribuire in modo stabile il bene della vita ed ad ingenerare il connesso legittimo affidamento che impone l'instaurazione del contraddittorio procedimentale prima della revoca in autotutela.
Muovendo da un pacifico orientamento giurisprudenziale, appare corretto sostenere che non sussiste l'obbligo dell'amministrazione di comunicare agli interessati l'avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 della citata le. n. 241 del 1990, giacché il procedimento è già stato avviato con l'atto di indizione della gara; procedimento al cui interno si colloca, appunto, l'aggiudicazione provvisoria e che è destinato a concludersi positivamente con l'aggiudicazione definitiva ovvero -com'è accaduto sostanzialmente nel caso di specie- negativamente, con la revoca dell' aggiudicazione provvisoria. Ne consegue, pertanto, che sotto tale profilo il provvedimento di revoca si presenta privo di tale vizio (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.07.2012 n. 4116 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Ai fini dell’individuazione del TAR competente a conoscere del ricorso avverso gli atti di una procedura di evidenza pubblica (ivi compresi eventuali provvedimenti di esclusione) deve aversi riguardo al luogo di produzione degli effetti diretti cui è preordinato l’atto finale della procedura, ossia all’ambito territoriale di esplicazione dell’attività dell’impresa aggiudicataria conseguente all’emanazione dell’atto di aggiudicazione e alla stipula contrattuale, e dunque al luogo di esecuzione dei lavori, indipendentemente dalla sede della stazione appaltante, dal luogo di svolgimento delle operazioni di gara e/o dalla sede dei partecipanti alla gara.
Premesso che a norma dell’art. 13, comma 1, Cod. proc. amm. tra i due criteri di riparto della competenza territoriale, quello del luogo della sede dell’autorità emanante, e quello del luogo di produzione degli effetti dell’atto impugnato, deve darsi la prevalenza a quest’ultimo in virtù del dato letterale costituito dall’uso dell’espressione “comunque”, rileva il Collegio che ai fini dell’individuazione del Tribunale amministrativo regionale competente a conoscere del ricorso avverso gli atti di una procedura di evidenza pubblica (ivi compresi eventuali provvedimenti di esclusione) deve aversi riguardo al luogo di produzione degli effetti diretti cui è preordinato l’atto finale della procedura, ossia all’ambito territoriale di esplicazione dell’attività dell’impresa aggiudicataria conseguente all’emanazione dell’atto di aggiudicazione e alla stipula contrattuale, e dunque al luogo di esecuzione dei lavori, indipendentemente dalla sede della stazione appaltante, dal luogo di svolgimento delle operazioni di gara e/o dalla sede dei partecipanti alla gara.
Dovendo nel caso di specie il lavori oggetto della gara d’appalto essere eseguiti interamente nell’ambito provinciale di Trento, correttamente nell’impugnata sentenza è stata affermata la competenza territoriale dell’adito Tribunale regionale di giustizia amministrativa a conoscere della controversia (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.07.2012 n. 4105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sicurezza degli impianti. Agibilità, mancanza senza presunzione di pericoli dell'attività produttiva.
La mancanza del certificato di agibilità nell’immobile occupato dalla società non autorizza affatto l’operatività di meccanismi presuntivi deponenti nel senso della esistenza di un’effettiva situazione di pericolo.
A seguito di sopralluogo del Comando di Polizia municipale il Dirigente del SUAP del Comune disponeva la sospensione dell’attività produttiva nell’immobile occupato dalla società, in quanto privo del certificato di agibilità ai sensi dell’art. 24 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, al fine di salvaguardare la pubblica e privata incolumità.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale la s.r.l. chiedendone l’annullamento, previa concessione di idonee misure cautelari;
- innanzitutto, è stata dedotto il difetto di motivazione in merito alla sussistenza del presupposto dell’urgenza di provvedere; da tanto conseguirebbe l’omessa attivazione delle garanzie partecipative sancite dalla legge 07.08.1990 n. 241;
- con il secondo motivo è stato evidenziato che la ricorrente in data 10.03.2009 aveva presentato istanza per il rilascio del certificato di agibilità, sulla quale, anteriormente all’adozione del provvedimento impugnato, si era formato il silenzio-assenso di cui all’art. 25 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380.
In terzo luogo, è stata lamentata la mancata rappresentazione di concrete ragioni di pubblico interesse in merito alla sospensione dell’attività, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso rispetto all’inizio dell’attività industriale della società ricorrente.
- Con il quarto motivo è stato evidenziato che, in caso di mancato rilascio del certificato di agibilità, sarebbe applicabile solamente una sanzione pecuniaria e non anche misure di tipo sospensivo;
- con la quinta censura è stato lamentato l’illegittimo richiamo nel provvedimento impugnato all’art. 26 del regolamento edilizio del Comune, norma da ritenersi abrogata dall’art. 136, secondo comma del d.p.r. 06.06.2001 n. 380;
- infine, la norma de qua, al comma nono, farebbe riferimento solo ad insediamenti abitativi e non anche quelli a destinazione industriale come quello in esame.
Il provvedimento impugnato presenta tutte le caratteristiche proprie dell’esercizio del potere di ordinanza di necessità ed urgenza, avendo disposto la sospensione ad horas di tutte le attività produttive che interessano l’immobile in quanto privo del certificato di agibilità.
E' stata contestata, da un lato la mancata motivazione in ordine all’urgenza di provvedere ed alla rappresentazione dell’esistenza di un pericolo determinato, dall’altro, di conseguenza, l’ingiustificata omissione delle necessarie garanzie partecipative.
Né da tali elementi si potrebbe in qualche modo prescindere per il solo fatto della mancanza del certificato di agibilità, dal momento che tale condizione non autorizza affatto l’operatività di meccanismi presuntivi deponenti nel senso della esistenza di un’effettiva situazione di pericolo (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 11.07.2012 n. 3340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il certificato del casellario giudiziale può essere sostituito dalla dichiarazione di non aver riportato condanne penali.
L'art. 46 d.P.R. 28.12.2000 n. 445 consente la sostituzione del certificato del casellario giudiziale con la dichiarazione contestuale ex art. 2 l. 04.01.1968 n. 15 sulla circostanza di non aver riportato condanne penali.
Invero la seconda censura del ricorso così si esprime: “Violazione e falsa applicazione dell'art. 46 d.P.R. 28.12.2000 n. 445 – Violazione e falsa applicazione del disciplinare di gara – Eccesso di potere per insufficienza ed erroneità della motivazione“.
La censura si appalesa fondata atteso che l'art. 46 d.P.R. 28.12.2000 n. 445, emanato in base alle norme della l. 15.05.1997 n. 127 sulla semplificazione della documentazione amministrativa nei rapporti tra p.a. e privati, al punto a) consente la sostituzione del certificato del casellario giudiziale con la dichiarazione contestuale ex art. 2 l. 04.01.1968 n. 15 sulla circostanza di non aver riportato condanne penali.
Sulla questione TAR Lazio–Roma, sez. II, 21/12/2010, n. 37921 così ha statuito: “In effetti l'art. 46 del D.P.R. 20.12.2000 n. 445, emanato in base alle norme della legge 15.5.1997 n. 127 sulla semplificazione della documentazione amministrativa nei rapporti tra pubbliche amministrazioni. e privati, al punto aa) consente la sostituzione del certificato del casellario giudiziale con la dichiarazione contestuale ex art. 2 della legge 04.02.1968 n. 15 sulla circostanza di non aver riportato condanne penali.
La suddetta dichiarazione è valida a tutti gli effetti di legge e può essere legittimamente ammessa in una procedura di gara per l'aggiudicazione di un appalto pubblico in sostituzione di documentazione del medesimo contenuto probatorio.
Le norme sulla semplificazione fissano i requisiti minimi della facoltà di autocertificazione, ma non impediscono alle pubbliche amministrazioni di estenderne la portata applicativa, in relazione a specifici procedimenti amministrativi e in mancanza di espressi divieti al riguardo.
Un’interpretazione del disciplinare che sia ancorata al dato meramente formale apparirebbe illogica nell’escludere l’equiparabilità al certificato del casellario giudiziale delle dichiarazioni sostitutive ex art. 46 cit., le quali hanno il medesimo contenuto richiesto e, pertanto, raggiungono l’obiettivo di documentare il possesso dei requisiti utili alla partecipazione alla gara delle imprese che le producono
.” (cfr. anche Cons. Stato n. 7380 - 24.11.2009 - Sez. VI; Cons. Stato, Sez. IV, 07.09.2004 n. 5797 e Sez. VI, 19.11.2003 n. 7473, Tar Catanzaro II n. 431 - 07.05.2008).
In conclusione l'art. 46 d.P.R. 28.12.2000 n. 445 consente la sostituzione del certificato del casellario giudiziale con la dichiarazione contestuale ex art. 2 l. 04.01.1968 n. 15 sulla circostanza di non aver riportato condanne penali, e, pertanto, nella fattispecie in esame sia la Società Lavori Pubblici S.r.l. che le altre diciotto imprese concorrenti -escluse per lo stesso motivo- risultano illegittimamente escluse in quanto avevano prodotto le dichiarazioni sostitutive in luogo dei certificati in questione (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 11.07.2012 n. 1829 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La regola generale è quella che il ricorso giurisdizionale debba essere notificato all’Amministrazione che ha emanato l’atto conclusivo del procedimento, e non anche agli organi o enti che ai più diversi titoli abbiano potuto partecipare alla procedura. Anche nei procedimenti cui prendano parte più enti pubblici, perciò, il contraddittorio deve essere instaurato nei confronti dell’Amministrazione che ha la giuridica paternità dell’atto finale.
Corollario di tale regola è che solo allorché l’atto finale sia imputabile alla volontà di più Amministrazioni, come ad es. tipicamente accade per gli atti di concerto, oppure può verificarsi per gli accordi di programma, la relativa legittimazione processuale passiva diventi plurima.
Di contro, anche le partecipazioni al procedimento giuridicamente qualificate, come quella che si esprime nella paternità dell’iniziativa mediante la proposta, nella partecipazione alla formale intesa che abbia preceduto l’adozione del provvedimento finale, o nel compimento di altro atto preparatorio, non valgono ad estendere la veste di parte necessaria a soggetti ulteriori rispetto all’Autorità emanante.
Per estendere la legittimazione passiva ad altri enti occorre, difatti, che le norme imputino il provvedimento finale ad una pluralità di Amministrazioni; sicché, al di fuori di questa ipotesi, la partecipazione di altri enti al procedimento non ha rilievo ai fini dell’instaurazione del contraddittorio relativo all’impugnativa del provvedimento finale.

L’art. 41 CPA stabilisce che il ricorso giurisdizionale debba essere notificato all’Amministrazione “che ha emesso l’atto impugnato”, regola sostanzialmente riproduttiva delle precedenti previsioni dell’art. 21 della legge n. 1034/1971 e dell’art. 36, comma 2, del T.U. Cons. Stato.
Il giudizio impugnatorio vede, quindi, quale parte pubblica resistente l’Amministrazione che ha emanato l’atto della cui impugnativa si tratta.
Orbene, la regola generale è appunto quella che il ricorso giurisdizionale debba essere notificato all’Amministrazione che ha emanato l’atto conclusivo del procedimento, e non anche agli organi o enti che ai più diversi titoli abbiano potuto partecipare alla procedura. Anche nei procedimenti cui prendano parte più enti pubblici, perciò, il contraddittorio deve essere instaurato nei confronti dell’Amministrazione che ha la giuridica paternità dell’atto finale.
Corollario di tale regola è che solo allorché l’atto finale sia imputabile alla volontà di più Amministrazioni, come ad es. tipicamente accade per gli atti di concerto (C.d.S., VI, 23.01.2006, n. 183), oppure può verificarsi per gli accordi di programma (C.d.S., IV, 17.06.2003, n. 3403), la relativa legittimazione processuale passiva diventi plurima.
Di contro, anche le partecipazioni al procedimento giuridicamente qualificate, come quella che si esprime nella paternità dell’iniziativa mediante la proposta (C.d.S., IV, 28.03.1990, n. 213), nella partecipazione alla formale intesa che abbia preceduto l’adozione del provvedimento finale (C.d.S., VI, 07.03.1990, n. 347), o nel compimento di altro atto preparatorio (C.d.S., V, 19.02.1996, n. 216), non valgono ad estendere la veste di parte necessaria a soggetti ulteriori rispetto all’Autorità emanante.
Per estendere la legittimazione passiva ad altri enti occorre, difatti, che le norme imputino il provvedimento finale ad una pluralità di Amministrazioni; sicché, al di fuori di questa ipotesi, la partecipazione di altri enti al procedimento non ha rilievo ai fini dell’instaurazione del contraddittorio relativo all’impugnativa del provvedimento finale (cfr. C.d.S., VI, 14.07.1981, n. 433)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.07.2012 n. 3966 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E’ noto quanto consolidato sia l’insegnamento giurisprudenziale in ordine all’istituto del c.d. dovere di soccorso codificato dall’art. 46 cit. per cui l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può considerarsi alla stregua di un'irregolarità sanabile, e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali. E ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara. In presenza di una prescrizione chiara, un’ammissione alla regolarizzazione costituirebbe violazione della par condicio fra i concorrenti.
La richiesta di regolarizzazione, pertanto, non può essere formulata per permettere l’integrazione di documenti che, in base a previsioni univoche del bando o della lettera di invito, avrebbero dovuto essere prodotti a pena di esclusione.

Secondo la Regione si sarebbe dovuto comunque consentire all’aggiudicataria di dimostrare il proprio possesso dei requisiti di cui all’art. 38 cit., ammettendola ad integrare/chiarire la dichiarazione della propria ausiliaria ai sensi dell’art. 46 Codice Appalti.
E’, però, noto quanto consolidato sia l’insegnamento giurisprudenziale in ordine all’istituto del c.d. dovere di soccorso codificato dall’art. 46 cit. per cui l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può considerarsi alla stregua di un'irregolarità sanabile, e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali. E ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara (cfr., tra le più recenti: C.d.S., V, 02.08.2010, n. 5084; 02.02.2010, n. 428; 15.01.2008, n. 36). In presenza di una prescrizione chiara, un’ammissione alla regolarizzazione costituirebbe violazione della par condicio fra i concorrenti.
La richiesta di regolarizzazione, pertanto, non può essere formulata per permettere l’integrazione di documenti che, in base a previsioni univoche del bando o della lettera di invito, avrebbero dovuto essere prodotti a pena di esclusione (C.G.A., n. 802 del 2006; C.d.S., IV, n. 4560 del 2005 e n. 2254 del 2007)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.07.2012 n. 3966 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La verifica delle offerte anomale non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando invece ad accertare se l’offerta nel suo complesso sia attendibile e, dunque, se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto.
E’ il caso di ricordare in proposito che esula dal giudizio di legittimità ogni considerazione che attenga al merito delle valutazioni della commissione di gara in sede di verifica della congruità, trattandosi di esercizio della discrezionalità tecnica dell’amministrazione, salvo illogicità o irragionevolezza, che nel caso non ricorrono.
D’altra parte la verifica delle offerte anomale non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando invece ad accertare se l’offerta nel suo complesso sia attendibile e, dunque, se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto (cfr. Cons. Stato, V, 22.09.2009, n. 5642; 19.05.2007, n. 1971).
Nel caso, la commissione di gara nel rilevare le giustificazioni fornite dall’a.t.i. ricorrente, ha rilevato l’insufficienza degli elaborati prodotti per dimostrare l’economia del procedimento di costruzione, l’assenza di alcuna documentazione per correlare le soluzioni tecniche con la riduzione del costo complessivo dell’opera, l’assenza di elementi oggettivi e verificabili a comprova delle condizioni favorevoli di cui disporrebbe l’impresa, l’assenza di un calcolo analitico per dimostrare la riduzione di spesa rapportata alle migliorie proposte.
Tali carenze non sono state superate dalla documentazione prodotta dalla ricorrente a corredo delle giustificazioni (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.07.2012, n. 3959 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ai fini della individuazione dei soggetti tenuti alle dichiarazioni di cui all'art. 38, co. 1, lett. b e c, occorre aver riguardo ai poteri effettivi conferiti a ciascun amministratore e alla loro ampiezza.
I soggetti tenuti alle dichiarazioni di cui all'art. 38. 1, lett. b) e c) del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, sono "…soltanto gli amministratori muniti di potere di rappresentanza, ossia i soggetti titolari di ampi e generali poteri di amministrazione…" per cui ai fini della individuazione dei soggetti tenuti alle dichiarazioni di cui al citato art. 38 c. 1, lett. b) e c), occorre aver riguardo ai poteri effettivi conferiti a ciascun amministratore e alla loro ampiezza, in quanto si estrinsechino sull'organizzazione complessiva dell'apparato organizzativo societario, nei suoi riflessi operativi esterni (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.07.2012 n. 3925 - link a www.dirittodeisevizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: La normativa nazionale definisce l’ultimazione delle opere facendo riferimento all’esecuzione del rustico ed al completamento della copertura, concetto che, per pacifica giurisprudenza, comporta l’esistenza pure delle tamponature esterne, anch’esse essenziali allo scopo, in quanto concorrono ad individuare il volume della costruzione.
Vero è che l’art. 3, comma 2, lettera b), della L.R. Campania n. 10 del 2004 –in base al quale: “Si considerano ultimate le opere edilizie completate al rustico comprensive di mura perimetrali e di copertura e concretamente utilizzabili per l’uso cui sono destinate”– contiene una disciplina più restrittiva rispetto a quella di cui agli artt. 31 della L. 28.02.1985 n. 47 e 39 L. 23.12.1994 n. 724 (applicabili in via generale anche all’ultimo condono di cui alla L. n. 326 del 2003).
E’ noto che la normativa nazionale definisce l’ultimazione delle opere facendo riferimento all’esecuzione del rustico ed al completamento della copertura, concetto che, per pacifica giurisprudenza, comporta l’esistenza pure delle tamponature esterne, anch’esse essenziali allo scopo, in quanto concorrono ad individuare il volume della costruzione (cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 16.10.1998, n. 1306; V Sezione, 02.10.2000, n. 5211).
La richiamata previsione contenuta nella L.R. n. 10/2004 esige, infatti, un quid pluris rispetto alla comune nozione, dal momento che, come si è anticipato, richiede che le opere siano anche “concretamente utilizzabili per l’uso cui sono destinate”, evocando così il concetto di completamento funzionale, previsto dall’art. 31, comma 2, della legge 28.02.1985 n. 47 solo per le opere non destinate alla residenza (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 04.07.2012 n. 3197 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
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La mancata apposizione in calce al provvedimento amministrativo della formula recante il termine e l'Autorità presso cui impugnarlo, sancita dall'art. 3 comma 4, l. 07.08.1990 n. 241, può implicare, in caso di eventuale ritardo nell'impugnazione, il riconoscimento dell'errore scusabile e dei suoi effetti, ma solo quando ne sussistano i presupposti, vale a dire una situazione normativa obiettivamente inconoscibile o confusa, uno stato di obiettiva incertezza per le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma, per la particolare complessità della fattispecie concreta, per i contrasti giurisprudenziali esistenti o per il comportamento dell'Amministrazione idoneo, perché equivoco, ad ingenerare convincimenti inesatti.
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L’art. 27 dpr 380/2001 è applicabile sia ai casi in cui il dirigente o il responsabile accerti “l'inizio”, che all’ipotesi in cui venga accertata “l'esecuzione di opere eseguite senza titolo” in area vincolata e che la norma medesima prevede la sola sanzione ripristinatoria, attenendo la differente disposizione invocata dalla ricorrente al solo profilo paesaggistico e non anche a quello edilizio.

Con il provvedimento gravato il comune di Ischia ha ingiunto al ricorrente di demolire una tettoia di 15,00 mq realizzata, attaccata ad un manufatto in ferro preesistente, in assenza di titolo abilitativo su area dichiarata di notevole interesse pubblico con d.m. 15.12.1959.
La ricorrente non contesta le suddette circostanza né fornisce indicazioni relative all’eventuale esistenza di titoli abilitativi.
La conseguente abusività del manufatto, di rilevanti dimensioni e tale da modificare sensibilmente il prospetto e la sagoma del manufatto, rendeva obbligatoria l’adozione della sanzione ripristinatoria da parte dell’ente locale (sulla necessità del titolo abilitativo per la realizzazione di tettoie idonee ad incidere sullo stato dei luoghi, cfr. ex multis Consiglio Stato sez. IV, 29.04.2011, n. 2549)
Considerata l’assenza di argomentazioni e/o di prove relative alla legittimità della tettoia, va in primo luogo respinta la censura di difetto di istruttoria e di motivazione, nonché di mancata indicazione, nell’atto, del termine e autorità cui ricorrere, articolate con il primo e con il quarto motivo di doglianza.
Sotto il primo profilo occorre considerare come “... presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi” (ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
Quanto al secondo aspetto è sufficiente richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale “... la mancata apposizione in calce al provvedimento amministrativo della formula recante il termine e l'Autorità presso cui impugnarlo, sancita dall'art. 3 comma 4, l. 07.08.1990 n. 241, può implicare, in caso di eventuale ritardo nell'impugnazione, il riconoscimento dell'errore scusabile e dei suoi effetti, ma solo quando ne sussistano i presupposti, vale a dire una situazione normativa obiettivamente inconoscibile o confusa, uno stato di obiettiva incertezza per le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma, per la particolare complessità della fattispecie concreta, per i contrasti giurisprudenziali esistenti o per il comportamento dell'Amministrazione idoneo, perché equivoco, ad ingenerare convincimenti inesatti” (cosi, da ultimo, TAR Umbria, sez. I, 20.04.2012, n. 125)
La natura vincolata dell’atto consente di respingere anche il secondo motivo di doglianza, con il quale la ricorrente ha censurato la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, tanto più che lo stesso non ha rappresentato, nemmeno in giudizio, l’esistenza di circostanze idonee a determinare un diverso esito provvedimentale.
Va infine respinto il terzo motivo di doglianza, con il quale la ricorrente ha lamentato violazione dell’art. 27 del d.P.R. 380/2001, rappresentando come l’intervenuto completamento dell’opera precludesse l’applicazione della norma posta dal comune a fondamento del suo operato, e dell’art. 167 del d.lgs. 42/2004, per non avere il comune indicato le ragioni per le quali ha applicato la sanzione ripristinatoria, in luogo della meno afflittiva sanzione pecuniaria.
Deve infatti osservarsi come l’art. 27, sulla cui base è stato applicato il provvedimento gravato, è applicabile sia ai casi in cui il dirigente o il responsabile accerti “l'inizio”, che all’ipotesi in cui venga accertata “l'esecuzione di opere eseguite senza titolo” in area vincolata e che la norma medesima prevede la sola sanzione ripristinatoria, attenendo la differente disposizione invocata dalla ricorrente al solo profilo paesaggistico e non anche a quello edilizio (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.07.2012 n. 3170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 45 (Prescrizioni di tutela indiretta) del Codice dei beni culturali e del paesaggio (che ripete la fattispecie sostanziale dell’art. 21 l. 01.06.1939, n. 1089 e poi dell’art. 49 d.lgs. 29.10.1999, n. 490) non stabilisce altra delimitazione spaziale che quella intrinsecamente funzionale alla sua causa tipica, che è di “prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro”.
Vero è che questo vincolo di tutela della cornice ambientale dei beni culturali evidenzia limitazioni delle facoltà proprietarie e che, per quanto queste siano intrinseche alla relazione spaziale, occorre considerare l’esigenza del loro contenimento in sacrificio del proprietario, secondo criteri di congruenza, ragionevolezza e proporzionalità.
Va però considerato che, una volta stimato che il vincolo indiretto risulta una misura necessaria ed inevitabile, malgrado i sacrifici che la scelta di un tale strumento può comportare, per proteggere il contesto complementare del bene direttamente tutelato –il che costituisce l’obiettivo prefissato in via primaria-, senza di che la stessa tutela diretta sarebbe amputata dell’insieme spaziale che conferisce valore al bene principale, alla sua valutazione tecnica e realizzazione pratica diviene estranea un’attenuazione dell’interesse pubblico causata da quello all’edificazione: la quale attenuazione, nella traduzione provvedimentale, condurrebbe illegittimamente, e paradossalmente, a dare minor tutela, malgrado l’intensità del valore culturale del bene principale, quanto più intenso e forte sia o possa essere l’interesse alla trasformazione delle cose.
La proporzionalità qui rappresenta la congruenza della misura adottata in rapporto all’oggetto principale da proteggere: per cui l’azione di tutela indiretta va contenuta nei termini di quanto risulta essere concretamente necessario per il raggiungimento degli obiettivi di tutela diretta. Va cioè posta in rapporto all’esigenza conservativa che ha causato il vincolo diretto e dunque alle caratteristiche dell’oggetto materiale di quello. È connessa alla ragionevolezza, e questa si specifica nel conseguimento di un punto di equilibrio identificabile nella corretta e sufficiente funzionalità dell’esercizio del potere di vincolo. Ne consegue che il potere va esercitato in modo che sia effettivamente congruo e rapportato allo scopo legale per cui è previsto e non ad esso eccessivo.
Tutto questo significa che, una volta che è accertata questa corrispondenza in punto di fatto (la quale conduce all’evidente conseguenza della congruenza, in principio, dell’ampia estensione del vincolo indiretto una volta posta l’ampia estensione di quello diretto), la latitudine spaziale non si pone più come un fattore estrinseco limitativo del vincolo, ma ne costituisce anzi il sostrato di fatto scaturente dalla necessaria e presupposta valutazione tecnica.
L’ampiezza della zona da preservare in via indiretta, del resto, non può essere determinata aprioristicamente, ma dipende in concreto dalla natura e dalla conformazione del bene direttamente tutelato e dallo stato dei luoghi che lo circondano. L’estensione eccede in concreto dalla corretta cura dell’interesse quando viene dimostrato –il che qui non è avvenuto- che riguarda terreni non necessari a contrastare il rischio per l’integrità di beni culturali (cioè a garantirne la conservazione materiale), ovvero il danneggiamento della loro prospettiva o luce (cioè a garantirne la visibilità complessiva), ovvero l’alterazione delle loro condizioni di ambiente e di decoro (cioè a preservarli da contrasti con lo stile e il significato storico-artistico e a garantire la continuità storica e stilistica tra il monumento e la situazione ambientale in con è contestualizzato). Della rappresentazione iconografica e del suo valore, qui rilevante in senso complementare, si è già detto a proposito del vincolo diretto.
Tutte le garanzie del bene protetto in via primaria al cui presidio è funzionale il vincolo indiretto (conservazione materiale, visibilità complessiva, lettura stilistica e storico-artistica contestualizzata) formano un sistema integrato idoneo a sorreggerne l’imposizione. Ne deriva che la contestazione di un singolo elemento non vale a sminuirne la validità complessiva.
In questi lineari termini rilevano e vanno valutati l’adeguatezza, la congruenza, la ragionevolezza e la proporzionalità del vincolo indiretto, non già in attenuazione causata dal diritto di proprietà, che a questi riguardi è intrinsecamente limitato e dunque esterno all’esercizio del potere tanto da non essere indennizzabile. In questo consiste, con chiara evidenza, un limite fondamentale imposto nell’interesse generale dalla legge all’uso dei beni oggetto del vincolo (art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; art. 1 dell’invocato Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali). Limiti questi che, per le ragioni ampiamente dette, non risultano qui superati.
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Come sopra per il vincolo diretto, per consolidata e risalente giurisprudenza l’estensione dell’area da assoggettare a vincolo indiretto attiene alla stretta valutazione dell’amministrazione, e può riguardare anche un immobile non prossimo al monumento da tutelare, purché faccia parte dell’”ambiente” del monumento. Solo si richiede che vada valutata in rapporto a natura, caratteristiche e ubicazione dei beni da preservare.
Il vincolo indiretto concerne invero la c.d. cornice ambientale di un bene culturale. Esso è legittimamente imposto quando è riferito non solo alla tutela diretta non di un singolo bene culturale, ma anche di un intero insieme, come un comprensorio archeologico: a fortiori questo vale quando si tratti di un complesso non ipogeo o di superficie, ma di un sistema unitario.
Posto che l’estensione dell’ambito di tutela è dunque diretta espressione delle valutazioni proprie dell’Amministrazione, ne viene che queste stesse valutazioni non sono soggette al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, se non nei ristretti limiti che si sono ricordati

... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA-SEZ. STACCATA DI BRESCIA: SEZIONE I n. 506/2011, resa tra le parti, concernente DICHIARAZIONE DI INTERESSE CULTURALE STORICO-ARTISTICO DEI SISTEMI DEI LAGHI DI MANTOVA, DEL CANALE RIO, DEI PONTI MULINI E DI SAN GIORGIO - RIS. DANNI
...
L’imposizione del vincolo indiretto, già contestata sotto alcuni dei profili sopra esaminati, è oggetto specifico del secondo e del terzo motivo degli appelli.
Anche tali motivi, articolati in più punti, sono infondati e la sentenza di primo grado è esente da errori di giudizio.
Non sussiste, innanzitutto, il dedotto vizio di difetto di istruttoria e di motivazione del provvedimento.
Valgono al proposito le considerazioni di ordine già esposte, anche con riguardo alle dettagliate acquisizioni istruttorie in punto di fatto di primo grado (compendiate da una dettagliata ed esaustiva relazione tecnica di verificazione) e correttamente considerate e valutate da quel giudice, specialmente circa la dominante caratteristica morfologica originaria propria di questa stessa area, e circa le congrue distanze dal bene tutelato in via diretta.
Vanno condivise, in particolare, le valutazioni in diritto circa la dominanza dei rapporti quantitativi negli ambiti nn. 3 e 4 in favore assoluto dell’originario dato naturalistico e agricolo rispetto a quello risultante da recente trasformazione (che non è comunque alterato, nella sua valutazione conclusiva in diritto, dai diversi rapporti numerici pur addotti in fatto da parte interessata) ai fini del giudizio di ragionevolezza nei limiti consentiti al giudice amministrativo.
A queste considerazioni si aggiunge che la questione di fondo pare tornare ad essere quella, già esaminata circa il vincolo diretto, dell’estensione spaziale del vincolo indiretto, che in effetti, gradato per ambiti, copre un’area quantitativamente rilevante.
L’assunto che una tale estensione sia di suo, in quanto tale, illegittima è anche qui erroneo in diritto, seppure per ragioni intrinsecamente diverse da quelle del vincolo diretto e da riferire piuttosto alla natura di quest’altro tipo di vincolo.
Va anzitutto rilevato che l’art. 45 (Prescrizioni di tutela indiretta) del Codice dei beni culturali e del paesaggio (che ripete la fattispecie sostanziale dell’art. 21 l. 01.06.1939, n. 1089 e poi dell’art. 49 d.lgs. 29.10.1999, n. 490) non stabilisce altra delimitazione spaziale che quella intrinsecamente funzionale alla sua causa tipica, che è di “prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro”.
Vero è che questo vincolo di tutela della cornice ambientale dei beni culturali evidenzia limitazioni delle facoltà proprietarie e che, per quanto queste siano intrinseche alla relazione spaziale, occorre considerare l’esigenza del loro contenimento in sacrificio del proprietario, secondo criteri di congruenza, ragionevolezza e proporzionalità.
Va però considerato che, una volta stimato che il vincolo indiretto risulta una misura necessaria ed inevitabile, malgrado i sacrifici che la scelta di un tale strumento può comportare, per proteggere il contesto complementare del bene direttamente tutelato –il che costituisce l’obiettivo prefissato in via primaria-, senza di che la stessa tutela diretta sarebbe amputata dell’insieme spaziale che conferisce valore al bene principale, alla sua valutazione tecnica e realizzazione pratica diviene estranea un’attenuazione dell’interesse pubblico causata da quello all’edificazione: la quale attenuazione, nella traduzione provvedimentale, condurrebbe illegittimamente, e paradossalmente, a dare minor tutela, malgrado l’intensità del valore culturale del bene principale, quanto più intenso e forte sia o possa essere l’interesse alla trasformazione delle cose.
La proporzionalità qui rappresenta la congruenza della misura adottata in rapporto all’oggetto principale da proteggere: per cui l’azione di tutela indiretta va contenuta nei termini di quanto risulta essere concretamente necessario per il raggiungimento degli obiettivi di tutela diretta. Va cioè posta in rapporto all’esigenza conservativa che ha causato il vincolo diretto e dunque alle caratteristiche dell’oggetto materiale di quello. È connessa alla ragionevolezza, e questa si specifica nel conseguimento di un punto di equilibrio identificabile nella corretta e sufficiente funzionalità dell’esercizio del potere di vincolo. Ne consegue che il potere va esercitato in modo che –come qui è avvenuto traducendo questi principi con la gradazione del vincolo per ambiti differenziati e relative prescrizioni- sia effettivamente congruo e rapportato allo scopo legale per cui è previsto e non ad esso eccessivo.
Tutto questo significa che, una volta che è accertata questa corrispondenza in punto di fatto (la quale conduce all’evidente conseguenza della congruenza, in principio, dell’ampia estensione del vincolo indiretto una volta posta l’ampia estensione di quello diretto), la latitudine spaziale non si pone più come un fattore estrinseco limitativo del vincolo, ma ne costituisce anzi il sostrato di fatto scaturente dalla necessaria e presupposta valutazione tecnica.
L’ampiezza della zona da preservare in via indiretta, del resto, non può essere determinata aprioristicamente, ma dipende in concreto dalla natura e dalla conformazione del bene direttamente tutelato e dallo stato dei luoghi che lo circondano. L’estensione eccede in concreto dalla corretta cura dell’interesse quando viene dimostrato –il che qui non è avvenuto- che riguarda terreni non necessari a contrastare il rischio per l’integrità di beni culturali (cioè a garantirne la conservazione materiale), ovvero il danneggiamento della loro prospettiva o luce (cioè a garantirne la visibilità complessiva), ovvero l’alterazione delle loro condizioni di ambiente e di decoro (cioè a preservarli da contrasti con lo stile e il significato storico-artistico e a garantire la continuità storica e stilistica tra il monumento e la situazione ambientale in con è contestualizzato) (ad es., Cons. Stato, VI, 23.05.2006, n. 3078, ha respinto l’impugnazione di un’imposizione di vincolo indiretto per un raggio di tre chilometri intorno ad un castello; cfr. anche Cons. Stato, VI, 09.03.2011, n. 1474). Della rappresentazione iconografica e del suo valore, qui rilevante in senso complementare, si è già detto a proposito del vincolo diretto.
Tutte le garanzie del bene protetto in via primaria al cui presidio è funzionale il vincolo indiretto (conservazione materiale, visibilità complessiva, lettura stilistica e storico-artistica contestualizzata) formano un sistema integrato idoneo a sorreggerne l’imposizione. Ne deriva che la contestazione di un singolo elemento non vale a sminuirne la validità complessiva.
Pertanto, le considerazioni degli appellanti circa l’inesistenza di esigenze di tutela della visione delle sponde lacustri, in ragione di ostacoli quale un pioppeto (che, oltretutto, costituisce un elemento del tutto caduco e transitorio) che si frappongono tra il lago e gli ambiti oggetto di lottizzazione, ovvero relative alla discontinuità tra il complesso oggetto della tutela diretta e gli insediamenti circostanti, ovvero ancora, e in generale, sulla pretesa erroneità della rappresentazione e della definizione dello stato dei luoghi da parte della Soprintendenza prima, e del Tribunale amministrativo poi, non hanno effetto sulla legittimità dell’imposizione del vincolo indiretto, che procede da –e si fonda su- un sistema integrato di motivazioni, del quale la visione complessiva e lo stato dei luoghi sono componenti non unici e comunque recessivi rispetto alle dominanti esigenze di conservazione materiale delle cose e di testimonianza.
In questi lineari termini rilevano e vanno valutati l’adeguatezza, la congruenza, la ragionevolezza e la proporzionalità del vincolo indiretto (cfr. Cons. Stato, VI, 06.10.1986, n. 758), non già –come vorrebbe l’appello- in attenuazione causata dal diritto di proprietà, che a questi riguardi è intrinsecamente limitato e dunque esterno all’esercizio del potere tanto da non essere indennizzabile (Corte cost., 04.07.1974, n. 202, che precisa che l’art. 21 l. n. 1089 del 1939 concerne “il potere di imporre dei limiti all'esercizio dei diritti privati in relazione ad un preciso interesse pubblico in base ad apprezzamento tecnico sufficientemente definito e controllabile, la cui discrezionalità é chiaramente determinata”; v. anche ord. 28.12.1984, n. 309). In questo consiste, con chiara evidenza, un limite fondamentale imposto nell’interesse generale dalla legge all’uso dei beni oggetto del vincolo (art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; art. 1 dell’invocato Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali). Limiti questi che, per le ragioni ampiamente dette, non risultano qui superati.
È pienamente coerente con quanto esposto che una particolare ampiezza può essere giustificata quando siffatta tutela è applicata non in relazione ad un singolo immobile, ma in relazione ad un complesso il cui eccezionale valore culturale si presenta in modo unitario, che acquista o accresce interesse in relazione alla sua visione organica.
Non è fondata, quindi, la censura, anch’essa sollevata nell’articolato secondo motivo degli appelli, che lamenta la violazione del principio di proporzionalità e di ragionevolezza.
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Anche qui poi, come sopra per il vincolo diretto, per consolidata e risalente giurisprudenza l’estensione dell’area da assoggettare a vincolo indiretto attiene alla stretta valutazione dell’amministrazione (cfr. Cons. Stato, VI, 04.05.1955, n. 304; IV, 25.07.1970, n. 585; VI, 29.11.1977, n. 894; VI, 06.06.2011, n. 3354), e può riguardare anche un immobile non prossimo al monumento da tutelare, purché faccia parte dell’”ambiente” del monumento (Cons. Stato, IV, 09.12.1969, n. 772; IV, 06.03.1970, n. 153; IV, 29.09.1970, n. 616; VI, 06.09.2002, n. 4566; VI, 17.10.2003, n. 6344; VI, 19.01.2007, n. 111). Solo si richiede che vada valutata in rapporto a natura, caratteristiche e ubicazione dei beni da preservare (Cons. Stato, IV, 09.12.1969, n. 772; VI, 03.11.1970, n. 707; VI, 31.10.1992, n. 823), il che qui, con la motivazione dell’atto e l’allegata relazione, risulta essere avvenuto.
Il vincolo indiretto concerne invero la c.d. cornice ambientale di un bene culturale (Cons. Stato, IV, 09.12.1969, n. 722; VI, 18.04.2011, n. 2354). Esso è legittimamente imposto quando è riferito non solo alla tutela diretta non di un singolo bene culturale, ma anche di un intero insieme, come un comprensorio archeologico (Cons. Stato, IV, 25.07.1970, n. 585): a fortiori questo vale quando si tratti di un complesso non ipogeo o di superficie, ma di un sistema unitario, come ora si è detto tale essere quello in esame in relazione all’essenziale ingegnerizzazione fluviale, complementare ad una città storica dell’importanza e del significato di Mantova (cfr. anche Cons. Stato, VI, 08.06.1971, n. 417).
Posto che l’estensione dell’ambito di tutela è dunque diretta espressione delle valutazioni proprie dell’Amministrazione, ne viene che queste stesse valutazioni non sono soggette al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, se non nei ristretti limiti che si sono ricordati (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.07.2012 n. 3893 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Non è necessario provare la colpa dell'amministrazione aggiudicatrice, in materia di risarcimento da (mancato) affidamento di gare pubbliche di appalto.
In materia di risarcimento da (mancato) affidamento di gare pubbliche di appalto non è necessario provare la colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere detto risarcimento non sia subordinata alla constatazione dell'esistenza di un comportamento colpevole, in relazione ai principi di cui alla giurisprudenza comunitaria (Corte CE, Sez. III, 30.09.2010, C-314/2009), secondo cui in tema di appalti pubblici la direttiva Cons. C.E.E. 21.12.1989 n. 665, modificata dalla direttiva Cons. C.E.E. 18.06.1992 n. 50, osta a una normativa nazionale che subordini il diritto a ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina di settore da parte di un'Amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l'applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo alla P.A. stessa e sull'impossibilità per quest'ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali, e dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.
Il concorrente a una gara d'appalto che non ha conseguito l'aggiudicazione per fatto dell'Amministrazione non ha diritto al risarcimento delle spese sostenute per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara, atteso che queste restano a carico delle imprese sia in caso di aggiudicazione che di mancata aggiudicazione.
Ciò perché tali costi di, rilevano come "danno emergente" solo nell'ipotesi di illegittima esclusione, collegandosi alla pretesa del contraente a non essere coinvolto in trattative inutili ma nell'ipotesi in cui l'impresa benefici del risarcimento del danno per mancata aggiudicazione (o per la perdita della possibilità di aggiudicazione) non vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione alla gara, dal momento che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all'impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall'aggiudicazione medesima (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 27.06.2012 n. 5920 - link a www.dirittodeisevizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Pneumatici.
Secondo la normativa posta dalla legge n. 179/2002 e dal D.M. 09.01.2003 costituiscono sicuramente “rifiuto” gli pneumatici fuori uso ed essi devono ritenersi destinati ad attività di recupero o smaltimento, sono invece da considerarsi “non-rifiuto” gli pneumatici usati passibili di ricostruzione ed essi possono essere compravenduti come beni (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 26.06.2012 n. 25207 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Nozione di sottoprodotto e attività di recupero.
Sottoprodotto è ciò che non è mai state rifiuto, costituendo invece materiale immediatamente riutilizzabile. Non è quindi tale la plastica già usata per gli imballaggi non pronta per il reimpiego nel momento in cui si originava nel corso del processo rivolto alla produzione di medicinali e conseguentemente sottoposta a macinazione, quale operazione non costituente parte integrante del processo produttivo principale ed avente la funzione di contribuire alla trasformazione del materiale per consentirne l'inserimento in un nuovo ciclo produttivo.
L'operazione di triturazione delle materie plastiche che hanno terminato il proprio ciclo di vita quali imballaggi è un'operazione di recupero di rifiuti, finalizzata a conferire agli stessi consistenza diversa rispetto al materiale di partenza così da consentire il nuovo svolgimento di un ruolo utile e soggetta, come tale, all'obbligo di autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.06.2012 n. 25203 - tratto da www.lexambiente.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: L'assessore assolto nel processo penale non ha diritto al rimborso delle spese legali.
La sentenza 26.06.2012 n. 697 del TRIBUNALE di Vicenza si occupa del rimborso spese a un assessore assolto in un procedimento penale riguardante l'attività svolta in tale veste.
Il Tribunale respinge la domanda di rimborso, dicendo che, in mancanza di una specifica disposizione di legge che disciplini il caso, bisogna applicare in via analogica, ai sensi dell'art. 12, comma 2, delle disposizioni preliminari al codice civile, le disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe.
In passato la giurisprudenza si era orientata nel senso di applicare in via analogica la norma relativa al rimborso delle spese in favore dei dipendenti degli enti locali (art. 67 D.P.R. 268/2007, ora recepito dall'art. 28 del C.C.N.L. dei dipendenti comunali), muovendo dalla equiparazione del rapporto di servizio onorario con quello di impiego dei dipendenti dell'ente locale.
Il Tribunale di Vicenza ritiene erronea questa soluzione e assimila la posizione dell'assessore a quella del mandatario, ritenendo di dover applicare in via analogica l'art. 1720 del c.c..
Su questa questione la Corte di Cassazione Civile 16.04.2008, n. 10052, ha deciso che all'assessore, applicando in via analogica l'art. 1720, comma 2, c.c., spetta soltanto il rimborso delle spese sostenute a causa del proprio incarico e non semplicemente in occasione del medesimo.
Le spese per difendersi in procedimento penale non sono spese sostenute a causa del proprio incarico, ma in occasione del medesimo.
Quindi il rimborso non spetta (link a http://venetoius.myblog.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Rilevanza circolari interpretative.
La circolare interpretativa è atto interno ala pubblica amministrazione che si risolve in un mero ausilio interpretativo e non esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto con l'evidenza del dato normativo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.06.2012 n. 25170 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: In tema di affidamento di contratti pubblici, sussiste la legittimazione al ricorso soltanto per i soggetti che hanno partecipato alla selezione.
La legittimazione al ricorso nelle controversie in tema di affidamento di contratti pubblici spetta esclusivamente ai soggetti che hanno partecipato alla selezione, perché solo essi hanno acquisito una posizione sostanziale differenziata tutelabile davanti al giudice.
La partecipazione alla gara, poi, deve essere stata legittima, vale a dire accompagnata dal possesso di tutti i necessari requisiti, non potendo essere condiviso quell'orientamento cd. moderato secondo il quale sarebbe sufficiente anche la semplice partecipazione "di fatto", in quanto pure in detta ipotesi l'impresa viene a porsi, per effetto dell'atto endoprocedimentale di ammissione, in una posizione differenziata rispetto a tutti gli altri operatori economici del mercato di riferimento.
Si tratta, infatti, di una tesi non convincente perché dimentica del fatto che "l'accertamento della illegittimità dell'ammissione, presenta portata pienamente retroattiva", per cui "si riflette sui presupposti e sulle condizioni dell'azione in modo non dissimile da un provvedimento inoppugnabile di esclusione" che, secondo l'indirizzo assolutamente prevalente, esclude in radice la legittimazione perché retrocede l'impresa nelle stesse condizioni di quelle rimaste estranee alla procedura selettiva.
Pure il ricorso principale dell'impresa ammessa diviene perciò inammissibile nel caso di accertata fondatezza del ricorso incidentale escludente, da esaminare sempre per primo perché avente comunque rilievo pregiudiziale a prescindere dal numero dei concorrenti che hanno partecipato alla gara e dalle ragioni oggettive o soggettive per le quali la ricorrente principale non avrebbe dovuto esservi ammessa (Corte di Cassazione, SS.UU., sentenza 21.06.2012 n. 10294 - link a www.dirittodeisevizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mancata rimozione di opera stagionale.
La mancata rimozione di un'opera edilizia precaria allo spirare del termine stagionale implica la violazione dell'art. 44 del D.P.R. 380/2001, in quanto la responsabilità discende dal combinato disposto del citato art. 44 e dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., per la mancata ottemperanza all'obbligo di rimozione insito nel provvedimento autorizzatorio temporaneo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2012 n. 24554 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' da escludere che l’intervento possa correttamente qualificarsi come di manutenzione straordinaria, atteso che la realizzazione di una piattaforma elevatrice munita di autonomo vano di scorrimento, che fuoriesce dalla sagoma dell’edificio asservito e che quindi costituisce un’opera dotata di autonomia funzionale, appare piuttosto integrare una ristrutturazione edilizia, necessitante di permesso di costruire ai sensi dell’art. 10 del d.PR. n. 380 del 2001 o, in alternativa, di denuncia di inizio di attività ai sensi dell’art. 22 d.PR cit..
E poiché sensi dell'art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004 l’autorizzazione della autorità preposta alla tutela del vincolo non è richiesta soltanto per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria di restauro e di risanamento conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici, nel caso in questione necessita.
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L’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167 del Codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167).
Sotto tale profilo, ove le opere risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell’art. 167, le autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria.
L’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Tuttavia, nel caso in esame correttamente la Soprintendenza ha escluso la ricorrenza della fattispecie derogatoria appena richiamata, atteso che il vano ascensore, come già detto, ha in fatto comportato un aumento delle volumetrie dell’edificio e, per di più, un’opera rilevante sul piano della sua percezione visiva nel contesto paesaggistico di riferimento.
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Appare dubbia, già in linea di principio, l’ascrizione del vano ascensore al novero dei cosiddetti volumi tecnici nei casi in cui, come nella specie, lo stesso sia in fatto conformato alla stregua di un autonomo corpo edilizio destinato ad ospitare l’intero impianto elevatore (e non invece, ad esempio, soltanto l’extracorsa dell’ascensore).
Per volume tecnico si intende infatti un volume destinato ad ospitare un impianto o parte di esso che, per ragioni di funzionalità, di igiene o di sicurezza non potrebbe essere allocato nella volumetria assentita o comunque assentibile; nel caso in esame non è provato che tale circostanza ricorra in concreto ed appar dubbia l’assimilabilità del vano ascensore avente caratteristiche morfologiche a quello per cui è giudizio al cosiddetto “volume tecnico”, nella cui categoria potrebbe al più rientrare il vano destinato ad ospitare i macchinari funzionali all’ascensore (ma non l’ascensore in sé, dotato di autonomia planovolumetrica rispetto all’edificio servito).
In ogni caso, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine di evidenziare la neutralità, sul piano del carico urbanistico, dei cosiddetti volumi tecnici.
E’ pacifico infatti che tale distinzione si rivela inconferente sul piano della tutela dei beni paesaggistici: le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio, o il relativo sottosuolo.
La circolare ministeriale citata dall’appellante (del Ministero dei lavori pubblici del 31.01.1973, n. 2474, e che, in base ad un parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, inserisce tra i volumi tecnici ai fini del calcolo della volumetria assentibile solo i volumi strettamente necessari a contenere e a consentire l’accesso di quelle parti degli impianti tecnici che non possono per esigenze di funzionalità degli impianti trovare luogo entro il corpo di fabbrica dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche), a parte ogni considerazione sulla impossibilità che essa limiti l’applicazione delle sopravvenute disposizioni legislative, già a suo tempo aveva colto il principio per cui la nozione di ‘volume tecnico’ rileva ai soli fini urbanistico-edilizio, avendo specificato che “la sistemazione dei volumi tecnici non deve costituire pregiudizio per la validità estetica dell’insieme architettonico”.
Pertanto, la natura del volume edilizio realizzato (sia o meno qualificabile come volume tecnico) non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere: la nuova volumetria, quale che sia la sua natura, impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell’area (che deve compiersi da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero dalla competente Soprintendenza in sede di redazione di un suo parere), mentre sono radicalmente precluse autorizzazioni postume per le opere abusive che abbiano comportato la realizzazione di nuovi volumi (art. 167 d.lgs. cit.).

... per la riforma della sentenza del TAR CAMPANIA-NAPOLI: SEZIONE IV n. 2297/2008, resa tra le parti, concernente DINIEGO SANATORIA DI PIATTAFORMA ELEVATRICE.
...
Con un primo ordine di censure, l’appellante sostiene che l’illegittimità del diniego impugnato in primo grado deriverebbe dalla non corretta qualificazione giuridica dell’intervento da assentire con il procedimento di accertamento di conformità.
In particolare, ad avviso dell’appellante, poiché nel caso di specie si sarebbe trattato di un intervento di manutenzione straordinaria finalizzato a rimuovere -in base all’art. 1, comma 6, del d.P.R. 24.07.1996 n. 503- le barriere architettoniche in un edificio privato, non sarebbe richiesta, ai sensi dell’art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004, l’autorizzazione paesaggistica, di guisa che il parere negativo della Soprintendenza sarebbe stato rilasciato nella specie in carenza di potere.
La censura non è condivisibile.
Vale anzitutto precisare che ai sensi del citato art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004 l’autorizzazione della autorità preposta alla tutela del vincolo non è richiesta soltanto per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria di restauro e di risanamento conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici.
Nel caso in esame è pacifico al contrario che la realizzazione della piattaforma elevatrice abbia determinato un aumento dei volumi dell’edificio ed abbia inciso sui profili esteriori dello stesso, onde la qualificazione dell’intervento quale manutenzione straordinaria non gioverebbe alle ragioni dell’appellante nella misura in cui non sarebbe idonea a superare la necessità del rilascio della autorizzazione e del suo superamento della fase del riesame della Soprintendenza (trattandosi di immobile ricadente in area sottoposta a vincolo paesaggistico).
In ogni caso, è da escludere che l’intervento possa correttamente qualificarsi come di manutenzione straordinaria, atteso che la realizzazione di una piattaforma elevatrice munita di autonomo vano di scorrimento, che fuoriesce dalla sagoma dell’edificio asservito e che quindi costituisce un’opera dotata di autonomia funzionale, appare piuttosto integrare una ristrutturazione edilizia, necessitante di permesso di costruire ai sensi dell’art. 10 del d.PR. n. 380 del 2001 o, in alternativa, di denuncia di inizio di attività ai sensi dell’art. 22 d.PR cit..
Per altro verso, la qualificazione dell’intervento alla stregua di opera di straordinaria manutenzione non potrebbe trarsi, come assume l’appellante, dalla disciplina normativa di favore dettata in materia di eliminazione delle barriere architettoniche dagli edifici pubblici e privati (d.P.R n. 503 del 1996, attuativo dell’art. 27 l. 30.03.1971 n. 118; art. 24 l. 05.02.1992 n. 104; l. n. 13 del 1989), dato che le finalità semplificatorie e propulsive di tali testi normativi in favore delle persone diversamente abili non ha in ogni caso comportato una modificazione della tipologia degli interventi edilizi funzionali alla eliminazione delle barriere architettoniche e dei corrispondenti titoli edilizi necessari per la loro realizzazione.
E tanto anche a voler considerare le opere di che trattasi, consistite nel collegare il quarto piano di un appartamento al terrazzo superiore, alla stregua di intervento finalizzato in concreto ad eliminare le barriere architettoniche di un edificio privato in favore di un soggetto meritevole di protezione.
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Sotto altro profilo non appare condivisibile la censura d’appello di violazione e falsa applicazione della legge 09.01.1989, n. 13, recante le disposizioni funzionali alla eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati.
Sul punto l’appellante censura la correttezza del ragionamento dei giudici di primo grado nella parte in cui questi ultimi avrebbero ritenuto abrogate (e quindi non più applicabili in quanto non riprodotte negli artt. 77 e segg. del testo unico in materia edilizia) quelle disposizioni della citata legge specificamente dettate ai fini della eliminazione delle barriere architettoniche (in particolare art. 4.1, commi 4 e 5); le quali stabilivano che, anche in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, l’autorizzazione paesaggistica poteva essere negata solo ove non fosse possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato e che, in ogni caso, il diniego doveva essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato.
Osserva al proposito il Collegio che:
- anzitutto è vero che non vi è stata, nel testo unico sull’edilizia, la riproduzione di quelle previsioni normative che ponevano un particolare onere motivazionale in sede di diniego alle opere finalizzate alla rimozione delle barriere architettoniche anche in edifici sottoposti al vincolo storico-artistico o in aree vincolate sul piano paesaggistico;
- in ogni caso, al di là della sussistenza o meno di un’indicazione normativa espressa in tal senso (che tuttavia potrebbe trarsi dal sistema) non potrebbe farsi a meno di rilevare che, nel caso in esame, non vengono in rilievo le disposizioni afferenti il procedimento di ordinaria formazione del titolo edilizio, dato che l’intervento è stato realizzato sine titulo ed il diniego avversato in primo grado è maturato, in ragione del parere negativo della Soprintendenza, nel distinto procedimento di accertamento di conformità (che costituisce un procedimento di sanatoria postuma dell’abuso).
Ora, ed è questa la questione dirimente del giudizio, è decisivo considerare che l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167 del Codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167).
Sotto tale profilo, ove le opere risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell’art. 167, le autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria.
L’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Tuttavia, nel caso in esame correttamente la Soprintendenza ha escluso la ricorrenza della fattispecie derogatoria appena richiamata, atteso che il vano ascensore, come già detto, ha in fatto comportato un aumento delle volumetrie dell’edificio e, per di più, un’opera rilevante sul piano della sua percezione visiva nel contesto paesaggistico di riferimento.
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A tal proposito non può condividersi l’approccio interpretativo dell’appellante, che mira a neutralizzare il profilo dell’aumento volumetrico determinato del vano ascensore, richiamando la normativa sui cosiddetti volumi tecnici.
Sul punto il Collegio ritiene che tale tesi non tenga conto del testo e della ratio del medesimo art. 167.
Anzitutto appare dubbia, già in linea di principio, l’ascrizione del vano ascensore al novero dei cosiddetti volumi tecnici nei casi in cui, come nella specie, lo stesso sia in fatto conformato alla stregua di un autonomo corpo edilizio destinato ad ospitare l’intero impianto elevatore (e non invece, ad esempio, soltanto l’extracorsa dell’ascensore).
Per volume tecnico si intende infatti un volume destinato ad ospitare un impianto o parte di esso che, per ragioni di funzionalità, di igiene o di sicurezza non potrebbe essere allocato nella volumetria assentita o comunque assentibile (Consiglio di Stato, IV sez., 26.07.1984 n. 578); nel caso in esame non è provato che tale circostanza ricorra in concreto ed appar dubbia l’assimilabilità del vano ascensore avente caratteristiche morfologiche a quello per cui è giudizio al cosiddetto “volume tecnico”, nella cui categoria potrebbe al più rientrare il vano destinato ad ospitare i macchinari funzionali all’ascensore (ma non l’ascensore in sé, dotato di autonomia planovolumetrica rispetto all’edificio servito).
In ogni caso, ed il rilievo appare di per sé assorbente e decisivo, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine di evidenziare la neutralità, sul piano del carico urbanistico, dei cosiddetti volumi tecnici.
E’ pacifico infatti che tale distinzione si rivela inconferente sul piano della tutela dei beni paesaggistici: le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio, o il relativo sottosuolo.
La circolare ministeriale citata dall’appellante (del Ministero dei lavori pubblici del 31.01.1973, n. 2474, e che, in base ad un parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, inserisce tra i volumi tecnici ai fini del calcolo della volumetria assentibile solo i volumi strettamente necessari a contenere e a consentire l’accesso di quelle parti degli impianti tecnici che non possono per esigenze di funzionalità degli impianti trovare luogo entro il corpo di fabbrica dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche), a parte ogni considerazione sulla impossibilità che essa limiti l’applicazione delle sopravvenute disposizioni legislative, già a suo tempo aveva colto il principio per cui la nozione di ‘volume tecnico’ rileva ai soli fini urbanistico-edilizio, avendo specificato che “la sistemazione dei volumi tecnici non deve costituire pregiudizio per la validità estetica dell’insieme architettonico”.
Pertanto, la natura del volume edilizio realizzato (sia o meno qualificabile come volume tecnico) non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere: la nuova volumetria, quale che sia la sua natura, impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell’area (che deve compiersi da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero dalla competente Soprintendenza in sede di redazione di un suo parere), mentre sono radicalmente precluse autorizzazioni postume per le opere abusive che abbiano comportato la realizzazione di nuovi volumi (art. 167 d.lgs. cit.).
Nel caso in esame appare pertanto pienamente legittimo il parere negativo –avente contenuto vincolato- espresso dalla Soprintendenza con la nota 29.01.2007, n. 33585, e, per conseguenza, immune dalle censure dedotte l’avversato diniego comunale.
L’inconfigurabilità della sanzione pecuniaria alternativa e la necessità della riduzione in pristino dello stato dei luoghi sono inoltre effetti legali strettamente connessi alla applicazione dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, il quale non prevede sanzioni alternative alla misura ripristinatoria a carattere reale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.06.2012 n. 3578 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cartellonistica stradale e normativa antisismica.
E' dato notorio che i cartelloni recanti indicazioni sulla viabilità apposti ai margini del tratto autostradale non possono essere, per la funzione svolta, di modeste dimensioni. Appare peraltro di tutta evidenza che anche interventi in apparenza “minori" possano in concreto rilevare sul piano della pericolosità.
Nella valutazione sul punto non possono non concorrere, infatti, con l'elemento dimensionale anche altri aspetti quali, ad esempio, le modalità di collocazione del manufatto, la morfologia del sito, la pendenza del terreno, le modalità di realizzazione delle strutture di sostegno, ecc. in quanto suscettibili di accrescere il grado di pericolo per l'incolumità pubblica.
Ed è ovvio che da tale valutazione non si potrà prescindere anche per le zone in cui il grado di sismicità non sia particolarmente elevato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.06.2012 n. 24086 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cartelloni autostradali in zona sismica: necessaria autorizzazione per realizzarli.
La normativa antisismica deve essere applicata a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla rilevando la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, in quanto l’esigenza di maggior rigore nelle zone dichiarate sismiche rende ancora più necessari i controlli e le cautele prescritte, quando si impiegano elementi strutturali meno solidi e duraturi del cemento armato.

E’ questa la sintesi del principio ripreso dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 18.06.2012 n. 24086, applicato rigorosamente anche per i cartelloni autostradali. Al riguardo, infatti, gli Ermellini non possono fare a meno di richiamare il dato di comune conoscenza che i cartelloni recanti indicazioni sulla viabilità apposti ai margini di un tratto autostradale non possono essere per la funzione svolta di modeste dimensioni e, anche se riferiti ad interventi in apparenza minori, possono in concreto rilevare sul piano della pericolosità.
Nella valutazione sul punto –si legge nella sentenza- non possono non concorrere, infatti, con l'elemento dimensionale anche altri aspetti quali, ad esempio, le modalità di collocazione del manufatto, la morfologia del sito, la pendenza del terreno, le modalità di realizzazione delle strutture di sostegno, in quanto suscettibili di accrescere il grado di pericolo per l'incolumità pubblica.
Allo stesso modo da tale valutazione non sarà possibile prescindere anche per quelle zone in il grado di sismicità non sia particolarmente elevato.
Nel caso di specie, il Tribunale aveva condannato il direttore del tronco autostradale, in qualità di committente, e la ditta, esecutrice dei lavori, alla pena dell’ammenda per il reato di cui all’art. 95 del T.U.E. per aver realizzato opere di installazione di pannelli a messaggi variabili in zona sismica senza la prescritta autorizzazione dell’ufficio competente. Il ricorrente aveva contestato la possibilità di applicare l’articolo 95 del T.U.E. al caso concreto in quanto il concetto di costruzione cui fa riferimento la disposizione predetta si riferisce alle sole opere edili in senso stretto e non anche, quindi, alla realizzazione di semplici pannelli contenenti messaggi autostradali dalla cui istallazione, non può peraltro, oggettivamente derivare una concreta fonte di rischio per l'incolumità.
Come si è visto, la Cassazione respinge fortemente questa interpretazione del ricorrente, ribadendo l’applicabilità della norma ai cartelloni autostradali. Peraltro, sostengono i giudici di Piazza Cavour, la nozione di costruzione è stata ampiamente elaborata dalla giurisprudenza della Corte stessa e da quella amministrativa con riferimento alle tematiche connesse al rilascio della concessione ed è stato rilevato che debbano essere ricompresi nella nozione di costruzione tutte le opere che alterino in modo stabile lo stato dei luoghi, ancorché riconducibili a manufatti privi di volume interno utilizzabile e che, in particolare, anche la sistemazione di una insegna o tabella pubblicitaria richiede il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per le sue rilevanti dimensioni comporti un mutamento territoriale.
Da qui la già dichiarata conseguenza dell’applicabilità della disposizione di cui all’art. 95 del T.U.E. ai cartelloni autostradali con il rigetto di tale motivo di ricorso da parte del Supremo giudice di legittimità (link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi soggetti a permesso di costruire.
L'installazione di due silos metallici e di un impianto di frantumazione richiedono il titolo concessorio così come le opere edili realizzate all'interno di una cava in cui si svolgono attività estrattive autorizzate necessitano del permesso di costruire, ove non precarie, anche se connesse al ciclo produttivo, configurandosi, in difetto, il reato di cui all'art. 44, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
Si ha inoltre trasformazione del suolo anche nello scavo con dinamite del suolo medesimo in modo da arrecare modifiche permanenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2012 n. 23222 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI SERVIZI: L'art. 11, c. 2, d.lgs. n. 157/1995 (ora art. 37, c. 4, d.lgs. n. 163/2006) sull'obbligo di indicare in sede di presentazione dell'offerta le parti di servizio imputate a ciascun operatore raggruppato non ha distinto tra ati orizzontali e verticali.
La previsione contenuta nell'art. 11, c. 2, d.lgs. n. 157 del 1995 (attuale art. 37, c. 4, d.lgs. n. 163 del 2006), nella parte in cui ha previsto che l'offerta proveniente da un raggruppamento d'imprese ‹‹deve specificare le parti del servizio che saranno eseguite dalle singole imprese e contenere l'impegno che, in caso di aggiudicazione della gara, le stesse imprese si conformeranno alla disciplina prevista nel presente articolo›, si applica quando si tratti non solo si tratti di a.t.i. verticali, ma anche di a.t.i. orizzontali.
Conclusivamente, l'obbligo in questione, da assolvere a pena di esclusione al più tardi in sede di formulazione dell'offerta -mentre una dichiarazione successiva, in sede di esecuzione del contratto, non potrebbe assolvere allo stesso modo alle esigenze di trasparenza ed affidabilità che caratterizzano la gara, sicché la sanzione dell'esclusione rispetta i criteri della proporzionalità e dell'adeguatezza-, è espressione di un principio generale che non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), o alla tipologia (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 13.06.2012 n. 22 - link a www.dirittodeisevizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’atto di esercizio della prelazione in ordine alle alienazioni di beni di interesse storico–artistico necessita di congrua motivazione, che dia conto degli interessi pubblici attuali all’acquisizione del bene, senza, peraltro, che si esiga un particolare rigore nella puntuale definizione degli scopi cui il bene è destinato.
La prelazione, essendo prevista in un’ottica di tutela del patrimonio storico-artistico nazionale, presuppone che l’acquisizione del bene al patrimonio statale ne consenta una migliore tutela, e in particolare, una migliore valorizzazione e fruizione del pregio storico–artistico.
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In tema di prelazione sulle alienazioni di beni di interesse storico-artistico, non occorre la comunicazione dell’avvio del procedimento, in quanto il procedimento stesso scaturisce da una serie di atti di iniziativa privata, quali il trasferimento negoziale del bene e la successiva denuncia all’amministrazione, per cui un’ulteriore fase partecipativa degli stessi soggetti privati autori dell’atto negoziale su cui si innesta il diritto di prelazione non avrebbe alcun risvolto di utilità, essendo rimessa all’esclusiva valutazione tecnico-discrezionale dell’amministrazione la consistenza e l’importanza dell’interesse generale in base al quale si esercita la prelazione medesima.
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Quanto alla tempestività o meno dell’esercizio della prelazione rispetto al termine di 60 giorni, tale termine decorre dalla ricezione della denuncia, e non dalla data di invio della denuncia.
Tanto si evince, del resto, dal chiaro tenore letterale dell’art. 59, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, quanto alla prelazione dello Stato, e la stessa regola non può che valere nel caso di esercizio della prelazione da parte di altri enti territoriali (art. 62, comma 3, d.lgs. n. 42 del 2004).
Il diverso tenore letterale delle disposizioni normative, che in alcuni casi fanno riferimento tal quale alla data della denuncia, in altri alla data di ricezione della denuncia, non sta ad indicare un diverso regime giuridico per fattispecie identiche, atteso che la denuncia non può che avere sempre il medesimo regime giuridico, non potendo essere a geometria variabile, atto recettizio o non recettizio in funzione dei diversi destinatari; semplicemente, laddove si parla di temine decorrente dalla “data della denuncia”, il legislatore usa una formula sintetica, sottintendendo l’applicazione del principio generale sulla recettizietà degli atti di privati da cui decorrono, per l’Amministrazione, termini perentori.
D’altra parte, quando la legge fissa un termine entro il quale un potere può essere legittimamente esercitato, l’inizio della decorrenza presuppone la possibilità di esercitare il medesimo potere, ciò che ovviamente non avviene quando vi è una denuntiatio contractus, non ancora pervenuta all’amministrazione.
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In tema di prelazione sui beni culturali, la proposta formulata dall’ente interessato, in quanto atto irrevocabile e vincolante, va assimilata ad un provvedimento di acquisto del bene e perciò, ai sensi del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, è soggetta all’obbligo di provvista e copertura finanziaria; di conseguenza è inefficace la proposta di prelazione deliberata da un Comune che per la copertura della spesa rinvii ad un mutuo ancora da stipulare con la cassa depositi e prestiti.

Va anzitutto ricostruito il quadro normativo di riferimento.
Ai sensi dell’art. 59, comma 1, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, “gli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà o, limitatamente ai beni mobili, la detenzione di beni culturali sono denunciati al Ministero”.
Ai sensi del successivo art. 60, comma 1, “Il Ministero o, nel caso previsto dall'articolo 62, comma 3, la regione o agli altri enti pubblici territoriali interessati, hanno facoltà di acquistare in via di prelazione i beni culturali alienati a titolo oneroso o conferiti in società, rispettivamente, al medesimo prezzo stabilito nell'atto di alienazione o al medesimo valore attribuito nell'atto di conferimento”.
La prelazione è esercitata nel termine di sessanta giorni dalla data di ricezione della denuncia prevista dall'articolo 59 (art. 61, comma 1).
Entro tale termine di sessanta giorni, il provvedimento di prelazione è notificato all'alienante ed all'acquirente (art. 61, comma 3).
Il soprintendente, ricevuta la denuncia di un atto soggetto a prelazione, ne dà immediata comunicazione alla regione e agli altri enti pubblici territoriali nel cui àmbito si trova il bene (art. 62, comma 1).
La regione e gli altri enti pubblici territoriali, nel termine di venti giorni dalla denuncia, formulano al Ministero una proposta di prelazione, corredata dalla deliberazione dell'organo competente che predisponga, a valere sul bilancio dell'ente, la necessaria copertura finanziaria della spesa indicando le specifiche finalità di valorizzazione culturale del bene (art. 62, comma 2).
Il Ministero può rinunciare all'esercizio della prelazione, trasferendone la facoltà all'ente interessato entro venti giorni dalla ricezione della denuncia. Detto ente assume il relativo impegno di spesa, adotta il provvedimento di prelazione e lo notifica all'alienante ed all'acquirente entro e non oltre sessanta giorni dalla denuncia medesima (art. 62, comma 3).
Dal quadro normativo si evince che, ogni qualvolta il bene è sottoposto a vincolo culturale, il trasferimento della proprietà tra privati deve essere denunciato al Ministero per i beni e le attività culturali.
Quest’ultimo ha facoltà di esercizio della prelazione, senza ulteriore condizione se non quella del pagamento prezzo fissato nell’atto di compravendita tra i privati e del rispetto dei termini di legge.
Se il Ministero rinuncia alla prelazione, questa può essere esercitata dagli enti pubblici territoriali nel cui territorio ricade il bene, a condizione, oltre che del rispetto dei termini di legge, della adozione di una deliberazione che predisponga, a valere sul bilancio dell'ente, la necessaria copertura finanziaria della spesa e che indichi le specifiche finalità di valorizzazione culturale del bene.
Non è pertanto necessario che il bene su cui si eserciti la prelazione sia già ricompreso in un progetto di valorizzazione, essendo sufficiente che siano indicate “le specifiche finalità di valorizzazione culturale del bene” e la copertura finanziaria della spesa.
Il che ben si comprende, ove si consideri il ristretto termine per l’esercizio della prelazione, termine perentorio, la cui brevità non consentirebbe di approntare un progetto di utilizzo.
L’atto di esercizio della prelazione in ordine alle alienazioni di beni di interesse storico–artistico necessita di congrua motivazione (Cons. St., sez. VI, 23.03.1982, n. 129), che dia conto degli interessi pubblici attuali all’acquisizione del bene (Cons. St., sez. VI, 18.07.1997, n. 1125), senza, peraltro, che si esiga un particolare rigore nella puntuale definizione degli scopi cui il bene è destinato (Cons. St., sez. VI, 30.09.2004, n. 6350).
La prelazione, essendo prevista in un’ottica di tutela del patrimonio storico-artistico nazionale, presuppone che l’acquisizione del bene al patrimonio statale ne consenta una migliore tutela, e in particolare, una migliore valorizzazione e fruizione del pregio storico–artistico (Cons. St., sez. VI, 21.02.2001, n. 923).
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La giurisprudenza della Sezione invocata da parte appellante, secondo cui nel procedimento di prelazione è necessario l’avviso di avvio del procedimento (Cons. St., sez. VI, Cons. St., sez. VI, 21.02.2001, n. 923; Id., 30.09.2004, n. 6350), è stata superata dalla più recente giurisprudenza sia di questa stessa Sezione, che della sez. II.
Si è affermato che, in tema di prelazione sulle alienazioni di beni di interesse storico-artistico, non occorre la comunicazione dell’avvio del procedimento, in quanto il procedimento stesso scaturisce da una serie di atti di iniziativa privata, quali il trasferimento negoziale del bene e la successiva denuncia all’amministrazione, per cui un’ulteriore fase partecipativa degli stessi soggetti privati autori dell’atto negoziale su cui si innesta il diritto di prelazione non avrebbe alcun risvolto di utilità, essendo rimessa all’esclusiva valutazione tecnico-discrezionale dell’amministrazione la consistenza e l’importanza dell’interesse generale in base al quale si esercita la prelazione medesima (Cons. St., sez. II, 08.06.2005, n. 4019; Id., sez. VI, 04.04.2008, n. 1430; sez. VI, 19.01.2011, n. 362).
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Quanto alla tempestività o meno dell’esercizio della prelazione rispetto al termine di 60 giorni, come correttamente ha ritenuto il Tar, tale termine decorre dalla ricezione della denuncia, e non dalla data di invio della denuncia.
Tanto si evince, del resto, dal chiaro tenore letterale dell’art. 59, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, quanto alla prelazione dello Stato (Cons. St., sez. VI, 30.09.2004, n. 6350), e la stessa regola non può che valere nel caso di esercizio della prelazione da parte di altri enti territoriali (art. 62, comma 3, d.lgs. n. 42 del 2004).
Il diverso tenore letterale delle disposizioni normative, che in alcuni casi fanno riferimento tal quale alla data della denuncia, in altri alla data di ricezione della denuncia, non sta ad indicare un diverso regime giuridico per fattispecie identiche, atteso che la denuncia non può che avere sempre il medesimo regime giuridico, non potendo essere a geometria variabile, atto recettizio o non recettizio in funzione dei diversi destinatari; semplicemente, laddove si parla di temine decorrente dalla “data della denuncia”, il legislatore usa una formula sintetica, sottintendendo l’applicazione del principio generale sulla recettizietà degli atti di privati da cui decorrono, per l’Amministrazione, termini perentori.
D’altra parte, quando la legge fissa un termine entro il quale un potere può essere legittimamente esercitato, l’inizio della decorrenza presuppone la possibilità di esercitare il medesimo potere, ciò che ovviamente non avviene quando vi è una denuntiatio contractus, non ancora pervenuta all’amministrazione.
In conclusione, essendo la denuncia pervenuta all’Amministrazione in data 09.08.2010, è tempestivo l’atto di esercizio della prelazione, adottato il 07.10.2010 e notificato l’08.10.2010.
Quanto alla questione inerente la copertura finanziaria, il Collegio ricorda l’orientamento della Sezione secondo cui, in tema di prelazione sui beni culturali, la proposta formulata dall’ente interessato, in quanto atto irrevocabile e vincolante, va assimilata ad un provvedimento di acquisto del bene e perciò, ai sensi del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, è soggetta all’obbligo di provvista e copertura finanziaria; di conseguenza è inefficace la proposta di prelazione deliberata da un Comune che per la copertura della spesa rinvii ad un mutuo ancora da stipulare con la cassa depositi e prestiti (Cons. St., sez. VI, 30.09.2004, n. 6350)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.05.2012 n. 3209 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lotti, interventi edilizi e volumetria residua: frazionamenti catastali irrilevanti.
Qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta residua) va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo.
Ne consegue che, ai fini della costruzione di nuovi volumi, è irrilevante che un lotto unitario sia catastalmente suddiviso in più particelle, essendo necessario considerare tutti i volumi già esistenti sull'intera area di proprietà.

Tanto è consolidato questo orientamento che l'Adunanza plenaria ha rilevato che, in sede di determinazione della volumetria assentibile su una determinata area secondo l'indice di densità fondiaria in vigore, è computabile anche la costruzione realizzata prima della L. n. 1150 del 1942, quando cioè lo ius aedificandi era considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente in sede di commisurazione della volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area e che individua il volume massimo consentito su di essa.
Ciò comporta la necessità di tener conto del dato reale costituito dagli immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante. Rileva, in definitiva, la situazione di fatto, apprezzata con riguardo al lotto originario.
L'omissione del nominativo del responsabile del procedimento ex art. 4, comma 1, L. n. 241 del 1990 costituisce in linea di principio (e cioè salve le ipotesi in cui sia dimostrato un concreto pregiudizio) semplice irregolarità, che non refluisce in illegittimità del provvedimento finale.
Trova infatti applicazione la norma suppletiva recata dal successivo art. 5, comma 2, della stessa L. n. 241 del 1990, secondo il quale, in difetto di tale designazione, è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto all'unità organizzativa competente.
Dal combinato disposto degli artt. 4-6, L. n. 241 del 1990 risulta che il compito essenziale del responsabile del procedimento è quello di accertare i fatti disponendo il compimento degli atti all'uopo necessari.
Pertanto la legge affida all'apprezzamento del responsabile del procedimento il compito di individuare i mezzi istruttori più idonei per l'accertamento dei fatti da porre a fondamento del provvedimento conclusivo. La scelta dei mezzi può ritenersi viziata sotto il profilo della legittimità solo allorché appaia incongrua rispetto al fine voluto dal legislatore ovvero porti a risultati aberranti o a travisamento dei fatti.
Nel caso de quo il Giudice di primo grado ha correttamente osservato che l'Amministrazione ha posto in essere un'ampia ed approfondita istruttoria. Il vizio denunciato perciò non sussiste (tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.05.2012 n. 2941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Diniego di rilascio del Permesso di costruire nel caso in cui la costruzione ricada nella fascia di rispetto stradale.
E’ legittimo il diniego di rilascio di un permesso di costruire per una costruzione che ricade nella fascia di rispetto stradale, atteso che il vincolo di rispetto stradale ha carattere assoluto, in quanto perseguente una serie concorrente di interessi pubblici fondamentali ed inderogabili; da ciò deriva la conseguenza che il diniego di condono di un edificio abusivamente realizzato in violazione di detto vincolo non richiede un previo accertamento sulla effettiva pericolosità dello stesso per il traffico stradale (Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.05.2010, n. 2644) (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2012 n. 2842 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Revoca dell’aggiudicazione di una gara, con riferimento a notizie emerse dalla stampa e successivamente adeguatamente accertate dalla P.A..
E’ legittimo il provvedimento con il quale la P.A., in forza della rinnovata valutazione del pubblico interesse, resa necessaria da sopravvenute circostanze di fatto, idonee ad incidere negativamente sull’elemento fiduciario che dovrebbe connotare ab origine i rapporti contrattuali pubblici, ha revocato in autotutela l’aggiudicazione di una gara, che sia motivato con riferimento al fatto che, da notizie apprese dalla stampa e successivamente verificate a mezzo di acquisizione della relativa documentazione (nella specie si trattava di verbali della polizia giudiziaria e, quindi, di atti redatti da pubblici ufficiali), è emerso che la ditta interessata aveva precedentemente posto in essere gravi inadempimenti nei confronti di altra P.A., con conseguenze anche penalmente rilevanti, nello stesso settore della gara di appalto (1).
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(1) Ha aggiunto la sentenza in rassegna che dette emergenze, a prescindere dalla loro rilevanza o meno sul piano penale, consentono alla P.A. di escludere il concorrente, per difetto del requisito soggettivo in parola, pur in mancanza di un accertamento giurisdizionale dei fatti ritenuti rilevanti per la formulazione del giudizio negativo in ordine all’attività professionale svolta, e, dall’altra, giustificano ampiamente il giudizio di sopravvenuta perdita del requisito di affidabilità, proprio e soprattutto con riferimento a prestazione professionali di identico contenuto contrattuale, rispetto a quelle nell’ambito delle quali esse si sono verificate (massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Veneto, Sez. I, sentenza 17.05.2012 n. 703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sui provvedimenti sanzionatori decide il giudice amministrativo.
Con un chiaro richiamo al principio affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nell’ordinanza 12.03.2008, n. 6525 il Tribunale di Palermo, sezione distaccata di Bagheria, risolve un’interessante questione in tema di giurisdizione. Infatti, con la sentenza 28.03.2012, viene ribadito dal giudice di merito che attiene alla materia urbanistica tutta l’attività oggetto di autorizzazione da parte della Pubblica Amministrazione, e pertanto appartengono alla stessa materia anche i provvedimenti sanzionatori adottati dall’autorità amministrativa in relazione alle difformità delle opere realizzate rispetto al contenuto dell’autorizzazione stessa. Ciò in quanto non è possibile distinguere detti provvedimenti per il solo elemento della loro funzione sanzionatoria, peraltro strumentale all'esercizio dei poteri di vigilanza strettamente connessi alle potestà autoritative riconosciute per la tutela dell'interesse pubblico sotteso alla salvaguardia dei vincoli imposti sulle aree interessate alle opere.
Nel caso di specie, il giudizio aveva tratto origine dalla domanda di annullamento ai sensi dell’art. 22 della l. 689/1981 del provvedimento reso dall’Amministrazione resistente, con il quale veniva comminata al ricorrente la sanzione dell’obbligo di pagamento della somma di € 44.113, 36 in relazione alla realizzazione di un’opera abusiva,contrastante con gli strumenti posti a tutela del patrimonio paesaggistico, posta in essere da padre del ricorrente, deceduto tre anni prima, e ciò in base al presupposto della trasmissibilità iure hereditario di tale peculiare tipologia di sanzione. Al riguardo, si ricorda che ai sensi dell’articolo 167 del Codice dei beni culturali e del paesaggio l’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica è titolare di una discrezionalità nella scelta dello strumento sanzionatorio da applicare in merito alla violazione prevista.
D’altra parte, il ricorrente poneva a fondamento delle proprie doglianze l’affermata estinzione della sanzione inflitta, visto il contenuto dell’art. 7 della l. 689/1981 che dispone che l’obbligazione di pagare una somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa non si trasmette agli eredi. In tale contesto, si inserisce la eccezione preliminare del difetto di giurisdizione sollevata dall’Amministrazione e –come si è visto- accolta dal giudice di merito. Infatti, il d.lgs. n. 80/1998 all’art. 34 ha riservato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia edilizia e urbanistica.
Il giudice di merito prosegue sostenendo che non osta all’applicabilità della citata disposizione il rilievo che la l. n. 689/1981, art. 22-bis, nel ripartire la competenza tra Giudice di Pace e Tribunale, in tema di opposizioni alle sanzioni ex art. 22 della legge stessa, prevede che l’opposizione vada proposta davanti al Tribunale quando la sanzione è stata applicata per una violazione concernente disposizioni in materia di urbanistica ed edilizia perché –si legge nella sentenza– l’ultimo comma della disposizione medesima fa salve le competenze stabilite da diverse disposizioni di legge; tra queste va certamente ricompreso il D.lgs. n. 80 del 1998, art. 34.
Da qui la dichiarazione della giurisdizione del Giudice Amministrativo con la rimessione delle parti innanzi al TAR competente per territorio, restando impregiudicata ogni questione relativa al merito della causa (link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi edilizi sul patrimonio culturale religioso: vige il divieto anche in assenza della dichiarazione di interesse culturale.
Una importante sentenza della Corte di Cassazione, in apparente contrasto con i principi contenuti nel Codice del beni culturali e del paesaggio di cui al D. Leg.vo 42/2004, afferma la configurabilità del reato di abusiva esecuzione di opere edilizie sui beni di interesse culturale proprietà degli Enti religiosi anche in assenza della dichiarazione di interesse culturale.
Nessun decreto preesistente
In tema di protezione delle bellezze naturali, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 169, comma primo, lett. a), del D. Leg.vo 22.01.2004, n. 42, che punisce l’abusiva demolizione, rimozione, modifica, restauro od esecuzione di opere di qualunque genere sui beni culturali, non è necessaria per i beni artistici appartenenti alle parrocchie la preesistenza della dichiarazione di interesse culturale del bene, giacché si presumono per legge beni culturali, se hanno valore artistico.
E’ questo il principio di diritto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 23.03.2012 n. 11412 in tema di opere illecite su beni culturali. Si tratta di una sentenza rilevante, in quanto sembra annullare quanto di innovativo era stato introdotto dal Codice dei beni culturali in tema di verifica di interesse culturale di beni appartenenti a soggetti pubblici o equiparati, quali parrocchie e/o enti religiosi.
Sia sufficiente ricordare che tra le novità maggiormente significative degli strumenti di tutela introdotti nel 2004 dal D. Leg.vo 42 vi era proprio la necessità di adottare un espresso provvedimento amministrativo di sussistenza dell’interesse culturale per i beni appartenenti a soggetti pubblici. Ciò in chiara discontinuità con quanto previsto nel T.U. del 1999 e prima ancora nella l. 1089 del 1939 che prevedeva un regime di tutela ope legis per i beni appartenenti agli enti religiosi, senza alcuna necessità di adozione di un espresso provvedimento amministrativo di tutela.
Nessuna innovazione del codice dei beni culturali
Come si diceva, questa novità viene oggi negata dalla Corte di Cassazione che con la sentenza n. 11412 pone piuttosto in evidenza la continuità del regime giuridico previsto anteriormente all’entrata in vigore del Codice dei beni culturali con quello immediatamente successivo.
Ciò è tanto vero da far leggere nel testo della sentenza che l’affermazione del funzionario della soprintendenza, secondo il quale i beni delle chiese aperte al pubblico sono sempre stati considerati beni culturali, se aventi valore artistico, è conforme alle disposizioni normative che si sono succedute nel tempo in materia di tutela di beni artistici nonché all’orientamento della stessa Cassazione.
Efficacia del vincolo per i soggetti ecclesiastici
Secondo gli Ermellini il Codice Urbani, sotto l’aspetto degli strumenti di tutela dei beni appartenenti alla Chiesa non ha innovato in maniera sostanziale la legislazione previgente.
Pertanto, come in regime della l. 1089 del 1939, il decreto impositivo del vincolo deve essere notificato ai soggetti interessati solo se relativo a cose appartenenti a privati, mentre per quelle appartenenti ad Istituto legalmente riconosciuto il vincolo è efficace a prescindere da qualsiasi notifica del provvedimento. Nello specifico, la Corte ricorda che commette il reato di cui all’art. 62 della l. n. 1089/1939 il titolare di una Parrocchia che alieni senza autorizzazione una cosa di interesse artistico appartenente ad una Chiesa aperta al pubblico.
Del pari, vista la non obbligatorietà della notifica del provvedimento di tutela per i soggetti pubblici, anche i lavori di modifica o restauro di beni appartenenti ad un soggetto pubblico o assimilato senza la necessaria autorizzazione ministeriale configura il reato di cui all’art. 59, in relazione all’art. 11 della l. 1089/1939.
La demolizione di parti di bene non dichiarato di interesse
Nel caso di specie la Corte di appello di Firenze aveva confermato la sentenza resa dal giudice dell’udienza preliminare con cui il legale rappresentante di una ditta esecutrice dei lavori, e il direttore dei lavori, erano stati condannati ciascuno alla pena di quattro mesi di arresto ed euro 600 di ammenda quali responsabili del reato di cui all’art. 169 del D. Leg.vo n. 42/2004 per avere eseguito lavori in un oratorio senza chiedere la preventiva autorizzazione ed avendo demolito parti del bene.
La difesa dei due ricorrenti in cassazione si è basata principalmente sull’assenza della dichiarazione di interesse culturale -prevista dall’articolo 13 del Codice- dell’oratorio in questione che, pertanto, non poteva essere considerato bene culturale. Ciò trovava conferma nell’assenza all’interno dell’articolo 10 del Codice dei beni culturali, di qualsiasi riferimento agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti fino alla modifica intervenuta a mezzo dell’articolo 2 del D. Leg.vo n. 62/2008, che aveva inserito tale riferimento nella norma de qua.
La Corte tuttavia non ritiene corretto il ragionamento prospettato dai ricorrenti, collegando in un continuum temporale la normativa previgente al Codice con quella successiva ad esso. Da ciò il rigetto del ricorso con la condanna dei ricorrenti singolarmente al pagamento delle spese processuali.
Una sentenza reazionaria
Resta il dubbio della compatibilità del ragionamento dei giudici del Palazzaccio con il significato della innovazione del Codice dei beni culturali rispetto alla necessità per gli enti ecclesiastici di sottoporsi alla verifica di interesse del proprio patrimonio immobiliare e mobiliare, così come intesa dagli articoli 10 e 12 del Codice stesso, la cui conclusione prevede legislativamente l’adozione di una dichiarazione di interesse da notificare ai proprietari ai sensi dell’art. 15 dello stesso Codice, pena l’impossibilità per l’ente religioso, proprietario del bene, di procedere alla richiesta di alienare il patrimonio stesso.
Al riguardo, non si può fare a meno di avanzare notevoli perplessità sull’orientamento della Cassazione appena enunciato che, di fatto, sposta le lancette della tutela del patrimonio culturale ecclesiastico (e pubblico) indietro nel tempo fino al 1939 (tratto da Bollettino di Legislazione Tecnica n. 7-8/2012).

APPALTI SERVIZI: Sulla legittimità delle determinazioni di un comune che ha disposto l'indizione di una gara europea per l'affidamento del servizio rifiuti, poiché la selezione del socio privato della soc. mista si era svolta in contrasto con i principi che informano la materia.
Sono legittime le determinazioni con le quali un comune, muovendo dal presupposto dell'esaurimento degli effetti dell'affidamento precedentemente disposto in favore della società mista, ha disposto l'indizione di una gara europea finalizzata all'affidamento della gestione del servizio di raccolta rifiuti urbani.
Il c. 8, lett. e), dell'art. 23-bis, del d.l. 25.06.2008, n. 112, conv. dalla l. 06.08.2008, n. 133, nel testo ratione temporis vigente, disponeva, infatti, la cessazione, entro e non oltre il 31.12.2010, delle gestioni dei servizi pubblici locali affidate in assenza dei presupposti di cui alle precedenti lettere da a) a d). La lettera b), che in questa sede viene in rilievo, consentiva, a sua volta, l'affidamento diretto del servizio a società a partecipazione pubblica qualora la selezione del socio privato fosse avvenuta mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica rispettosa dei principi comunitari e nazionali.
Pertanto, nel caso di specie, poiché dall'esame della documentazione risulta che detto ultimo presupposto non si è verificato con riguardo alla selezione del socio privato della società mista la relativa procedura, si è svolta in contrasto con i principi che informano la materia. Infatti, per un verso, la procedura è stata riservata solo a tre imprese operanti in ambito regionale, e, per altro verso, non è stata pubblicata una lex specialis corredata dalla fissazione dei criteri di valutazione volti a regolare la selezione comparativa ed a consentire ai soggetti interessati di far valere le proprie chances competitive.
Il difetto di pubblicità che connota tale modus agendi e la previsione di restrizioni discriminatorie si traducono nella trasgressione dei fondamentali principi comunitari di trasparenza, non discriminazione, mutuo riconoscimento e parità di trattamento, principi -da ultimo richiamati, anche per i contratti esclusi, dall'art. 27 del codice dei contratti pubblici- che devono informare anche lo svolgimento di procedure competitive non assoggettate a vincoli legislativi puntuali (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.03.2012 n. 1633 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATALa previsione normativa secondo cui l’agibilità <<si intende attestata>>, decorso il termine indicato, non configura una vera e propria ipotesi di silenzio-assenso in senso tecnico, di cui all’art. 20 della legge 241/1990, ma dà luogo invece ad una sorta di legittimazione ex lege, che prescinde dalla pronuncia della Pubblica Amministrazione e che trova il suo fondamento nella effettiva sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per il rilascio del titolo.
Tale interpretazione dell’art. 25, comma 4, del DPR 380/2001 trova fondamento nel successivo art. 26 del Testo Unico dell’edilizia, secondo il quale: <<Il rilascio del certificato di agibilità non impedisce l'esercizio del potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di parte di esso ai sensi dell'articolo 222 del r.d. 27.07.1934, n. 1265>>.
In forza di tale articolo del Testo Unico delle leggi sanitarie: <<Il podestà, sentito l'ufficiale sanitario o su richiesta del medico provinciale, può dichiarare inabitabile una casa o parte di essa per ragioni igieniche e ordinarne lo sgombero>>. La declaratoria di inabitabilità (o meglio inagibilità, visto che il DPR 380/2001 non distingue più espressamente l’inagibilità dalla inabitabilità), può essere effettuata in ogni tempo e non costituisce manifestazione di autotutela amministrativa, ma soltanto attestazione della insussistenza –originaria o sopravvenuta non importa– dei requisiti tecnici necessari per dichiarare agibile un edificio.

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L’agibilità può essere negata non solo in caso di mancanza di condizioni igieniche ma anche in caso di contrasto con gli strumenti urbanistici o con il titolo edilizio (DIA o permesso di costruire).
A tale conclusione perviene gran parte della giurisprudenza senza contare che questa interpretazione ha anche un supporto normativo nell’art. 25, comma 1, del Testo Unico dell’Edilizia. A norma della lettera b) del comma 1 citato, infatti, la domanda di agibilità deve essere corredata, fra l’altro, da una dichiarazione del richiedente <<(…) di conformità dell’opera rispetto al progetto approvato>>, e ciò significa che in caso di difformità dell’opera dal progetto edilizio, ma anche evidentemente in caso di assenza di idoneo progetto, l’agibilità dovrà essere negata.

Con il primo motivo aggiunto, si denuncia l’illegittimità del diniego del 02.11.2009, per violazione dell’art. 25, comma 4, del DPR 380/2001 (Testo Unico dell’edilizia), in quanto, a detta dell’esponente, sulla domanda di agibilità del 07.06.2007 si sarebbe formato silenzio-assenso.
In effetti, secondo il comma 4 citato, l’agibilità si intende attestata, nel caso in cui sia rilasciato il parere dell’ASL, qualora sia decorso inutilmente il termine di cui al comma 3 dello stesso articolo 25 (trenta giorni dalla ricezione della domanda o della documentazione integrativa, in caso di interruzione del termine da parte del responsabile del procedimento).
Nel caso di specie, la domanda risulta depositata in Comune il 07.06.2007 (circostanza non smentita dall’Amministrazione), mentre l’ultima integrazione documentale è stata effettuata dalla Fondazione il 05.02.2008, per cui il termine di legge di trenta giorni risulterebbe ampiamente decorso al momento di adozione dell’atto impugnato (02.11.2009).
Il motivo non merita però accoglimento, alla luce della giurisprudenza formatasi in materia, anche relativa alla normativa sul certificato di agibilità anteriore al DPR 380/2001, vale a dire il DPR 22.04.1994 n. 425, oggi abrogato, il cui art. 4 conteneva una formulazione analoga a quella dell’art. 25, comma 4, sopra citato.
Per i giudici amministrativi, infatti, la previsione normativa secondo cui l’agibilità <<si intende attestata>>, decorso il termine indicato, non configura una vera e propria ipotesi di silenzio-assenso in senso tecnico, di cui all’art. 20 della legge 241/1990, ma dà luogo invece ad una sorta di legittimazione ex lege, che prescinde dalla pronuncia della Pubblica Amministrazione e che trova il suo fondamento nella effettiva sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per il rilascio del titolo (cfr. TAR Lazio, sez. II-bis, 25.05.2005, n. 4129, con la giurisprudenza ivi richiamata).
Tale interpretazione dell’art. 25, comma 4, del DPR 380/2001 trova fondamento nel successivo art. 26 del Testo Unico dell’edilizia, secondo il quale: <<Il rilascio del certificato di agibilità non impedisce l'esercizio del potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di parte di esso ai sensi dell'articolo 222 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265>>.
In forza di tale articolo del Testo Unico delle leggi sanitarie: <<Il podestà, sentito l'ufficiale sanitario o su richiesta del medico provinciale, può dichiarare inabitabile una casa o parte di essa per ragioni igieniche e ordinarne lo sgombero>>. La declaratoria di inabitabilità (o meglio inagibilità, visto che il DPR 380/2001 non distingue più espressamente l’inagibilità dalla inabitabilità), può essere effettuata in ogni tempo e non costituisce manifestazione di autotutela amministrativa, ma soltanto attestazione della insussistenza –originaria o sopravvenuta non importa– dei requisiti tecnici necessari per dichiarare agibile un edificio.
L’atto impugnato non può quindi essere considerato un provvedimento negativo tardivo, visto che sulla domanda della ricorrente non si è formato tacitamente alcun provvedimento di assenso.
Si conferma, pertanto, il rigetto del primo motivo aggiunto.
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Attraverso il terzo mezzo aggiunto, viene dapprima lamentata la violazione dei principi dell’art. 25 del DPR 380/2001, in quanto, a detta della ricorrente, l’agibilità non potrebbe negarsi facendo riferimento a ragioni di ordine urbanistico o edilizio, ma soltanto a ragioni di igiene e salubrità, come risultanti dal citato art. 25.
Sul punto, preme però al Collegio evidenziare come non possa essere condiviso l’orientamento, anche se talora emergente in giurisprudenza, che condiziona il rilascio del certificato di agibilità alla sola salubrità degli ambienti ma non anche alla loro conformità urbanistica, distinguendo quindi nettamente il momento di valutazione dell’igiene dell’immobile da quello della sua compatibilità edilizia.
Al contrario, reputa il Tribunale che l’agibilità possa essere negata non solo in caso di mancanza di condizioni igieniche ma anche in caso di contrasto con gli strumenti urbanistici o con il titolo edilizio (DIA o permesso di costruire).
A tale conclusione perviene gran parte della giurisprudenza (oltre al già citato TAR Lazio, n. 4129/2005, si vedano anche Consiglio di Stato, sez. V, 12.12.2008, n. 6174 e 05.04.2005, n. 1542; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.09.2009, n. 4672, che ha ritenuto legittimo il diniego di agibilità a fronte del mancato pagamento degli oneri concessori), senza contare che questa interpretazione ha anche un supporto normativo nell’art. 25, comma 1, del Testo Unico dell’Edilizia. A norma della lettera b) del comma 1 citato, infatti, la domanda di agibilità deve essere corredata, fra l’altro, da una dichiarazione del richiedente <<(…) di conformità dell’opera rispetto al progetto approvato>>, e ciò significa che in caso di difformità dell’opera dal progetto edilizio, ma anche evidentemente in caso di assenza di idoneo progetto, l’agibilità dovrà essere negata.
Del resto, appare assurdo che il Comune rilasci l’agibilità a fronte di un’opera magari palesemente abusiva e destinata quindi con certezza alla demolizione, apparendo tale comportamento dell’Amministrazione contraddittorio rispetto al perseguimento del pubblico interesse.
Di conseguenza, non può il diniego di agibilità essere reputato illegittimo per la sola circostanza che è motivato con riferimento a presunte violazioni della normativa urbanistica o edilizia (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.02.2010 n. 332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa agibilità è certamente rivolta al controllo delle condizioni di sicurezza, ma presuppone anche che il procedimento edilizio sia completo e quindi che l’obbligazione patrimoniale del pagamento degli oneri sia stata adempiuta.
Nel secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli art. 24 e 25 DPR 380/2001 in quanto la determinazione dell’Amministrazione di subordinare il rilascio della agibilità al pagamento degli oneri sarebbe illegittima.
La agibilità è certamente rivolta al controllo delle condizioni di sicurezza, ma presuppone anche che il procedimento edilizio sia completo e quindi che l’obbligazione patrimoniale del pagamento degli oneri sia stata adempiuta.
L’assenza di questa condizione, come nel caso di specie, giustifica il rigetto della domanda (
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.09.2009 n. 4672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASebbene, l'art. 4 del d.P.R. 425/1994 preveda che il silenzio dell'amministrazione comunale protrattosi per oltre quarantacinque giorni sulla richiesta di rilascio della licenza di abitabilità comporti che "l'abitabilità si intende attestata", nondimeno il silenzio non costituisce una forma di silenzio-assenso in senso tecnico, ma solo una legittimazione ex lege che prescinde dalla pronuncia della p.a. e trova il suo fondamento nella effettiva sussistenza di tutti i presupposti richiesti dalla legge per il rilascio della licenza.
La situazione determinatasi a seguito del silenzio potrà perciò ritenersi legittima solo nel caso in cui la costruzione sia conforme alla concessione edilizia e agli strumenti urbanistici vigenti e sussistano le condizioni igienico sanitarie per la concreta abitabilità.
Infatti la norma -ora contenuta nell'art. 25 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380- condiziona il rilascio del certificato di abitabilità non solo all'aspetto igienico-sanitario (salubrità degli ambienti), ma anche alla conformità edilizia dell'opera realizzata rispetto al progetto approvato: e ciò per la innegabile stretta correlazione fra i due momenti valutativi.
In base all'art. 4 d.P.R. 22.04.1994 n. 425, pertanto, il certificato di agibilità deve essere rilasciato o negato per ragioni prevalentemente inerenti il profilo igienico-sanitario, tuttavia è anche previsto che l'agibilità presupponga che si tratti di locali dei quali va dichiarata la conformità rispetto al progetto approvato. È evidente che se i locali sono abusivi l'agibilità non può essere rilasciata, non avendo alcun significato dichiarare agibile un locale non conforme alla disciplina urbanistico-edilizia o del quale non è stata o è stata falsamente attestata la conformità rispetto al progetto approvato, perché il progetto non è stato approvato o l'opera è stata realizzata in difformità da esso.

L’art. 4 del D.P.R. n. 425/1994, rubricato “Rilascio del certificato di abitabilità.”, dispone testualmente che: “1. Affinché gli edifici, o parti di essi, indicati nell'art. 220 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265, possano essere utilizzati, è necessario che il proprietario richieda il certificato di abitabilità al sindaco, allegando alla richiesta il certificato di collaudo, la dichiarazione presentata per l'iscrizione al catasto dell'immobile, restituita dagli uffici catastali con l'attestazione dell'avvenuta presentazione, e una dichiarazione del direttore dei lavori che deve certificare, sotto la propria responsabilità, la conformità rispetto al progetto approvato, l'avvenuta prosciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti.
2. Entro trenta giorni dalla data di presentazione della domanda, il sindaco rilascia il certificato di abitabilità; entro questo termine, può disporre una ispezione da parte degli uffici comunali, che verifichi l'esistenza dei requisiti richiesti alla costruzione per essere dichiarata abitabile.
3. In caso di silenzio dell'amministrazione comunale, trascorsi quarantacinque giorni dalla data di presentazione della domanda, l'abitabilità si intende attestata. In tal caso, l'autorità competente, nei successivi centottanta giorni, può disporre l'ispezione di cui al comma 2 del presente articolo, e, eventualmente, dichiarare la non abitabilità, nel caso in cui verifichi l'assenza dei requisiti richiesti alla costruzione per essere dichiarata abitabile.
4. Il termine fissato al comma 2 del presente articolo, può essere interrotto una sola volta dall'amministrazione comunale esclusivamente per la tempestiva richiesta all'interessato di documenti che integrino o completino la documentazione presentata, che non siano già nella disponibilità dell'amministrazione, e che essa non possa acquisire autonomamente.
5. Il termine di trenta giorni, interrotto dalla richiesta di documenti integrativi, inizia a decorrere nuovamente dalla data di presentazione degli stessi
. “.
Osserva innanzitutto il Collegio che l'ambito di applicazione dell'art. 4 d.P.R. 425/1994 è individuato dal richiamo, contenuto nel comma 1 della norma citata, all'art. 220 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265, il quale si riferisce agli immobili ad uso abitativo (v. il riferimento a "case, urbane o rurali").
D'altra parte, anche ad ammettere l'applicabilità dell'art. 4 d.P.R. 425/1994 non solo con riferimento al certificato di abitabilità relativo agli immobili ad uso abitativo, ma anche con riferimento al certificato di agibilità degli immobili ad uso commerciale o industriale, comunque il ricorso non può essere ritenuto fondato.
Sebbene, l'art. 4 del d.P.R. 425/1994 preveda che il silenzio dell'amministrazione comunale protrattosi per oltre quarantacinque giorni sulla richiesta di rilascio della licenza di abitabilità comporti che "l'abitabilità si intende attestata", nondimeno il silenzio non costituisce una forma di silenzio-assenso in senso tecnico, ma solo una legittimazione ex lege che prescinde dalla pronuncia della p.a. e trova il suo fondamento nella effettiva sussistenza di tutti i presupposti richiesti dalla legge per il rilascio della licenza.
La situazione determinatasi a seguito del silenzio potrà perciò ritenersi legittima solo nel caso in cui la costruzione sia conforme alla concessione edilizia e agli strumenti urbanistici vigenti e sussistano le condizioni igienico sanitarie per la concreta abitabilità (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. I, 05.04.2002, n. 1682).
Infatti la norma -ora contenuta nell'art. 25 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380- condiziona il rilascio del certificato di abitabilità non solo all'aspetto igienico-sanitario (salubrità degli ambienti), ma anche alla conformità edilizia dell'opera realizzata rispetto al progetto approvato: e ciò per la innegabile stretta correlazione fra i due momenti valutativi (cfr.: Cons. di Stato, Sez. VI, 15.07.1993, n. 535; TAR Veneto, Sez. II, 11.12.2000, n. 2612; TAR Lombardia-Brescia 30.7.2002, n. 1092).
In base all'art. 4 d.P.R. 22.04.1994 n. 425, pertanto, il certificato di agibilità deve essere rilasciato o negato per ragioni prevalentemente inerenti il profilo igienico-sanitario, tuttavia è anche previsto che l'agibilità presupponga che si tratti di locali dei quali va dichiarata la conformità rispetto al progetto approvato. È evidente che se i locali sono abusivi l'agibilità non può essere rilasciata, non avendo alcun significato dichiarare agibile un locale non conforme alla disciplina urbanistico-edilizia o del quale non è stata o è stata falsamente attestata la conformità rispetto al progetto approvato, perché il progetto non è stato approvato o l'opera è stata realizzata in difformità da esso ( cfr. sul punto TAR Veneto, sez. II, 17.11.1997, n. 1569).
Nel caso di specie, come e evidenziato nella parte in fatto che precede, il Comune resistente ha provveduto al rilascio della richiesta concessione edilizia in sanatoria, di cui al n. 114 del 17.09.1998, la quale, tuttavia, è stata sospesa nei suoi effetti fino al completamento della pratica relativa, in conseguenza della mancanza del parere della Sovrintendenza di cui all’art. 32 della L. n. 47/1985, essendo sottoposto l’immobile in questione al vincolo di cui alla L. n. 1497/1939.
Ne consegue che, comunque, la pratica inerente al rilascio del certificato di abilitabilità, in conseguenza della mancanza del suddetto parere, non può ritenersi completa, con la ulteriore conseguenza che il termine per la formazione del silenzio non può ritenersi allo stato decorso (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 25.05.2005 n. 4129 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 16.07.2012

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QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: La mancanza dei requisiti originari di permeabilità e spessore del fondo della discarica può essere compensata dalla predisposizione di barriere artificiale di confinamento? (09.07.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Gli imprenditori agricoli, che raccolgono e trasportano i propri rifiuti speciali non pericolosi, sono tenuti al registro di carico/scarico? E nel caso in cui trasportano i rifiuti da un luogo all’altro dell’azienda, sono tenuti al FIR? (09.07.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La disciplina della TARES è stata modificata dal decreto sulle semplificazioni fiscali? (09.07.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La legge n. 28/2012 modifica il Codice ambientale in tema di prevenzione della produzione dei rifiuti? (09.07.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati senza la comunicazione di avvio del procedimento agli interessati è legittimo? (09.07.2012 - link a www.ambientelegale.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: S. Maglia, La gestione degli oli usati (link a www.tuttoambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Gaspari, Il preavviso di rigetto previsto dall’art. 10-bis della legge 241/1990. Riflessioni su alcune cruciali problematiche (link a www.diritto.it).

LAVORI PUBBLICI: S. Fantini, Il partenariato pubblico-privato, con particolare riguardo al project financing ed al contratto di disponibilità (link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVORO: F. Iaconi, Sicurezza sul lavoro: la delega di funzioni trasferisce il rischio lavorativo sul delegato (link a www.leggioggi.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA-PRIVATA: M. V. Balossi, In arrivo il nuovo regolamento su terre e rocce come sottoprodotti (link a www.tuttoambiente.it).

EDILIZIA-PRIVATA: M. Bottone, La Campania, ohibò - Dalle Leggi sul Paesaggio al Paesaggio delle Leggi - Passando per J-L. Borges (04.07.2012).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: SPENDING REVIEW: rideterminazione delle dotazioni organiche ed esuberi di personale (CGIL-FP di Bergamo, nota 12.07.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: SPENDING REVIEW: il taglio dei buoni pasto e la nuova disciplina delle ferie (CGIL-FP di Bergamo, nota 09.07.2012).

ENTI LOCALI: EE.LL.: Corte Costituzionale e decreto sulla spending review spingono all'obbligatoria dismissione delle società partecipate (CGIL-FP di Bergamo, nota 07.07.2012).

UTILITA'

EDILIZIA-PRIVATA: Contributi 2012 agli Enti Locali per l’esercizio delle funzioni paesaggistiche.
I contributi agli Enti locali, incluse le quote destinate ai Parchi per l’esercizio delle funzioni in surroga degli Enti “non idonei” (ai sensi dell’art. 80, comma 6-bis, della LR 12/2005), verranno erogati nel 2012 sulla base di un bando specifico i cui criteri generali sono stati approvati con
deliberazione G.R. 02.07.2012 n. 3670.
L’importo stanziato di complessivi € 350.000,00 sarà ripartito, proporzionalmente all’attività svolta e rendicontata da ogni Ente locale, secondo le modalità approvate con decreto D.S. 10.07.2012 n. 6142 (BURL n. 29 Serie Ordinaria - 16.07.2012).
La domanda potrà essere inviata per posta al seguente indirizzo:
Regione Lombardia – D.G. Sistemi Verdi e Paesaggio – Struttura Paesaggio – Piazza Città di Lombardia 1 – 20124 Milano indicando sulla busta “Richiesta di contributi finanziari per la gestione delle competenze paesaggistiche - art. 79 della L.R. 12/2005”
o consegnata a mano presso gli sportelli di protocollo delle sedi regionali di seguito riportate:
Milano - piazza Città di Lombardia, 1
Bergamo - via XX Settembre, 18/A
Brescia - via Dalmazia, 92/94 (Palazzo Magellano)
Como - via Luigi Einaudi, 1
Cremona - via Dante, 136
Lecco - corso Promessi Sposi, 132
Legnano - via Cavallotti, 11/13
Lodi - via Haussmann, 7
Mantova - corso Vittorio Emanuele, 57
Monza - p.zza Cambiaghi, 3
Pavia - viale Cesare Battisti, 150
Sondrio - via del Gesù, 17
Varese - viale Belforte, 22

Gli orari di apertura degli uffici sono i seguenti:
lunedì – giovedì dalle 9,30 alle 12,00 e dalle 14,30 alle 16,30
venerdì dalle 9,30 alle 12,00
La scadenza è venerdì 14.09.2012.
Eventuali ulteriori informazioni possono essere richieste via mail ai seguenti indirizzi:
struttura_paesaggio@regione.lombardia.it
anita_puntillo@regione.lombardia.it
emma_teso@regione.lombardia.it
alessandra_richelmi@regione.lombardia.it (tratto da www.regione.lombardia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: “Disposizioni urgenti per la riduzione della spesa pubblica a servizi invariati” (spending review):
1. La revisione degli assetti organizzativi delle pubbliche amministrazioni
2. Limiti alle assunzione nelle pubbliche amministrazioni
3. Auto Blu - Buoni Pasto - Ferie
4. Anticorruzione (sunto delle principali disposizioni - tratto da www.governo.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 16.07.2012, "Criteri e modalità per l’erogazione dei contributi agli enti locali ed agli enti gestori delle aree regionali protette per l’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite (art. 79, c. 1, lett. b), l.r.12/2005)" (decreto D.S. 10.07.2012 n. 6142).

APPALTI FORNITURE - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 09.07.2012 n. 158 "Comunicato relativo al decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante: “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini” (avviso di rettifica).

ENTI LOCALI - APPALTI: G.U. 06.07.2012 n. 156 "Testo del decreto-legge 07.05.2012, n. 52 coordinato con la legge di conversione 06.07.2012, n. 94 recante: «Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica»."
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Spending review, conversione in legge.
Razionalizzazione della spesa pubblica. Novità su appalti e riduzione dei consumi di energia della P.A.. Con la conversione in legge via libera al rilascio del DURC anche in presenza di crediti P.A..

In Gazzetta la pubblicazione della legge di conversione del D.L. 07/05/2012, n. 52, recante disposizioni urgenti per la realizzazione della spesa pubblica, che rientra tra le misure di attuazione dell’attività di revisione della spesa, cosiddetta spending review, ritenuta prioritaria dal Governo per il superamento della crisi economica.
In particolare il decreto-legge reca alcune modifiche al Codice dei Contratti (D. Leg.vo 163/2006) ed al relativo Regolamento (D.P.R. 207/2010).
Con modifica all'art. 11, comma 10-bis, lettera b), del D. Leg.vo 163/2006, il termine dilatorio di 35 giorni per la stipula del contratto decorrente dall'invio dell'ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione definitiva non si applica più nel caso di acquisto effettuato attraverso il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'art. 328 del D.P.R. 207/2010.
Con modifica agli artt. 120, comma 2, e 283, comma 2, è previsto, nell'aggiudicazione di appalti con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, che la commissione apra in seduta pubblica i plichi contenenti le offerte tecniche al fine di procedere alla verifica della presenza dei documenti prodotti, anche per le gare in corso ove i plichi non siano stati ancora aperti alla data del 09/05/2012 (inserito dalla legge di conversione).
Per i contratti relativi agli acquisti di beni e servizi degli enti locali, ove i beni o i servizi da acquistare risultino disponibili mediante strumenti informatici di acquisto, viene abolito l'obbligo di riscossione dei diritti di segreteria.
Entro 24 mesi le P.A. sono tenute ad adottare misure finalizzate al contenimento dei consumi di energia e all'efficientamento degli usi finali della stessa, anche attraverso il ricorso ai contratti di servizio energia e anche nelle forme dei contratti di partenariato pubblico privato. L'affidamento della gestione dei servizi energetici deve avvenire con gara ad evidenza pubblica.
La legge di conversione introduce l'art. 13-bis, recante modifiche alla disciplina della certificazione e compensazione dei crediti vantati dai fornitori di beni e servizi nei confronti delle amministrazioni pubbliche. Di particolare importanza la disposizione che consente il rilascio del Documento unico di regolarità contributiva (DURC), anche in presenza di certificazione che attesti la sussistenza di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni di importo almeno pari ai versamenti contributivi accertati e non ancora versati da parte di un medesimo soggetto. Le modalità attuative saranno definite con apposito decreto ministeriale
(commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

CORTE DEI CONTI

EDILIZIA-PRIVATA: Utilizzo quote cessazioni anni precedenti per capacità assunzionale.
Anche la Corte dei Conti, sezione regionale Veneto, con il parere 21.06.2012 n. 403, si occupa dell'argomento nel rispondere al seguente quesito del Comune di Adria: "... se, per procedere a nuove assunzioni (...) nel corso dell'anno 2012, debba tener conto solo delle cessazioni intervenute nell'anno precedente ovvero se possa 'cumulare', ai fini del calcolo della predetta percentuale, anche le cessazioni intervenute nel 2010, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Riunite nella deliberazione n. 52/CONTR/10 e, di recente, dalla Sezione regionale di controllo per la Puglia nella deliberazione n. 2/2012/PAR".
La Sezione, dopo aver ricostruito il quadro normativo e, puntualmente, quello interpretativo della stessa Corte, esprime il seguente avviso:
"Ritiene questa Sezione che l'ente che, attraverso il corretto utilizzo degli strumenti che l'ordinamento pone a disposizione delle amministrazioni in un'ottica di concorso alla riduzione della spesa - ed, in particolare, della valutazione periodica, almeno triennale della consistenza ed eventuale variazione delle dotazioni organiche previa verifica degli effettivi fabbisogni, prevista dall'art. 6, D.lgs. 30.03.2001, n. 165, e della programmazione triennale del fabbisogno di personale, prevista dall'art. 39, Legge 27.12.1997, n. 449 successive modificazioni (questa Sezione, deliberazione n. 390/2012/PRSP) - sia in grado di garantire la riduzione, da un anno all'altro, della spesa per il personale, secondo le indicazioni fornite dalla Sezione delle Autonomie (deliberazioni nn. 2/2010/QMIG e 3/2010/QMIG), e che abbia rispettato, altresì, il limite percentuale dell'incidenza della spesa di personale su quella corrente (art. 76, comma 7, primo enunciato, D.L. n. 112/2008), deve poter effettuare nuove assunzioni nella misura del 40% dell'ammontare complessivo della spesa corrispondente a tutte le cessazioni intervenute dal 2010 e non reintegrate".
Nel parere sono riepilogati tutti i presupposti necessari affinché l'amministrazione possa procedere ad assunzioni e, soprattutto, la Sezione esprime motivazioni fortemente critiche rispetto ad una possibile differente interpretazione (rispetto a quella sopra sintetizzata) mettendo in evidenze le conseguenze esorbitanti che ne scaturirebbero: inammissibile compromissione dell'autonomia organizzativa degli enti locali, esercizio 'forzoso' delle facoltà assunzionali di anno in anno in contrasto con una adeguata attività di programmazione e verifica del fabbisogno di personale, eccessiva riduzione degli organici e compromissione delle funzioni fondamentali dell'ente, sperequazioni tra enti di diverse dimensioni, potenziale azzeramento della spesa di personale nel medio-lungo periodo (tratto da www.publika.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTICome redigere i bandi di gara: ecco lo schema dell’AVCP.
L'articolo 4 del Decreto Legge 70/2011 (Decreto Sviluppo) prevede che i bandi di gara siano predisposti dalle stazioni appaltanti sulla base di modelli, bandi tipo, approvati dall'Autorità di Vigilanza, previo parere del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e delle categorie professionali interessate.
L’AVCP ha reso disponibile agli operatori lo schema di determinazione del “bando-quadro”, la cui versione definitiva potrebbe essere disponibile a settembre 2012.
Obiettivo del documento dell’Autorità è quello di fornire un orientamento alle stazioni appaltanti e di semplificare la partecipazione delle imprese alle gare mediante una progressiva standardizzazione della documentazione di gara e interpretazione delle norme, al fine di rendere più trasparente il mercato e ridurre contenzioso e arbitrarietà.
Lo schema si articola in 3 parti:
● le cause di esclusione riconducibili al:
Þ mancato adempimento alle prescrizioni previste dal Codice degli Appalti e relativo Regolamento (D.P.R. 05.10.2010, n. 207) ovvero da altre disposizioni di legge vigenti;
Þ incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali;
Þ non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte.
● carenza di elementi essenziali ed incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta:
Þ indicazioni generali
Þ sottoscrizione dell'offerta
Þ accettazione delle condizioni generali di contratto
Þ offerte condizionate, plurime ed in aumento
Þ presentazione della cauzione provvisoria
Þ mancata effettuazione del sopralluogo
● irregolarità concernenti gli adempimenti formali di partecipazione alla gara:
Þ modalità di presentazione delle offerte e delle domande di partecipazione
Þ difetto di separazione fisica dell'offerta economica dall'offerta tecnica e dal resto della documentazione amministrativa
Þ modalità di presentazione delle dichiarazioni sostitutive
Þ utilizzo di moduli predisposti dalle stazioni appaltanti
Þ mezzi di comunicazione tra operatori economici e stazioni appaltanti (12.07.2012 - link a www.acca.it).

NEWS

ENTI LOCALI - ATTI AMMINISTRATIVIPARLA IL PRESIDENTE DELLA CORTE CONTI LUIGI GIAMPAOLINO/ Tornare ai controlli preventivi di legittimità. Più poteri di indagine alla Corte.
Tornare ai controlli preventivi di legittimità sugli atti degli enti locali. E' questa, secondo il presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, l'unica strada da seguire per coniugare autonomia e legalità. Aboliti nel 2001 per effetto della riforma del titolo V della Costituzione (che ha cancellato i Coreco), i controlli andrebbero ripristinati sotto l'egida della Corte dei conti «organo terzo e imparziale» che consentirebbe di orientare ex ante i sindaci verso comportamenti improntati alla legalità e all'economicità.
Sulla riforma del 2009, che impone un elevato grado di determinatezza delle denunce, Giampaolino ammette: «è un principio di civiltà giuridica» anche se non tiene conto di due fattori. Primo, le procure contabili non godono degli stessi ampi poteri di indagine attribuiti alle procure presso i tribunali ordinari. Secondo, la ritrosia dei pubblici dipendenti nel denunciare. Ecco perché sul punto «sarebbe opportuna una riflessione». A ItaliaOggi il presidente della Corte conti propone la sua ricetta: più controlli sulle società partecipate e più poteri inibitori «in modo da intervenire quando il danno erariale è in atto».
Domanda. I dati della relazione 2012 sul costo del lavoro pubblico evidenziano una flessione tutto sommato modesta del numero di dipendenti del comparto regioni-autonomie locali. E questo nonostante le politiche restrittive di contenimento dei costi delle ultime manovre. Il sospetto, dunque, è che i sindaci continuino a fare assunzioni per così dire -allegre- anche se, a giudicare dal numero limitato di sentenze di condanna della Corte conti sembrerebbe il contrario. I sindaci sono diventati improvvisamente virtuosi o questo tipo di illecito fa fatica a venire a galla?
Risposta. Credo che sarebbe errato attribuire alle sentenze di condanna emesse dalla Corte dei conti il valore di strumento di misurazione della virtuosità o meno degli amministratori. L'attività giurisdizionale, ivi compresa quella che si svolge innanzi alla magistratura contabile, ha valenza episodica, in quanto legata alla singola e specifica fattispecie portata all'esame del giudice che, peraltro, è spesso chiamato a valutarne solo gli aspetti patologici ... (articolo Il Sole 24 Ore del 13.07.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Enti parco, nomine doc. Direttore scelto con concorso o contratto. La decisione spetta all'assemblea in base alla legislazione regionale.
Qual'è la procedura di nomina del direttore di un parco naturale regionale?

La legge quadro sulle aree protette n. 394 del 06.12.1991 disciplina direttamente la materia dei parchi nazionali ... (articolo Il Sole 24 Ore del 13.07.2012 - link a www.ecostampa.it).

APPALTILavoro. Le modifiche della legge Fornero alle disposizioni sulla responsabilità.
Solidarietà negli appalti, committenti più tutelati. Coinvolgimento per incapienza dei beni di chi esegue l'opera.

Una giungla di norme sulla responsabilità solidale prive di coerenza giuridica che hanno la conseguenza di generare incertezza applicativa sia per le imprese sia per le amministrazioni pubbliche.
È questo lo scenario in seguito all'ennesima modifica apportata all'articolo 29 del decreto legislativo 276/2003 da parte della riforma del mercato del lavoro (legge 92/2012). A questo punto non è più procrastinabile una riforma complessiva del tema che si ponga anche l'obiettivo di fornire al responsabile in solido (il committente o l'appaltatore) gli strumenti idonei e snelli ad esercitare il ruolo di "controllori" della filiera.
Di fatto, l'articolo 4 della legge 92/2012 elimina le modifiche introdotte dalla legge 296/2006, attribuendo di nuovo alla contrattazione collettiva un ruolo decisivo e vincolante per le imprese in ordine al controllo e alla verifica della regolarità complessiva degli appalti che invece la norma del 2006 aveva eliminato.
Inoltre, in caso di contenzioso nella materia degli appalti il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento non solo con l'appaltatore ma anche con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il coinvolgimento di tutta la filiera dell'appalto non è subordinata alla richiesta del ricorrente ma è stabilito dalla legge. In altri termini la legge 92 mira ad estendere, nei fatti, la responsabilità solidale ai committenti solo nel caso in cui gli appaltatori o ciascuno dei subappaltatori non soddisfino con il proprio patrimonio i crediti vantati dai terzi interessati.
L'articolo 29 del decreto legislativo 276/2003 costituisce la norma di riferimento in tema di responsabilità solidale, ma la disciplina è stata oggetto di ripetute modifiche. L'articolo 35 del Dl 223/2006 ha avuto l'obiettivo di coinvolgere i soggetti che intervengono nel contratto di appalto (committente, appaltatore, subappaltatore) nel controllo sul versamento dei contributi previdenziali, assicurativi, nonché delle ritenute fiscali, riferibili ai lavoratori che sono utilizzati nell'appalto stesso. Successivamente, l'articolo 1, comma 911, della legge 296/2006, ha sostituito l'articolo 29, comma 2, con effetto dall'01.01.2007. Questa modifica ha apportato le seguenti novità:
- la responsabilità solidale, oltre al committente e all'appaltatore, è estesa anche al subappaltatore;
- si è esteso a due anni il termine di decadenza per l'attivazione del meccanismo della responsabilità solidale (precedentemente limitata a un anno);
- i Ccnl, su base contrattuale, non possono più rimuovere la responsabilità solidale tra i soggetti coinvolti.
L'articolo 3, comma 8, del Dl 97/2008 ha poi abrogato i commi da 29 a 34 dell'articolo 35 eliminando, tra l'altro, la responsabilità solidale sulle ritenute fiscali. A questo si aggiunga che l'articolo 8 del Dl 138/2011 ha stabilito che accordi collettivi aziendali o territoriali possono derogare alle norme di legge e avere efficacia per tutti i lavoratori dell'azienda, anche con riguardo "al regime della solidarietà negli appalti".
Sono poi seguiti altri due interventi:
- l'articolo 21, comma 1, del decreto legge 5/2012 ha ulteriormente modificato l'articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 276/2003 estendendo la responsabilità solidale anche alle quote di Tfr ma eliminandola per le sanzioni amministrative;
- l'articolo 2, comma 5-bis, del Dl 16/2012 ha sostituito l'articolo 35, comma 28, del Dl 223/2006 e reinserito la responsabilità solidale sul versamento all'erario delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente, ha esteso l'istituto all'Iva scaturente dalle fatture inerenti alle prestazioni effettuate nell'ambito dell'appalto, laddove il committente o l'appaltatore non dimostri di avere messo in atto tutte le cautele possibili per evitare l'inadempimento (articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2012).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., una terza via per gli esuberi. Dopo prepensionamenti e mobilità c'è il part-time obbligatorio. Potrà accedervi solo il personale non dirigenziale che ha più anzianità contributiva.
Part-time obbligatorio per gli impiegati pubblici in esubero. Se non collocabile a riposo con la nuova procedura di prepensionamento o in disponibilità per due anni all'80% di stipendio, il rapporto di lavoro del personale non dirigente in soprannumero e non riassorbibile entro il 31.12.2015, andrà trasformato a tempo parziale sulla base di criteri e modalità che la pubblica amministrazione dovrà definire con i sindacati.
Il part-time andrà definito in proporzione alle eccedenze, con graduale riassorbimento all'atto delle cessazioni dei rapporti di lavoro (a qualunque titolo) e compensazione dei contratti a tempo parziale del restante personale.
Riduzione organico. La novità arriva dalle disposizioni relative alla riduzione delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni (articolo 2 del dl sulla spending review) e interesserà i dipendenti pubblici che vengano dichiarati in esubero. Tale dichiarazione di esubero da parte della pa rappresenterà, perciò, condizione necessaria e propedeutica per l'applicazione del part-time obbligatorio.
In realtà, la norma stabilisce che, per il personale eventualmente risultante in soprannumero all'esito della riduzione (fissata, in via ordinaria, in misura del 20% per gli uffici dirigenziali e per le relative dotazioni organiche, nonché un ulteriore 10% o più della spesa relativa al numero dei posti di organico di tale personale ... (articolo ItaliaOggi del 11.07.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Nulli i contratti fuori dal perimetro Consip.
Si fa sempre più pressante la stretta sugli acquisti di beni e servizi nella Pubblica Amministrazione. Tutti i contratti stipulati in violazione dell'obbligo di adesione agli strumenti messi a disposizione dalla Consip sono da considerarsi nulli e determinano responsabilità erariale. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 10.07.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALITagli anche alle società in house. Sul personale stesso trattamento di chi detiene il capitale. Ai dipendenti saranno applicate come tutela soltanto le regole sui licenziamenti collettivi.
Le società in house, a totale partecipazione pubblica, saranno sottoposte a tagli organizzativi e al personale simmetrici a quelli previsti dalla spending review per gli enti che ne detengono il capitale. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 10.07.2012 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: La spending review.
Regioni e Comuni, nel mirino dei tagli chi spende di più. Beni e servizi: costi procapite al setaccio.

Penne carta, fotocopiatrici, e ovviamente monitor e tastiere. Sono l'arredamento tipico di tutti gli uffici, privati o pubblici: il problema, messo a fuoco dal decreto sulla spending review approvato dal Governo nella notte fra giovedì e venerdì riguarda questi ultimi, e si può riassumere con un paio di numeri.
Per la «cancelleria e materiale tecnico-informatico», per fare un esempio, la Lombardia ha speso nel 2011 9 euro ogni 100 abitanti, il Piemonte 55 e la Sicilia 102, vale a dire 11,3 volte di più del Pirellone. Cambiamo voce, e passiamo a «studi, consulenze, indagini e gettoni di presenza»: in Abruzzo sono costati l'anno scorso 40 euro ogni 100 abitanti, in Sardegna 683. Per far conoscere la propria attività, poi, le Regioni (e i loro politici) si trasformano in "editori", anche qui con impegno diverso: pubblicare giornali e riviste nel Lazio costa 3 euro all'anno ogni 100 cittadini, in Lombardia il doppio (6,2 euro) e in Calabria 33 volte tanto (11,3 euro).
È il mondo multiforme dei «consumi intermedi», vale a dire le spese che le amministrazioni pubbliche sostengono ogni giorno per funzionare. A fotografarli è il Siope, il sistema informatico del ministero dell'Economia che monitora in tempo reale i flussi di cassa degli enti pubblici locali e non. Il decreto sulla revisione di spesa varato dal Governo li mette nel mirino, con lo scopo di superare la logica dei tagli lineari finora sempre utilizzata per graduare in modo "meritocratico" i sacrifici, in base al principio secondo cui «chi più spende più deve tagliare».
La spesa nel mirino è appunto quella dei «consumi intermedi», che nei bilanci locali individua sostanzialmente tre voci: le uscite per l'acquisto di beni (dalla carta al carburante delle auto di servizio), quelle per le prestazioni di servizi (come quelli per la manutenzione ordinaria o per avviare nuovi strumenti informatici) e l'utilizzo di beni di terzi (immobili in affitto, auto a noleggio o in leasing e così via).
A individuare chi spende di più, sempre secondo il provvedimento, è proprio il censimento telematico dei flussi di cassa realizzato dal ministero dell'Economia.
Il meccanismo è chiamato a governare la sforbiciata da 7,5 miliardi assestata agli enti locali e alle Regioni: Governo e amministratori locali hanno tempo fino al 30 settembre per affinare il tutto, ma la linea è tracciata dalla stessa norma che prevede -in caso di mancato accordo nelle Conferenze Stato-Regioni e Stato-Città- l'applicazione automatica dal 15 ottobre della stretta proporzionale alla spesa per i consumi intermedi.
Con un sistema delineato così seccamente, del resto, anche il lavoro delle Conferenze non potrà spostarsi più di tanto dalla linea tracciata per decreto.
Fra le Regioni, a temere di più sono soprattutto quelle del Centro-Sud: nei territori a Statuto ordinario, a primeggiare nella spesa è la Basilicata, che nel 2011 ha dedicato a queste voci 147,5 euro ad abitante, seguita dalla Campania (113 euro) e dalla Puglia (96,6), mentre la Liguria, con 27,3 euro a residente, si ferma cinque volte sotto la Regione in testa.
Naturalmente, nell'attuazione l'analisi andrà "pesata" in base alle dimensioni e alle caratteristiche della Regione, come mostrano anche le graduatorie degli enti a Statuto speciale per le quali si prevede un meccanismo del tutto analogo. Questo tipo di "pesatura", poi, diventa ancora più urgente nei Comuni, essendo ovviamente impossibile paragonare le spese di Balme (54 abitanti in provincia di Torino) con quelle di Milano o di Roma.
Proprio la graduatoria dei Comuni (qui a fianco è pubblicata quella relativa ai capoluoghi di Regione) mostra però qualche sorpresa. Dietro il primato dell'Aquila (3.068,8 euro ad abitante nel 2011, dovuto però in buona parte alla gestione del post-terremoto di cui si dovrà tenere conto), sugli scalini occupati da chi spende di più si incontra Milano (1.146,3 euro pro capite) e Venezia (1.061,6), mentre per esempio Palermo, nonostante lo stato di quasi-dissesto dovuto alle patologie storiche dei suoi conti, è nelle parti basse della classifica, Napoli fa ancora meglio e Catanzaro (fotografata come super-virtuosa anche dal debutto dei fabbisogni standard dedicato alle spese per la Polizia locale) primeggia. Come mai?
L'efficienza della gestione c'entra solo in parte. Il problema nasce dal fatto che nei bilanci locali anche i «consumi intermedi» rappresentano una realtà molto diversificata al proprio interno, che insieme alle penne abbraccia per esempio i contratti di servizio per i trasporti o lo smaltimento dei rifiuti. La stortura si vede di più nei bilanci dei Comuni, che sono più piccoli di quelli delle Regioni, ma è presente in tutti i livelli di Governo e va corretta. Il confronto fra Esecutivo ed enti locali ha meno di tre mesi per farlo (articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTI FORNITURE: Forniture. Sconti più alti nelle gare d'appalto.
Con gli acquisti centralizzati risparmi del 25%.
L'AUTORITÀ/ Nelle gare c'è ancora poca competizione: spesso i requisiti sono tagliati su misura per un concorrente.

Ora è certificato: la pubblica amministrazione che per i propri acquisti si affida a una centrale unica, ovvero a un ente che acquista all'ingrosso accorpando le forniture, risparmia. E non poco: almeno otto punti in percentuale. I numeri e le cifre sono, nero su bianco, nella Relazione dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici per il 2011, presentata il 4 luglio.
Ebbene l'anno scorso il campione di ribassi (e quindi di risparmio) negli appalti di fornitura è stata proprio la centrale di committenza (per intenderci la Consip, più la decina di realtà regionali, le cosiddette mini-Consip). Sono loro ad aver spuntato dai fornitori privati uno sconto medio del 24,9% (si veda la tabella qui sotto) battendo, appunto di otto punti lo sconto medio complessivo, fermo al 16,8 per cento.
Appena meglio in realtà hanno fatto le Camere di commercio con un 25,4% di ribasso medio, ma su un importo poco significativo dal punto di vista statistico (1,8 milioni).
All'altro lato della scala di risparmi si collocano invece gli enti locali quando, appunto, scelgono di approvvigiornarsi da soli sul mercato. I Comuni ad esempio non riescono ad andare oltre il 14% di ribasso, 11 punti in meno rispetto alle centrali di committenza, mentre i ministeri salgono appena al 16,5. Dietro a queste aride percentuali c'è la realtà della spesa pubblica, proprio quella che in questi giorni il Governo sta tentando di aggredire con le politiche di spending review.
Proviamo quindi a tradurre in «soldoni», sempre con l'aiuto dei dati forniti dall'Authority, le percentuali di ribasso. Nel 2011, ad esempio, i Comuni hanno acquistato con gara beni per un totale di 81,2 milioni. Ebbene se per lo stesso importo si fossero affidati alle centrali di committenza, il risparmio totale sarebbe stato di 8,9 milioni di euro (l'11% medio di differenza con i prezzi centralizzati). Certo, non tutte le forniture e gli appalti sono intercambiabili, ma una buona fetta sì. Economie ancora più grandi le avrebbero potute realizzare (sempre con lo stesso principio teorico) i ministeri che l'anno scorso hanno speso ben 670 milioni in forniture e hanno un distacco di 8,5 punti in termini di ribassi ottenuti che, appunto, significa circa 56 milioni pagati in più.
In questa direzione in effetti si è già mosso il Governo. Già nel primo decreto legge con i tagli alla spesa (il Dl 52/2012 alle ultime battute in Parlamento) ha allargato il raggio d'azione della Consip. A breve quindi le amministrazioni centrali saranno obbligate ad acquistare tutti i propri prodotti tramite Consip (oggi solo otto categorie di beni). Con un risparmio che nel caso record delle centrali telefoniche può arrivare anche al 77% (si veda il Sole 24 ore del 7 maggio). Il secondo decreto varato la settimana scorsa si spinge oltre e arriva a obbligare anche gli enti locali a servirsi della Consip o delle centrali territoriali per un elenco ristretto di otto categorie: energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per riscaldamento, telefonia.
E le sanzioni per chi viola questi nuovi obblighi sono pesanti: non solo i contratti sono considerati automaticamente nulli ma per i funzionari che li firmano scatta l'illecito disciplinare.
Il mercato delle forniture resta comunque ristretto: «Abbiamo rilevato -spiega il presidente dell'Autorità, Sergio Santoro- che a queste gare riescono a partecipare due o tre concorrenti al massimo, mentre per i lavori pubblici la media è di 25 offerte».
A pesare sono i requisiti richiesti ai fornitori dalle stazioni appaltanti: «I criteri stabiliti -si legge nella Relazione- risultano talmente selettivi da estromettere di fatto gli ipotetici partecipanti alla gara ad eccezione del concorrente che si intende favorire». Insomma bandi su misura: chissà se il metodo Consip in questo caso potrà funzionare (articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2012 - link a www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Il TAR ritiene di sollevare la seguente questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE (ex articolo 234 del TCE), in relazione all’interpretazione della normativa comunitaria:
“Il principio di proporzionalità, discendente dal diritto di stabilimento e dai principi di non discriminazione e di tutela della concorrenza, di cui agli articoli 49, 56 e 101 del TFUE, nonché il canone di ragionevolezza in esso racchiuso, ostano ad una normativa nazionale che, tanto per gli appalti sopra soglia, quanto per gli appalti sotto soglia comunitaria, qualifica come grave una violazione contributiva, definitivamente accertata, quando il suo importo eccede il valore di 100,00 Euro ed è contemporaneamente superiore al 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione, con conseguente obbligo per le stazioni appaltanti di escludere da una gara il concorrente che si è reso responsabile di una simile violazione, senza valorizzare altri profili oggettivamente espressivi dell’affidabilità del concorrente come controparte contrattuale?”
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Dal coordinamento tra l’art. 38, comma 2, del d.l.vo 2006 n. 163 e l’art. 8, comma 3, del D.M. 24.10.2007 emerge che devono essere considerate “gravi”, con conseguente esclusione dalla gara dell’impresa che le ha commesse, le violazioni contributive definitive che eccedono il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione, fermo restando che, in ogni caso, non è grave la violazione di importo inferiore a 100,00 Euro.
Ne consegue che una violazione inferiore a 100,00 Euro non può mai essere considerata grave, anche se eccede il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate.
Del pari, una violazione superiore a 100,00 Euro non può mai essere considerata grave se non eccede il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate.
Viceversa, una violazione contributiva di importo superiore a 100,00 Euro deve necessariamente essere considerata grave se eccede il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate nel periodo di riferimento.
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La regolarità nei versamenti contributivi, imposta a pena di esclusione dall’art. 38 del d.l.vo 2006 n. 163, deve sussistere dal momento della presentazione della domanda di partecipazione alla procedura e permanere per tutta la durata della gara, sicché resta irrilevante un eventuale adempimento tardivo da parte dell’impresa.
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Anche la disciplina di un appalto sotto soglia comunitaria deve rispettare le norme fondamentali del Trattato ed, in particolare, il principio della parità di trattamento, nonché i principi da esso desumibili, tra i quali i canoni di ragionevolezza e di proporzionalità.
Ciò è coerente con l’interesse transfrontaliero che caratterizza la gara in questione, in considerazione tanto del valore dell’appalto, solo di poco inferiore alla soglia di rilievo comunitario, quanto della rilevanza oggettiva degli interventi da effettuare e dell’assenza di elementi di specificità tali da concentrare l’interesse per l’aggiudicazione solo in capo alle imprese stabilite in un delimitato ambito territoriale.
L’esigenza di garantire l’applicazione delle norme fondamentali e dei principi del Trattato, anche in relazione alle gare sotto soglia comunitaria, è stata più volte ribadita dalla Corte di Giustizia U.E., secondo la quale tale interpretazione è confermata dal secondo ‘considerando’ della direttiva 2004/18, a tenore del quale l’aggiudicazione di tutti gli appalti stipulati negli Stati membri per conto di enti aventi la qualifica di amministrazione aggiudicatrice deve rispettare le norme di base del Trattato, in particolare quelle concernenti la libera circolazione dei prodotti e dei servizi, nonché il diritto di stabilimento e i principi fondamentali che ne derivano, in particolare quelli della parità di trattamento, di funzionalità e di trasparenza.
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In tema di attuazione nazionale dei principi di parità di trattamento e di trasparenza, nonché del conseguente canone di proporzionalità, la Corte di Giustizia U.E. ha riconosciuto agli Stati membri una certa discrezionalità nell’adozione delle misure destinate a garantire il rispetto di tali valori, i quali si impongono alle stazioni appaltanti in tutte le procedure di aggiudicazione di un appalto pubblico; ciò perché ogni Stato membro è nella posizione migliore per individuare, alla luce di “considerazioni di ordine storico, giuridico, economico o sociale che gli sono proprie, le situazioni favorevoli alla comparsa di comportamenti idonei a provocare violazioni del rispetto di tali principi”. Nondimeno le misure adottate devono essere proporzionate, ossia non eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito, in termini sia di minima incidenza sulle posizioni soggettive coinvolte nelle procedure di gara, ossia solo nei limiti di quanto strettamente necessario, sia di coerenza con il fine da realizzare.

Sul piano normativo, il Tribunale rileva che la fattispecie in esame è disciplinata dall’art. 38 del d.l.vo 2006 n. 163, come modificato dal decreto legge 13.05.2011, n. 70, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 13.05.2011, n. 110, entrato in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione e convertito in legge dall'art. 1, comma 1, della legge 12.07.2011, n. 106.
L’art. 38, primo comma, lett. i), del d.l.vo 2006 n. 163 dispone che devono essere esclusi da una gara diretta all’aggiudicazione di un appalto i concorrenti: “i) che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti”.
Il secondo comma dell’art. 38, dopo le modifiche apportate dal decreto legge 13.05.2011, n. 70, definisce la nozione di violazione contributiva “grave”, stabilendo che “ai fini del comma 1, lettera i), si intendono gravi le violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva …”; a loro volta, le violazioni che ostano al rilascio del D.U.R.C. sono individuate dal Decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale datato 24.10.2007, che disciplina il documento unico di regolarità contributiva.
In particolare, l’art. 8, comma 3, del D.M. 24.10.2007 dispone che “ai soli fini della partecipazione a gare di appalto non osta al rilascio del D.U.R.C. uno scostamento non grave tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun Istituto previdenziale ed a ciascuna Cassa edile. Non si considera grave lo scostamento inferiore o pari al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento inferiore ad € 100,00, fermo restando l'obbligo di versamento del predetto importo entro i trenta giorni successivi al rilascio del D.U.R.C.”.
Il Tribunale evidenzia che dal coordinamento tra l’art. 38, comma 2, del d.l.vo 2006 n. 163 e l’art. 8, comma 3, del D.M. 24.10.2007 emerge che devono essere considerate “gravi”, con conseguente esclusione dalla gara dell’impresa che le ha commesse, le violazioni contributive definitive che eccedono il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione, fermo restando che, in ogni caso, non è grave la violazione di importo inferiore a 100,00 Euro.
Ne consegue che una violazione inferiore a 100,00 Euro non può mai essere considerata grave, anche se eccede il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate.
Del pari, una violazione superiore a 100,00 Euro non può mai essere considerata grave se non eccede il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate.
Viceversa, una violazione contributiva di importo superiore a 100,00 Euro deve necessariamente essere considerata grave se eccede il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate nel periodo di riferimento.
Rispetto alla fattispecie concreta, va evidenziato che la violazione contributiva commessa dal Consorzio Stabile Libor deve essere qualificata “grave” in base alle norme appena richiamate, trattandosi di una violazione di valore superiore a 100,00 Euro e che eccede il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate con riferimento al periodo di contribuzione considerato (il mese di maggio 2011), in quanto corrisponde alla totalità dei contributi che l’impresa avrebbe dovuto versare in questo periodo.
Occorre precisare che il pagamento tardivo effettuato dal Consorzio Stabile Libor non determina la sanatoria della violazione commessa, né incide sulla sua gravità, in quanto la regolarità nei versamenti contributivi, imposta a pena di esclusione dall’art. 38 del d.l.vo 2006 n. 163, deve sussistere dal momento della presentazione della domanda di partecipazione alla procedura e permanere per tutta la durata della gara, sicché resta irrilevante un eventuale adempimento tardivo da parte dell’impresa (sul punto la giurisprudenza nazionale è consolidata; si considerino: Consiglio di Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1458; Consiglio di Stato, sez. V, 10.08.2010, n. 5556; Consiglio di Stato, sez. IV, 15.09.2010, n. 6907; Consiglio di Stato, sez. V, 12.10.2011, n. 5531).
Il Tribunale dubita che l’art. 38, comma 2, del d.l.vo 2006 n. 163, come modificato dal decreto legge 13.05.2011, n. 70, sia compatibile con il principio comunitario di proporzionalità e con il canone di ragionevolezza ad esso sotteso.
La questione è sicuramente rilevante nel caso concreto, perché il Consorzio Stabile Libor è stato escluso dalla gara proprio a causa della violazione contributiva commessa, ritenuta grave perché di valore superiore a 100,00 Euro ed eccedente il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate con riferimento al periodo di contribuzione considerato.
Del resto, il Consorzio Stabile Libor ha impugnato il provvedimento di esclusione dalla gara, contestando espressamente la sussistenza di una violazione contributiva “grave”, specie in considerazione del suo riferirsi ad un importo oggettivamente contenuto. Ne deriva che la questione pregiudiziale è rilevante, sia perché la soluzione della controversia impone l’applicazione dell’art. 38, comma 2, del d.l.vo 2006 n. 163, sia perché l’esistenza in concreto di una grave violazione contributiva integra un punto controverso tra le parti.
In ordine all’individuazione della normativa comunitaria da applicare al caso specifico, il Tribunale evidenzia che la gara di cui si tratta non soggiace alla direttiva 31.03.2004, n. 2004/18/CE, in quanto il valore dell’appalto ammonta a 4.784.914,61 Euro ed è, quindi, inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria, fissata, per gli appalti di lavori e con riferimento al tempo di indizione della particolare procedura, in 4.845.000,00 Euro, ai sensi dell’art. 7, lett. c), della direttiva n. 2004/18, come modificata dal Regolamento della Commissione del 30.11.2009, n. 1177/2009.
Nondimeno, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria e nazionale, anche la disciplina di un appalto sotto soglia comunitaria deve rispettare le norme fondamentali del Trattato ed, in particolare, il principio della parità di trattamento, nonché i principi da esso desumibili, tra i quali i canoni di ragionevolezza e di proporzionalità.
Ciò è coerente con l’interesse transfrontaliero che caratterizza la gara in questione, in considerazione tanto del valore dell’appalto, solo di poco inferiore alla soglia di rilievo comunitario, quanto della rilevanza oggettiva degli interventi da effettuare e dell’assenza di elementi di specificità tali da concentrare l’interesse per l’aggiudicazione solo in capo alle imprese stabilite in un delimitato ambito territoriale.
L’esigenza di garantire l’applicazione delle norme fondamentali e dei principi del Trattato, anche in relazione alle gare sotto soglia comunitaria, è stata più volte ribadita dalla Corte di Giustizia U.E., secondo la quale tale interpretazione è confermata dal secondo ‘considerando’ della direttiva 2004/18, a tenore del quale l’aggiudicazione di tutti gli appalti stipulati negli Stati membri per conto di enti aventi la qualifica di amministrazione aggiudicatrice deve rispettare le norme di base del Trattato, in particolare quelle concernenti la libera circolazione dei prodotti e dei servizi, nonché il diritto di stabilimento e i principi fondamentali che ne derivano, in particolare quelli della parità di trattamento, di funzionalità e di trasparenza (cfr. tra le più recenti, Corte di Giustizia C.E., sez. IV, 23.12.2009, in causa C-376/08).
Nel caso in esame assumono rilevanza proprio i principi generali della parità di trattamento e di proporzionalità, discendenti sia dagli artt. 49 (ex articolo 43 del TCE) e 56 (ex articolo 49 del TCE) del TFUE, in relazione al diritto di stabilimento e alla libertà di prestazione dei servizi, sia dall’art. 101 (ex articolo 81 del TCE) del TFUE, in materia di tutela della concorrenza, nonché i corollari da essi derivanti.
L’attenzione deve essere concentrata sul canone di proporzionalità, secondo l’interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza comunitaria.
Si tratta di un principio generale del diritto comunitario, in forza del quale le misure adottate dagli Stati membri non devono eccedere quanto è indispensabile per raggiungere l’obiettivo perseguito, pertanto esse devono essere idonee a realizzare il fine prefissato e necessarie, nel senso di consentire la realizzazione dell’obiettivo prescelto nel modo meno invasivo per gli interessi degli operatori economici coinvolti.
Proprio in tema di attuazione nazionale dei principi di parità di trattamento e di trasparenza, nonché del conseguente canone di proporzionalità, la Corte di Giustizia U.E. ha riconosciuto agli Stati membri una certa discrezionalità nell’adozione delle misure destinate a garantire il rispetto di tali valori, i quali si impongono alle stazioni appaltanti in tutte le procedure di aggiudicazione di un appalto pubblico; ciò perché ogni Stato membro è nella posizione migliore per individuare, alla luce di “considerazioni di ordine storico, giuridico, economico o sociale che gli sono proprie, le situazioni favorevoli alla comparsa di comportamenti idonei a provocare violazioni del rispetto di tali principi”. Nondimeno le misure adottate devono essere proporzionate, ossia non eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito, in termini sia di minima incidenza sulle posizioni soggettive coinvolte nelle procedure di gara, ossia solo nei limiti di quanto strettamente necessario, sia di coerenza con il fine da realizzare (cfr. sul punto, in particolare, Corte di Giustizia U.E., Grande Sezione, 14.12.2004, in causa C-210/03; Corte di Giustizia U.E., sez. IV, 23.12.2009, in causa C-376/08).
Il Tribunale, alla luce delle premesse ora esposte, ritiene necessario esaminare la ratio sottesa alla norma contenuta nell’art. 38, comma 2, del d.l.vo 2006 n. 163, nonché i parametri da essa posti ai fini della determinazione della nozione di violazione contributiva “grave”, così da poterne analizzare la coerenza con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza.
L’art. 38, comma 2, introduce, mediante il rinvio alle norme dettate dal D.M. 24.10.2007 (retro punti 12, 13, 14), una nozione di violazione contributiva “grave” del tutto rigida, desunta da un dato solo quantitativo, riferibile indifferentemente agli appalti sopra soglia e sotto soglia comunitaria e tale da determinare l’automatica esclusione dalla gara dell’impresa che se ne è resa responsabile. Difatti, quando la violazione contributiva commessa da un concorrente è definitiva, perché risultante come tale dal D.U.R.C., nonché contemporaneamente di valore superiore a 100,00 Euro e al 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate con riferimento al periodo di contribuzione considerato, il concorrente deve necessariamente essere escluso.
La finalità perseguita dall’art. 38, comma 2, del d.l.vo 2006 n. 163 è quella di eliminare ogni autonomia valutativa della stazione appaltante rispetto all’accertamento del requisito di partecipazione integrato dalla regolarità contributiva, introducendo una nozione esclusivamente legale di “gravità” della violazione contributiva.
Il Tribunale ritiene che la scelta del legislatore nazionale di escludere poteri valutativi in capo alla stazione appaltante sia di per sé comunitariamente compatibile, perché rafforza la parità di trattamento tra i diversi operatori economici partecipanti ad una gara, evitando rischi di comportamenti discriminatori. Difatti, l’attribuzione di poteri discrezionali alle stazioni appaltanti, in ordine all’accertamento della gravità della violazione commessa, potrebbe favorire la proliferazione di scelte arbitrarie, tali da provocare trattamenti diversi di situazioni identiche, in violazione dei principi di parità di trattamento e di tutela della concorrenza. Insomma, rientra nell’autonomia del legislatore statale la decisione di introdurre dei rigidi parametri di individuazione della gravità della violazione contributiva, con esclusione di ogni apprezzamento discrezionale da parte delle stazioni appaltanti.
Resta fermo, però, che i criteri elaborati a tale fine dal legislatore nazionale devono essere coerenti con il canone comunitario della proporzionalità. Ciò implica che il criterio normativo introdotto deve essere adeguato, ossia idoneo alla realizzazione del fine prefissato, nonché necessario, nel senso di consentire la realizzazione dell’obiettivo prescelto nel modo meno invasivo per gli interessi degli operatori economici coinvolti.
Per verificare se la definizione di gravità della violazione contributiva posta dall’art. 38, comma 2, del d.l.vo 2006 n. 163 è coerente con il principio di proporzionalità, occorre precisare per quale ragione gli operatori che partecipano ad una gara devono essere in regola con i versamenti contributivi.
La regolarità contributiva è un requisito di ordine generale di partecipazione ad una gara ed integra un indice dell’affidabilità, della diligenza e della serietà dell’impresa concorrente e della sua correttezza nei rapporti con i dipendenti (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 18.10.2001, n. 5517). L’impresa che è in regola con i versamenti contributivi viene considerata affidabile dal legislatore nazionale, sia dal punto di vista della sua solidità finanziaria, perché adempie con regolarità ai propri debiti contributivi, sia sul piano della capacità di gestire in modo diligente e serio tanto i rapporti con l’amministrazione previdenziale, quanto i rapporti di lavoro con i propri dipendenti, palesandosi così come controparte contrattuale meritevole di fiducia.
Ne consegue che il parametro normativo di accertamento della regolarità contributiva previsto dall’art. 38, comma 2, del d.l.vo 2006 n. 163 si può ritenere coerente con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza solo se risulta concretamente idoneo ad evidenziare l’affidabilità o meno dell’operatore economico di volta in volta interessato.
Il Tribunale dubita della proporzionalità e della ragionevolezza del criterio dettato dall’art. 38, comma 2, perché il dato meramente quantitativo dell’importo della violazione commessa (superiore a 100,00 Euro) e della sua eccedenza rispetto al 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate non integra un indice significativo dell’inaffidabilità dell’impresa rispetto alla specifica procedura di gara.
Si tratta, infatti, di un criterio astratto, che non si modella sulle caratteristiche della singola gara, in relazione al suo oggetto e al suo valore concreto, né sulla struttura dell’impresa che ha commesso la violazione, in relazione al suo fatturato e alla sua capacità economica e finanziaria.
Ciò conduce a delle conseguenze irragionevoli e non coerenti con il principio di proporzionalità, perché l’affidabilità di un concorrente può essere apprezzata solo in concreto, ossia tenendo conto delle caratteristiche specifiche dell’appalto da aggiudicare e delle caratteristiche specifiche della singola impresa.
In particolare, la medesima violazione contributiva, pur astrattamente “grave” ai sensi dell’art. 38, comma 2, del d.l.vo 2006 n. 163, può essere indice di concreta inaffidabilità per un’impresa di piccole dimensioni, che ha ripetutamente omesso di effettuare i versamenti contributivi, mentre perde di significato rispetto ad una impresa di grandi dimensioni, che realizza ingenti fatturati e che è incorsa in un’unica ed occasionale violazione contributiva.
Allo stesso modo, una violazione contributiva qualificabile come “grave” ai sensi dell’art. 38, comma 2, cambia di significato ai fini dell’affidabilità in concreto dell’impresa a seconda che si tratti di aggiudicare un appalto di ingente valore, che richiede una marcata solidità economica e finanziaria del concorrente, o di particolare complessità tecnica, che impone alla stazione appaltante di fare notevole affidamento sulla serietà e sulla diligenza dell’aggiudicatario, oppure che si tratti di aggiudicare un appalto di modesta entità o persino sotto soglia comunitaria e privo di difficoltà tecniche.
Ne deriva che l’art. 38, comma 2, conduce a trattare in modo uguale situazioni profondamente diverse, così da risultare inidoneo a palesare l’inaffidabilità del concorrente che si è reso responsabile di una violazione contributiva.
Anche l’entità del dato quantitativo valorizzato dal legislatore nazionale per definire come “grave” una violazione contributiva non sembra coerente con il principio di proporzionalità.
Difatti, può accadere che una violazione di importo oggettivamente modesto, ma superiore anche di poco a 100,00 Euro, ecceda il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate nel periodo di riferimento. In tale ipotesi, nonostante l’oggettiva esiguità della violazione, l’impresa che l’ha commessa deve essere esclusa. Sul punto, è emblematico il caso che è alla base del ricorso in esame, in cui l’impresa è stata esclusa dalla gara per una violazione di soli 278,00 Euro, ma superiore al 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate, essendo corrispondente al 100% delle somme dovute nel periodo considerato. In simili casi l’esclusione dalla gara integra una conseguenza sproporzionata, perché l’irrisorietà della violazione commessa non è indice significativo, secondo comuni criteri di ragionevolezza, dell’inaffidabilità dell’impresa che viene esclusa.
L’irragionevolezza e la sproporzionalità del criterio quantitativo di gravità prescelto per le violazioni contributive emergono anche dal confronto con la diversa scelta operata dal legislatore nazionale in relazione alle violazioni fiscali.
Difatti, per le violazioni in materia fiscale, l’art. 38, comma 2, del d.l.vo 2006 n. 163 (coordinato con l’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602) considera gravi solo le violazioni superiori a 10.000,00 Euro e pertanto si riferisce ad importi notevolmente superiori rispetto a quelli valorizzati ai fini della gravità delle violazioni contributive, nonostante si tratti in entrambi i casi di inadempimenti di prestazioni pecuniarie normativamente imposte ed assunte ad indice dell’affidabilità dell’impresa concorrente.
Le considerazioni ora svolte conducono ad evidenziare un ulteriore profilo della disciplina dell’art. 38, comma 2, che non risulta coerente con il canone della proporzionalità. In particolare, l’esclusione dalla gara disposta perché il concorrente ha commesso una violazione contributiva “grave” ai sensi dell’art. 38, comma 2, si traduce in un effetto incidente in modo eccessivamente pregiudizievole e, pertanto, sproporzionato nella sfera giuridica del concorrente escluso, perché non è collegata ad un dato concretamente espressivo della sua inaffidabilità, ma ad un parametro del tutto astratto, privo di ragionevole attitudine dimostrativa della maggiore o minore serietà del concorrente. L’incidenza in modo esorbitante nella sfera del concorrente escluso evidenzia un ulteriore aspetto della disciplina non coerente con il canone della proporzionalità.
Il Tribunale ritiene che per rendere aderente ai principi di proporzionalità e di ragionevolezza la scelta legislativa di introdurre un criterio legale di gravità della violazione contributiva, sarebbe necessario ancorare il parametro quantitativo dell’entità della violazione ad aspetti oggettivi della gara, che siano rilevanti, secondo l’id quod plerumque accidit, per giudicare dell’affidabilità in concreto del concorrente incorso in violazioni contributive.
In tale senso, la violazione contributiva dovrebbe ritenersi grave quando raggiunge un importo individuato in funzione di una pluralità di parametri, attinenti alle caratteristiche sia del singolo appalto, sia dell’impresa di volta in volta interessata.
In relazione, al primo profilo si dovrebbe tenere conto del valore dell’appalto, nonché delle caratteristiche dell’opera da realizzare, ossia del livello di difficoltà tecnica che essa presenta, perché, come già evidenziato (retro punti 35 e 36), il medesimo importo di debito contributivo non pagato assume un diverso significato ai fini dell’affidabilità in concreto dell’impresa a seconda delle caratteristiche di valore e di difficoltà tecnica dell’appalto da aggiudicare.
In relazione al secondo profilo, la violazione “grave” andrebbe individuata sia in dipendenza del rapporto tra l’entità della violazione e il fatturato dell’impresa, oppure la capacità economico finanziaria dichiarata per la partecipazione alla gara, sia in dipendenza della riferibilità della violazione contributiva alla totalità o solo ad una parte dei lavoratori assunti dall’impresa medesima, nonché in funzione dell’occasionalità o meno della violazione commessa.
Quelli ora indicati sono parametri oggettivi, non astratti ma riferiti alle caratteristiche della fattispecie specifica e tali da creare un collegamento concreto tra la violazione contributiva commessa e l’accertamento dell’affidabilità e della serietà dell’impresa rispetto al particolare appalto da aggiudicare.
In definitiva, ai fini della decisione del ricorso indicato in epigrafe,
il Tribunale ritiene di sollevare la seguente questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE (ex articolo 234 del TCE), in relazione all’interpretazione della normativa comunitaria:
Il principio di proporzionalità, discendente dal diritto di stabilimento e dai principi di non discriminazione e di tutela della concorrenza, di cui agli articoli 49, 56 e 101 del TFUE, nonché il canone di ragionevolezza in esso racchiuso, ostano ad una normativa nazionale che, tanto per gli appalti sopra soglia, quanto per gli appalti sotto soglia comunitaria, qualifica come grave una violazione contributiva, definitivamente accertata, quando il suo importo eccede il valore di 100,00 Euro ed è contemporaneamente superiore al 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione, con conseguente obbligo per le stazioni appaltanti di escludere da una gara il concorrente che si è reso responsabile di una simile violazione, senza valorizzare altri profili oggettivamente espressivi dell’affidabilità del concorrente come controparte contrattuale?

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza):
Visto l'art. 267 del TFUE;
Visto l'art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione Europea;
Visto l'art. 3 della L. 13 marzo 1958, n. 204;
Vista la "Nota informativa riguardante le domande di pronuncia pregiudiziale da parte delle giurisdizioni nazionali", diramata dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea e pubblicata sulla G.U.C.E. del 28.05.2011;
RIMETTE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale indicata in motivazione;
SOSPENDE il processo fino alla definizione della questione pregiudiziale;
DISPONE che il presente provvedimento, unitamente a copia del fascicolo della causa, sia trasmesso, in plico raccomandato, alla Cancelleria della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, ordinanza 12.07.2012 n. 1969 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Affidamento senza gara: rischiano l’abuso d’ufficio il Sindaco e l’assessore di un Comune.
Con la sentenza 11.07.2012 n. 26625 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della Procura con cui si chiedeva la riforma della sentenza di assoluzione della Corte di appello nei confronti dei due amministratori locali.
I due imputati, rei di aver affidato senza gara l’area di un ex campo sportivo ad una società consortile di loro conoscenza, laddove un’altra azienda in precedenza ne aveva chiesto l’affidamento, dicendosi disponibile a partecipare ad una procedura di evidenza pubblica, avevano scontato un processo per abuso d’ufficio, ma ora dovrà essere il giudice del rinvio a verificare la sussistenza degli estremi.
La Cassazione rileva però senz’altro che la società amica abbia percepito un ingiusto vantaggio patrimoniale e che la società concorrente abbia subito un altrettanto ingiusto danno.
Secondo la ricostruzione dei fatti i due amministratori locali avevano partecipato alla riunione del consiglio di amministrazione della società consortile suggerendo di chiedere l’affidamento gratuito dell’area al Comune.
In Giunta, i due amministratori, all’atto di approvazione della delibera, avevano nascosto la circostanza che esisteva già una richiesta sull’immobile. E in quella sede l’assessore avrebbe dovuto astenersi perché suo fratello era l’amministratore di una compagine socia dell’azienda affidataria.
Gravissima quindi la mancata astensione, che non può essere giustificata dalla volontà di «rilanciare il turismo» in città come movente dell’iniziativa perché nessun obiettivo poteva giustificare la violazione delle procedure legali stabilite per l’azione amministrativa.
Perciò è stata frettolosa l’assoluzione dei giudici di merito: il caso dovrà essere riesaminato (commento tratto da www.diritto.it).

EDILIZIA-PRIVATA: I parcheggi collocati in aree esterne ai fabbricati, a differenza di quelli posti nel sottosuolo o al piano terreno degli stessi, non devono essere realizzati necessariamente dai proprietari dell’immobile, ma -in base alla legge Tognoli- possono esserlo anche da terzi: evidentemente il legislatore, non potendo escludersi che le <aree pertinenziali esterne> potessero appartenere a soggetti diversi dai proprietari dell’immobile, ha ritenuto di non dover limitare solo a questi ultimi la legittimazione a chiedere il permesso per realizzarvi i parcheggi.
Peraltro, la pertinenzialità che il legislatore ha inteso considerare in questo caso non è tanto quella materiale esistente tra l’edificio e l’area -sottostante, interna o esterna- destinata ad accogliere il parcheggio, ma quella giuridica esistente tra ciascun singolo posto auto da realizzare e una specifica unità immobiliare, nel senso di creare fra di essi un nesso di inscindibilità: ciò che è coerente con la <ratio> della l. n. 122 del 1989, che è quella di venire incontro al bisogno di parcheggi dei residenti nelle aree urbane evitando al tempo stesso operazioni speculative.
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La nozione edilizia di pertinenzialità ha connotati significativamente diversi da quelli civilistici, assumendo in essa rilievo decisivo non tanto il dato del legame materiale tra pertinenza ed immobile principale, quanto il dato giuridico che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico.
Ai fini dell'applicazione dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122 (cd. legge Tognoli), relativamente alla realizzazione di parcheggi nel sottosuolo di area pertinenziale esterna al fabbricato in deroga alle disposizioni degli strumenti urbanistici, è irrilevante che detta area esterna non si trovi in rapporto di immediata contiguità materiale con il fabbricato e sia di proprietà di soggetto diverso dal proprietario dell'immobile nei cui confronti i parcheggi sono destinati a divenire pertinenziali.
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Il rapporto di pertinenzialità è riconoscibile nel caso in cui i boxes si trovano in un ragionevole raggio di accessibilità pedonale.
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L'art. 9 della stessa, nel prevedere per i parcheggi la derogabilità degli strumenti urbanistici, fa salvi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale.
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E' legittimo il diniego di autorizzazione edilizia per la costruzione di un parcheggio interrato in presenza di un vincolo cimiteriale, poiché, trattandosi di vincolo assoluto, non sono ammesse deroghe nemmeno in riferimento all'art. 9 della l. n. 122/1989; infatti, anche il parcheggio interrato, in quanto struttura servente all'uso abitativo e, comunque, posta nell'ambito della fascia di rispetto cimiteriale, rientra tra le costruzioni edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui all'art. 338, r.d. n. 1265/1934.

La giurisprudenza amministrativa ha interpretato detta disposizione in coerenza con la ratio della medesima (ed anche con la ratio delle modifiche via via introdotte dall'art. 17, comma 90, l. 15.05.1997, n. 127 e dall'art. 37, l. 07.12.1999, n. 472) orientata a privilegiare lo scopo della “legge Tognoli” di far fronte alla carenza di parcheggi urbani.
Non altro senso, può attribuirsi all’estensione del concetto di pertinenzialità, affermato a più riprese da questa IV Sezione del Consiglio di Stato, sia sotto il profilo "soggettivo" (“i parcheggi collocati in aree esterne ai fabbricati, a differenza di quelli posti nel sottosuolo o al piano terreno degli stessi, non devono essere realizzati necessariamente dai proprietari dell’immobile, ma -in base alla legge Tognoli- possono esserlo anche da terzi: evidentemente il legislatore, non potendo escludersi che le <aree pertinenziali esterne> potessero appartenere a soggetti diversi dai proprietari dell’immobile, ha ritenuto di non dover limitare solo a questi ultimi la legittimazione a chiedere il permesso per realizzarvi i parcheggi. Peraltro, la pertinenzialità che il legislatore ha inteso considerare in questo caso non è tanto quella materiale esistente tra l’edificio e l’area -sottostante, interna o esterna- destinata ad accogliere il parcheggio, ma quella giuridica esistente tra ciascun singolo posto auto da realizzare e una specifica unità immobiliare, nel senso di creare fra di essi un nesso di inscindibilità: ciò che è coerente con la <ratio> della l. n. 122 del 1989, che è quella di venire incontro al bisogno di parcheggi dei residenti nelle aree urbane evitando al tempo stesso operazioni speculative.” Consiglio Stato, sez. IV, 31.03.2010, n. 1842), che sotto il profilo “oggettivo (“la nozione edilizia di pertinenzialità ha connotati significativamente diversi da quelli civilistici, assumendo in essa rilievo decisivo non tanto il dato del legame materiale tra pertinenza ed immobile principale, quanto il dato giuridico che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico.” Consiglio Stato, sez. IV, 31.03.2010, n. 1842, prima richiamata; ma si veda anche: “ai fini dell'applicazione dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122 (cd. legge Tognoli), relativamente alla realizzazione di parcheggi nel sottosuolo di area pertinenziale esterna al fabbricato in deroga alle disposizioni degli strumenti urbanistici, è irrilevante che detta area esterna non si trovi in rapporto di immediata contiguità materiale con il fabbricato e sia di proprietà di soggetto diverso dal proprietario dell'immobile nei cui confronti i parcheggi sono destinati a divenire pertinenziali"- Consiglio Stato, sez. IV, 18.10.2010, n. 7549).
Detto favor realizzativo, e detta interpretazione estensiva, trovano simmetrica corrispondenza negli approdi cui è giunta la giurisprudenza di legittimità penale (si veda Cassazione penale, sez. III, 03.03.2009, n. 14940, dove si precisa che “il rapporto di pertinenzialità è riconoscibile nel caso in cui i boxes si trovano in un ragionevole raggio di accessibilità pedonale”.).
Al contempo, la consolidata giurisprudenza amministrativa (Consiglio di stato, sez. IV, 28.03.2011, n. 1879) ha costantemente ribadito che “l'art. 9 della stessa, nel prevedere per i parcheggi la derogabilità degli strumenti urbanistici, fa salvi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale.” (si veda, sul punto, di recente, anche TAR Lazio Roma, sez. I, 18.01.2011, n. 382).
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Quanto a tale profilo, da un canto, è comunque agevole riscontrare che risulta incontestata la deduzione dell’appellante secondo cui il Regolamento urbanistico prevedeva che la “misura” di parcheggi di cui dotarsi fosse coincidente (ma soltanto nella sua misura minima) con quella prevista dall’art. 41-sexies della legge urbanistica n. 1150/1942.
Per altro verso, e con portata assorbente, si evidenzia che il concreto atteggiarsi della statuizione reiettiva, anche in tale caso, si pone in illogico contrasto con la disposizione di legge richiamata.
La reiezione disposta dall’appellata amministrazione, infatti, muove dalla pacifica considerazione per cui, a fronte di una volumetria di mc. 1.290 del fabbricato, era presente una superficie complessiva di parcheggio (garage esistente e area esterna di pertinenza che poteva essere adibita a parcheggio) di mq. 184.
A questo punto, poi, si è ivi evidenziato che l’area disponibile era “superiore al minimo di standard della legge n. 122/1989” e, prendendo spunto dal disposto che l’art. 2 comma 2, individuava il detto valore quantitativo (art. 2 comma 2: “l'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, è sostituito dal seguente: Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione") e si è pervenuti, anche per tal via, alla statuizione reiettiva avversata.
Sennonché, il primo giudice –che pure aveva colto che la detta fattispecie normativa era “relativa ai nuovi edifici” e pertanto, non applicabile alle fattispecie de quo- ha affermato che “tra questi limiti trova una sua giustificazione anche quello di permettere i garages interrati solo al fine del raggiungimento dello standard di parcheggio fissato dall’art. 2, comma 2, della legge n. 122/1989 sia pure per le nuove costruzioni. E il fatto che la normativa locale utilizzi un criterio, pur dettato dalla legge statale per altra ipotesi, non configura nessuna illegittimità quando quel criterio risponda alle specifiche esigenze del territorio comunale”.
Con simile asserzione, però, quel giudice non ha colto che comunque, il criterio cui si riferiva la legge era quello minimo, di guisa che anche per tale aspetto (in disparte ogni considerazione sull’utilizzabilità di un simile parametro per edifici non costituenti “nuova costruzione”) la concreta applicazione fattane dal Comune trasformava detto limite minimo (“non inferiore”, statuisce la prescrizione di legge, lo si ribadisce) in limite massimo, così ponendosi in conflitto con la norma di legge.
Né a simile interpretazione applicativa poteva pervenirsi valorizzando gli elementi di ”invarianza” afferenti alla specifica categoria di edifici nei quali è ascrivibile quello per cui è causa.
Nella pacifica considerazione, infatti, che non trattavasi di edificio specificamente vincolato ai sensi del TU dei beni culturali (né, in pregresso ex lege n. 1089/1939), si rimarca che le esigenze di tutela ambientale e paesaggistica espressamente fatte salve dalla norma di cui all’art. 9 a più riprese citata (che sono condizione per la compatibilità costituzionale della stessa), trovano tutela nella legislazione statale e nell’attività di tutela di siffatte categorie di beni pertinente alle Autorità preposte ai detti vincoli (a titolo esemplificativo, si veda in passato: “è legittimo il diniego di autorizzazione edilizia per la costruzione di un parcheggio interrato in presenza di un vincolo cimiteriale, poiché, trattandosi di vincolo assoluto, non sono ammesse deroghe nemmeno in riferimento all'art. 9 della l. n. 122/1989; infatti, anche il parcheggio interrato, in quanto struttura servente all'uso abitativo e, comunque, posta nell'ambito della fascia di rispetto cimiteriale, rientra tra le costruzioni edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui all'art. 338, r.d. n. 1265/1934.” -Consiglio Stato, sez. V, 14.09.2010, n. 6671).
Rammenta in proposito il Collegio il tradizionale orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo cui “mentre l'attività di valorizzazione del bene culturale deve essere il frutto di un intervento coordinato che veda coinvolti tutti i soggetti pubblici interessati, l'attività di tutela rappresenta prerogativa esclusiva dello Stato, in quanto soggetto proprietario del bene, che è quindi responsabile primario della sua conservazione. Tale distinzione trae, del resto, fondamento anche nell'art. 117, comma 2, cost., che appunto riserva alla competenza esclusiva dello Stato l'attività di tutela dei beni culturali, demandando, invece, alla competenza concorrente Stato-Regione l'attività di valorizzazione” (Consiglio Stato, sez. VI, 30.07.2009, n. 4779).
Prescrizioni regolamentari comunali non limitate agli aspetti compositivo-architettonici appaiono incidere sulla competenza esclusiva della Soprintendenza in materia di tutela dei beni culturali e travalicare la portata delle competenze demandate alla amministrazione comunale, che non potrebbe, seppur nel lodevole intento di salvaguardare detti valori, introdurre nel sistema prescrizioni non già limitative, ma, come nel caso di specie, impeditive in via assoluta, per intere categorie di immobili, della espressa previsione contemplata in una disposizione nazionale
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.07.2012 n. 4091  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Fermo restando il principio ormai consolidato che gli atti di nomina e revoca degli assessori degli enti territoriali non hanno natura politica, in quanto sottoposti alle eventuali specifiche prescrizioni dettate dalle leggi e eventualmente dagli statuti e dai regolamenti, la valutazione degli interessi coinvolti nel procedimento di revoca di un assessore è rimessa in via esclusiva al Sindaco, cui compete in autonomia la scelta delle persone di cui avvalersi per l’amministrazione dell’ente e che possono essere anche esterne al Consiglio Comunale (c.d. assessori tecnici).
La valutazione di merito delle scelte operate dal Sindaco è poi rimessa alla esclusiva valutazione del Consiglio comunale quale organo di indirizzo e di controllo dell’Ente.
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Se, infatti, spetta al Sindaco la scelta dei componenti (di tutti i componenti) della Giunta, non vi è alcuna ragione per escludere che il Sindaco possa procedere con contrarius actus alla revoca ed alla conseguente sostituzione di alcuno o di tutti gli assessori precedentemente nominati.
Il legislatore ha introdotto, infatti, uno stretto rapporto tra il Sindaco, che trae direttamente la propria investitura dalla base elettorale e i membri della Giunta, che si presentano come suoi collaboratori e che da lui stesso trovano la loro fonte di legittimazione.
Questo rapporto trova poi naturale svolgimento nel principio “simul stabunt simul cadent”, secondo cui una eventuale mozione di sfiducia rivolta al Sindaco, anche per vicende che dovessero riguardare la Giunta o singoli assessori, se approvata dal Consiglio comunale potrebbe avere conseguenze sulla permanenza del Consiglio stesso.
Se il potere di nominare e revocare i membri della Giunta fonda, come si è detto, sul presupposto che egli, essendo eletto direttamente dai cittadini, è il responsabile del governo locale, sarà a lui che verranno imputati i risultati dell’amministrazione e da ciò consegue la rilevanza del permanere del rapporto di fiducia tra il Sindaco e la Giunta nella sua interezza nei confronti del Consiglio comunale che può a sua volta revocare la fiducia all’esecutivo.
La natura ampiamente discrezionale del provvedimento di revoca dell’incarico di assessore comporta che la relativa motivazione può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico–amministrativa da parte del Sindaco, fermo restando l’obbligo di comunicare al Consiglio comunale la decisione di revocare l’assessore ex art. 46 dlgs 267/2000.
Il procedimento di revoca dell’incarico assessorile, necessariamente improntato alla semplificazione, per evitare l’insorgere o il prolungarsi di una crisi politica nell’ambito dell’amministrazione comunale, non richiede che l’avvio di tale procedimento debba essere comunicato all’interessato, ai sensi dell’art. 7, l. n. 241 del 1990, atteso che per le considerazioni fatte egli non può opporvisi e quindi la sua partecipazione diventa recessiva in un quadro normativo in cui ogni valutazione è rimessa in modo esclusivo al Sindaco.

La questione di diritto all’esame attiene alla natura e all’ambito del potere di revoca degli assessori da parte del Sindaco e le garanzie proprie dei revocandi, nonché i limiti del sindacato esercitabile su tali atti da parte del giudice amministrativo.
Su tutti questi punti non vi sono motivi per discostarsi dalla costante giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. V 25.08.2011, n. 4905; Sez. V, 27.04.2010, n. 2357; Sez. V, 12.10.2009, n. 6253).
Fermo restando il principio ormai consolidato che gli atti di nomina e revoca degli assessori degli enti territoriali non hanno natura politica, in quanto sottoposti alle eventuali specifiche prescrizioni dettate dalle leggi e eventualmente dagli statuti e dai regolamenti, la valutazione degli interessi coinvolti nel procedimento di revoca di un assessore è rimessa in via esclusiva al Sindaco, cui compete in autonomia la scelta delle persone di cui avvalersi per l’amministrazione dell’ente e che possono essere anche esterne al Consiglio Comunale (c.d. assessori tecnici).
La valutazione di merito delle scelte operate dal Sindaco è poi rimessa alla esclusiva valutazione del Consiglio comunale quale organo di indirizzo e di controllo dell’Ente.
La disposizione di legge che regola la fattispecie è l’art. 46, co. 4, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, che prevede che nell’ordinamento generale degli enti locali “Il sindaco e presidente della provincia possono revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio”.
La lettera della disposizione non consente una interpretazione della norma che limiti il suo potere di revoca dei membri della giunta, perché non sarebbe coerente con il sistema dell’elezione e delle attribuzioni del Sindaco.
Se, infatti, spetta al Sindaco la scelta dei componenti (di tutti i componenti) della Giunta, non vi è alcuna ragione per escludere che il Sindaco possa procedere con contrarius actus alla revoca ed alla conseguente sostituzione di alcuno o di tutti gli assessori precedentemente nominati.
Il legislatore ha introdotto, infatti, uno stretto rapporto tra il Sindaco, che trae direttamente la propria investitura dalla base elettorale e i membri della Giunta, che si presentano come suoi collaboratori e che da lui stesso trovano la loro fonte di legittimazione.
Questo rapporto trova poi naturale svolgimento nel principio “simul stabunt simul cadent”, secondo cui una eventuale mozione di sfiducia rivolta al Sindaco, anche per vicende che dovessero riguardare la Giunta o singoli assessori, se approvata dal Consiglio comunale potrebbe avere conseguenze sulla permanenza del Consiglio stesso.
Se il potere di nominare e revocare i membri della Giunta fonda, come si è detto, sul presupposto che egli, essendo eletto direttamente dai cittadini, è il responsabile del governo locale, sarà a lui che verranno imputati i risultati dell’amministrazione e da ciò consegue la rilevanza del permanere del rapporto di fiducia tra il Sindaco e la Giunta nella sua interezza nei confronti del Consiglio comunale che può a sua volta revocare la fiducia all’esecutivo.
La natura ampiamente discrezionale del provvedimento di revoca dell’incarico di assessore comporta che la relativa motivazione può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico–amministrativa da parte del Sindaco, fermo restando l’obbligo di comunicare al Consiglio comunale la decisione di revocare l’assessore ex art. 46 cit.
Il procedimento di revoca dell’incarico assessorile, necessariamente improntato alla semplificazione, per evitare l’insorgere o il prolungarsi di una crisi politica nell’ambito dell’amministrazione comunale, non richiede che l’avvio di tale procedimento debba essere comunicato all’interessato, ai sensi dell’art. 7, l. n. 241 del 1990, atteso che per le considerazioni fatte egli non può opporvisi e quindi la sua partecipazione diventa recessiva in un quadro normativo in cui ogni valutazione è rimessa in modo esclusivo al Sindaco (Consiglio di Stato, Sez. V, 23.01.2007 n. 209).
Nella materia de qua, infine, il giudice amministrativo è sfornito del sindacato di merito, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all’art. 134 c.p.a., per il carattere latamente politico della scelta non sindacabile in sede di legittimità se non per profili formali, quali la violazione di specifiche disposizioni normative, la evidente abnormità del provvedimento sindacale o il suo carattere discriminatorio, circostanze che non ricorrono nel caso di specie (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.07.2012 n. 4057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Malattia, per le ferie non godute scatta l’indennità sostituiva.
Le ferie non godute a causa di un periodo di malattia vanno sempre compensate con il pagamento dell’indennità sostitutiva. E non importa se il contratto collettivo di appartenenza dice diversamente, perché siamo di fronte ad un diritto non comprimibile e tutelato dalla Costituzione.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 09.07.2012 n. 11462, accogliendo la domanda (al momento del collocamento a riposo) del direttore dei servizi amministrativi di un istituto tecnico commerciale di Assisi a cui la Corte di appello di Perugia aveva negato l’indennità in quanto le assenze non erano motivate da “esigenze di servizio”.
A norma del contratto di categoria, infatti, era questa l’unica ipotesi in cui scattava sempre il diritto al pagamento dell’indennità.
Il carattere risarcitorio dell’indennità
Una tesi bocciata dalla Cassazione che richiama l’articolo 36 della Carta fondamentale in cui si parla di un diritto “a ferie annuali retribuite, e non rinunciabili”. Dunque, al lavoratore che non ha goduto del riposo spetta sempre il pagamento delle ferie non godute che oltre ad avere carattere risarcitorio per “la perdita del bene” (mancato recupero delle energie psicofisiche, impossibilità di dedicarsi alle relazioni familiari e di svolgere attività psicofisiche), hanno anche “natura retributiva” costituendo il corrispettivo “dell’attività lavorativa resa in un periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato perché destinato al godimento delle ferie annuali”.
Il paletti della Corte Ue
Non solo, siccome nel caso specifico il dirigente non ha potuto fruire delle ferie perché malato, il diniego di pagamento va anche contro la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Ue. In particolare, i giudici europei hanno chiarito (sentenza C-350/06 e C-520/06) che l’articolo 7 della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che sebbene la norma nazionale possa stabilire dei limiti temporali per il godimento delle ferie dalla loro maturazione, non è ammissibile escludere il diritto all’indennità finanziaria sostituiva quando i dipendenti siano in congedo per malattia.
Ccnl illegittimi
Per la Cassazione, dunque, ha errato la corte territoriale laddove ha dato per buone le indicazioni contrattuali di categoria “mentre avrebbe dovuto rilevare l’illegittimità di tali disposizioni nella parte in cui contrastano con i sopra esposti principi di diritto” (commento tratto da e link a www.diritto24.ilsole24ore.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il dies a quo per impugnare una delibera comunale per i soggetti che non ne sono i diretti destinatari decorre dal giorno in cui è scaduto il termine di pubblicazione dell’atto nell’albo pretorio.
E’ noto che le regole del processo amministrativo (prima all’art. 21 l. Tar, oggi all’art. 41 cpa) prevedono che il dies a quo per impugnare una delibera comunale per i soggetti che non ne sono i diretti destinatari, come è nella specie, decorra dal giorno in cui è scaduto il termine di pubblicazione dell’atto nell’albo pretorio (tra tante, Consiglio Stato, VI, 06.04.2010, n. 1918; V, 21.12.2010, n. 9314).
Nella specie, la delibera impugnata è stata pubblicata per quindici giorni all’albo pretorio a partire dal 24.04.2003 ed è divenuta esecutiva in data 05.05.2003.
Il ricorso è stato notificato soltanto in data 21.01.2005 e quindi abbondantemente oltre il termine di sessanta giorni previsto a pena di decadenza per l’impugnazione.
Non è sostenibile l’affermazione che, nella specie, i ricorrenti di primo grado sarebbero destinatari determinati.
Si tratta infatti di un provvedimento a carattere generale che prevede che “i sedimi dei sentieri con determinate caratteristiche non sono considerabili di proprietà privata e pertanto non possono essere in nessun modo occupati con strutture private” .
A prescindere dalla effettiva loro valenza eventualmente lesiva -e in disparte la eventuale tutela di tipo proprietario sulla strada asseritamente privata dinanzi al giudice ordinario–, atti di tale tenore non necessitano di essere notificati a determinati destinatari, che non sussistono e non sono individuati né individuabili a priori (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.07.2012 n. 3971 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Allorché si richiede all’amministrazione l’annullamento in autotutela di provvedimenti asseritamente illegittimi, l’amministrazione non ha alcun obbligo di procedere in autotutela, in quanto l’esercizio del potere di annullamento in autotutela è espressione di un potere ampiamente discrezionale dell’amministrazione, a fronte del quale non sussistono posizioni giuridiche qualificate dell’interessato.
Ne consegue che il mancato esercizio del potere di annullamento d’ufficio non può essere sindacato in sede giurisdizionale, spettando solamente all’amministrazione ogni valutazione e considerazione del proprio provvedimento e degli interessi dei privati concorrenti e del loro affidamento.

Innanzi tutto va rilevato che allorché si richiede all’amministrazione l’annullamento in autotutela di provvedimenti asseritamente illegittimi, l’amministrazione non ha alcun obbligo di procedere in autotutela, in quanto l’esercizio del potere di annullamento in autotutela è espressione di un potere ampiamente discrezionale dell’amministrazione, a fronte del quale non sussistono posizioni giuridiche qualificate dell’interessato.
Ne consegue che il mancato esercizio del potere di annullamento d’ufficio non può essere sindacato in sede giurisdizionale, spettando solamente all’amministrazione ogni valutazione e considerazione del proprio provvedimento e degli interessi dei privati concorrenti e del loro affidamento.
Non ha pregio alcuno, quindi, dissertare sul rigetto dell’istanza di annullamento in autotutela e sulla sufficienza ed adeguatezza delle motivazioni rappresentate dall’amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.07.2012 n. 3958 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In base alla previsione del bando, il criterio di aggiudicazione da seguire era quello del prezzo più basso, previa esclusione delle offerte con percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia, ex artt. 86, comma 1, e 122, comma 9, del d.lgs. n. 163/2006.
In base a quest'ultima norma, al fine dell'esclusione automatica delle offerte cd. anomale, sono considerate tali tutte quelle che presentino un ribasso pari o superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione (cd. taglio delle ali) del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente, delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media.
Pertanto, dopo l'ammissione delle offerte, sono previste le seguenti fasi:
- taglio delle ali, vale dire l'esclusione dal calcolo del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso;
- calcolo della media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le residue offerte;
- calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che in tali offerte superano la predetta media;
- somma dei dati relativi alla media aritmetica e allo scarto medio aritmetico, con la conseguente determinazione della soglia di anomalia.
Per dato letterale e logico, in via generale in dette operazioni vengono in rilievo le offerte, alle quali fa riferimento il legislatore, a prescindere dalla entità dei ribassi in esse contenuti (cd. criterio assoluto).
In particolare non vi sono elementi dai quali, come regola generale, possa desumersi che in caso di offerte con identico ribasso le stesse vadano considerate unitariamente come unica entità (cd. criterio relativo).
Unica eccezione a questa regola viene desunta per le offerte che nel calcolo per il taglio delle ali vengano a trovarsi a cavallo della percentuale del 10%; e ciò, secondo un indirizzo giurisprudenziale condiviso dal Collegio in base al quale:
a) la ratio dell'esclusione (dal novero delle offerte prese in considerazione) di quelle collocate ai margini estremi dell'ala, sta nell'intento di eliminare in radice l'influenza che possono avere, sulla media dei ribassi, offerte disancorate dai valori medi, in modo da scoraggiare la presentazione di offerte al solo fine di condizionare la media;
b) nel caso in cui siano più di una le offerte che presentino la medesima percentuale di ribasso collocate a cavallo della soglia del dieci per cento e l'ampiezza dell'ala non consenta di escluderle tutte, non resta quindi altra strada che quella di attribuire alla parola "offerte", un significato non assoluto ma relativo, intendendola come espressione del ribasso percentuale in essa contenuto. Sicché la presenza di più offerte che presentino la medesima percentuale di ribasso, collocate a cavallo della soglia del 10%, non può che comportare l'effetto giuridico della loro integrale esclusione dal computo delle successive operazioni.
In tutti gli altri casi, per dato letterale inequivocabile, opera invece il criterio assoluto, con considerazione distinta delle singole offerte pur se aventi il medesimo ribasso, essendo stabilito in particolare, per quel che qui rileva, che la media aritmetica riguarda i ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse e non i ribassi in esse contenuti.

Con l’unico motivo di ricorso la appellante principale ha dedotto che, posto che le offerte della Sgargi s.r.l. e della C.E.B. s.c. a r.l. presentavano entrambe un ribasso del 17,250%, il TAR avrebbe erroneamente respinto le censure formulate dalla attuale appellante avverso il criterio di computo seguito dalla Commissione aggiudicatrice per l’individuazione della soglia di anomalia, calcolata al 18,245% considerando dette due offerte singolarmente, invece che come unica offerta (il che avrebbe portato la soglia di anomalia al 18,276% ed alla aggiudicazione ad essa appellante della gara in quanto la sua offerta, con il ribasso del 17,250%, era quella immediatamente inferiore a detta soglia di anomalia).
Non sarebbe, invero, condivisibile la tesi del TAR che nel calcolo della media aritmetica dei ribassi di tutte le offerte ammesse, ex artt. 86, co. 1, e 122, co. 9, vanno necessariamente conteggiate tutte le offerte ammesse, anche quelle che recano uguali ribassi, senza che in tale ipotesi possano considerarsi più offerte come una sola, poiché altrimenti il ribasso non sarebbe più la media aritmetica, in contrasto con la chiara dizione della legge.
Ciò in quanto alla espressione “media aritmetica” non potrebbe essere ascritta alcuna valenza persuasiva, nel senso che vanno conteggiate tutte le offerte ammesse (comprese quelle che recano eguali ribassi), dovendo essere rivolta la attenzione dell'interprete in particolare alla parola “offerte”, contenuta nell’art. 86, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006, alla quale va dato un significato non assoluto ma relativo, intendendola come espressione del ribasso percentuale in essa contenuta (in analogia a quanto ritenuto dalla giurisprudenza con riguardo alla fase del “taglio delle ali”), perché la finalità della norma sarebbe quella di scoraggiare la presentazione di offerte al solo fine di condizionare la media.
Osserva la Sezione che, in base alla previsione del bando, il criterio di aggiudicazione da seguire era quello del prezzo più basso, previa esclusione delle offerte con percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia, ex artt. 86, comma 1, e 122, comma 9, del d.lgs. n. 163/2006.
In base a quest'ultima norma, al fine dell'esclusione automatica delle offerte cd. anomale, sono considerate tali tutte quelle che presentino un ribasso pari o superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione (cd. taglio delle ali) del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente, delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media.
Pertanto, dopo l'ammissione delle offerte, sono previste le seguenti fasi:
- taglio delle ali, vale dire l'esclusione dal calcolo del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso;
- calcolo della media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le residue offerte;
- calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che in tali offerte superano la predetta media;
- somma dei dati relativi alla media aritmetica e allo scarto medio aritmetico, con la conseguente determinazione della soglia di anomalia.
Per dato letterale e logico, in via generale in dette operazioni vengono in rilievo le offerte, alle quali fa riferimento il legislatore, a prescindere dalla entità dei ribassi in esse contenuti (cd. criterio assoluto).
In particolare non vi sono elementi dai quali, come regola generale, possa desumersi che in caso di offerte con identico ribasso le stesse vadano considerate unitariamente come unica entità (cd. criterio relativo).
Unica eccezione a questa regola viene desunta per le offerte che nel calcolo per il taglio delle ali vengano a trovarsi a cavallo della percentuale del 10%; e ciò, secondo un indirizzo giurisprudenziale condiviso dal Collegio (Consiglio Stato, sez. V, 18.06.2001, n. 3216; 26.02.2003, n. 1094; 03.06.2002, n. 3068), in base al quale:
a) la ratio dell'esclusione (dal novero delle offerte prese in considerazione) di quelle collocate ai margini estremi dell'ala, sta nell'intento di eliminare in radice l'influenza che possono avere, sulla media dei ribassi, offerte disancorate dai valori medi, in modo da scoraggiare la presentazione di offerte al solo fine di condizionare la media;
b) nel caso in cui siano più di una le offerte che presentino la medesima percentuale di ribasso collocate a cavallo della soglia del dieci per cento e l'ampiezza dell'ala non consenta di escluderle tutte, non resta quindi altra strada che quella di attribuire alla parola "offerte", un significato non assoluto ma relativo, intendendola come espressione del ribasso percentuale in essa contenuto. Sicché la presenza di più offerte che presentino la medesima percentuale di ribasso, collocate a cavallo della soglia del 10%, non può che comportare l'effetto giuridico della loro integrale esclusione dal computo delle successive operazioni.
In tutti gli altri casi, per dato letterale inequivocabile, opera invece il criterio assoluto, con considerazione distinta delle singole offerte pur se aventi il medesimo ribasso, essendo stabilito in particolare, per quel che qui rileva, che la media aritmetica riguarda i ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse e non i ribassi in esse contenuti (Consiglio Stato, sez. V, 15.10.2009, n. 6323) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.07.2012 n. 3953 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Risulta infondata anche la censura incentrata sulla natura pertinenziale delle opere abusive in questione. Infatti secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Lombardia Milano, Sez. II, 11.02.2005, n. 365; TAR Lazio, Sez. II, 04.02.2005, n. 1036) occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto intervento -non essendo coessenziale ad un bene principale e potendo essere successivamente utilizzato anche in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 06.07.2012 n. 3274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.

Infine, destituita di ogni fondamento risulta la censura incentrata dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 06.07.2012 n. 3274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'avvenuta presentazione della domanda di condono edilizio comporta l’obbligo per l’amministrazione di pronunciarsi sulla stessa prima di dare ulteriore corso al procedimento repressivo, tant’è che a norma degli artt. 38 e 44 legge 47/1985, si verifica la sospensione dei procedimenti amministrativi sanzionatori: in particolare l’art. 44 della precitata Legge 47/1985 (compreso nel capo IV della legge medesima) comporta la sospensione (tra l’altro) dei procedimenti amministrativi e giurisdizionali, nonché della loro esecuzione, sino alla scadenza del termine previsto, a pena di decadenza, per la presentazione della domanda relativa alla definizione dell’ illecito edilizio, mentre a mente dell’art. 38 non è possibile portare ad ulteriore corso il procedimento repressivo dell’abuso senza previa pronuncia sulla istanza di condono.
Già in via generale infatti, in pendenza di una procedura di sanatoria non definita, l’ordine di demolizione successivamente spedito rappresenta un sovvertimento dell’ordine logico di valutazione della fattispecie sottoposta all’esame degli organi competenti, con conseguente vizio di eccesso di potere dell’atto repressivo anticipato.

Osserva il Tribunale che il ricorso va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse; in particolare va rilevato che la successiva presentazione della istanza di condono, comporta l’obbligo per l’amministrazione di pronunciarsi sulla stessa con sospensione dei procedimenti sanzionatori in corso.
Infatti, l’avvenuta presentazione della domanda di condono edilizio comporta l’obbligo per l’amministrazione di pronunciarsi sulla stessa prima di dare ulteriore corso al procedimento repressivo, tant’è che a norma degli artt. 38 e 44 legge 47/1985, si verifica la sospensione dei procedimenti amministrativi sanzionatori: in particolare l’art. 44 della precitata Legge 47/1985 (compreso nel capo IV della legge medesima) comporta la sospensione (tra l’altro) dei procedimenti amministrativi e giurisdizionali, nonché della loro esecuzione, sino alla scadenza del termine previsto, a pena di decadenza, per la presentazione della domanda relativa alla definizione dell’ illecito edilizio, mentre a mente dell’art. 38 non è possibile portare ad ulteriore corso il procedimento repressivo dell’abuso senza previa pronuncia sulla istanza di condono.
Già in via generale infatti, in pendenza di una procedura di sanatoria non definita, l’ordine di demolizione successivamente spedito rappresenta un sovvertimento dell’ordine logico di valutazione della fattispecie sottoposta all’esame degli organi competenti, con conseguente vizio di eccesso di potere dell’atto repressivo anticipato (giurisprudenza consolidata: cfr., fra le tante, TAR Veneto, 07.07.2000, n. 1301; TAR Calabria, Catanzaro, 04.11.2001, n. 4; TAR Sardegna, 07.08.2000, n. 769; TAR Campania, Napoli, 10.11.1997, n. 2905 e 01.04.1999, n. 940).
Per quanto riguarda la normativa eccezionale in materia di cosiddetto condono edilizio, poi, l’art. 38 della legge 28.02.1985, n. 47 –riferibile anche alle procedure avviate ai sensi dell’art. 32, comma 25, del D.L. 30.09.2003, n. 269, convertito in legge 24.11.2003, n. 326, che nel successivo comma 28 prevede l’applicabilità delle disposizioni di cui alla citata legge n. 47/1985, ove compatibili– prevede che "la presentazione entro il termine perentorio della domanda…sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative".
Tenuto conto del principio generale sopra enunciato, deve ritenersi che la sospensione di cui trattasi si traduca in interruzione dell’iter procedurale per le sanzioni emesse prima della presentazione dell’istanza e di inibitoria dell’avvio di ogni attività repressiva, per opere che siano astrattamente sanabili, in presenza di istanza di condono che si trovi già agli atti dell’amministrazione.
Pertanto il ricorso va dichiarato improcedibile, stante l’art. 38 legge 47/1985, il cui disposto impone all’amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva, che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, sicché la P.A. ha l’obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno dell’opera edilizia prima di portare ad ulteriore corso il procedimento repressivo (cfr. CdS sez. V 24.03.1998 n. 345; 17.03.1998 n. 298).
Nella specie il Collegio rileva che le contestazioni dell’amministrazione comunale, che ha negato la presentazione della domanda in oggetto, siano superate dai successivi accertamenti dello stesso Comune che ha attestato nella memoria del 31.05.2011 ed allegata relazione del settore del 04.04.2011 che l’opera non è condonabile perché realizzata in area soggetta a vincolo di PRG- rispetto della fascia cimiteriale art 338 RD 1265/1934, .
La stessa amministrazione in seguito ha depositato in data 10.05.2012 nota del 9.05.2012 unità condono edilizio, nella quale si rappresenta che è in corso l’ emissione del provvedimento di diniego di condono e di nuovo ordine di demolizione.
La dichiarazione di improcedibilità fa ritenere assorbita ogni altra censura, (ivi compresa quella introdotta con l’istanza di tale Bianco Maria del 07.03.2012 per l’esecuzione spontanea del ripristino a seguito di sentenza penale n. 4848/2011) salvi gli ulteriori e doverosi provvedimenti dell’amministrazione in sede di esame della citata istanza di condono edilizio (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 06.07.2012 n. 3265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul possesso del requisito della regolarità fiscale, la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che la sua sussistenza va verificata non solo con riferimento al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla gara, ma anche nelle fasi che seguono, e che l’eventuale regolarizzazione successiva non può comportare ex post il venir meno della causa di esclusione.
La correttezza di siffatta impostazione è stata più di recente confermata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 8 del 04.05.2012, nel pronunciarsi sui requisiti di regolarità contributiva e previdenziale, ha ribadito che costituisce “principio pacifico” già affermato in giurisprudenza che la verifica dei predetti requisiti deve essere effettuata, innanzitutto, con riferimento al momento di presentazione della domanda di partecipazione alla gara.
Inoltre, quale corollario del predetto principio enunciato con riferimento alla regolarità “contributiva”, ha altresì precisato che la regolarità “fiscale” e “contributiva” devono essere comunque riguardate con riferimento insuperabile al momento ultimo per la presentazione delle offerte, e che a nulla rileva un’eventuale regolarizzazione successiva.

Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito argomentato.
Va innanzitutto esclusa la fondatezza della ricostruzione formulata in ricorso con il primo motivo di impugnazione, secondo cui la ricorrente non poteva essere esclusa dalla gara ad aggiudicazione già intervenuta poiché la regolarità fiscale sarebbe un requisito di “partecipazione” che andava verificato al momento della presentazione della domanda, ossia prima di procedere all’aggiudicazione definitiva,e non dopo. In tal fase, deduce la ricorrente, era ancora pendente il termine per il pagamento, per cui alcuna violazione poteva esserle contestata.
Nell’escludere la legittimità di tale contestazione specifica, nella motivazione del provvedimento impugnato, la stazione appaltante ha richiamato la pacifica giurisprudenza del Consiglio di Stato che, in più occasioni, ha chiarito che il requisito della regolarità fiscale deve essere posseduto dal concorrente non soltanto al momento della partecipazione alla gara, ma per tutto lo svolgimento della procedura.
Ritiene il Collegio che la motivazione opposta dall’amministrazione sia esente da censure dal momento che sul possesso del requisito della regolarità fiscale, la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che la sua sussistenza va verificata non solo con riferimento al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla gara, ma anche nelle fasi che seguono, e che l’eventuale regolarizzazione successiva non può comportare ex post il venir meno della causa di esclusione ( cfr C.d.S. sez. V 26.08.2010 n. 5698; 23.10.2007 n. 5575; C.d.S.sez. IV , 20.09.2005 n. 4817; Cd.S. sez. V, 06.07.2002 n. 3733).
La correttezza di siffatta impostazione è stata più di recente confermata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 8 del 04.05.2012, nel pronunciarsi sui requisiti di regolarità contributiva e previdenziale, ha ribadito che costituisce “principio pacifico” già affermato in giurisprudenza che la verifica dei predetti requisiti deve essere effettuata, innanzitutto, con riferimento al momento di presentazione della domanda di partecipazione alla gara.
Inoltre, quale corollario del predetto principio enunciato con riferimento alla regolarità “contributiva”, ha altresì precisato che la regolarità “fiscale” e “contributiva” devono essere comunque riguardate con riferimento insuperabile al momento ultimo per la presentazione delle offerte, e che a nulla rileva un’eventuale regolarizzazione successiva (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 06.07.2012 n. 3262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Al fine dell’emissione del provvedimento di decadenza di un permesso di costruire per inosservanza del termine di ultimazione dei lavori occorre solo accertare il fatto obiettivo della mancata ultimazione dell’opera nel triennio e constatare che non sussistono cause che rendano giustificabile l’inadempimento per elementi ostativi non addebitabili all’interessato.
Con il provvedimento impugnato il Comune di Sant'Antimo ha dichiarato la decadenza della concessione rilasciata al ricorrente il 23.10.2009, avendo accertato il mancato inizio dei lavori nel termine perentorio di un anno e comunque il loro mancato completamento entro il triennio successivo.
L’istante sostiene che il ritardo nell’inizio dell’esecuzione dei lavori sarebbe dovuto al tardivo rilascio della autorizzazione sismica da parte del Settore provinciale del Genio Civile della Regione Campania, che pertanto dovrebbe essere considerato alla stregua di un factum principis, che avrebbe dovuto impedire la pronuncia di decadenza.
La questione ha carattere assorbente in quanto attiene all'esistenza del presupposto per l'esercizio del potere.
Dalla documentazione versata agli atti del giudizio risulta, in particolare, che in data 31.03.2010 l’interessato ha chiesto al Settore provinciale del genio Civile della Regione Campania, l’autorizzazione sismica necessaria per dare inizio ai lavori per realizzare i parcheggi interrati pertinenziali e che l’autorizzazione sismica è stata rilasciata il 19.10.2010 e comunicata al ricorrente il successivo 3.11.2010.
Appare evidente quindi che, in assenza della predetta autorizzazione l’interessato non avrebbe potuto iniziare i lavori, per cui buona parte del periodo considerato dall’art. 15 del d.P.R. 380/2001 ai fini dell’inizio dei lavori (circa sette mesi su dodici) è trascorso in attesa di un atto prodromico il cui rilascio era rimasto sottratto alla volontà dell’interessato.
Orbene la presentazione dei calcoli strutturali all’Ufficio provinciale del genio civile, di cui l’amministrazione aveva contezza perché prevista tra le condizioni generali del permesso di costruire n. 145/2006 e la conseguente attesa per il rilascio della autorizzazione sismica senza la quale i lavori non sarebbero potuti iniziare (come evidenziato dallo stesso Ufficio provinciale del Genio Civile all’interessato nella nota prto. 2010 del 24.6.2010) indubbiamente rappresentano un impedimento assoluto alla esecuzione delle opere.
L’impedimento, inoltre, non è riferibile alla condotta del ricorrente, per cui è tale da costituire quella causa di forza maggiore che sospende il decorso dei termini, previsti dall'art. 4, comma 4, della l. 28.01.1977, n. 10.
Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che, al fine dell’emissione del provvedimento di decadenza di un permesso di costruire per inosservanza del termine di ultimazione dei lavori occorre solo accertare il fatto obiettivo della mancata ultimazione dell’opera nel triennio e constatare che non sussistono cause che rendano giustificabile l’inadempimento per elementi ostativi non addebitabili all’interessato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.07.2012 n. 3258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La domanda risarcitoria non risulta sostenuta dalle necessarie allegazioni in ordine al danno subito ed, in secondo luogo, che per quanto concerne l'accertamento della responsabilità dell'amministrazione risulta proposta in modo generico e, quindi, va respinta.
Sul punto la giurisprudenza prevalente si è andata orientando nel senso dell’attenuazione dell’onere probatorio del privato: in particolare, sotto il profilo della colpa, si è affermato che il privato danneggiato, ai fini di ottenere il risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi, ancorché onerato della dimostrazione della “colpa” dell’amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi indiziari –acquisibili, sia pure con i connotati normativamente previsti, con maggior facilità delle prove dirette- quali la gravità della violazione, qui valorizzata quale presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione assoluto, il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento.
Così che, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione degli elementi, pure indiziari, ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice, così come, in sostanza, inteso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 500/1999, apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione.
Tale attenuazione dell’onere probatorio non esclude tuttavia la necessità che le pretese risarcitorie presuppongano l’indicazione degli elementi che possano indurre il giudice a valutare in termini di responsabilità la condotta della pubblica amministrazione.

Occorre ora soffermarsi sui motivi aggiunti depositati il 28.01.2011 con cui è chiesto il risarcimento del danno derivante dalla condotta del Comune di sant’Antimo.
Al riguardo occorre osservare in primo luogo che la domanda risarcitoria non risulta sostenuta dalle necessarie allegazioni in ordine al danno subito ed, in secondo luogo, che per quanto concerne l'accertamento della responsabilità dell'amministrazione risulta proposta in modo generico e, quindi, va respinta.
Sul punto la giurisprudenza prevalente si è andata orientando nel senso dell’attenuazione dell’onere probatorio del privato: in particolare, sotto il profilo della colpa, si è affermato (Consiglio di Stato, Sez. V, decisione 10.01.2005, n. 32) che il privato danneggiato, ai fini di ottenere il risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi, ancorché onerato della dimostrazione della “colpa” dell’amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi indiziari –acquisibili, sia pure con i connotati normativamente previsti, con maggior facilità delle prove dirette- quali la gravità della violazione, qui valorizzata quale presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione assoluto, il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento.
Così che, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione degli elementi, pure indiziari, ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice, così come, in sostanza, inteso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 500/1999, apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione.
Tale attenuazione dell’onere probatorio non esclude tuttavia la necessità che le pretese risarcitorie presuppongano l’indicazione degli elementi che possano indurre il giudice a valutare in termini di responsabilità la condotta della pubblica amministrazione.
Allegazione che nel caso di specie non risulta idonea ad una corretta valutazione della pretesa per cui allo stato non risulta possibile accogliere la domanda risarcitoria; tutto ciò non senza considerare che il provvedimento di decadenza è stato sospeso con ordinanza cautelare n. 490/2011, ad appena quattro mesi dalla sua adozione, inibendo la conseguente sospensione dei lavori
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.07.2012 n. 3258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In base all’art. 3, comma 3, della l. 07.08.1990, n. 241, deve ritenersi in generale ammessa la cosiddetta motivazione per relationem, peraltro già considerata ammissibile dalla giurisprudenza formatasi nella legislazione anteriore al 1990.
La motivazione può, dunque, in via generale, ricavarsi per relationem dagli atti istruttori posti in essere nel corso del procedimento e richiamati dagli atti impugnati purché si tratti di atti appartenenti alla stessa serie procedimentale e non del tutto estranei e purché le argomentazioni contenute negli atti richiamati siano fatte proprie dall’amministrazione emanante.
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Da un lato le norme in materia di partecipazione non debbono essere applicate meccanicamente e a fini meramente strumentali e dall'altro l'obbligo della comunicazione di avvio del procedimento sussiste solo quando la comunicazione si concreti in un’effettiva utilità per l'esplicazione dell'azione amministrativa coerentemente alla funzione di arricchimento sul piano del merito e della legittimità che possa derivare dall'adempimento dell'obbligo e dalla conseguente tempestiva partecipazione del destinatario del provvedimento.
Conseguenza logica di tale impostazione è che l'omissione della comunicazione di inizio del procedimento comporta l'illegittimità dell'atto conclusivo tutte le volte che il soggetto non avvisato possa poi provare che, ove avesse avuto l'opportunità di partecipare tempestivamente al procedimento, avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni idonee ad incidere causalmente, in termini a lui favorevoli, sul provvedimento terminale.

In base all’art. 3, comma 3, della l. 07.08.1990, n. 241, deve ritenersi in generale ammessa la cosiddetta motivazione per relationem, peraltro già considerata ammissibile dalla giurisprudenza formatasi nella legislazione anteriore al 1990 (Cfr. Consiglio di Stato Sez. V, n. 738/1989; CGA n. 197/1989).
La motivazione può, dunque, in via generale, ricavarsi per relationem dagli atti istruttori posti in essere nel corso del procedimento e richiamati dagli atti impugnati purché si tratti di atti appartenenti alla stessa serie procedimentale e non del tutto estranei (v. Consiglio di Stato, sez. V n. 793/1988) e purché le argomentazioni contenute negli atti richiamati siano fatte proprie dall’amministrazione emanante (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 264/1997).
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E' poi utile richiamare quell’ulteriore orientamento del Consiglio di Stato (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 22.05.2001, n. 2823), che il Collegio condivide, secondo il quale, da un lato le norme in materia di partecipazione non debbono essere applicate meccanicamente e a fini meramente strumentali (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, 18.05.1998, n. 836) e dall'altro, l'obbligo della comunicazione di avvio del procedimento sussiste solo quando la comunicazione si concreti in un’effettiva utilità per l'esplicazione dell'azione amministrativa coerentemente alla funzione di arricchimento sul piano del merito e della legittimità che possa derivare dall'adempimento dell'obbligo e dalla conseguente tempestiva partecipazione del destinatario del provvedimento (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, n. 2823/2001 cit.; idem, 19.03.1996, n. 283; TAR Lazio, Sez. III, 17.06.1998, n. 1405).
Conseguenza logica di tale impostazione è che l'omissione della comunicazione di inizio del procedimento comporta l'illegittimità dell'atto conclusivo tutte le volte che il soggetto non avvisato possa poi provare che, ove avesse avuto l'opportunità di partecipare tempestivamente al procedimento, avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni idonee ad incidere causalmente, in termini a lui favorevoli, sul provvedimento terminale (cfr., in termini, Cons. di Stato, Sez. V, n. 2823/2001 cit.)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.07.2012 n. 3257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sospensione dei provvedimenti sanzionatori, in applicazione della normativa sul condono edilizio di cui al D.L. 269/2003 (convertito in legge 326/2003), non è automatica, essendo subordinata all’astratta sanabilità delle opere abusivamente eseguite, sotto il profilo oggettivo, temporale e finanziario.
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In relazione all’omessa comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio, il Collegio evidenzia che tale omissione risulta irrilevante, giacché alla notifica del provvedimento di sospensione dei lavori va riconosciuto un effetto equipollente a quello della comunicazione dell’avvio del procedimento.
Comunque, ai sensi dell'art. 21-octies legge 241/1990 non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, infatti, la sospensione dei provvedimenti sanzionatori, in applicazione della normativa sul condono edilizio di cui al D.L. 269/2003 (convertito in legge 326/2003), non è automatica, essendo subordinata all’astratta sanabilità delle opere abusivamente eseguite, sotto il profilo oggettivo, temporale e finanziario (Cons. St., sez. IV, ord. n. 2037 del 04.05.2004; Cass., sez. III Pen., 03.02.2004, n. 3992; TAR Napoli, sez. VI, 12.09.2006, n. 8045).
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In relazione all’omessa comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio, dedotta dalla difesa del ricorrente, il Collegio evidenzia, conformemente alla consolidata giurisprudenza, che tale omissione risulta, nella fattispecie, irrilevante, giacché alla notifica del provvedimento di sospensione dei lavori va riconosciuto un effetto equipollente a quello della comunicazione dell’avvio del procedimento (cfr. ex multis TAR Liguria, Genova, sez. I, 28.01.2011, n. 169; TAR Lazio Roma, sez. II, 04.12.2006, n. 13652; Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2006, n. 399). Dalla documentazione versata in atti risulta, infatti, che in data 13.05.2004 l’amministrazione comunale ha adottato l’ordinanza di sospensione dei lavori, notificata al Ponticiello in data 17.05.2004.
Si evidenzia, altresì, che dirimenti in senso ostativo all’accoglimento delle pretese attoree risultano le previsioni di cui all’art. 21-octies della legge 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
L’inconferenza della censura in esame discende, invero, dalla ineluttabilità della sanzione repressiva comminata dall’amministrazione comunale, anche a cagione dell’assenza di specifici e rilevanti profili di contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva all’Amministrazione procedente
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.07.2012 n. 3254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il concetto di pertinenza edilizia è più ristretto della nozione civilistica, posto che il primo richiede che il manufatto sia non solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio ma anche che sia sfornito di un autonomo valore di mercato e dotato, comunque, di un volume modesto, in modo da non determinare alcuna incidenza sul cosiddetto carico urbanistico.
Il concetto di pertinenza edilizia è più ristretto della nozione civilistica, posto che il primo richiede che il manufatto sia non solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio ma anche che sia sfornito di un autonomo valore di mercato e dotato, comunque, di un volume modesto, in modo da non determinare alcuna incidenza sul cosiddetto carico urbanistico (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 22.10.2007, n. 5515; Cons. St., sez. V, 11.11.2004, n. 7324; Cons. St. sez. IV, 12.03.2007, n. 1219; Tar Basilicata–Potenza, 29.11.2008, n. 915; Tar Campania-Napoli, sez. IV, 16.09.2008, 10138; Tar Piemonte-Torino, sez. I, 13.06.2008, n. 1368) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.07.2012 n. 3249 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In una zona interessata da vincolo paesaggistico-ambientale la formazione del provvedimento tacito di assenso alla concessione in sanatoria postula indefettibilmente la previa acquisizione del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sulla compatibilità ambientale della costruzione senza titolo.
Come evidenziato dalla costante giurisprudenza, in una zona interessata da vincolo paesaggistico-ambientale la formazione del provvedimento tacito di assenso alla concessione in sanatoria postula indefettibilmente la previa acquisizione del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sulla compatibilità ambientale della costruzione senza titolo (cfr. ex multis TAR Campania Salerno, sez. II, 21.01.2010, n. 845); nella fattispecie oggetto di giudizio la difesa dei ricorrenti non ha prodotto né risulta essere mai stato rilasciato tale parere favorevole (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.07.2012 n. 3249 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime.
Inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
Infatti, posto che l'ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame -trattandosi di significativi interventi di nuova edificazione, per di più eseguiti in zona agricola ed in area sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale- risulta palese che in relazione all’ampliamento del corpo di fabbrica A ed ai corpi di fabbrica C e D il contenuto dispositivo dell'impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se ai ricorrenti fosse stata data comunicazione dell'avvio del procedimento.
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La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia

Il Collegio evidenzia che secondo la prevalente giurisprudenza (ex multis, TAR Liguria Genova, Sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Campania Salerno, Sez. II, 13.04.2011, n. 702; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 06.04.2011, n. 1941; Sez. IV, 13.01.2011, n. 84; TAR Puglia Lecce, Sez. III, 09.02.2011, n. 240) i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime.
Inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
Infatti, posto che l'ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame -trattandosi di significativi interventi di nuova edificazione, per di più eseguiti in zona agricola ed in area sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale- risulta palese che in relazione all’ampliamento del corpo di fabbrica A ed ai corpi di fabbrica C e D il contenuto dispositivo dell'impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se ai ricorrenti fosse stata data comunicazione dell'avvio del procedimento.
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Il Collegio osserva, in primo luogo, che la validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (in termini, Cons. St., sez. IV, 19.02.2008, n. 849; TAR, Campania, Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.07.2012 n. 3249 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione adottato in pendenza di istanza di condono edilizio è illegittimo perché in contrasto con l'art. 38, l. n. 47 del 1985, il cui dettato impone all'Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria.
Pertanto l'amministrazione, prima di sanzionare gli abusi, deve assolvere all’obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno dell'opera edilizia abusiva, anche perché il provvedimento di demolizione non può costituire implicito rigetto della domanda di condono, stante l'art. 35, comma 15, l. n. 47 del 1985, che impone la notificazione espressa del diniego al richiedente.
Infatti, anche nell'ipotesi di diniego della domanda di sanatoria, l'Amministrazione deve adottare nuova ingiunzione di demolizione, con fissazione di nuovi termini per la spontanea esecuzione.

E’ noto che l’ordine di demolizione adottato in pendenza di istanza di condono edilizio è illegittimo perché in contrasto con l'art. 38, l. n. 47 del 1985, il cui dettato impone all'Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria.
Pertanto l'amministrazione, prima di sanzionare gli abusi, avrebbe dovuto assolvere all’obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno dell'opera edilizia abusiva, anche perché il provvedimento di demolizione non può costituire implicito rigetto della domanda di condono, stante l'art. 35, comma 15, l. n. 47 del 1985, che impone la notificazione espressa del diniego al richiedente (TAR Campania Napoli, sez. III, 07.12.2010, n. 27066).
Infatti, anche nell'ipotesi di diniego della domanda di sanatoria, l'Amministrazione deve adottare nuova ingiunzione di demolizione, con fissazione di nuovi termini per la spontanea esecuzione (TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.12.2010, n. 26796; TAR Campania Napoli sez. II, 02.03.2012 n. 1083) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 06.07.2012 n. 3241 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il giudizio che conclude il procedimento di verifica delle offerte anomale, di natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme, costituisce espressione di un potere tecnico discrezionale dell’amministrazione, di per sé insindacabile salva l’ipotesi in cui le valutazioni ad esso sottese non siano abnormi o manifestamente illogiche o affette da errori di fatto; conseguentemente la relativa motivazione deve essere rigorosa in caso di esito negativo, mentre la valutazione positiva di congruità è sufficientemente espressa anche con motivazione per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa offerente, senza la necessità di richiami su ogni singola voce di costo.
Secondo pacifica giurisprudenza di questa Sezione, il giudizio che conclude il procedimento di verifica delle offerte anomale, di natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme, costituisce espressione di un potere tecnico discrezionale dell’amministrazione, di per sé insindacabile salva l’ipotesi in cui le valutazioni ad esso sottese non siano abnormi o manifestamente illogiche o affette da errori di fatto; conseguentemente la relativa motivazione deve essere rigorosa in caso di esito negativo, mentre la valutazione positiva di congruità è sufficientemente espressa anche con motivazione per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa offerente, senza la necessità di richiami su ogni singola voce di costo (Cons. Stato, V, 17.01.2011 n. 223; id., 23.11.2010 n. 8148; id., 12.02.2010 n. 741; id., 10.02.2009 n. 748; id., 20.05.2008 n. 2348) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.07.2012 n. 3934 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L'art. 192 d.lgs. n. 152/2006 dispone che chiunque viola il divieto di abbandono e deposito incontrollato "è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo".
In particolare dalla norma in esame risulta che la responsabilità del proprietario o del titolare di diritti reali o personali di godimento presuppone l'addebitabilità ad essi, a titolo di dolo o colpa, della violazione posta in essere dal responsabile.
Nel provvedimento impugnato non sono nemmeno dedotti, in concreto, profili di responsabilità a titolo di dolo o colpa, in capo all’Amministrazione regionale ricorrente, necessari per l'imposizione dell'obbligo di rimozione dei rifiuti fermo restando che, a tal fine, non è sufficiente una generica "culpa in vigilando".

La Sezione ritiene il ricorso manifestamente fondato alla luce della propria consolidata giurisprudenza in materia (cfr., per tutte, Tar Campania-Napoli n. 243/2010).
In particolare, ritiene fondata ed assorbente la censura con cui parte ricorrente prospetta l'illegittimità dell'atto impugnato per violazione dell'art. 192 d.lgs. n. 152/2006 in quanto non sono stati dimostrati i profili di dolo o colpa necessari per l'imposizione dell'obbligo di rimozione dei rifiuti e di ripristino in capo al proprietario o al titolare di altro diritto di godimento sull'area interessata.
Infatti la norma richiamata dispone che chiunque viola il divieto di abbandono e deposito incontrollato "è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo".
In particolare dalla norma in esame risulta che la responsabilità del proprietario o del titolare di diritti reali o personali di godimento presuppone l'addebitabilità ad essi, a titolo di dolo o colpa, della violazione posta in essere dal responsabile. Nel provvedimento impugnato non sono nemmeno dedotti, in concreto, profili di responsabilità a titolo di dolo o colpa, in capo all’Amministrazione regionale ricorrente, necessari per l'imposizione dell'obbligo di rimozione dei rifiuti fermo restando che, a tal fine, non è sufficiente una generica "culpa in vigilando" (C.d.S. Sezione V 08.03.2005, n. 935) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 05.07.2012 n. 3218 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Da un lato, la giurisprudenza del G.A. è consolidata nell'affermare l'ampia discrezionalità tecnica della commissione giudicatrice nella scelta del contenuto delle prove d'esame, non certo vincolata alla verifica di ogni singola materia prevista dal bando, sindacabile in sede di giurisdizione generale di legittimità limitatamente a ragioni di manifesta illogicità o incongruenza.
Dall’altro lato, va richiamatosi al principio oramai di "diritto vivente" che afferma la legittimità dell'attribuzione di un punteggio alfanumerico complessivo, specie poi qualora siano stati preliminarmente individuati puntuali criteri di valutazione, come nella fattispecie per cui è causa.
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Nelle controversie relative alla contestazione dei risultati di un concorso pubblico o selezione pubblica non può prescindersi -ai fini della verifica dell'interesse al ricorso- dalla c.d. prova di resistenza, dovendo parte ricorrente provare (o comunque quantomeno fornire un principio di prova) in caso di accoglimento, la possibilità di ottenere una utile posizione in graduatoria, dovendosi dichiarare inammissibile il gravame laddove risulti "a priori" che il ricorrente non otterrebbe in caso di accoglimento della domanda il bene della vita per cui agisce in giudizio.

In termini generali vanno preliminarmente richiamati i consolidati principi pretori per cui, da un lato, la giurisprudenza del G.A. è consolidata nell'affermare l'ampia discrezionalità tecnica della commissione giudicatrice nella scelta del contenuto delle prove d'esame, non certo vincolata alla verifica di ogni singola materia prevista dal bando, sindacabile in sede di giurisdizione generale di legittimità limitatamente a ragioni di manifesta illogicità o incongruenza (Consiglio di Stato sez IV, 26.07.2008, n. 3677, TAR Liguria sez. II 07.05.2004, n. 2280, C.G.A. 2002 n. 46).
Dall’altro lato, va richiamatosi al principio oramai di "diritto vivente" (Corte Costituzionale 30.01.2009, n. 20 in riferimento alle prove d'esame per l'abilitazione alla professione forense) che afferma la legittimità dell'attribuzione di un punteggio alfanumerico complessivo, specie poi qualora siano stati preliminarmente individuati puntuali criteri di valutazione, come nella fattispecie per cui è causa (ex multis Consiglio di Stato sez. VI 08.05.2008, n. 2128, id. 12.11.2008, n. 5638, id. 23.03.2009, n. 1726, id. sez IV 05.02.2010 n. 548, TAR Campania Napoli sez. IV, 27.04.2010, n. 2177).
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Ed, invero, va ribadito, in punto di diritto, il principio per cui nelle controversie relative alla contestazione dei risultati di un concorso pubblico o selezione pubblica non può prescindersi -ai fini della verifica dell'interesse al ricorso- dalla c.d. prova di resistenza, dovendo parte ricorrente provare (o comunque quantomeno fornire un principio di prova) in caso di accoglimento, la possibilità di ottenere una utile posizione in graduatoria, dovendosi dichiarare inammissibile il gravame laddove risulti "a priori" che il ricorrente non otterrebbe in caso di accoglimento della domanda il bene della vita per cui agisce in giudizio (ex multis TAR Campania Napoli, sez VIII 17.09.2009, n. 4980, id. 11.06.2009, n. 3198, TAR Sicilia Palermo, 18.01.2010, n. 467) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 05.07.2012 n. 3217 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA-PRIVATA: La preesistenza delle domande di condono rende illegittima la successiva irrogazione della sanzione demolitoria, per non essersi l'Amministrazione Comunale preventivamente pronunciata sulle domande medesime, volte, in caso di accoglimento, a privare le opere del loro carattere di abusività, ovvero, in caso di rigetto, a consentire l'esercizio del potere repressivo; ciò in omaggio al principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa.
Una volta che viene presentata un'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 l’esercizio del potere repressivo deve ritenersi sospeso, almeno fino a quando l’Amministrazione non si pronunci in senso positivo o negativo sull'istanza.

Come ha affermato costante giurisprudenza (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 03.09.2010, n. 17302) …”la preesistenza delle domande di condono rende illegittima la successiva irrogazione della sanzione demolitoria, per non essersi l'Amministrazione Comunale preventivamente pronunciata sulle domande medesime, volte, in caso di accoglimento, a privare le opere del loro carattere di abusività, ovvero, in caso di rigetto, a consentire l'esercizio del potere repressivo; ciò in omaggio al principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa”.
Una volta che viene presentata un'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 l’esercizio del potere repressivo deve ritenersi sospeso, almeno fino a quando l’Amministrazione non si pronunci in senso positivo o negativo sull'istanza (per tutti si veda TAR Lombardia Milano Sez. II, 18-10-2011, n. 2467) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.07.2012 n. 966 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA-PRIVATAIl rilascio del titolo edilizio per la costruzione di una centrale idroelettrica, se indubbiamente rientra nell’ambito delle competenze comunali e presuppone la valutazione della compatibilità urbanistico-edilizia dell’intervento, non può essere scollegato dalle oggettive implicazioni che la realizzazione dell’impianto avrà sul regime delle acque, in modo particolare con riguardo alle rilevanti problematiche emergenti dal necessario rispetto del flusso minimo vitale del corso d’acqua interessato dalla costruenda centrale idroelettrica.
Pertanto, il vaglio di legittimità del provvedimento comunale impugnato è demandato al giudice competente in modo specifico in materia di acque pubbliche, quale è appunto il TSAP.
La giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, prevista dall'art. 143, comma 1, lett. a) r.d. 11.12.1933 n. 1775, ha per oggetto i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche: orbene, atteso che il provvedimento contestato da parte ricorrente, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, proprio per l’oggetto e le ragioni che lo sottendono ha un’evidente incidenza sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici, ne deriva che l’esame della legittimità della determinazione assunta dall’amministrazione comunale debba essere devoluto al giudice tecnicamente competente, quale è il TSAP.

Si osserva, infatti, come il provvedimento demandato alla competenza del Comune, quale è il rilascio del titolo edilizio per la costruzione della centrale idroelettrica, se indubbiamente rientra nell’ambito delle competenze comunali e presuppone la valutazione della compatibilità urbanistico-edilizia dell’intervento, non possa essere scollegato dalle oggettive implicazioni che la realizzazione dell’impianto avrà sul regime delle acque, in modo particolare con riguardo alle rilevanti problematiche emergenti dal necessario rispetto del flusso minimo vitale del corso d’acqua interessato dalla costruenda centrale idroelettrica.
La stessa Regione Veneto – Direzione Distretto Bacino Idrografico Brenta e Bacchiglione di Vicenza, nell’indirizzare al Comune la nota del 07.10.2010 prot. n. 525751 (doc. n. 6 di parte resistente), ha infatti evidenziato le problematiche che potrebbero sorgere proprio con riguardo al livello minimo del flusso dell’acqua, con riguardo anche alla presenza di altri soggetti che usufruiscono dell’apporto idrico del corso d’acqua interessato.
Detti elementi portano quindi a ritenere che la richiesta avanzata dalla società istante, sebbene abbia per oggetto il rilascio del permesso di costruire, coinvolga interessi che esorbitano il mero profilo urbanistico edilizio dell’intervento, coinvolgendo anche profili, non certo di poca rilevanza, attinenti il regime delle acque.
Ciò comporta, in conformità con il costante orientamento giurisprudenziale, che nella specie, proprio perché risultano direttamente coinvolti interessi che hanno per oggetto il regime delle acque pubbliche, il vaglio di legittimità del provvedimento comunale impugnato sia demandato al giudice competente in modo specifico in materia di acque pubbliche, quale è appunto il TSAP.
Sul punto, concordando con la copiosa giurisprudenza, anche di questo Tribunale Amministrativo (cfr. TAR Veneto, Sez. I n. 4462/2001 e più recentemente Sez. II, n. 3/2011), citata dalla resistente, va ribadito che la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, prevista dall'art. 143, comma 1, lett. a) r.d. 11.12.1933 n. 1775, ha per oggetto i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche: orbene, atteso che il provvedimento contestato da parte ricorrente, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, proprio per l’oggetto e le ragioni che lo sottendono ha un’evidente incidenza sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (Cass., SS.UU., 12.05.2009, n. 10845), ne deriva che l’esame della legittimità della determinazione assunta dall’amministrazione comunale di Valli del Pasubio debba essere devoluto al giudice tecnicamente competente, quale è il TSAP.
Invero nella fattispecie si prospetta l’esigenza che l’organo giudicante sia dotato della specifica competenza tecnica richiesta per verificare la validità di atti che incidono direttamente sul regime delle acque pubbliche: il dato è oggettivo ed avallato dai timori rappresentati alla Regione dagli altri soggetti utilizzatori, per scopi diversi, del corso d’acqua, i quali hanno tutto l’interesse a che sia assicurato il deflusso minimo vitale.
Inerendo quindi il provvedimento impugnato, con il quale è stata sospesa ogni determinazione al fine di non veder pregiudicato il mantenimento del flusso minimo vitale, nella prospettiva di un’indagine più approfondita sui riflessi che il rilascio del permesso di costruire la centrale idroelettrica avrebbe sulla qualità della risorsa idrica (esigenza peraltro condivisa dalla Regione, così come da nota del 07.10.2011, sopravvenuta in corso di causa), la valutazione della legittimità di tale atto deve essere demandata alla speciale competenza tecnica di cui è titolare il TSAP (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.07.2012 n. 963 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA-PRIVATA: Al fine di individuare o meno l’esistenza di una legittimazione ad agire, è comunque necessario prescindere dal considerare prevalente il solo rapporto di contiguità e di confine tra due fondi limitrofi.
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La lesione arrecata dal provvedimento impugnato deve essere effettiva, nel senso che dall'esecuzione di esso discenda in via immediata e diretta un danno certo alla sfera giuridica del ricorrente, ovvero potenziale.
Il mancato godimento del “panorama” non è di per sé sufficiente a costituire il solo titolo di legittimazione all’azione e, ciò, laddove non si concreti nella violazione di norme in materia ambientale o sulle distanze tra le costruzioni.
Risulta, allora, evidente come risulti l’esistenza di un interesse a ricorrere nei confronti del proprietario confinante tutte le volte che si sia in presenza di una lesione attuale di uno specifico interesse di natura urbanistico-edilizia nella sfera dell’istante che, in quanto tale, è suscettibile di determinare “una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto edilizio ed urbanistico che il ricorrente intende conservare”.

... per l'annullamento del permesso di costruire 03/08/2011 n. 10195, con cui il comune di Lazise ha autorizzato la controinteressata ad eseguire la demolizione e ricostruzione di un edificio ad uso residenziale -piano casa- l.r. 14/2009 nell'area confinante la proprietà del ricorrente; del parere della commissione edilizia 25/11/2010 e l'autorizzazione ambientale 16/02/2011 prot. n. 3262.
...
Va, infatti, rilevato come la parte ricorrente, al fine di fondare l’esistenza di un proprio interesse a ricorrere, abbia affermato di essere proprietaria del fondo contiguo a quello della Sig.ra C.A..
La stessa ricorrente ha affermato che il pregiudizio subito sarebbe fondato nell’”impossibilità di godere della vista del lago” e, ancora,nella convinzione in base alla quale “l’intervento coinvolge un area sottoposta a vincolo paesaggistico”.
E’ del tutto evidente come gli elementi addotti da parte ricorrente non sono sufficienti ad individuare un interesse “differenziato e qualificato”.
Va ricordato che, sulla base della Giurisprudenza più recente -ed al fine di individuare o meno l’esistenza di una legittimazione ad agire- ha affermato che è, comunque, necessario prescindere dal considerare prevalente il solo rapporto di contiguità e di confine tra due fondi limitrofi.
Appare al contrario dirimente rilevare come la parte ricorrente non abbia dato prova, e riscontro alcuno, circa il presumibile danno patrimoniale, o l’eventuale lesione –anche solo potenziale-, che avrebbe potuto subire e, in ciò, al fine di far desumere l’esistenza di un effettivo, differenziato e qualificato, interesse all’annullamento del provvedimento impugnato.
Detta mancanza di interesse a ricorrere non è superabile nemmeno condividendo le tesi del ricorrente in base alla quale, sussisterebbe un non meglio precisato “rilievo paesaggistico” dell’area di cui si tratta, circostanza quest’ultima che non sono appare sufficientemente circostanziata e qualificata, ma non permette altresì di fondare una relazione causa ed effetto, in termini di danno potenziale.
Nella sostanza non si comprende come il riferimento alla nozione del “rilievo paesaggistico” possa attribuire una posizione differenziata e qualificata ai ricorrenti e, ciò, rispetto alla totalità degli altri residenti in quella determinata area o Comune.
Il Consiglio di Stato (Sez. IV, Sent., 30-11-2010, n. 8364) ha affermato che ”la lesione arrecata dal provvedimento impugnato deve essere effettiva, nel senso che dall'esecuzione di esso discenda in via immediata e diretta un danno certo alla sfera giuridica del ricorrente, ovvero potenziale”.
Altra Giurisprudenza ha sancito, ancora, che il mancato godimento del “panorama” non è di per sé sufficiente a costituire il solo titolo di legittimazione all’azione e, ciò, laddove non si concreti nella violazione di norme in materia ambientale o sulle distanze tra le costruzioni (Cassazione civile II sez. 25.08.1992 n. 9859).
Risulta, allora, evidente come gli orientamenti sopra citati (si veda anche il Consiglio di Stato sez. IV n. 6157 del 04/12/2007) -rispetto ai quali questo Collegio ritiene di aderire-, hanno sancito l’esistenza di un interesse a ricorrere nei confronti del proprietario confinante tutte le volte che si sia in presenza di una lesione attuale di uno specifico interesse di natura urbanistico-edilizia nella sfera dell’istante che, in quanto tale, è suscettibile di determinare “una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto edilizio ed urbanistico che il ricorrente intende conservare”.
Detti elementi non risultano dedotti e specificati nel ricorso in questione che, pertanto, in considerazione di quanto sopra espresso va dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. B), per mancanza di legittimazione e di interesse a ricorrere (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.07.2012 n. 959 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Il diritto di godere di un bel panorama non è tutelabile avanti al Giudice.
Il Tar Veneto (sezione II) ha risolto, con la recente sentenza 05.07.2012 n. 959, una curiosa vicenda in tema di impugnazione di un permesso di costruire.
In buona sostanza, il menzionato titolo abilitativo era stato impugnato dal proprietario di un fondo attiguo a quello teatro dei preventivati lavori di demolizione e ricostruzione con ampliamento.
In termini più dettagliati, la ricorrente affermava di aver subito un pregiudizio consistente nella “impossibilità di godere della vista del lago".
Ancora, veniva eccepito che l’intervento edilizio contrastato coinvolgeva “un’area sottoposta a vincolo paesaggistico".
Elementi che però i Giudici veneziani hanno valutato essere del tutto insufficienti ad individuare un interesse "differenziato e qualificato", in quanto tale meritevole di tutela giurisdizionale.
Inoltre, la sentenza che qui si annota (con finalità anzitutto informative), ricorda che la giurisprudenza più recente, al fine di individuare l’esistenza di una legittimazione ad agire, ha affermato che è necessario prescindere dal considerare prevalente il solo rapporto di contiguità e di confine tra due fondi limitrofi.
Circostanza effettivamente presente (ma appunto non decisiva) nel caso specifico, perché la ricorrente era davvero la proprietaria del fondo confinante rispetto a quello interessato dal permesso di costruire gravato.
Tuttavia, la parte istante non si è preoccupata di dare prova del presumibile danno patrimoniale -o della eventuale lesione, anche solo potenziale-, che avrebbe potuto subire dai lavori in discussione. Aspetto che semmai avrebbe potuto delineare l’effettiva sussistenza di un interesse all’annullamento differenziato e qualificato.
Si tratta di una assenza di interesse a ricorrere non superabile nemmeno condividendo la tesi difensiva in base alla quale sussisterebbe un (invero, non meglio precisato) "rilievo paesaggistico" dell’area oggetto di controversia.
Il Tar Venezia, a conforto della propria decisione, ricorda alcune pronunce del Consiglio di Stato, secondo cui "la lesione arrecata dal provvedimento impugnato deve essere effettiva, nel senso che dall'esecuzione di esso discenda in via immediata e diretta un danno certo alla sfera giuridica del ricorrente, ovvero potenziale".
In definitiva, in materia edilizia ed urbanistica, l’interesse a ricorrere nei confronti del proprietario confinante esiste soltanto nei casi in cui si è in presenza di una lesione attuale di uno specifico interesse di natura urbanistico-edilizia inerente la sfera di chi ha proposto ricorso.
Solo tale tipo di lesione può dirsi idonea ad attribuire una posizione differenziata e qualificata, ed in quanto tale suscettibile di determinare una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto edilizio ed urbanistico che il ricorrente intende conservare.
Per queste ragioni il ricorso, dichiarato infine inammissibile per mancanza di legittimazione e di interesse a ricorrere, veniva bloccato sul nascere
(commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA-PRIVATA: Sanzioni edilizie pecuniarie: cosa deve fare il Comune se l'interessato contesta la stima dell'Agenzia del Territorio.
L'art. 34 del D.P.R. 380/2001 stabilisce al comma 2 che: "2. Quando la demolizione non puo' avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformita' dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale".
Ma la valutazione dell'Agenzia del Territorio è insindacabile o l'interessato può contestarla?
La sentenza 05.07.2012 n. 958 del TAR Veneto, Sez. II,  fa capire che l'interessato ben può contestarla e che, se l'interessato la contesta, è onere del Comune prendere posizione sulle contestazioni.
Scrive il TAR: "- nell’ambito dell’iter procedimentale sia stata consentita ampia partecipazione al ricorrente, che ha preso parte al procedimento con la formulazione delle proprie valutazioni, oltre agli incontri avuti con il Comune;
- ritenuto, tuttavia, che il ricorso sia fondato con riguardo esclusivo al dedotto vizio di difetto di motivazione, in ragione del fatto che le osservazioni alla perizia di stima predisposta dall’Agenzia del Territorio, così come formulate dal tecnico di parte ricorrente, sono state respinte o comunque non ritenute idonee a superare o modificare la stima effettuata, senza esplicitare le ragioni per le quali le medesime non sono state ritenute condivisibili;
- va invero rilevato che, indipendentemente dai contenuti della nota dell’Agenzia del 06.02.2012 e dalle argomentazioni che parte ricorrente avrebbe eventualmente potuto formulare a confutazione della stessa, era onere dell’amministrazione procedente motivare il provvedimento esplicitando le ragioni della determinazione assunta anche a seguito delle osservazioni espresse dall’Agenzia con la citata nota del 6.2.2012, eventualmente motivando per relationem, ma pur sempre allegando al provvedimento finale la nota dell’agenzia e/o rendendola disponibile o, ancora, inserendo direttamente il contenuto della stessa nel testo del provvedimento impugnato
" (link a http://venetoius.myblog.it).

EDILIZIA-PRIVATA: L'edificazione di abbaini sul tetto, contraddistinti da rilevanti dimensioni tali da trasformare la struttura preesistente, con conseguente creazione di nuovi spazi interni dapprima non utilizzabili per esigenze abitative, comporta aumento di volumetria, incidendo significativamente sulla sagoma dell'edificio. Del resto, la realizzazione di tali nuove strutture coperte laddove prima esse non esistevano, implica una radicale trasformazione della sagoma del tetto.
Le opere così realizzate, pertanto, proprio in virtù della loro rilevanza edilizia, non possono considerarsi sottratte all'obbligo generale del rispetto delle distanze. Ed infatti, gli aumenti della volumetria o delle superfici occupate, in relazione all'originaria sagoma di ingombro, anche qualora siano definiti come ristrutturazione, sono rilevanti ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui, come previste dagli strumenti urbanistici locali.
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Le distanze tra edifici, anche in relazione a quanto previsto dal d.m. n. 1444 del 1968, vanno calcolate con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.

Nel merito si deve osservare, innanzi tutto, che l’edificazione dei cinque “abbaini” sul tetto dell’edificio di proprietà del controinteressato ha determinato un’evidente alterazione della sagoma di esso insieme ad un innegabile avanzamento (nonché innalzamento) della struttura coperta. Sono stati, infatti, ricavati cinque spazi chiusi innestati sulla superficie curva del tetto con altrettante strutture aventi pavimentazione piana, che fuoriescono notevolmente dalla struttura preesistente, con altezza pari a m. 3,20 (cfr. tavola n. 3/5 del progetto: doc. n. 20 del controinteressato) tale da poter essere sfruttata anche per esigenze abitative.
Deve, in proposito, richiamarsi la giurisprudenza amministrativa dominante, secondo la quale l’edificazione di abbaini sul tetto, caratterizzati da rilevanti dimensioni tali da trasformare la struttura preesistente, con conseguente creazione di nuovi spazi interni dapprima non utilizzabili per esigenze abitative, comporta aumento di volumetria ed incide significativamente sulla sagoma dell’edificio (cfr. ex multis: TAR Veneto, sez. II, n. 1692 del 2003; Cons. Stato, sez. V, n. 689 del 1996; TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 13309 del 2010).
Non può avere rilevanza, in proposito, quanto eccepiscono in fatto l’amministrazione resistente e il controinteressato, ossia che le cinque nuove strutture non fuoriescono né rispetto al filo di gronda né rispetto al colmo del tetto: se ciò è vero, è anche vero però che sono state realizzate nuove strutture coperte laddove prima esse non esistevano, ossia previa occupazione di spazi (sia verso l’esterno, sia verso l’alto) prima liberi, con conseguente radicale trasformazione della sagoma del tetto.
Le opere così realizzate, pertanto, proprio per effetto della loro rilevanza edilizia, non potevano non considerarsi sottratte all’obbligo generale del rispetto delle distanze: come si precisa in giurisprudenza, infatti, gli aumenti della volumetria o delle superfici occupate, in relazione all’originaria sagoma di ingombro, anche qualora siano definiti come “ristrutturazione”, sono rilevanti ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui, come previste dagli strumenti urbanistici locali (cfr., ad es.: Cassaz. civ., sez. un., n. 21578 del 2011; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 7505 del 2010; TAR Liguria, sez. I, n. 3566 del 2009).
L’assunto, del resto, trova conferma anche in quelle pronunce giurisprudenziali (come Cons. Stato, sez. IV, n. 5490 del 2011, invocata dall’amministrazione resistente) che, pur ricordando che gli interventi di ristrutturazione effettuati sopra un manufatto già esistente non impongono il rispetto delle distanze minime, evidenziano però l’inoperatività di tale “principio” allorché risulti essere stata realizzata “un'opera difforme da quella preesistente per sagoma, volume e superficie, anche in termini di ampliamento e sopraelevazione” (così, per l’appunto, Cons. Stato n. 5490 del 2011, cit.), come è avvenuto nel caso oggetto del presente giudizio.
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Quanto, poi, all’ulteriore circostanza di fatto (evidenziata dal controinteressato) che i due edifici “non si fronteggiano e non vi è pericolo di creazione di intercapedini nocive”, si deve comunque osservare che le distanze tra edifici, anche in relazione a quanto previsto dal d.m. n. 1444 del 1968, vanno calcolate con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 7731 del 2010 e n. 6909 del 2005) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 05.07.2012 n. 807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il precetto che impone la doverosa specificazione delle parti del servizio o della fornitura di pertinenza delle singole imprese raggruppate o consorziate deve applicarsi anche ai raggruppamenti orizzontali. Ed infatti, l'obbligo in questione, da assolvere a pena di esclusione in sede di formulazione dell'offerta, è espressione di un principio generale che non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), alla tipologia delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o unitarie) o al dato cronologico del momento della costituzione dell'associazione (costituita o costituenda).
Ai fini del vaglio dell'ottemperanza all'obbligo secondo cui i diversi raggruppamenti (sia verticali che orizzontali) devono specificare le parti del servizio che saranno eseguite dalle singole imprese, in ossequio al principio della tassatività delle cause di esclusione, come sancito dall'art. 46, comma 1-bis, Codice degli Appalti, dovrà seguirsi un approccio ermeneutico di natura sostanzialistica che valorizzi il dato teleologico del raggiungimento dello scopo della norma senza che assuma rilievo dirimente il profilo estrinseco del modo in cui siffatta esigenza sia soddisfatta.
Ne consegue che il predetto obbligo dovrà ritenersi assolto sia in caso di indicazione, in termini schiettamente descrittivi, delle singole parti del servizio da cui sia evincibile il riparto di esecuzione tra le imprese associate, sia in caso di indicazione quantitativa, in termini percentuali, della quota di riparto delle prestazioni che saranno eseguite tra le singole imprese, tenendo conto della natura complessa o semplice dei servizi e della sostanziale idoneità delle indicazioni ad assolvere alle rammentate finalità di riscontro della serietà e affidabilità dell'offerta ed a consentire l'individuazione dell'oggetto e dell'entità delle prestazioni che saranno eseguite dalle singole imprese raggruppate.
Orbene, la previsione dell'obbligo dichiarativo de quo è espressione di un principio generale che impone la specificazione, anche solo quantitativa, delle parti del servizio o della fornitura per ogni tipo di raggruppamento e di prestazione, con la conseguenza che la totale omissione di qualsiasi specificazione idonea a rendere percepibile il riparto di ruoli operativi tra i diversi soggetti consorziati impone la doverosa adozione del provvedimento espulsivo.

La questione di diritto rimessa all’adunanza plenaria riguarda l’applicabilità ai raggruppamenti orizzontali del precetto che impone la doverosa specificazione delle parti del servizio o della fornitura di pertinenza delle singole imprese raggruppate o consorziate.
Il Collegio deve ribadire la risposta positiva che è stata fornita a tale quesito dalla decisione 13.06.2012, n. 22 con riferimento alla disciplina, ratione temporis vigente, dettata dall’art 11, comma 2, d.lgs. n. 157 del 1995, come sostituito dall’art. 9 del d.lgs. 25.02.2000, n. 65. La soluzione è, infatti, estensibile, vista l’identità del dato letterale e di quello telelogico, al precetto dettato dall’art. 37, comma 4, del d.lgs 12.04.2006, n. 163, che, in linea di continuità con la normativa anteriore, ha stabilito che “nel caso di forniture o servizi nell’offerta devono essere specificate le parti del servizio che saranno eseguite dai singoli operatori riuniti o consorziati”.
Si deve confermare, quindi, anche con riguardo alla disciplina dettata dal codice dei contratti pubblici, la soluzione ermeneutica secondo cui la citata disposizione è applicabile indistintamente a tutte le forme di a.t.i., orizzontali e verticali.
A favore di tale tesi milita, anzitutto, l’argomento letterale in virtù del rilievo che la norma in parola, al pari del richiamato antecedente normativo, non contiene alcuna distinzione tra a.t.i. orizzontali e verticali così come tra associazioni costituite e raggruppamenti costituendi.
Si deve poi ribadire il ragionamento svolto dalla rammentata sentenza n. 22/2012 di questa Adunanza al fine di corroborare gli argomenti di natura sistematica e teleologica, estensibili anche all’art. 37, comma 4 cit., che suffragano l’opzione estensiva.
Si deve, al riguardo, rimarcare che:
- l’indicazione delle ‹‹parti›› del servizio o della fornitura imputate alle singole imprese associate o associande si rende necessaria onde evitare l’esecuzione di quote rilevanti dell’appalto da parte di soggetti sprovvisti delle qualità all’uopo occorrenti in relazione ai requisiti di capacità tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria fissati dalla lex specialis;
- siffatte esigenze, di controllo e di trasparenza, si pongono in modo persino rincarato nei raggruppamenti a struttura orizzontale, in seno ai quali tutti gli operatori riuniti eseguono il medesimo tipo di prestazioni, per cui, in difetto di specificazione anche quantitativa delle ‹‹parti›› di servizi che saranno eseguite dalle singole imprese, sarebbe inibita alla stazione appaltante una verifica in ordine alla coerenza dei requisiti di qualificazione con l’entità delle prestazioni di servizio da ognuna di esse assunte;
- la conoscenza preventiva del soggetto che in concreto eseguirà il servizio o la fornitura, consente, in modo indifferenziato per entrambe le associazioni, l’individuazione del responsabile della prestazione dei singoli segmenti dell’appalto;
- l’obbligo in esame soddisfa l’esigenza, consustanziale alla funzione dei raggruppamenti, che sia assegnato un ruolo operativo a ciascuna delle imprese associate in a.t.i. o consorziate, allo scopo di evitare che esse si avvalgano del raggruppamento non per unire le rispettive disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le norme di ammissione stabilite dal bando e consentire così la partecipazione di imprese non qualificate;
- l’obbligo della specificazione delle ‹‹parti›› di servizio imputate alle singole imprese del raggruppamento persegue anche la finalità di assecondare il corretto esplicarsi delle dinamiche concorrenziali, assicurando l’effettività del raggruppamento e impedendo la partecipazione fittizia di imprese, non chiamate (o chiamate in modo inappropriato) ad effettuare le prestazioni oggetto della gara.
Si deve quindi concludere, sulla scorta di tali argomenti, che l’obbligo in questione, da assolvere a pena di esclusione in sede di formulazione dell’offerta, è espressione di un principio generale che non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), alla tipologia delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o unitarie) o al dato cronologico del momento della costituzione dell’associazione (costituita o costituenda).
Si deve ribadire altresì che, ai fini del vaglio dell’ottemperanza all’obbligo di specificare le ‹‹parti›› del servizio che saranno eseguite dalle singole imprese, in ossequio al principio della tassatività delle cause di esclusione –oggi sancito dall’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), n. 2), d.l. 13.05.2011, n. 70 (Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito dalla l. 12.07.2011, n. 106– dovrà seguirsi un approccio ermeneutico di natura sostanzialistica che valorizzi il dato teleologico del raggiungimento dello scopo della norma senza che assuma rilievo dirimente il profilo estrinseco del modo in cui siffatta esigenza sia soddisfatta.
L’obbligo dovrà allora ritenersi assolto sia in caso di indicazione, in termini schiettamente descrittivi, delle singole parti del servizio da cui sia evincibile il riparto di esecuzione tra le imprese associate, sia in caso di indicazione quantitativa, in termini percentuali, della quota di riparto delle prestazioni che saranno eseguite tra le singole imprese, tenendo conto della natura complessa o semplice dei servizi e della sostanziale idoneità delle indicazioni ad assolvere alle rammentate finalità di riscontro della serietà e affidabilità dell’offerta ed a consentire l’individuazione dell’oggetto e dell’entità delle prestazioni che saranno eseguite dalle singole imprese raggruppate
(Consiglio di Stato, Ad. Plen., sentenza 05.07.2012 n. 26 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo l'operato dell'amministrazione comunale che, in presenza di una denuncia di inizio attività per la realizzazione di un intervento edilizio, adotta provvedimenti di sospensione dei lavori o di demolizione dopo che sia decorso il termine di 30 giorni previsto per il consolidamento del titolo, senza fare previo ricorso agli strumenti dell'autotutela.
Invero, non può essere revocato in dubbio che qualsivoglia intervento il Comune intenda esercitare sull’assetto di interessi risultante da una d.i.a. già perfetta ed efficace, la relativa attività deve necessariamente esplicarsi nell’ambito di un procedimento di secondo grado avente ad oggetto il riesame di un’autorizzazione implicita che ha già determinato la piena espansione del cd. ius aedificandi.
Per tali ragioni, deve ritenersi conclusivamente che, al momento dell'adozione del provvedimento impugnato, si fosse da tempo formato il provvedimento abilitativo tacito conseguente alla denuncia del privato e all'inerzia dell'amministrazione la quale, ritenendo di doversi tardivamente opporre all'intervento, non poteva limitarsi ad ordinare di non eseguire i lavori, dovendo previamente provvedere, in via di autotutela, alla rimozione del provvedimento implicito.

Al riguardo, va richiamato l’orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo cui, ai sensi delle richiamate previsioni contenute nell'art. 23 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, è illegittimo l'operato dell'amministrazione comunale che, in presenza di una denuncia di inizio attività per la realizzazione di un intervento edilizio, adotta provvedimenti di sospensione dei lavori o di demolizione dopo che sia decorso il termine di trenta giorni previsto per il consolidamento del titolo, senza fare previo ricorso agli strumenti dell'autotutela (cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 10.12.2009, n. 7730; 04.05.2010, n. 2558; TAR Campania, Sezione II, 25.06.2005, n. 8707; 11.04.2008 n. 2093; Sezione VIII, 08.10.2009, n. 5200; TAR Piemonte, Sezione I, 11.10.2006, n. 3382; TAR Liguria, Sezione I, 15.05.2010, n.2583).
Invero, non può essere revocato in dubbio che qualsivoglia intervento il Comune intenda esercitare sull’assetto di interessi risultante da una d.i.a. già perfetta ed efficace, la relativa attività deve necessariamente esplicarsi nell’ambito di un procedimento di secondo grado avente ad oggetto il riesame di un’autorizzazione implicita che ha già determinato la piena espansione del cd. ius aedificandi.
Per tali ragioni, deve ritenersi conclusivamente che, al momento dell'adozione del provvedimento impugnato, si fosse da tempo formato il provvedimento abilitativo tacito conseguente alla denuncia del privato e all'inerzia dell'amministrazione la quale, ritenendo di doversi tardivamente opporre all'intervento, non poteva limitarsi ad ordinare di non eseguire i lavori, dovendo previamente provvedere, in via di autotutela, alla rimozione del provvedimento implicito (il cui esercizio deve peraltro essere coordinato con il principio di certezza dei rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo affidamento del privato nei confronti dell'attività amministrativa: cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 25.11.2008, n. 5811) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 04.07.2012 n. 3205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Grava sull’amministrazione l’obbligo di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile oggetto dell’intervento, ma non già di risolvere i conflitti tra le parti private in ordine all'assetto dominicale dell'area interessata, non essendo la p.a. tenuta a svolgere una preliminare indagine istruttoria che si estenda fino alla ricerca di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente, essendo noto che il rilascio del titolo edilizio “non comporta limitazione dei diritti dei terzi”, secondo il disposto dall’art. 11, comma 3, del T.U. n. 380/2001.
Va, peraltro, aggiunto che l'art. 1102 c.c. consente a ciascun partecipante di servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione, cioè non incida sulla sostanza e struttura del bene, e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Il partecipante alla comunione, pertanto, può usare della cosa comune per un suo fine particolare, con la conseguente possibilità di ritrarre dal bene una utilità specifica aggiuntiva rispetto a quelle che vengono ricavate dagli altri, con il limite di non alterare la consistenza e la destinazione di esso o di non impedire l'altrui pari uso.
Va, pertanto, ribadito che ai fini della verifica della legittimazione soggettiva a compiere un intervento edilizio, il parametro valutativo va ricercato nella disciplina pubblicistica che regola la realizzazione di opere sul territorio, senza che il dissenso di terzi possa incidere sulla legittimità del provvedimento, che viene adottato sulla base del titolo formale di disponibilità del bene immobile interessato e, in ogni caso, con salvezza dei diritti dei terzi.

Si palesano fondate anche le doglianze volte a contestare la sussistenza di una valida ragione ostativa all’esecuzione dei lavori progettati, risultando erronea la circostanza posta a base dell’azione amministrativa, secondo cui le opere “incidono sulle parti comuni dell’edificio”. Invero, come si è già anticipato, la d.i.a. ha ad oggetto il manufatto di esclusiva proprietà del ricorrente (prevedendo la trasformazione di un vano finestra in porta) e solo di riflesso può rilevare sull’uso del cortile di proprietà comune (in relazione al paventato attraversamento con l’autovettura, poiché la modifica progettata rende il deposito idoneo alla destinazione a garage), sicché non può dubitarsi che il richiedente fosse legittimato a proporre l’intervento, ai sensi degli artt. 11 e 23 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sul punto va osservato che, secondo il costante orientamento giurisprudenziale, grava sull’amministrazione l’obbligo di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile oggetto dell’intervento, ma non già di risolvere i conflitti tra le parti private in ordine all'assetto dominicale dell'area interessata, non essendo la p.a. tenuta a svolgere una preliminare indagine istruttoria che si estenda fino alla ricerca di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente, essendo noto che il rilascio del titolo edilizio “non comporta limitazione dei diritti dei terzi”, secondo il disposto dall’art. 11, comma 3, del T.U. n. 380/2001 (cfr. Consiglio Stato, Sezione V, 04.02.2004, n. 368; Sezione VI, 10.2.2010, n.675; TAR Campania, Sezione II, 22.09.2006, n. 8243), TAR Lombardia, Brescia, Sezione I, 28.05.2007, n. 460).
Va, peraltro, aggiunto che l'art. 1102 c.c. consente a ciascun partecipante di servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione, cioè non incida sulla sostanza e struttura del bene, e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Il partecipante alla comunione, pertanto, può usare della cosa comune per un suo fine particolare, con la conseguente possibilità di ritrarre dal bene una utilità specifica aggiuntiva rispetto a quelle che vengono ricavate dagli altri, con il limite di non alterare la consistenza e la destinazione di esso o di non impedire l'altrui pari uso (cfr. Cassazione civile, Sezione II, 14.07.2011, n. 15523; 09.02.2011, n. 3188).
Va, pertanto, ribadito che ai fini della verifica della legittimazione soggettiva a compiere un intervento edilizio, il parametro valutativo va ricercato nella disciplina pubblicistica che regola la realizzazione di opere sul territorio, senza che il dissenso di terzi possa incidere sulla legittimità del provvedimento, che viene adottato sulla base del titolo formale di disponibilità del bene immobile interessato e, in ogni caso, con salvezza dei diritti dei terzi (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 04.07.2012 n. 3205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di sospensione dei lavori in corso, attribuito all'autorità comunale dall'art. 27, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi; ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l'amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia.
- Rilevato che il provvedimento gravato, emesso ai sensi dell’art. 27, comma 3, del d.P.R. 380/2001, impone la (sola) sospensione dei lavori;
- Ricordato come “...il potere di sospensione dei lavori in corso, attribuito all'autorità comunale dall'art. 27, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi; ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l'amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia” (così, TAR Veneto sez. II, 08.02.2012, n. 198) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.07.2012 n. 3202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’onere della prova circa l’ultimazione dei lavori entro la data utile per l’ottenimento del condono edilizio spetta al richiedente e le dichiarazioni sostitutive di atto notorio non sono sufficienti a tal fine –essendo necessari ulteriori riscontri documentali anche indiziari– e possono essere smentite da contrarie circostanze attestanti l’effettivo stato dei luoghi alla data di riferimento.
In punto di fatto, va richiamato il pacifico orientamento giurisprudenziale in base al quale l’onere della prova circa l’ultimazione dei lavori entro la data utile per l’ottenimento del condono edilizio spetta al richiedente e le dichiarazioni sostitutive di atto notorio non sono sufficienti a tal fine –essendo necessari ulteriori riscontri documentali anche indiziari– e possono essere smentite da contrarie circostanze attestanti l’effettivo stato dei luoghi alla data di riferimento (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 01.12.1999 n. 2034 e 14.03.2007 n. 1249; TAR Campania, Sezione II, 28.04.2008 n. 2591; VII, 24.07.2008 n. 9347; TAR Lazio, Sezione II, 03.03.2006, n. 1645).
Nel caso di specie, l’ulteriore documentazione esibita dagli instanti (copia contratto di appalto del 03.06.2002 e fatture del 2002) non è idonea, con tutta evidenza, a smentire le contrarie risultanze raggiunte dal verificatore, che dimostrano incontrovertibilmente l’assenza del manufatto alla data di riferimento
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 04.07.2012 n. 3200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'acquisizione del parere della commissione edilizia è necessaria solo quando il comune è tenuto a procedere a valutazioni tecniche delle opere progettate, ma non quando fa applicazione di valutazioni di natura squisitamente giuridica.
Quanto al terzo motivo, ove si lamenta la mancata acquisizione del parere della Commissione edilizia, osserva il Collegio che l’acquisizione del parere del suddetto organo è necessaria solo quando il comune è tenuto a procedere a valutazioni tecniche delle opere progettate, ma non quando fa applicazione di valutazioni di natura squisitamente giuridica, come nel caso di specie (cfr., ex plurimis, TAR Campania, Sezione VI, 17.12.2007 n. 16268; Sezione II, 12.01.2009 n. 53 e 15.03.2010 n. 1448) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 04.07.2012 n. 3200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In relazione alla natura sostanzialmente vincolata dei provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non si ritiene necessaria una specifica motivazione a sostegno della misura adottata.
Invero, nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell’abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
In definitiva, l’ingiunzione di demolizione può ritenersi sufficientemente motivata per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.

Sul primo punto appare sufficiente richiamare il consolidato indirizzo giurisprudenziale (in termini, fra le tante, Consiglio di Stato, V Sezione, 14.10.1998, n. 1483, TAR Campania, IV Sezione, 12.06.2001, n. 2722; II Sezione, 23.06.2006, n. 7154), condiviso dal Collegio, in base al quale, in relazione alla natura sostanzialmente vincolata dei provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non si ritiene necessaria una specifica motivazione a sostegno della misura adottata.
Invero, nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell’abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania, Sezione II, 23.04.2007 n.4229; Sezione IV, 24.09.2002, n. 5556; Consiglio Stato, Sezione IV, 27.04.2004, n. 2529).
In definitiva, l’ingiunzione di demolizione può ritenersi sufficientemente motivata per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria, che nella specie è incontestato
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 04.07.2012 n. 3200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La proposizione di una istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001 in tempo successivo all’emissione dell’ordinanza di demolizione, incide unicamente (e per un tempo determinato) sulla possibilità dell’amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione.
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Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
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E' inammissibile il ricorso laddove si impugni il verbale di accertamento di inottemperanza ad una ordinanza di demolizione, il quale è atto privo di valenza provvedimentale.

Deve richiamarsi il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale “... la proposizione di una istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001 in tempo successivo all’emissione dell’ordinanza di demolizione, incide unicamente (e per un tempo determinato) sulla possibilità dell’amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione” (cfr. Consiglio di Stato sez, IV, 19.02.2008 n. 849).
Va pure respinto il secondo motivo di doglianza, con il quale il ricorrente ha lamentato la mancata enucleazione, nella motivazione dell’atto, dell’interesse pubblico alla rimozione dell’opera.
Ed, infatti, come costantemente affermato in giurisprudenza “... presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi” (ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
Il ricorso per motivi aggiunti, come prospettato, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a., ai difensori presenti in udienza, è inammissibile.
L’impugnativa è, infatti, rivolta avverso il verbale di accertamento di inottemperanza ad una ordinanza di demolizione, atto privo di valenza provvedimentale (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2011, n. 215 e sez. II, 27.08.2010, n. 17245, TAR Lombardia, Brescia, 14.05.2010, n. 1730 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.07.2012 n. 3199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA-PRIVATA: Qualora il termine previsto dall'art. 159, comma 2, Codice dei beni culturali sia interrotto per richiesta istruttoria, l'originario termine di 60 giorni deve essere prolungato di ulteriori 30 giorni, sì da essere computato complessivamente con decorrenza dalla ricezione dell'autorizzazione senza però tener conto del periodo di tempo intercorrente tra la richiesta istruttoria e la data di ricevimento della documentazione integrativa.
Con il decreto impugnato la Soprintendenza per i beni e le attività culturali delle province di Caserta e Benevento, in data 16.06.2010, ha annullato, ai sensi degli artt. 149 e 159 del d.lgs. n. 42/2004,il provvedimento n. 34 del 23.11.2009, con cui il Comune di Melizzano rilasciava parere favorevole in ordine alla domanda inoltrata il 21.07.2009 dal ricorrente Lancellotti Duilio per l’approvazione di un progetto di realizzazione di una piscina pertinenziale ad un fabbricato rurale realizzato con concessione edilizia n. 04/2000.
Il decreto gravato risulta evidentemente viziato in quanto adottato, come fondatamente eccepito in ricorso, quando era oramai definitivamente spirato il termine perentorio di sessanta giorni assegnato ex lege alla Soprintendenza per l’esercizio del potere di annullamento.
A ben vedere, come evincesi dal contenuto del provvedimento impugnato, la Sovrintendenza, prima di adottare il decreto gravato, con nota prot. 24680 del 15.12.2009 ha formulato all’amministrazione comunale di Melizzano una richiesta istruttoria di chiarimenti ed integrazione documentale giustificata dalla mancanza, negli atti presentati, di una c.e. in sanatoria n. 32/2001 non presente agli atti dell’Ufficio.
Come noto, ai sensi del comma 2 dell’art. 159 d.lgs. n. 42/2004, in caso di richiesta di integrazione documentale o di accertamenti, il termine è sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti, e si applicano le disposizioni di cui all’articolo 6, comma 6-bis, del d.m. n. 495 del 1994, secondo cui, in tal caso, il termine per la conclusione del procedimento è interrotto, per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, dalla data della comunicazione, e riprende a decorrere dal ricevimento della documentazione o dall'acquisizione delle risultanze degli accertamenti tecnici (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.07.2012 n. 3190 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La direttiva del Consiglio 21.12.1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18.06.1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, la quale subordini il diritto a ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.
In questo senso, la Corte di Giustizia ha evidenziato, da un lato, come il tenore letterale degli artt. 1 n. 1, e 2 n.n. 1, 5 e 6, nonché del sesto “considerando” della direttiva 89/665, non indichino in alcun modo che la violazione delle norme sugli appalti pubblici atta a far sorgere un diritto al risarcimento a favore del soggetto leso debba risultare connessa ad una colpa, comprovata o presunta, dell'amministrazione aggiudicatrice, oppure non ricadere sotto alcuna causa di esonero di responsabilità; e, dall’altro, come l'art. 2 n. 6, secondo comma, della direttiva 89/665 riconosca agli Stati membri la facoltà di prevedere che, dopo la conclusione del contratto successiva all'aggiudicazione dell'appalto, i poteri dell'organo responsabile delle procedure di ricorso siano limitati alla concessione di un risarcimento.
In tale contesto, il rimedio risarcitorio può dunque costituire, ad avviso della Corte, un'alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività, sotteso all'obiettivo di efficacia dei ricorsi perseguito dalla citata direttiva, alla sola condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata alla constatazione dell'esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall'amministrazione aggiudicatrice.
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Venendo al piano del danno risarcibile in concreto, esso si identifica nella specie con il ristoro del c.d. interesse positivo ossia del pregiudizio subito in concreto per la mancata stipula del contratto.
Il danno emergente va quindi rapportato alla perdita di chances connessa al depauperamento delle capacità tecniche ed economiche dell’impresa per effetto della mancata aggiudicazione della gara. Tale voce di danno, ad avviso del Collegio, va liquidato in via equitativa nella misura del 1,5% del prezzo offerto dalla ricorrente, considerata anche l’insufficiente allegazione e prova, da parte di quest’ultima, delle singole voci componenti il predetto danno.
Quanto all’utile ritraibile dall’esecuzione dell’appalto, come noto, a partire dal 2008 la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è orientata nel senso che la quantificazione forfettaria nella misura del 10% dell’importo offerto non sia accoglibile, comportando un indebito arricchimento della impresa ricorrente. Infatti, l'utile che le imprese traggono dall'aggiudicazione dell'appalto è mediamente di molto inferiore a tale percentuale. Il criterio del dieci per cento è stato desunto da alcune disposizioni in tema di lavori pubblici, che riguardano però altri istituti, come l'indennizzo dell'appaltatore nel caso di recesso dell'amministrazione committente o la determinazione del prezzo a base d'asta. Tale riferimento, pur evocato come criterio residuale in una logica equitativa, conduce di regola al risultato che il risarcimento dei danni è per l'imprenditore ben più favorevole dell'impiego del capitale.
Pertanto, ritiene il Collegio che, avuto riguardo alla media dell’utile ordinariamente percepito dalle imprese aggiudicatarie, occorra ridurre la percentuale predetta in via equitativa del 50%, per risultare così pari al 5% dell’importo offerto in gara.
Sulla somma calcolata in base a quanto innanzi compete, invero, la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat, trattandosi di debito di valore, con decorrenza dalla stipula del contratto con la ditta aggiudicataria, da cui in concreto è iniziato a scaturire il pregiudizio di cui si è detto, e fino alla data di deposito della presente decisione (momento in cui il debito di valore si trasforma in debito di valuta per effetto della liquidazione giudiziale). Sulla somma così rivalutata non devono aggiungersi gli interessi nella misura legale con pari termini iniziale e finale, poiché altrimenti si produrrebbe l'effetto di far conseguire al creditore una ingiusta locupletazione del danno ossia più di quanto lo stesso avrebbe ottenuto nel caso di assegnazione dell'appalto.

In proposito, il Collegio non ignora che, sin dall’arresto giurisprudenziale delineato da Cons. Stato, ad. plen., 03.12.2008, n. 13, l’imputazione della responsabilità nei confronti della pubblica amministrazione è restata disancorata dal dato obiettivo dell’illegittimità dell’azione amministrativa, onde evitare una presunzione di colpa, ma è stato sempre subordinato all’accertamento in concreto della colpa, configurabile allorquando l’adozione dell’atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole proprie dell’azione amministrativa, desumibili sia dai principi costituzionali in punto di imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in punto di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, nonché dai principi generali dell’ordinamento in punto di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza.
Sul punto, occorre prendere atto che la giurisprudenza europea è di recente pervenuta all’affermazione secondo cui la direttiva del Consiglio 21.12.1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18.06.1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, la quale subordini il diritto a ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.
In questo senso, la Corte di Giustizia ha evidenziato, da un lato, come il tenore letterale degli artt. 1 n. 1, e 2 n.n. 1, 5 e 6, nonché del sesto “considerando” della direttiva 89/665, non indichino in alcun modo che la violazione delle norme sugli appalti pubblici atta a far sorgere un diritto al risarcimento a favore del soggetto leso debba risultare connessa ad una colpa, comprovata o presunta, dell'amministrazione aggiudicatrice, oppure non ricadere sotto alcuna causa di esonero di responsabilità; e, dall’altro, come l'art. 2 n. 6, secondo comma, della direttiva 89/665 riconosca agli Stati membri la facoltà di prevedere che, dopo la conclusione del contratto successiva all'aggiudicazione dell'appalto, i poteri dell'organo responsabile delle procedure di ricorso siano limitati alla concessione di un risarcimento.
In tale contesto, il rimedio risarcitorio può dunque costituire, ad avviso della Corte, un'alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività, sotteso all'obiettivo di efficacia dei ricorsi perseguito dalla citata direttiva, alla sola condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata alla constatazione dell'esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall'amministrazione aggiudicatrice (cfr. Corte di Giustizia CE, sez. III, 30.09.2010, n. 314).
La richiamata giurisprudenza comunitaria sembra produrre nel nostro ordinamento l’effetto, sia pure circoscritto al settore degli appalti pubblici, di svincolare la responsabilità dell’amministrazione dall’accertamento della colpa, quand’anche ricavata presuntivamente dalla illegittimità degli atti posti in essere dalla P.A.. Ed infatti la nuova regola della responsabilità oggettiva in materia di appalti pubblici deve trovare applicazione puntuale e rigorosa per il solo ambito indicato dal giudice comunitario, ossia per gli appalti in cui la colpa sia insita nella gravità della violazione della normativa comunitaria di rango primario, configurandosi una forma di responsabilità oggettiva aggravata in capo al committente pubblico per violazione di una normativa di rango comunitario a tutela della libera concorrenza e del mercato e quindi una sanzione per un comportamento anticomunitario.
E tale ambito non può che coincidere con le fattispecie in cui la misura risarcitoria si ponga in termini di alternatività rispetto alla tutela in forma specifica, dal momento che, sotto il profilo dell’effettività della tutela e della parità di trattamento di situazioni identiche, la misura risarcitoria non può restare subordinata all’accertamento di condizioni ulteriori e più gravose rispetto a quelle che consentono al giudice di pronunciare la reintegrazione in forma specifica. Ciò in quanto il risarcimento per equivalente si pone su un piano di sussidiarietà e di alternatività rispetto alla reintegrazione in forma specifica, nel senso che il primo è destinato ad operare qualora il giudice non dichiari l’inefficacia del contratto. Sicché in tal caso al contraente che, per fatto imputabile ad una violazione della normativa comunitaria commessa dall’amministrazione, resti privato della facoltà di subentrare nel rapporto contrattuale, deve essere assicurata una tutela in tutto equivalente a quella che avrebbe conseguito nel caso di stipula del contratto.
Ora, nella fattispecie in esame, viene in rilievo una violazione della normativa di derivazione comunitaria relativa ai requisiti generali di cui all’art. 38 d.lgs. n.163/2006 che trova applicazione nei confronti di tutti gli appalti, ivi inclusi quelli che si collochino al di sotto della soglia di rilevanza comunitaria.
Quanto al nesso di causalità è evidente che la mancata aggiudicazione della gara in favore della ricorrente deve ritenersi imputabile in via esclusiva all’adozione di un illegittimo atto di autoannullamento dell’aggiudicazione da parte della stazione appaltante, ed alla successiva stipula del contratto in favore della seconda graduata.
Pertanto l’impresa ricorrente, pur essendosi trovata nelle condizioni procedimentali per poter ottenere l’aggiudicazione dei lavori, ed avendo azionato tutti i rimedi che l’ordinamento le riconosce per rimuovere l’illegittimità del provvedimento di autotutela adottato a suo carico, si è trovata a perdere la possibilità di conseguire la stipula del contratto o di subentrare nel contratto già stipulato con la controinteressata per fatto imputabile al comportamento della stazione appaltante.
Venendo, quindi, al piano del danno risarcibile in concreto, esso si identifica nella specie con il ristoro del c.d. interesse positivo ossia del pregiudizio subito in concreto per la mancata stipula del contratto.
Il danno emergente va quindi rapportato alla perdita di chances connessa al depauperamento delle capacità tecniche ed economiche dell’impresa per effetto della mancata aggiudicazione della gara. Tale voce di danno, ad avviso del Collegio, va liquidato in via equitativa nella misura del 1,5% del prezzo offerto dalla ricorrente, considerata anche l’insufficiente allegazione e prova, da parte di quest’ultima, delle singole voci componenti il predetto danno (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.06.2006, n. 3601; sez. V, 06.12.2006, n. 7194).
Quanto all’utile ritraibile dall’esecuzione dell’appalto, come noto, a partire dal 2008 la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è orientata nel senso che la quantificazione forfettaria nella misura del 10% dell’importo offerto non sia accoglibile, comportando un indebito arricchimento della impresa ricorrente. Infatti, l'utile che le imprese traggono dall'aggiudicazione dell'appalto è mediamente di molto inferiore a tale percentuale. Il criterio del dieci per cento è stato desunto da alcune disposizioni in tema di lavori pubblici, che riguardano però altri istituti, come l'indennizzo dell'appaltatore nel caso di recesso dell'amministrazione committente o la determinazione del prezzo a base d'asta. Tale riferimento, pur evocato come criterio residuale in una logica equitativa, conduce di regola al risultato che il risarcimento dei danni è per l'imprenditore ben più favorevole dell'impiego del capitale.
Pertanto, ritiene il Collegio che, avuto riguardo alla media dell’utile ordinariamente percepito dalle imprese aggiudicatarie, occorra ridurre la percentuale predetta in via equitativa del 50%, per risultare così pari al 5% dell’importo offerto in gara (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.10.2002, n. 5860; sez. IV, 11.10.2006, n. 6059; 31.10.2006, n. 6456; sez. VI, 09.11.2006, n. 6608; 09.03.2007, n. 1114; sez. IV, 07.09.2007, n. 4722; sez. V, 14.04.2008, n. 1666; sez. VI, 09.06.2008, n. 2751; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 06.02.2008, n. 90; TAR Campania, Salerno, sez. I, 14.02.2008, n. 203; TAR Lazio, Latina, sez. I, 10.04.2008, n. 355; TAR Campania, Napoli, sez. I, 03.07.2008, n. 6820; TAR Sardegna, sez. I, 12.08.2008, n. 1721).
In conclusione, la domanda di risarcimento per equivalente monetario avanzata dalla parte ricorrente deve essere accolta nella misura del complessivo importo di euro 21,922,68 (ventunomilanovecentoventidue/68) pari alla somma tra il mancato utile percepito di importo pari ad euro 16.863,60 (sedicimilaottocentosessantatre/60) corrispondente al 5% del prezzo offerto in gara di euro 337.272.03 (trecentotrentasettemiladuecentosettantadue/03), e la perdita di chance di guadagno quantificata nell’importo di euro 5.059,08 (cinquemilacinquntanove/08) pari all’1,5% della stessa offerta.
Sulla somma calcolata in base a quanto innanzi compete, invero, la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat, trattandosi di debito di valore, con decorrenza dalla stipula del contratto con la ditta aggiudicataria, da cui in concreto è iniziato a scaturire il pregiudizio di cui si è detto, e fino alla data di deposito della presente decisione (momento in cui il debito di valore si trasforma in debito di valuta per effetto della liquidazione giudiziale). Sulla somma così rivalutata non devono aggiungersi gli interessi nella misura legale con pari termini iniziale e finale, poiché altrimenti si produrrebbe l'effetto di far conseguire al creditore una ingiusta locupletazione del danno ossia più di quanto lo stesso avrebbe ottenuto nel caso di assegnazione dell'appalto (cfr. Cons. Stato sez. V 30.07.2008 n.3806; Cons. Giust. Reg. Sicilia, 22.04.2005 n. 276, nonché Cons. St., Sez. IV, 28.04.2006 n. 2408, richiamata dall'appellante, e da ultimo 22.03.2007 n. 1377). Vanno invece corrisposti gli interessi nella misura legale solo a decorrere dalla data di deposito della presente decisione fino all'effettivo soddisfo (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.07.2012 n. 3188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza dell'esercizio della facoltà straordinaria prevista dalla legge il provvedimento repressivo (e quindi quello di accertamento della non conformità) “perde efficacia in quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l’Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, in base a quanto previsto dall'art. 40, comma 1, l. n. 47 del 1985, al completo riesame della fattispecie”, con conseguente “traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva”.
Con il ricorso n. 9195/1999, ritualmente notificato e depositato, il signor DI MEGLIO Giuseppe impugna il provvedimento di demolizione individuato in epigrafe avente ad oggetto la demolizione delle opere eseguite in assenza di permesso di costruire alla via Starza n. 7 identificato al catasto al foglio 16 p.lla n. 599 area 0,85 nel Comune di Barano d’Ischia.
Il Comune intimato non si è costituito in giudizio.
Alla pubblica udienza del 06.06.2012 la causa è stata trattenuta in decisione.
Ciò premesso, il ricorso è improcedibile.
Invero, per giurisprudenza risalente e consolidata, a tale definizione in rito della causa deve pervenirsi ove, in sede di decisione di un ricorso proposto avverso ordini di demolizione risulti successivamente presentata domanda per conseguire il condono edilizio. Ciò in quanto in presenza dell'esercizio della facoltà straordinaria prevista dalla legge il provvedimento repressivo (e quindi quello di accertamento della non conformità) “perde efficacia in quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l’Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, in base a quanto previsto dall'art. 40, comma 1, l. n. 47 del 1985, al completo riesame della fattispecie”, con conseguente “traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva” (si vedano, fra le molte, Cons. Stato, sezione V, 06.07.2007 n. 3855, Cons. Stato, sezione sesta, 07.05.2009, n. 2833; TAR Campania, Napoli, questa sesta sezione, sentenze n. 3933 del 20.07.2011, n. 1645 del 23.03.2011; n. 15979 del 23.06.2010; 25.02.2010, n. 1158 e 09.11.2009, n. 7051; sezione settima, 09.02.2009, n. 645; TAR Lazio, Roma, sezione prima, 09.02.2010, n. 1780; TAR Emilia Romagna, Bologna, sezione seconda, 12.01.2010, n. 20) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.07.2012 n. 3183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza in questione (di demolizione) costituisce un provvedimento dovuto e rigorosamente vincolato in quanto volto a sanzionare opere costruite in zona vincolata senza il prescritto titolo edilizio, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, tanto più che l’interessato non ha rappresentato neppure in sede di ricorso, argomentazioni idonee a determinare un diverso esito del procedimento.
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La giurisprudenza ha affermato da tempo come il contrasto con la disciplina vincolistica che legittima l’esercizio del potere di cui all’art. 27 d.P.R. 380/2001 debba essere riferito all’area di realizzazione dell’intervento abusivo e “non in maniera specifica al singolo immobile”; in tal senso vi sono numerose pronunce di questo Tribunale, ai cui contenuti argomentativi si rinvia; infatti la distinzione fra “immobile” ed “area” è inconsistente, in quanto il carattere vincolato di un manufatto si rapporta per insuperabile necessità logico–giuridica alla vincolatezza del sito ove è stato edificato, sicché, dettando la norma generale ex art. 27 d.P.R 327/2001, il legislatore ha disciplinato anche l’ipotesi di tutte le costruzioni effettuate in siti vincolati e come tali riflettenti la disciplina vincolistica della zona su cui insistono.

In particolare, non merita positiva delibazione la prima doglianza, con la quale viene sollevata l’illegittimità del provvedimento per la mancata comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge 241/1990, giacché l’ordinanza in questione (di demolizione) costituisce un provvedimento dovuto e rigorosamente vincolato in quanto volto a sanzionare opere costruite in zona vincolata senza il prescritto titolo edilizio, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, tanto più che l’interessato non ha rappresentato neppure in sede di ricorso, argomentazioni idonee a determinare un diverso esito del procedimento (si veda, tra le molte, TAR Liguria, Genova, sez. I, 08.06.2009 n. 11289).
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E’ destituito di fondamento il terzo mezzo di ricorso, ove si afferma che, ai fini dell’applicazione dell’art. 27 d.P.R. 380/2001, non è sufficiente che l’area sia oggetto di un vincolo ai sensi del codice dei beni culturali, ma occorre che tale vincolo preveda in concreto l’inedificabilità del suolo.
La giurisprudenza ha fatto da tempo giustizia di tale assunto, affermando come il contrasto con la disciplina vincolistica che legittima l’esercizio del potere di cui all’art. 27 d.P.R. 380/2001 debba essere riferito all’area di realizzazione dell’intervento abusivo e “non in maniera specifica al singolo immobile”; in tal senso vi sono numerose pronunce di questo Tribunale (TAR Campania, Napoli, questa sesta sezione, sentenza n. 359 del 27.01.2010 cit., n. 844 del 10.02.2010; n. 884 del 24.01.2006; sez. settima, 03.11.2010, n. 22299 e n. 9355 del 24.07.2008; Salerno, sez. I, 14.01.2011, n. 26), ai cui contenuti argomentativi si rinvia; infatti la distinzione fra “immobile” ed “area” è inconsistente, in quanto il carattere vincolato di un manufatto si rapporta per insuperabile necessità logico–giuridica alla vincolatezza del sito ove è stato edificato, sicché, dettando la norma generale ex art. 27 d.P.R 327/2001, il legislatore ha disciplinato anche l’ipotesi di tutte le costruzioni effettuate in siti vincolati e come tali riflettenti la disciplina vincolistica della zona su cui insistono.
L’ordinanza impugnata ha, in effetti, motivato in ordine alla non conformità del manufatto alle norme urbanistiche e paesistiche vigenti in considerazione del vincolo ambientale gravante sull’area ai sensi del D.M. del 1957
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.07.2012 n. 3182 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
Va pure respinto il terzo motivo di doglianza, con il quale il ricorrente ha lamentato la mancata enucleazione, nella motivazione dell’atto, dell’interesse pubblico alla rimozione dell’opera.
Infatti, come costantemente affermato in giurisprudenza “... presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi” (tra le molte, si veda TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.07.2012 n. 3180 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di demolizione è illegittima laddove preliminarmente alla stessa sia stata presenta domanda di condono edilizio, atteso che l'Amministrazione comunale deve, prima di ordinare la demolizione delle opere eseguite, esaminare detta domanda.
Infatti, ai sensi degli artt. 38 e 44 della legge n. 47/1985, contenuti nel capo IV della legge medesima, in pendenza della domanda di sanatoria, è preclusa l'adozione di provvedimenti repressivi dell'abuso edilizio, atteso che nell'ipotesi di diniego della domanda di sanatoria, l'Amministrazione dovrà adottare nuova ingiunzione di demolizione, con fissazione di nuovi termini per la spontanea esecuzione.

Il ricorso è fondato e va accolto.
Risulta dagli atti (e dallo stesso provvedimento impugnato) che, in data antecedente l'adozione del provvedimento impugnato, era stata presentata, in relazione al manufatto in questione, domanda di condono ai sensi della l. n. 724/1994 (cfr. copia domanda di condono presentata in data 31.03.1995, prot. 4114, in atti).
Su tale domanda l’ente locale non si è pronunciato, non essendo a tal fine sufficiente il mero riferimento, nella motivazione dell’atto gravato, alla incompletezza documentale dell’istanza, contenuta nella sola motivazione dell’atto, neppure trasfusa in statuizioni contenute nel dispositivo.
Orbene, per costante giurisprudenza, anche di questo Tribunale, l'ordinanza di demolizione è in tal caso illegittima, atteso che l'Amministrazione comunale deve, prima di ordinare la demolizione delle opere eseguite, esaminare detta domanda.
Infatti, ai sensi degli artt. 38 e 44 della legge n. 47/1985, contenuti nel capo IV della legge medesima, in pendenza della domanda di sanatoria, è preclusa l'adozione di provvedimenti repressivi dell'abuso edilizio, atteso che nell'ipotesi di diniego della domanda di sanatoria, l'Amministrazione dovrà adottare nuova ingiunzione di demolizione, con fissazione di nuovi termini per la spontanea esecuzione (ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 21.03.2008, n. 1472).
Il ricorso deve essere dunque accolto con riferimento all’assorbente censura di violazione degli artt. 38 e 44 della legge n. 47/1985, articolata con il primo motivo di doglianza, e, per l’effetto, l’impugnata ordinanza deve essere annullata.
Spetta all’amministrazione definire quanto prima la predetta domanda di condono, adottando i provvedimenti consequenziali (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.07.2012 n. 3175 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione della domanda di condono ai sensi della legge 326/2003, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione, produce l'effetto di rendere improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa.
Il ricorso è improcedibile.
Osserva il Collegio che, con nota depositata il 03.02.2010, i ricorrenti hanno evidenziato di aver presentato per le opere oggetto dell’ordinanza gravata, in data 24.03.2004, domanda di condono ai sensi della legge 326/2003 (prot. n. 7252, in atti) e che la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di rilevare come la presentazione di tali domande, successivamente alla impugnazione dell'ordinanza di demolizione, produca l'effetto di rendere improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'impugnazione stessa (Cfr. ex multis, TAR Campania, Sez. VI, 11.07.2007, n. 7129 sez. I, 18.05.2006 n. 4743).
Ed invero, il riesame dell’abusività dell'opera al fine di verificarne la eventuale sanabilità -provocato dall'istanza degli interessati- comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di rigetto), che vale, comunque, a superare il provvedimento oggetto del presente ricorso.
Applicando siffatti criteri alla controversia in esame, nella quale la documentata presentazione delle istanze di condono ai sensi della legge 724/1994 è successiva all’emissione dell’ordinanza di demolizione, deve dichiararsi l'improcedibilità del gravame, stante la sopravvenuta carenza di interesse al conseguimento di una qualche decisione avverso l’atto impugnato, destinato comunque ad essere sostituito dalle determinazioni esplicite od implicite adottate sulla proposta istanza di condono (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.07.2012 n. 3172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
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La mancata apposizione in calce al provvedimento amministrativo della formula recante il termine e l'Autorità presso cui impugnarlo, sancita dall'art. 3, comma 4, l. 07.08.1990 n. 241, può implicare, in caso di eventuale ritardo nell'impugnazione, il riconoscimento dell'errore scusabile e dei suoi effetti, ma solo quando ne sussistano i presupposti, vale a dire una situazione normativa obiettivamente inconoscibile o confusa, uno stato di obiettiva incertezza per le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma, per la particolare complessità della fattispecie concreta, per i contrasti giurisprudenziali esistenti o per il comportamento dell'Amministrazione idoneo, perché equivoco, ad ingenerare convincimenti inesatti.
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L’art. 27 del dpr 380/2001 è applicabile sia ai casi in cui il dirigente o il responsabile accerti “l'inizio”, che all’ipotesi in cui venga accertata “l'esecuzione di opere eseguite senza titolo” in area vincolata e che la norma medesima prevede la sola sanzione ripristinatoria, attenendo la differente disposizione invocata dalla ricorrente al solo profilo paesaggistico e non anche a quello edilizio.

Il ricorso è infondato e va respinto.
Con il provvedimento gravato il comune di Ischia ha ingiunto al ricorrente di demolire una tettoia di 15,00 mq realizzata, attaccata ad un manufatto in ferro preesistente, in assenza di titolo abilitativo su area dichiarata di notevole interesse pubblico con d.m. 15.12.1959.
La ricorrente non contesta le suddette circostanza né fornisce indicazioni relative all’eventuale esistenza di titoli abilitativi.
La conseguente abusività del manufatto, di rilevanti dimensioni e tale da modificare sensibilmente il prospetto e la sagoma del manufatto, rendeva obbligatoria l’adozione della sanzione ripristinatoria da parte dell’ente locale (sulla necessità del titolo abilitativo per la realizzazione di tettoie idonee ad incidere sullo stato dei luoghi, cfr, ex multis, Consiglio Stato sez. IV, 29.04.2011, n. 2549)
Considerata l’assenza di argomentazioni e/o di prove relative alla legittimità della tettoia, va in primo luogo respinta la censura di difetto di istruttoria e di motivazione, nonché di mancata indicazione, nell’atto, del termine e autorità cui ricorrere, articolate con il primo e con il quarto motivo di doglianza.
Sotto il primo profilo occorre considerare come “... presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi” (ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
Quanto al secondo aspetto è sufficiente richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale “... la mancata apposizione in calce al provvedimento amministrativo della formula recante il termine e l'Autorità presso cui impugnarlo, sancita dall'art. 3, comma 4, l. 07.08.1990 n. 241, può implicare, in caso di eventuale ritardo nell'impugnazione, il riconoscimento dell'errore scusabile e dei suoi effetti, ma solo quando ne sussistano i presupposti, vale a dire una situazione normativa obiettivamente inconoscibile o confusa, uno stato di obiettiva incertezza per le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma, per la particolare complessità della fattispecie concreta, per i contrasti giurisprudenziali esistenti o per il comportamento dell'Amministrazione idoneo, perché equivoco, ad ingenerare convincimenti inesatti” (cosi, da ultimo, TAR Umbria, sez. I, 20.04.2012, n. 125)
La natura vincolata dell’atto consente di respingere anche il secondo motivo di doglianza, con il quale la ricorrente ha censurato la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, tanto più che lo stesso non ha rappresentato, nemmeno in giudizio, l’esistenza di circostanze idonee a determinare un diverso esito provvedimentale.
Va infine respinto il terzo motivo di doglianza, con il quale la ricorrente ha lamentato violazione dell’art. 27 del d.P.R. 380/2001, rappresentando come l’intervenuto completamento dell’opera precludesse l’applicazione della norma posta dal comune a fondamento del suo operato, e dell’art. 167 del d.lgs. 42/2004, per non avere il comune indicato le ragioni per le quali ha applicato la sanzione ripristinatoria, in luogo della meno afflittiva sanzione pecuniaria.
Deve infatti osservarsi come l’art. 27, sulla cui base è stato applicato il provvedimento gravato, è applicabile sia ai casi in cui il dirigente o il responsabile accerti “l'inizio”, che all’ipotesi in cui venga accertata “l'esecuzione di opere eseguite senza titolo” in area vincolata e che la norma medesima prevede la sola sanzione ripristinatoria, attenendo la differente disposizione invocata dalla ricorrente al solo profilo paesaggistico e non anche a quello edilizio (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.07.2012 n. 3170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai fini della formazione del silenzio-assenso, che costituisce uno strumento di semplificazione e di snellimento dell'azione amministrativa, non sono sufficienti la sola presentazione della domanda ed il decorso del tempo indicato dalla norma che lo prevede, ma è necessario altresì che essa sia corredata dall’indispensabile documentazione prevista dalla normativa, non implicando il meccanismo del silenzio-assenso alcuna deroga al potere-dovere dell'Amministrazione pubblica di curare gli interessi pubblici nel rispetto dei principi fondamentali sanciti dall'art. 97, cost. e presupponendo quindi che essa sia posta nella condizione di verificare la sussistenza di tutti i presupposti legali per il rilascio dell'autorizzazione.
Tale indiscutibile principio deve in ogni caso armonizzarsi con le caratteristiche di lealtà e correttezza cui deve ispirarsi l’azione amministrativa, in quanto corollari del principio di imparzialità di cui all’art. 97 della Costituzione; in particolare, le esigenze di tutela dell’amministrato devono ritenersi amplificate in quei procedimenti idonei a risolversi mediante la formazione di provvedimenti silenziosi, in quanto la tensione partecipativa trova comprensibile attenuazione nella particolare dinamica che connota detti modelli, aumentando l’affidamento del soggetto istante in ordine al riconoscimento della pretesa azionata in misura proporzionale all’esaurirsi del tempo a disposizione dell’Amministrazione per completare la pur sempre necessaria attività istruttoria.
Ne consegue che proprio in tali casi deve ritenersi imposta all’amministrazione una maggiore attenzione nei confronti della posizione partecipativa dell’amministrato, e ciò non solo al fine di non tradire la funzione attualmente riconosciuta al procedimento, ma anche per evitare di ostacolare la concreta operatività di modelli di semplificazione dell’azione, come appunto quello del silenzio assenso; d’altronde, di tanto vi è conferma nell’art. 6, primo comma, lettera b), della legge 07.08.1990 n. 241 a proposito del dovere istruttorio da parte del responsabile unico del procedimento di procedere a richiedere alla parte dichiarazioni, rettifiche e integrazioni documentali.

Occorre innanzitutto prendere atto del costante orientamento in giurisprudenza, secondo cui “ai fini della formazione del silenzio-assenso, che costituisce uno strumento di semplificazione e di snellimento dell'azione amministrativa, non sono sufficienti la sola presentazione della domanda ed il decorso del tempo indicato dalla norma che lo prevede, ma è necessario altresì che essa sia corredata dall’indispensabile documentazione prevista dalla normativa, non implicando il meccanismo del silenzio assenso alcuna deroga al potere-dovere dell'Amministrazione pubblica di curare gli interessi pubblici nel rispetto dei principi fondamentali sanciti dall'art. 97, cost. e presupponendo quindi che essa sia posta nella condizione di verificare la sussistenza di tutti i presupposti legali per il rilascio dell'autorizzazione" (Consiglio di Stato sez. V 01.04.2011 n. 2019; Consiglio Stato sez. IV 22.07.2010 n. 4823; Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd. 28.04.2011 n. 320; TAR Napoli Campania sez. II 06.02.2012 n. 585; TAR Napoli Campania sez. II 06.02.2012 n. 585; TAR Piemonte sez. II, 03.02.2012 n. 143; TAR Puglia Lecce sez. III 10.01.2012 n. 16; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 29.09.2006 n. 1996,; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 05.06.2004 n. 3394; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 11.12.2003 n. 15215).
Ritiene il Collegio che tale indiscutibile principio debba in ogni caso armonizzarsi con le caratteristiche di lealtà e correttezza cui deve ispirarsi l’azione amministrativa, in quanto corollari del principio di imparzialità di cui all’art. 97 della Costituzione; in particolare, le esigenze di tutela dell’amministrato devono ritenersi amplificate in quei procedimenti idonei a risolversi mediante la formazione di provvedimenti silenziosi, in quanto la tensione partecipativa trova comprensibile attenuazione nella particolare dinamica che connota detti modelli, aumentando l’affidamento del soggetto istante in ordine al riconoscimento della pretesa azionata in misura proporzionale all’esaurirsi del tempo a disposizione dell’Amministrazione per completare la pur sempre necessaria attività istruttoria.
Ne consegue che proprio in tali casi deve ritenersi imposta all’amministrazione una maggiore attenzione nei confronti della posizione partecipativa dell’amministrato, e ciò non solo al fine di non tradire la funzione attualmente riconosciuta al procedimento, ma anche per evitare di ostacolare la concreta operatività di modelli di semplificazione dell’azione, come appunto quello del silenzio assenso; d’altronde, di tanto vi è conferma nell’art. 6, primo comma, lettera b), della legge 07.08.1990 n. 241 a proposito del dovere istruttorio da parte del responsabile unico del procedimento di procedere a richiedere alla parte dichiarazioni, rettifiche e integrazioni documentali (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI: L’approvazione di progetti di opere pubbliche rientra nella competenza della Giunta Comunale, organo a competenza generale e residuale, anche quando tale approvazione comporti variante allo strumento urbanistico ai sensi dell’art. 1 L. 1/1978.
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L’inserimento di un’opera pubblica nel programma triennale incide sull’interesse dei privati per il fatto che l’opera contestata fino al momento della sua inclusione nell’atto di programmazione in parola non era realizzabile mentre, successivamente a tale determinazione, ne è doverosa la realizzazione nel triennio secondo l’ordine di priorità del programma approvato e con le disponibilità finanziarie specificamente apprestate.
Si è quindi osservato che, con l’inserimento dell’opera nel programma di opere pubbliche, la valutazione decisiva sulla utilità e fattibilità della medesima da parte dell’ente locale vi è stata e la comunità locale deve prendere atto che una certa quantità di risorse finanziarie, personali ed organizzative dell’amministrazione locale è destinata a questa priorità, anziché ad altre opere ed interventi pur richiesti ma cionondimeno esclusi dalla programmazione e quindi, almeno temporaneamente, dalla realizzazione.
Non si tratta, quindi, di un’attività meramente interna degli organi comunali di programmazione finanziaria e di razionalizzazione della spesa, ma invece di un atto fondamentale di individuazione degli obiettivi concreti da raggiungere da parte degli organi di governo dell’ente, cui corrisponde la facoltà di verifica dei cittadini, singoli o associati, sulla congruità e correttezza delle scelte effettuate.

Secondo l’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.04. 2006 n. 2293; TAR Emilia Romagna, Parma, 17.06.2008 n. 314; TAR Lazio, Sez. II, 13.02.2006 n. 1060), l’approvazione di progetti di opere pubbliche rientra nella competenza della Giunta Comunale, organo a competenza generale e residuale, anche quando tale approvazione comporti variante allo strumento urbanistico ai sensi dell’art. 1 L. 1/1978 (peraltro, si rammenti che, in base alla disposizione da ultimo citata nonché all’art. 12 D.P.R. 08.06.2001 n. 327, all’approvazione dei progetti di opere pubbliche consegue ex lege la dichiarazione di pubblica utilità delle opere stesse, non occorrendo all’uopo una particolare motivazione: cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.12.2011 n. 6468).
Tale conclusione, già supportata dall’art. 35 L. 142/1990 si fonda anche sull’art. 48 D.Lgs. 267/2000, in base al quale la Giunta compie tutti gli atti, rientranti, ai sensi dell'art. 107, commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al Consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del Sindaco o del Presidente della Provincia o degli organi di decentramento.
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Sul punto, giova rammentare che, con la richiamata deliberazione giuntale n. 34/2002 l’amministrazione ha modificato il programma triennale delle opere pubbliche inserendovi il progetto di ampliamento cimiteriale. Orbene, secondo l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato (Sez. V, 23.10.2002 n. 5824) e da questa Sezione (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 16.12.2011 n. 5876), l’inserimento di un’opera pubblica nel programma triennale incide sull’interesse dei privati per il fatto che l’opera contestata fino al momento della sua inclusione nell’atto di programmazione in parola non era realizzabile mentre, successivamente a tale determinazione, ne è doverosa la realizzazione nel triennio secondo l’ordine di priorità del programma approvato e con le disponibilità finanziarie specificamente apprestate.
Si è quindi osservato che, con l’inserimento dell’opera nel programma di opere pubbliche, la valutazione decisiva sulla utilità e fattibilità della medesima da parte dell’ente locale vi è stata e la comunità locale deve prendere atto che una certa quantità di risorse finanziarie, personali ed organizzative dell’amministrazione locale è destinata a questa priorità, anziché ad altre opere ed interventi pur richiesti ma cionondimeno esclusi dalla programmazione e quindi, almeno temporaneamente, dalla realizzazione.
Non si tratta, quindi, di un’attività meramente interna degli organi comunali di programmazione finanziaria e di razionalizzazione della spesa, ma invece di un atto fondamentale di individuazione degli obiettivi concreti da raggiungere da parte degli organi di governo dell’ente, cui corrisponde la facoltà di verifica dei cittadini, singoli o associati, sulla congruità e correttezza delle scelte effettuate
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE: L'adozione del decreto di occupazione temporanea e d'urgenza, emanato dopo l'entrata in vigore dell'art. 45, D.Lgs. 31.03.1998 n. 80, è di competenza del funzionario dirigente dell'Ufficio tecnico dell'amministrazione procedente, atteso che detta norma attribuisce alla dirigenza la competenza ad adottare tutti gli atti di gestione, inclusi quelli che impegnano l'amministrazione verso l'esterno.
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La mancata determinazione della indennità di esproprio (così come la mancata corresponsione effettiva) non costituisce requisito di validità o di legittimità del decreto di esproprio e non può costituire in alcun modo vizio invalidante la procedura espropriativa.

Il provvedimento è stato legittimamente adottato dal Dirigente, con conseguente infondatezza della censura di incompetenza: difatti, l'adozione del decreto di occupazione temporanea e d'urgenza, emanato dopo l'entrata in vigore dell'art. 45, D.Lgs. 31.03.1998 n. 80, è di competenza del funzionario dirigente dell'Ufficio tecnico dell'amministrazione procedente, atteso che detta norma attribuisce alla dirigenza la competenza ad adottare tutti gli atti di gestione, inclusi quelli che impegnano l'amministrazione verso l'esterno (Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.11.2005 n. 6259; TAR Campania, Salerno, 30.06.2006 n. 897).
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Infine, la mancata determinazione della indennità di esproprio (così come la mancata corresponsione effettiva) non costituisce requisito di validità o di legittimità del decreto di esproprio e non può costituire in alcun modo vizio invalidante la procedura espropriativa (Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.06.2010 n. 4176).
Peraltro, dalla documentazione versata agli atti di causa dalla intimata amministrazione emerge che la contestazione è infondata in fatto in quanto, con nota prot. 13938 del 23.10.2007 (indirizzata anche al ricorrente) il Comune ha determinato tale indennità
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La valutazione di congruità di un'offerta anomala costituisce espressione paradigmatica di un potere tecnico-discrezionale dell'amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salva l'ipotesi in cui le valutazioni siano inficiate sotto i profili della manifesta illogicità ed irragionevolezza, carenza motivazionale ovvero del travisamento dei fatti.
Pertanto, il sindacato del giudice amministrativo in detta materia si compendia nell’accertare se il potere dell’amministrazione appaltante sia stato esercitato con l’utilizzazione delle regole tecniche conformi a criteri di logicità, congruità, ragionevolezza e corretto apprezzamento dei fatti e dunque se le valutazioni tecniche operate siano attendibili, non potendo invece consistere nella integrale ripetizione delle operazioni valutative compiute dall’amministrazione, ciò comportando un’inammissibile violazione del principio di separazione dei poteri.
Inoltre, in ogni gara pubblica l'attendibilità dell'offerta va valutata nella sua globalità. Difatti, l’art. 88, settimo comma, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, nello stabilire che, all'esito del procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta, la stazione appaltante dichiara l'eventuale esclusione dell'offerta che risulta, “nel suo complesso”, inaffidabile, va inteso nel senso che la valutazione dell'amministrazione deve verificare l'affidabilità globale dell'offerta mediante un giudizio sintetico sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme.
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Quanto alla possibilità di rimodulare le giustificazioni economiche, la giurisprudenza ha affermato che, ferma restando la immodificabilità dell'offerta nel suo complessivo importo economico, il sub-procedimento di verifica dell'anomalia non è vincolato a formalità, non si può escludere la possibilità che nel corso di tale sub-procedimento sia modificata la prospettazione delle giustificazioni relative alle varie componenti del prezzo.
Posto che l’obiettivo della verifica di anomalia è quello di stabilire se l'offerta sia, nel suo complesso, e nel suo importo originario, affidabile o meno, è parimenti ammissibile che, fermo restando il principio che in un appalto l'offerta, una volta presentata, non è suscettibile di modificazione (pena la violazione della par condicio tra i concorrenti), il giudizio di anomalia deve essere complessivo e deve tenere conto di tutti gli elementi, sia quelli che militano a favore, sia quelli che militano contro l'attendibilità dell'offerta nel suo insieme.
Deve di conseguenza ritenersi possibile che, a fronte di determinate voci di prezzo giudicate eccessivamente basse e dunque inattendibili, l'impresa dimostri che per converso altre voci di prezzo sono state inizialmente sopravvalutate, e che in relazione alle stesse è in grado di conseguire un concreto, effettivo, documentato e credibile risparmio, che compensa il maggior costo di altre voci.
Tuttavia, ciò non legittima una generalizzata possibilità di aggiustare, in sede di giustificazioni, le voci di costo cambiandole ad libitum.
Dalla giurisprudenza in materia si desume che ciò che si può consentire è:
a) o una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo (rispetto alle giustificazioni già fornite), lasciando le stesse invariate;
b) oppure un aggiustamento di singole voci di costo, che trovi il suo fondamento o in sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo, o in altre ragioni plausibili.
Insomma il sub-procedimento di giustificazione dell'offerta anomala non è volto a consentire aggiustamenti dell'offerta per così dire in itinere ma mira, al contrario, a verificare la serietà di una offerta consapevolmente già formulata ed immutabile
Quello che non si può invece consentire è che, come nel caso in esame, in sede di giustificazioni vengano apoditticamente rimodulate le voci di costo senza alcuna motivazione ed solo scopo di "far quadrare i conti" ossia di assicurarsi che il prezzo complessivo offerto resti immutato e si superino le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcune voci di costo.

Il Collegio rileva preliminarmente che, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, la valutazione di congruità di un'offerta anomala costituisce espressione paradigmatica di un potere tecnico-discrezionale dell'amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salva l'ipotesi in cui le valutazioni siano inficiate sotto i profili della manifesta illogicità ed irragionevolezza, carenza motivazionale ovvero del travisamento dei fatti (Consiglio di Stato, Sez. VI, 25.09.2007 n. 4933; Sez. V, 20.10.2004 n. 6877; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 08.10.2009 n. 5207; 21.03.2006 n. 3108).
Pertanto, il sindacato del giudice amministrativo in detta materia si compendia nell’accertare se il potere dell’amministrazione appaltante sia stato esercitato con l’utilizzazione delle regole tecniche conformi a criteri di logicità, congruità, ragionevolezza e corretto apprezzamento dei fatti e dunque se le valutazioni tecniche operate siano attendibili, non potendo invece consistere nella integrale ripetizione delle operazioni valutative compiute dall’amministrazione, ciò comportando un’inammissibile violazione del principio di separazione dei poteri (Consiglio di Stato, Sez. V, 12.06.2009 n. 3769; 18.09.2008 n. 4494).
Inoltre, in ogni gara pubblica l'attendibilità dell'offerta va valutata nella sua globalità (Consiglio di Stato, Sez. V, 18.09.2009 n. 5589; 12.06.2009 n. 3762). Difatti, l’art. 88, settimo comma, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, nello stabilire che, all'esito del procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta, la stazione appaltante dichiara l'eventuale esclusione dell'offerta che risulta, “nel suo complesso”, inaffidabile, va inteso nel senso che la valutazione dell'amministrazione deve verificare l'affidabilità globale dell'offerta mediante un giudizio sintetico sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme (TAR Toscana, Sez. I, 26.03.2009 n. 507).
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Quanto poi alla possibilità di rimodulare le giustificazioni economiche, la giurisprudenza ha affermato che, ferma restando la immodificabilità dell'offerta nel suo complessivo importo economico, il sub-procedimento di verifica dell'anomalia non è vincolato a formalità, non si può escludere la possibilità che nel corso di tale sub-procedimento sia modificata la prospettazione delle giustificazioni relative alle varie componenti del prezzo (Consiglio di Stato, Sez. VI, 26.04.2005 n. 1889).
Posto che l’obiettivo della verifica di anomalia è quello di stabilire se l'offerta sia, nel suo complesso, e nel suo importo originario, affidabile o meno, è parimenti ammissibile che, fermo restando il principio che in un appalto l'offerta, una volta presentata, non è suscettibile di modificazione (pena la violazione della par condicio tra i concorrenti), il giudizio di anomalia deve essere complessivo e deve tenere conto di tutti gli elementi, sia quelli che militano a favore, sia quelli che militano contro l'attendibilità dell'offerta nel suo insieme.
Deve di conseguenza ritenersi possibile che, a fronte di determinate voci di prezzo giudicate eccessivamente basse e dunque inattendibili, l'impresa dimostri che per converso altre voci di prezzo sono state inizialmente sopravvalutate, e che in relazione alle stesse è in grado di conseguire un concreto, effettivo, documentato e credibile risparmio, che compensa il maggior costo di altre voci (Consiglio di Stato, Sez. VI, 21.05.2009 n. 3146; 19.05.2000 n. 2908).
Tuttavia, come rilevato dal Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. V, 12.03.2009 n. 1451) e da questo TAR (Sez. I, 18.03.2011 n. 1498) ciò non legittima una generalizzata possibilità di aggiustare, in sede di giustificazioni, le voci di costo cambiandole ad libitum.
Dalla giurisprudenza in materia si desume che ciò che si può consentire è:
a) o una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo (rispetto alle giustificazioni già fornite), lasciando le stesse invariate;
b) oppure un aggiustamento di singole voci di costo, che trovi il suo fondamento o in sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo, o in altre ragioni plausibili.
Insomma il sub-procedimento di giustificazione dell'offerta anomala non è volto a consentire aggiustamenti dell'offerta per così dire in itinere ma mira, al contrario, a verificare la serietà di una offerta consapevolmente già formulata ed immutabile
Quello che non si può invece consentire è che, come nel caso in esame, in sede di giustificazioni vengano apoditticamente rimodulate le voci di costo senza alcuna motivazione ed solo scopo di "far quadrare i conti" ossia di assicurarsi che il prezzo complessivo offerto resti immutato e si superino le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcune voci di costo (Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.06.2010 n. 3759)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’atto demolitorio è congruamente motivato con riguardo alla descrizione dell’illecito e alla conseguente sanzione edilizia ex art. 31 D.P.R. 380/2001. Difatti, il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità dal titolo edilizio o in assenza del medesimo, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
Sotto distinto profilo, in disparte l’assenza di qualsivoglia elemento probatorio in ordine alla non praticabilità della riduzione in pristino ex art. 34 D.P.R. 380/2001, si è fuori dall’ambito della rubricata disposizione la quale, ai sensi del comma 2-bis (aggiunto dall'art. 1, comma 1, lett. ‘i’, D.Lgs. 27.12.2002 n. 301) trova applicazione anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, terzo comma, del D.P.R. 380/2001 nei quali la d.i.a. si pone quale titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire (c.d. “superdia”) tra i quali rientrano gli interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10, primo comma, lettera c), gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche.
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In caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, trattandosi di atto dovuto, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
Quanto alla mancata indicazione delle aree da acquisire in caso di inottemperanza, giova rammentare che a giustificare il provvedimento di ingiunzione a demolire è necessaria e sufficiente un'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento mentre la misura dell'area da acquisire deve reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorché sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del T.U. n. 380/2001, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente ai sensi del terzo comma.

Invero, l’atto demolitorio è congruamente motivato con riguardo alla descrizione dell’illecito (opera realizzata in difformità alla d.i.a. e in difetto del permesso di costruire) e alla conseguente sanzione edilizia ex art. 31 D.P.R. 380/2001. Difatti, il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito soltanto dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità dal titolo edilizio o in assenza del medesimo, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.04.2004 n. 2529; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 02.12.2004 n. 18085).
Sotto distinto profilo, in disparte l’assenza di qualsivoglia elemento probatorio in ordine alla non praticabilità della riduzione in pristino ex art. 34 D.P.R. 380/2001, si è fuori dall’ambito della rubricata disposizione la quale, ai sensi del comma 2-bis (aggiunto dall'art. 1, comma 1, lett. ‘i’, D.Lgs. 27.12.2002 n. 301) trova applicazione anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, terzo comma, del D.P.R. 380/2001 nei quali la d.i.a. si pone quale titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire (c.d. “superdia”) tra i quali rientrano gli interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10, primo comma, lettera c), gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche.
Non hanno pregio le ulteriori censure articolate con il quinto e sesto motivo di gravame con cui l’esponente obietta che il Comune non si è pronunciato sulle osservazioni presentate dal ricorrente in seguito alla ricezione della comunicazione di avvio del procedimento volto alla adozione dell’ingiunzione demolitoria ed assume la illegittimità dell’ordinanza demolitoria siccome carente circa la indicazione dei beni e delle pertinenze da acquisirsi al patrimonio dell’ente in caso di inosservanza.
In senso contrario, deve evidenziarsi che il Comune ha rispettato le garanzie partecipative sia nell’ambito del procedimento sanzionatorio che in quello concernente la domanda di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 dando conto, come si è visto, delle ragioni di non assentibilità dell’intervento. Ai sensi dell'art. 10 L. 241/1990 le memorie ed osservazioni prodotte dal privato nel corso del procedimento vanno effettivamente valutate dall'amministrazione, ed è necessario che di tale valutazione resti traccia nella motivazione del provvedimento finale, ma ciò non comporta la necessità di confutare puntualmente tutte le argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente una motivazione sintetica al fine di giustificarne il rigetto.
Inoltre, vale richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui in caso di ordine di demolizione delle opere abusive non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, trattandosi di atto dovuto, sicché non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 29.01.2009 n. 5001).
Quanto alla mancata indicazione delle aree da acquisire in caso di inottemperanza, giova rammentare che a giustificare il provvedimento di ingiunzione a demolire è necessaria e sufficiente un'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento (TAR Campania Napoli, Sez. VII, 14.01.2011 n. 164; Sez. VI, 09.11.2009 n. 7053; Sez. IV, 26.06.2009 n. 3530) mentre la misura dell'area da acquisire deve reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorché sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del T.U. n. 380/2001, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente ai sensi del terzo comma (TAR Lombardia, Milano, 26.01.2010 n. 175) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La regola pretoria della sanatoria giurisprudenziale, in base alla quale il beneficio può essere concesso anche a seguito di conformità sopraggiunta dell'intervento divenuto permissibile al momento della proposizione della nuova istanza dell'interessato, non può trovare ingresso nel nostro ordinamento.
Difatti, predicarne l'operatività, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli artt. 24, 97, 101 e 113 Cost. oltre che dall'art. 1, primo comma, della L. 241/1990 (secondo cui "l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge") sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre, si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio.

Deve essere confutato il presupposto logico–giuridico sul quale si fonda il ragionamento del ricorrente secondo cui, come si è visto, sarebbe sufficiente la conformità agli strumenti urbanistici vigenti al momento della presentazione dell’istanza ex art. 36 D.P.R. 380/2001 anche se non al tempo della realizzazione del bene (c.d. “sanatoria giurisprudenziale”).
Invero, come già statuito dalla Sezione (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 10.09.2010 n. 17398), la regola pretoria della sanatoria giurisprudenziale, in base alla quale il beneficio può essere concesso anche a seguito di conformità sopraggiunta dell'intervento divenuto permissibile al momento della proposizione della nuova istanza dell'interessato, non può trovare ingresso nel nostro ordinamento.
Difatti, predicarne l'operatività, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli artt. 24, 97, 101 e 113 Cost. oltre che dall'art. 1, primo comma, della L. 241/1990 (secondo cui "l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge") sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre, si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con l’art. 9, secondo comma, del D.P.R. 380/2001 [secondo cui, nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione, sono consentiti gli interventi indicati all’art. 3, lettere ‘a’, ‘b’ e ‘c’ (manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo) e quelli di cui alla lettera ‘d’ del primo comma dell’art. 3 del Testo Unico (interventi di ristrutturazione edilizia)]  il legislatore delegato:
I) ha enunciato il principio della indefettibilità del piano attuativo prescritto dallo strumento generale;
II) ha rimarcato la rilevanza nel sistema del piano attuativo, in quanto strumento indispensabile per l'affermazione dell'ordinato assetto del territorio;
III) ha precisato che, tranne il caso del piccolo lotto intercluso, il prescritto piano attuativo non ammette equipollenti, nel senso che in sede amministrativa -per l'esame di una istanza di permesso- o in quella giurisdizionale non possono essere effettuate le indagini spettanti all'autorità competente ad approvare il medesimo piano (sulla base del relativo procedimento), in assenza delle quali il legislatore considera lesa l'assoluta esigenza che vi sia un razionale assetto del territorio.

Con il nono e decimo motivo di ricorso il Sig. D’Alessandro impugna in parte qua il P.R.G. che imporrebbe sul fondo de quo un vincolo di inedificabilità preordinato all’esproprio da reputarsi illegittimo ai sensi dell’art. 38 L.Reg. 16/2004 per decorso del termine quinquennale dalla data di approvazione dello strumento urbanistico generale.
Inoltre, lamenta l’inerzia del Comune nell’approvazione del piano particolareggiato (tenuto conto che il lotto del richiedente non avrebbe ancora esaurito la propria potenzialità edificatoria) e sollecita l’intervento sostitutivo della Provincia e, in subordine, della Regione (competenti ad intervenire in via sostitutiva nei casi di cui all’art. 38 della L.Reg. 16/2004 in base al quale “In caso di mancata reiterazione dei vincoli urbanistici, il comune adotta la nuova disciplina urbanistica delle aree interessate mediante l'adozione di una variante al Puc, entro il termine di tre mesi dalla scadenza dei vincoli. Decorso tale termine, si procede ai sensi dell'articolo 39”).
Il costrutto logico–giuridico non appare complessivamente condivisibile in quanto si fonda su un erroneo presupposto, costituito dalla qualificazione giuridica della prescrizione di P.R.G. come vincolo di inedificabilità di natura espropriativa.
Viceversa, il P.R.G. prevede che la zona residenziale, confinante con il centro storico, è considerata satura in termini di occupazione dei lotti, in quanto ha esaurito qualsiasi potenzialità edificatoria: in essa è possibile procedere alla ristrutturazione dell’edilizia esistente. Inoltre, per l’attuazione della zona è richiesto l’intervento urbanistico preventivo (piano particolareggiato) non ancora redatto e, nelle more della redazione e definitiva approvazione del piano, sono assentibili interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, sempreché non vi siano aumenti di superficie, di volumi, di altezze dei fabbricati.
Orbene, dall’esame della disposizione non pare dubbio che il vincolo suddetto, riferito in via generale all'intera categoria delle aree residenziali contigue al centro storico, non è preordinato all'espropriazione, onde non sono pertinenti le argomentazioni ed i richiami alla legislazione regionale (art. 38 e 39 L.Reg. 16/2004) riferiti a tale tipologia di vincolo.
Viceversa, trattasi di espressione di potere conformativo funzionale alla conservazione, evitando ulteriori addensamenti volumetrici in zona già satura, dell'assetto tradizionale e del valore architettonico e ambientale del centro storico nel suo complesso: come tale il vincolo, non è soggetto a decadenza, con conseguente infondatezza dei rilievi sviluppati nel ricorso.
Si aggiunga che la previsione contenuta nel P.R.G. appare anche sostanzialmente conforme all’art. 9, secondo comma, del D.P.R. 380/2001 secondo cui, nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione, sono consentiti gli interventi indicati all’art. 3, lettere ‘a’, ‘b’ e ‘c’ (manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo) e quelli di cui alla lettera ‘d’ del primo comma dell’art. 3 del Testo Unico (interventi di ristrutturazione edilizia) mentre, al contrario, tra gli interventi ammessi non rientra la realizzazione di nuovi edifici.
Si è ritenuto, con argomentazioni che possono essere calate anche nel caso in esame (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 25.02.2011 n. 1178) che, con tale disposizione, il legislatore delegato:
I) ha enunciato il principio della indefettibilità del piano attuativo prescritto dallo strumento generale;
II) ha rimarcato la rilevanza nel sistema del piano attuativo, in quanto strumento indispensabile per l'affermazione dell'ordinato assetto del territorio (Consiglio di Stato, Sez. V, 03.03.2004 n. 1013; Sez. IV, 25.08.2003 n. 4812);
III) ha precisato che, tranne il caso del piccolo lotto intercluso, il prescritto piano attuativo non ammette equipollenti (Consiglio Sez. IV, 08.06.2007 n. 3007), nel senso che in sede amministrativa -per l'esame di una istanza di permesso- o in quella giurisdizionale non possono essere effettuate le indagini spettanti all'autorità competente ad approvare il medesimo piano (sulla base del relativo procedimento), in assenza delle quali il legislatore considera lesa l'assoluta esigenza che vi sia un razionale assetto del territorio
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di un intervento suscettibile di trasformare ed ampliare l’organismo edilizio preesistente, legittimamente il Comune ha opposto al ricorrente, quale conduttore in locazione dell’immobile in oggetto, la mancanza del previo consenso del proprietario, in assenza di alcuna preventiva autorizzazione concessa in tal senso nel contratto di locazione o in altra documentazione.
La legittimazione del titolare di un diritto obbligatorio al rilascio del permesso di costruire è riconosciuta in giurisprudenza solo quando, per effetto del dedotto rapporto obbligatorio, l’interessato sia autorizzato in base ad un contratto o abbia documentato il previo consenso da parte del proprietario.

In presenza di un intervento suscettibile di trasformare ed ampliare l’organismo edilizio preesistente, legittimamente il Comune ha opposto al ricorrente, quale conduttore in locazione dell’immobile in oggetto, la mancanza del previo consenso del proprietario, in assenza di alcuna preventiva autorizzazione concessa in tal senso nel contratto di locazione del 29.08.2007 allegato in atti, o in altra documentazione.
La legittimazione del titolare di un diritto obbligatorio al rilascio del permesso di costruire è riconosciuta in giurisprudenza solo quando, per effetto del dedotto rapporto obbligatorio, l’interessato sia autorizzato in base ad un contratto o abbia documentato il previo consenso da parte del proprietario (Cons. Stato, sez. IV, n. 3027/2007; id, n. 3253/2002; id., sez. V, n. 1507/2001; id., n. 1227/1997; id. n.1200/1994; id., n. 965/1993; Tar Parma, n. 338/2008; Tar Napoli, n. 8243/2006; Cons. Stato, sez. V, n. 2882/2001; Cons. Stato, sez.IV, n. 1057/2011; Cons. Stato, sez. VI, n. 4557/2010) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’aggiudicazione provvisoria, in quanto atto endoprocedimentale, determina soltanto una mera aspettativa di fatto alla conclusione del procedimento e non già una posizione giuridica qualificata che, viceversa, può derivare solo dall’aggiudicazione definitiva.
In generale, il potere di revoca degli atti di gara, già previsto dalla disciplina di contabilità generale dello Stato che consente il diniego di approvazione per motivi di interesse pubblico (art. 113 del R.D. 23.05.1924 n. 827), trova il proprio fondamento nel principio generale dell'autotutela della pubblica amministrazione (espressamente previsto, nel settore degli appalti pubblici, dall’art. 11, nono comma, del D.Lgs. 163/2006), che rappresenta una delle manifestazioni tipiche del potere amministrativo, direttamente connesso ai criteri costituzionali di imparzialità e buon andamento della funzione pubblica.
Infatti, l'art. 21-quinquies L. 07.08.1990 n. 241 consente un ripensamento da parte della amministrazione laddove questa ritenga di operare motivatamente una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario. La possibilità che in materia di appalti pubblici la stazione appaltante possa mutare avviso, in funzione del pubblico interesse, deve essere ricondotta all'ordinarietà dell'esercizio stesso del potere esperibile anche dopo l'avvio della procedura di scelta del contraente per ragioni di pubblico interesse preesistenti o sopravvenute o per vizi di merito e di legittimità.
La revoca della gara pubblica può dunque ritenersi legittimamente disposta dalla stazione appaltante in presenza di documentate e obiettive esigenze di interesse pubblico, che siano opportunamente e debitamente esplicitate, che rendano evidente l'inopportunità o comunque l'inutilità della prosecuzione della gara stessa, oppure quando, anche in assenza di ragioni sopravvenute, la revoca sia la risultante di una rinnovata e differente successiva valutazione dei medesimi presupposti.
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La valutazione dell'interesse pubblico nella determinazione di revoca consiste in un apprezzamento discrezionale non sindacabile nel merito dal giudice amministrativo, salvo che non risulti viziato sul piano della legittimità per manifesta ingiustizia ed irragionevolezza
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- quanto alla tutelabilità della pretesa ai fini risarcitori, in presenza di un legittimo atto di autotutela, costituisce ius receptum, il principio secondo cui la legittimità dell'atto di revoca dell'aggiudicazione di una gara di appalto non elimina il profilo relativo alla valutazione del comportamento dell'amministrazione, con riguardo al rispetto dei canoni di buona fede e correttezza, nell'ambito del procedimento di evidenza pubblica preordinato alla selezione del contraente;
- la responsabilità precontrattuale per la revoca della gara può ritenersi configurabile quando il fine pubblico venga attuato attraverso un comportamento obiettivamente lesivo dei doveri di lealtà, sicché anche dalla revoca legittima degli atti di gara può scaturire l'obbligo di risarcire il danno, nel caso di affidamento suscitato da un comportamento contrario ai canoni comportamentali legalmente sanciti;
- a ben vedere gli atti che compongono la fase procedimentale dell'evidenza pubblica in quanto prodromici alla stipula del contratto sono configurabili anche quali atti di trattativa e formazione negoziale rilevanti ai sensi dell'art. 1337 cod. civ.;
- perché possa sussistere una tale responsabilità per “culpa in contrahendo” a carico della pubblica amministrazione occorre che tra le parti siano intercorse trattative per la conclusione di un accordo giunte ad uno stadio tale da giustificare oggettivamente l'affidamento nella conclusione del contratto e che una delle parti abbia interrotto le trattative in violazione delle regole di correttezza e di buona fede di cui all'art. 1337 cod. civ. eludendo così le ragionevoli aspettative dell'altra, la quale, avendo confidato nella conclusione finale del contratto, sia stata indotta a sostenere spese o a rinunciare ad occasioni più favorevoli.
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Non è configurabile la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante che si sia motivatamente e tempestivamente avvalsa della facoltà, prevista nel bando di gara, di non procedere all’aggiudicazione definitiva dell’appalto per ragioni di pubblico interesse comportanti variazioni agli obiettivi perseguiti; in tal caso, infatti, all’amministrazione appaltante non è contestabile alcun comportamento lesivo dell’affidamento dei partecipanti.

Giova rammentare che, nel caso in esame, si controverte del ritiro dell’aggiudicazione provvisoria che, in quanto atto endoprocedimentale, determina soltanto una mera aspettativa di fatto alla conclusione del procedimento e non già una posizione giuridica qualificata che, viceversa, può derivare solo dall’aggiudicazione definitiva (Consiglio di Stato, Sez. V, 09.04.2010 n. 1997 e 12.02.2010 n. 743).
In generale, il potere di revoca degli atti di gara, già previsto dalla disciplina di contabilità generale dello Stato che consente il diniego di approvazione per motivi di interesse pubblico (art. 113 del R.D. 23.05.1924 n. 827), trova il proprio fondamento nel principio generale dell'autotutela della pubblica amministrazione (espressamente previsto, nel settore degli appalti pubblici, dall’art. 11, nono comma, del D.Lgs. 163/2006), che rappresenta una delle manifestazioni tipiche del potere amministrativo, direttamente connesso ai criteri costituzionali di imparzialità e buon andamento della funzione pubblica (Consiglio di Stato, Sez. V, 09.04.2010 n. 1997; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.05.2010 n. 2263).
Infatti, l'art. 21-quinquies L. 07.08.1990 n. 241 consente un ripensamento da parte della amministrazione laddove questa ritenga di operare motivatamente una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario. La possibilità che in materia di appalti pubblici la stazione appaltante possa mutare avviso, in funzione del pubblico interesse, deve essere ricondotta all'ordinarietà dell'esercizio stesso del potere esperibile anche dopo l'avvio della procedura di scelta del contraente per ragioni di pubblico interesse preesistenti o sopravvenute o per vizi di merito e di legittimità.
La revoca della gara pubblica può dunque ritenersi legittimamente disposta dalla stazione appaltante in presenza di documentate e obiettive esigenze di interesse pubblico (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 11.05.2009 n. 2882), che siano opportunamente e debitamente esplicitate, che rendano evidente l'inopportunità o comunque l'inutilità della prosecuzione della gara stessa, oppure quando, anche in assenza di ragioni sopravvenute, la revoca sia la risultante di una rinnovata e differente successiva valutazione dei medesimi presupposti (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.04.2012 n. 1646; TAR Trentino Alto Adige, Trento, 30.07.2009 n. 228).
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E' noto che la valutazione dell'interesse pubblico nella determinazione di revoca consiste in un apprezzamento discrezionale non sindacabile nel merito dal giudice amministrativo, salvo che non risulti viziato sul piano della legittimità per manifesta ingiustizia ed irragionevolezza (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.04.2012 n. 1646; TAR Campania, Napoli, Sez. I , 12.04.2010 n. 1897), circostanze che non è dato ravvisare nella fattispecie per cui è causa.
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La Sezione ha rilevato quanto segue (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.04.2012 n. 1646):
- quanto alla tutelabilità della pretesa ai fini risarcitori, in presenza di un legittimo atto di autotutela, costituisce ius receptum, il principio secondo cui la legittimità dell'atto di revoca dell'aggiudicazione di una gara di appalto non elimina il profilo relativo alla valutazione del comportamento dell'amministrazione, con riguardo al rispetto dei canoni di buona fede e correttezza, nell'ambito del procedimento di evidenza pubblica preordinato alla selezione del contraente;
- la responsabilità precontrattuale per la revoca della gara può ritenersi configurabile quando il fine pubblico venga attuato attraverso un comportamento obiettivamente lesivo dei doveri di lealtà, sicché anche dalla revoca legittima degli atti di gara può scaturire l'obbligo di risarcire il danno, nel caso di affidamento suscitato da un comportamento contrario ai canoni comportamentali legalmente sanciti (cfr. anche TAR Campania, Napoli, Sez. I, 08.02.2006 n. 1794; TAR Puglia, Bari, Sez. I, 14.09.2010 n. 3459 e 12.01.2011 n. 20);
- a ben vedere gli atti che compongono la fase procedimentale dell'evidenza pubblica in quanto prodromici alla stipula del contratto sono configurabili anche quali atti di trattativa e formazione negoziale rilevanti ai sensi dell'art. 1337 cod. civ.;
- perché possa sussistere una tale responsabilità per “culpa in contrahendo” a carico della pubblica amministrazione occorre che tra le parti siano intercorse trattative per la conclusione di un accordo giunte ad uno stadio tale da giustificare oggettivamente l'affidamento nella conclusione del contratto e che una delle parti abbia interrotto le trattative in violazione delle regole di correttezza e di buona fede di cui all'art. 1337 cod. civ. eludendo così le ragionevoli aspettative dell'altra, la quale, avendo confidato nella conclusione finale del contratto, sia stata indotta a sostenere spese o a rinunciare ad occasioni più favorevoli.
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E' utile il richiamo a quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui non è configurabile la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante che si sia motivatamente e tempestivamente avvalsa della facoltà, prevista nel bando di gara, di non procedere all’aggiudicazione definitiva dell’appalto per ragioni di pubblico interesse comportanti variazioni agli obiettivi perseguiti; in tal caso, infatti, all’amministrazione appaltante non è contestabile alcun comportamento lesivo dell’affidamento dei partecipanti (Consiglio di Stato, Sez. V, 07.09.2009 n. 5245; 13.11.2002 n. 6291; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.05.2010 n. 2263)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3147 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata urbanizzata.
Di conseguenza, non è assiomatico che uno stato di urbanizzazione, anche avanzato, possa consentire di prescindere dalla previa approvazione di un piano di lottizzazione o un diverso strumento attuativo al fine del rilascio del permesso di costruire.

Secondo orientamento giurisprudenziale, anche di questa Sezione (TAR Campania, Napoli VIII Sezione, 05.01.2011 n. 5), l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata urbanizzata (Consiglio di Stato VI Sezione, 29.02.2012 n. 1177; Consiglio di Stato IV Sezione, 01.10.2007, n. 5043 e 15.05.2002, n. 2592; Consiglio di Stato V Sezione 01.12.2003, n. 7799 e 06.10.2000, n. 5326).
Di conseguenza, non è assiomatico che uno stato di urbanizzazione, anche avanzato, possa consentire di prescindere dalla previa approvazione di un piano di lottizzazione o un diverso strumento attuativo al fine del rilascio del permesso di costruire.
Va poi rilevato come la tesi della ricorrente non sia condivisibile nemmeno in punto di fatto, dal momento che non risulta dimostrata la sussistenza di un completo stato di urbanizzazione della zona di ubicazione dell’edificio oggetto dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.07.2012 n. 3140 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA-PRIVATA: ENERGIA ELETTRICA - INQUINAMENTO.
Il principio di precauzione di cui all'art. 3 Codice dell'Ambiente presuppone la deduzione di validi elementi idonei a contrastare ragionevolmente l'insediamento energetico, in quanto diversamente opinando si verrebbe a paralizzare ogni utile iniziativa, quale un impianto per la produzione elettrica con fonti rinnovabili, costituente un obiettivo comunitario altamente prioritario ex art. 6 Dir. CE n. 2001/77/CE ed art. 13 Dir. CE n. 2009/28/CE.
Ai fini della costruzione e dell'esercizio di un impianto di produzione di energia elettrica alimentato da fonti rinnovabili (specificamente oli vegetali in motori endotermici) la valutazione di incidenza ambientale non è necessaria nell'ipotesi in cui l'intervento non risulti essere ubicato all'interno di un Sito d'Interesse Comunitario (cosiddetto SIC), bensì unicamente nelle vicinanze all'esterno del sito (nella specie circa metri 200 dallo stesso) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.07.2012 n. 325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Nella materia dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e l’Amministrazione espropriante abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto –devolute come tali alla giurisdizione ordinaria, sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione -anche ai fini complementari della tutela risarcitoria- di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi, purché vi sia un collegamento all’esercizio della pubblica funzione.
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L’art. 53 del DPR n. 327/2001, per come ispirato al principio di concentrazione dei giudizi, ha attribuito rilevanza decisiva ai provvedimenti che impongono il vincolo preordinato all’esproprio e a quelli che dispongono la dichiarazione di pubblica utilità: una volta attivato il procedimento caratterizzato dall’esercizio del pubblico potere, sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva in relazione a tutti i conseguenti atti e comportamenti e ad ogni controversia che sorga su di essi, anche quando trattasi di procedimenti espropriativi diretti alla esecuzione dei lavori per la realizzazione o la modificazione di un’opera pubblica e di atti strumentali alla realizzazione di detta finalità pubblica.
Si è dunque in presenza di una fattispecie riconducibile alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per come derivante da esercizio di un pubblico potere, anche nel caso in cui si lamenti formalmente l’occupazione di aree non comprese nell’ambito della procedura espropriativa, ma in realtà si abbia riguardo al decreto di esproprio, cioè alla determinazione del suo effettivo contenuto, per la dedotta occupazione di una superficie superiore a quella presa in considerazione da una precedente ordinanza di occupazione d’urgenza, poiché ai fini della liceità o meno va verificato lo specifico contenuto degli atti e degli accordi posti in essere nel corso del procedimento ablatorio.
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Il comportamento tenuto dalla Amministrazione, la quale abbia emanato una valida dichiarazione di pubblica utilità ed un legittimo decreto di occupazione d'urgenza senza tuttavia emanare il provvedimento definitivo di esproprio nei termini previsti dalla legge, deve essere, poi, qualificato come "illecito permanente", nella cui vigenza non decorre la prescrizione, ciò perché in questo caso manca un effetto traslativo della proprietà, stante la mancanza del provvedimento di esproprio, connesso alla mera irrevocabile modifica dei luoghi.
Per questo motivo, salva restando la possibilità di optare per le differenti forme "risarcitorie" che l'ordinamento appresta (restituzione del bene ovvero risarcimento del danno per equivalente), il soggetto privato del possesso può agire nei confronti dell'ente pubblico senza dover sottostare al termine prescrizionale quinquennale decorrente dalla trasformazione irreversibile del bene, con l’unico limite temporale rinvenibile nell’acquisto della proprietà, per usucapione ventennale del bene, eventualmente maturata dall’ente pubblico.
Tali principi sono stati peraltro codificati in termini di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. f), del Codice del processo amministrativo (allegato 1 del D.Lgs. 02.07.2010 n. 104) nell’ipotesi di comportamento dell’Amministrazione riconducibile all’esercizio del pubblico potere che si sia manifestato per il tramite della dichiarazione di pubblica utilità della quale non risulta dimostrata la perdita d'efficacia, nonché nelle controversie aventi ad oggetto atti, provvedimenti e comportamenti della P.A. in materia di espropriazioni per pubblica utilità di cui alla successiva lett. g) del citato art. 133 ove si è espressamente contemplata la giurisdizione esclusiva di questo giudice, ferma la giurisdizione del giudice ordinario per le ipotesi di determinazione e corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa.
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Quanto ai “principi-cardine” che regolano la materia dell’espropriazione:
a) i termini per l’inizio e la conclusione delle procedure espropriative devono essere fissati fin dall’atto con cui si dichiara la pubblica utilità dell’opera (o con cui si approva il progetto che dà avvio alla procedura stessa). In mancanza di ciò l’espropriazione è illegittima;
b) l’inutile decorso dei termini fissati dall’Amministrazione per l’avvio e per la conclusione delle procedure espropriative determina l’inefficacia della originaria dichiarazione di pubblica utilità, con conseguente illegittimità del decreto di espropriazione (che si ritiene adottato, anch’esso, fuori termine);
c) se l’Amministrazione intende prorogare il termine (per l’avvio o per la conclusione della procedura espropriativi) può farlo, purché prima che il termine sia ormai scaduto, “motivando” in ordine alle ragioni che rendono necessaria la proroga e sempre che il ritardo non sia dipeso da cause ad essa imputabili, ma da fatti dipendenti da forza maggiore o, comunque, di altre ragioni non dipendenti dalla sua volontà;
d) la proroga non può che essere accordata dallo stesso Organo che ha fissato il termine originario;
e) la proroga va notificata o comunque comunicata ai soggetti espropriandi, i quali devono essere coinvolti nel sub-procedimento che si innesta su quello principale e posto nelle condizioni di interloquire;
f) se il termine per l’avvio o per la conclusione della procedura espropriativa è inesorabilmente scaduto e non appare prorogabile (per mancanza dei presupposti sopra indicati), l’Amministrazione ben può rinnovare l’intera procedura, ma per farlo deve ricominciare (ex novo) dalla “dichiarazione di pubblica utilità”, non potendo ritenere ancora efficace quella concernente il procedimento estintosi per inutile decorso dei termini.
Quanto sopra è peraltro condiviso dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto:
quanto al principio enunciato sub a):
- che “la mancata indicazione dei termini per la conclusione dei lavori e della procedura espropriativa, di cui all'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 determina l'illegittimità ab origine dell'occupazione di urgenza e l'illiceità permanente dell'opera pubblica, dovendosi escludere che vi possano essere successive indicazioni di detti termini ovvero atti di sanatoria della dichiarazione di pubblica utilità in cui essi siano omessi";
- che “la mancata indicazione dei termini per l'inizio e la conclusione della procedura espropriativa e dei lavori nella delibera consiliare di avvio della procedura espropriativa, vizia "in radice" il provvedimento ablatorio";
- che “dall'annullamento giurisdizionale della delibera di proroga dei termini per il compimento delle operazioni espropriative deriva in via immediata e diretta l'illegittimità del decreto di espropriazione per caducazione dell'atto presupposto, ovvero dell'atto di proroga dell'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità”;
- che “nella dichiarazione di pubblica utilità dell'opera devono essere espressamente indicati, oltre ai termini di inizio e di conclusione della procedura espropriativa, anche quelli concernenti l'avvio ed il compimento dei lavori”;
- che “la necessità di prefissione di termini delle procedure di espropriazione risponde alla necessità di carattere costituzionale di limitare il potere discrezionale delle p.a. al fine di evitare che i beni dei privati siano sottoposti ad uno stato di soggezione per un tempo indeterminato”);
- che “l'indicazione dei termini entro i quali dovranno cominciarsi e concludersi le espropriazioni ed i lavori, ai sensi dell'art. 13 l. n. 2359 del 1865, deve figurare nell'atto con il quale si dichiara un'opera di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, all'evidente fine di far sì che la P.A., che decida di disporre della proprietà privata con l'espropriazione, ponga essa stessa dei limiti temporali per l'inizio e la conclusione dell'opera che poi dovrà rispettare”;
quanto al principio enunciato sub b):
- che “l'art. 13 l. n. 2359 del 1865 dispone che il decreto dichiarativo della pubblica utilità deve contenere anche i termini entro i quali devono iniziarsi e completarsi le espropriazioni ed i lavori; scaduti tali termini, la dichiarazione di pubblica utilità diviene inefficace e non può procedersi all'espropriazione se non in base ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità";
- che “qualora siano scaduti i termini fissati per il compimento dell'espropriazione, nel provvedimento che ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera e debba escludersi una valida proroga degli stessi (…) cessa la legittima occupazione dell'area destinata all'espropriazione e diviene irrilevante qualunque proroga del periodo d'occupazione successivamente disposta per legge";
quanto al principio enunciato sub c):
- che “il prolungamento dell'efficacia di un termine presuppone necessariamente che il termine da prorogare non sia ancora scaduto, per cui i termini fissati nella dichiarazione di pubblica utilità dall'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 possono essere prorogati dall'amministrazione al fine di prolungare l'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità stessa, a condizione che la proroga si perfezioni prima della scadenza del termine che si intende prorogare”;
- che “l'istituto della proroga del termine, che per il suo carattere generale deve trovare applicazione anche ai termini stabiliti nelle ipotesi di pubblica utilità "ex lege", potrà operare solo se la proroga venga disposta prima della scadenza del triennio per l'inizio dei lavori, senza che possa attribuirsi alcun rilievo all'eventuale maggior termine ancora in corso fissato per l'ultimazione dell'opera, che comporta a sua volta l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità se i lavori, iniziati tempestivamente, non vengono ultimati nel maggiore termine fissato all'atto dell'approvazione del progetto”;
- che “… il provvedimento di proroga deve essere motivato e non è sufficiente l'indicazione che il protrarsi delle procedure non consente il rispetto dei termini originariamente fissati circostanza quest'ultima che potrebbe essere imputabile all'amministrazione”;
- che “(…) … l'istituto della proroga riveste caratteri eccezionali e la sua operatività deve essere giustificata dalla reale sussistenza di oggettive difficoltà al compimento di atti espropriativi, e comunque non dipendenti dalla volontà dell’Ente espropriante”;
- che “in base all'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 (…) non costituisce valida ragione giustificativa la generica motivazione relativa al protrarsi delle procedure espropriative, che non abbia consentito il rispetto dei termini originariamente fissati”;
- che “è illegittimo il provvedimento con cui l'amministrazione dispone la proroga dei predetti termini, limitandosi a dare atto dell'impossibilità di concludere le procedure per l'esistenza di un contenzioso (non meglio specificato nel contesto del provvedimento), trattandosi di circostanza non riconducibile al concetto di forza maggiore o di impedimento obiettivo ed insuperabile”;
quanto al principio enunciato sub d):
- che “qualora siano scaduti i termini fissati per il compimento dell'espropriazione”, la proroga -ove possa essere disposta- “… deve provenire dalla stessa autorità che ha dichiarato la pubblica utilità ed ha fissato i termini originari …”;
- che "è illegittima la proroga dei termini per la conclusione delle espropriazione che non sia stabilita dalla medesima autorità che ha dichiarato di pubblica utilità";
quanto al principio enunciato sub e):
- che “quando un sub-procedimento non fa parte dell'ordinaria sequenza procedimentale, come nel caso in cui riguardi la proroga dei termini per il completamento dei lavori di un'opera pubblica e della dichiarazione di pubblica utilità, l'amministrazione deve inviare ai diretti interessati un apposito avviso di inizio del procedimento ex art. 7 l. n. 241 del 1990”;
- che “la comunicazione di avvio del procedimento è stata ritenuta necessaria anche nel procedimento finalizzato a prorogare i termini del provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità, stante la sua natura di sub procedimento autonomo all'interno di quello più generale volto alla dichiarazione di pubblica utilità, anche se implicito, nell'approvazione del progetto di opera pubblica. (…) Del resto la proroga è un provvedimento discrezionale, rispetto al quale la partecipazione del privato non è inutile e può servire ad evidenziare la sussistenza degli eccezionali presupposti per l'adozione del provvedimento";
- che “è illegittima la proroga dei termini della dichiarazione di pubblica utilità non preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento”;
- che “nell'ambito di un procedimento espropriativo il provvedimento che proroga i termini per l'intervento ablativo costituisce il frutto di un autonomo sub procedimento eventuale e straordinario rispetto al procedimento tipico; pertanto, in tal caso, l'amministrazione ha l'obbligo di comunicare l'avvio del sub procedimento col quale si proroga il termine di assoggettamento del bene privato all'intervento ablativo”;
- che “anche in relazione al procedimento di proroga dei termini per l'espropriazione deve essere consentita la partecipazione degli eventuali interessati, potendo l'atto di proroga influire su diversi aspetti, tra cui quello del momento del pagamento dell'indennità”;
quanto al principio enunciato sub f):
- che “è illegittimo il provvedimento che, in luogo di rimuovere l'intera procedura, disponga la proroga dei termini per l'inizio della procedura espropriativa stabiliti nel decreto di dichiarazione di pubblica utilità in sanatoria dell'avvenuta scadenza di termini stessi”;
- che “la rinnovazione della procedura espropriativa a differenza dell'istituto della proroga dei termini - opera sempre in soluzione di continuità rispetto alla pregressa fase, alla quale non ha la possibilità di raccordarsi con effetti "ex tunc"; conseguentemente è necessario che alla data di adozione del provvedimento di riapprovazione sussistano le condizioni di attualità e concretezza dell'interesse pubblico che si intendono conseguire con la realizzazione dell'opera”;
- che “l'art. 13 l. n. 2359 del 1865 dispone che il decreto dichiarativo della pubblica utilità deve contenere anche i termini entro i quali devono iniziarsi e completarsi le espropriazioni ed i lavori; scaduti tali termini, la dichiarazione di pubblica utilità diviene inefficace e non può procedersi all'espropriazione se non in base ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità”;
- che “seppure è in facoltà dell'espropriante condurre a realizzazione un progetto di opera pubblica, di cui siano scaduti i termini obbligatoriamente indicati per il compimento dei lavori, è necessario che la riapprovazione dia luogo ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità, con un nuovo avvio del procedimento finalizzato a tale dichiarazione e con una nuova fissazione dei termini, essendo insufficiente la mera proroga dei termini originariamente fissati”.

In punto di giurisdizione la Sezione ritiene di non aver motivo per discostarsi nella circostanza dall’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, nella materia dei procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e l’Amministrazione espropriante abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto –devolute come tali alla giurisdizione ordinaria, sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione -anche ai fini complementari della tutela risarcitoria- di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo e formale atto traslativo della proprietà ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi, purché vi sia un collegamento all’esercizio della pubblica funzione (Cons. Stato, IV, 04.04.2011, n. 2113; TAR Lombardia, Brescia, I, 18.12.2008, n. 1796; 01.06.2007, n. 466; Cons. Stato, A.P. 30.07.2007, n. 9 e 22.10.2007, n. 12; TAR Basilicata, 22.02.2007, n. 75; TAR Puglia, Bari, III, 9.02.2007, n. 404; TAR Lombardia, Milano, II, 18.12.2007, n. 6676; TAR Lazio, Roma, II, 03.07.2007, n. 5985; TAR Toscana, I, 14.09.2006, n. 3976; Cass. Civ., SS.UU., 20.12.2006, nn. 27190, 27191 e 27193).
Mentre le domande risarcitorie e restitutorie relative a fattispecie di occupazione usurpativa rientrano nella giurisdizione ordinaria, così come il giudice amministrativo -nello stabilire l’importo del danno da ablazione illegittima- non può includervi anche quanto dovuto per il periodo di occupazione legittima, la cui valutazione pure è di spettanza del giudice ordinario a norma degli artt. 53, comma 3 e 54 T.U. 08.06.2001, n. 327, viceversa sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in caso di danni conseguenti all’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e, in generale, di un provvedimento amministrativo in tema di espropriazione per pubblica utilità.
Peraltro di recente si è affermato (Cons. Stato, IV, 02.03.2010, n. 1222) che l’art. 53 del DPR n. 327/2001, per come ispirato al principio di concentrazione dei giudizi, ha attribuito rilevanza decisiva ai provvedimenti che impongono il vincolo preordinato all’esproprio e a quelli che dispongono la dichiarazione di pubblica utilità: una volta attivato il procedimento caratterizzato dall’esercizio del pubblico potere, sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva in relazione a tutti i conseguenti atti e comportamenti e ad ogni controversia che sorga su di essi, anche quando trattasi di procedimenti espropriativi diretti alla esecuzione dei lavori per la realizzazione o la modificazione di un’opera pubblica e di atti strumentali alla realizzazione di detta finalità pubblica (Cass. Civ., SS. UU., ord.za 16.12.2010, n. 25393).
Si è dunque in presenza di una fattispecie riconducibile alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per come derivante da esercizio di un pubblico potere, anche nel caso in cui si lamenti formalmente l’occupazione di aree non comprese nell’ambito della procedura espropriativa, ma in realtà si abbia riguardo al decreto di esproprio, cioè alla determinazione del suo effettivo contenuto, per la dedotta occupazione di una superficie superiore a quella presa in considerazione da una precedente ordinanza di occupazione d’urgenza, poiché ai fini della liceità o meno va verificato lo specifico contenuto degli atti e degli accordi posti in essere nel corso del procedimento ablatorio.
Ritenuta dunque la giurisdizione sulla domanda di reintegra nel possesso proposta da parte ricorrente, resta da stabilire se le forme di tutela siano quelle previste dall’art 703 c.p.c., che rinvia agli art. 669 bis e ss. c.p.c., oppure quelle proprie del processo amministrativo. Ritiene il Collegio di seguire la seconda impostazione, poiché, come ha rilevato la Corte Costituzionale –investita di una questione di legittimità con riferimento all’inesistenza di un tutela cautelare ante causam avanti al g.a.– l’applicazione di istituti processual-civilistici non è giustificabile qualora le esigenze ad essi sottese vengano effettivamente tutelate da istituti propri del processo amministrativo (idem TAR Umbria, 04.09.2002, n. 652). Nel caso in esame l’esigenza di tutela immediata, soddisfatta dagli artt. 703 - 669-bis e ss. c.p.c., è efficacemente garantita mediante il procedimento di cui all’art 23-bis della Legge n. 1034/1971 (ora art. 119 del Decr. Legisl. 02/07/2010, n. 104 di riordino del processo amministrativo), di cui sussistono tutti i presupposti applicativi (essendo, in particolare, la controversia oggetto del presente giudizio contemplata dalla lettera b) del medesimo articolo).
Il comportamento tenuto dalla Amministrazione, la quale abbia emanato una valida dichiarazione di pubblica utilità ed un legittimo decreto di occupazione d'urgenza senza tuttavia emanare il provvedimento definitivo di esproprio nei termini previsti dalla legge, deve essere, poi, qualificato come "illecito permanente", nella cui vigenza non decorre la prescrizione, ciò perché in questo caso manca un effetto traslativo della proprietà, stante la mancanza del provvedimento di esproprio, connesso alla mera irrevocabile modifica dei luoghi. Per questo motivo, salva restando la possibilità di optare per le differenti forme "risarcitorie" che l'ordinamento appresta (restituzione del bene ovvero risarcimento del danno per equivalente), il soggetto privato del possesso può agire nei confronti dell'ente pubblico senza dover sottostare al termine prescrizionale quinquennale decorrente dalla trasformazione irreversibile del bene, con l’unico limite temporale rinvenibile nell’acquisto della proprietà, per usucapione ventennale del bene, eventualmente maturata dall’ente pubblico (cfr. TAR Sicilia, Palermo, 01.02.2011, n. 175).
Tali principi sono stati peraltro codificati in termini di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. f), del Codice del processo amministrativo (allegato 1 del D.Lgs. 02.07.2010 n. 104) nell’ipotesi di comportamento dell’Amministrazione riconducibile all’esercizio del pubblico potere che si sia manifestato per il tramite della dichiarazione di pubblica utilità della quale non risulta dimostrata la perdita d'efficacia, nonché nelle controversie aventi ad oggetto atti, provvedimenti e comportamenti della P.A. in materia di espropriazioni per pubblica utilità di cui alla successiva lett. g) del citato art. 133 ove si è espressamente contemplata la giurisdizione esclusiva di questo giudice, ferma la giurisdizione del giudice ordinario per le ipotesi di determinazione e corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa.
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La Sezione come in recente precedente (07.02.2012, n. 613) osserva quanto ai “principi-cardine” che regolano la materia dell’espropriazione che:
a) i termini per l’inizio e la conclusione delle procedure espropriative devono essere fissati fin dall’atto con cui si dichiara la pubblica utilità dell’opera (o con cui si approva il progetto che dà avvio alla procedura stessa). In mancanza di ciò l’espropriazione è illegittima;
b) l’inutile decorso dei termini fissati dall’Amministrazione per l’avvio e per la conclusione delle procedure espropriative determina l’inefficacia della originaria dichiarazione di pubblica utilità, con conseguente illegittimità del decreto di espropriazione (che si ritiene adottato, anch’esso, fuori termine);
c) se l’Amministrazione intende prorogare il termine (per l’avvio o per la conclusione della procedura espropriativi) può farlo, purché prima che il termine sia ormai scaduto, “motivando” in ordine alle ragioni che rendono necessaria la proroga e sempre che il ritardo non sia dipeso da cause ad essa imputabili, ma da fatti dipendenti da forza maggiore o, comunque, di altre ragioni non dipendenti dalla sua volontà;
d) la proroga non può che essere accordata dallo stesso Organo che ha fissato il termine originario;
e) la proroga va notificata o comunque comunicata ai soggetti espropriandi, i quali devono essere coinvolti nel sub-procedimento che si innesta su quello principale e posto nelle condizioni di interloquire;
f) se il termine per l’avvio o per la conclusione della procedura espropriativa è inesorabilmente scaduto e non appare prorogabile (per mancanza dei presupposti sopra indicati), l’Amministrazione ben può rinnovare l’intera procedura, ma per farlo deve ricominciare (ex novo) dalla “dichiarazione di pubblica utilità”, non potendo ritenere ancora efficace quella concernente il procedimento estintosi per inutile decorso dei termini.
Quanto sopra è peraltro condiviso dalla giurisprudenza, la quale ha ritenuto:
quanto al principio enunciato sub a):
   - che “la mancata indicazione dei termini per la conclusione dei lavori e della procedura espropriativa, di cui all'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 determina l'illegittimità ab origine dell'occupazione di urgenza e l'illiceità permanente dell'opera pubblica, dovendosi escludere che vi possano essere successive indicazioni di detti termini ovvero atti di sanatoria della dichiarazione di pubblica utilità in cui essi siano omessi” (Cass. Civ., SS. UU., 30.03.2007, n. 7881);
   - che “la mancata indicazione dei termini per l'inizio e la conclusione della procedura espropriativa e dei lavori nella delibera consiliare di avvio della procedura espropriativa, vizia "in radice" il provvedimento ablatorio" (Cons. Stato, IV, 20.03.2000, n. 1498);
   - che “dall'annullamento giurisdizionale della delibera di proroga dei termini per il compimento delle operazioni espropriative deriva in via immediata e diretta l'illegittimità del decreto di espropriazione per caducazione dell'atto presupposto, ovvero dell'atto di proroga dell'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità” (Cons. Stato, IV, 31.07.2000, n.4215”;
   - che “nella dichiarazione di pubblica utilità dell'opera devono essere espressamente indicati, oltre ai termini di inizio e di conclusione della procedura espropriativa, anche quelli concernenti l'avvio ed il compimento dei lavori” (Cons. Stato, V, 18.3.2002, n.1561);
   - che “la necessità di prefissione di termini delle procedure di espropriazione risponde alla necessità di carattere costituzionale di limitare il potere discrezionale delle p.a. al fine di evitare che i beni dei privati siano sottoposti ad uno stato di soggezione per un tempo indeterminato” (Cons. Stato, VI, 04.04.2003, n. 1768);
   - che “l'indicazione dei termini entro i quali dovranno cominciarsi e concludersi le espropriazioni ed i lavori, ai sensi dell'art. 13 l. n. 2359 del 1865, deve figurare nell'atto con il quale si dichiara un'opera di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, all'evidente fine di far sì che la P.A., che decida di disporre della proprietà privata con l'espropriazione, ponga essa stessa dei limiti temporali per l'inizio e la conclusione dell'opera che poi dovrà rispettare” (TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005, n. 3484; 21.06.2007, n. 5656; TAR Campania, Salerno, I, 08.09.2006, n. 1330; 11.06.2002, n. 457; TAR Abruzzo L’Aquila, 20.05.2002, n. 302; Cons. Stato, V, 25.01.2002, n. 399; IV, 17.04.2000, n. 2283; V, 11.01.1999, n. 1758; TAR Veneto, I, 25.06.1998, n. 1206; Cons. Stato, IV, 27.11.1997, n. 1326);
quanto al principio enunciato sub b):
   - che “l'art. 13 l. n. 2359 del 1865 dispone che il decreto dichiarativo della pubblica utilità deve contenere anche i termini entro i quali devono iniziarsi e completarsi le espropriazioni ed i lavori; scaduti tali termini, la dichiarazione di pubblica utilità diviene inefficace e non può procedersi all'espropriazione se non in base ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità" (TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005, n. 3484; Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443);
   - che “qualora siano scaduti i termini fissati per il compimento dell'espropriazione, nel provvedimento che ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera e debba escludersi una valida proroga degli stessi (…) cessa la legittima occupazione dell'area destinata all'espropriazione e diviene irrilevante qualunque proroga del periodo d'occupazione successivamente disposta per legge" (Cass. Civ., I, 17.07.2001, n. 9700);
- quanto al principio enunciato sub c):
   - che “il prolungamento dell'efficacia di un termine presuppone necessariamente che il termine da prorogare non sia ancora scaduto, per cui i termini fissati nella dichiarazione di pubblica utilità dall'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 possono essere prorogati dall'amministrazione al fine di prolungare l'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità stessa, a condizione che la proroga si perfezioni prima della scadenza del termine che si intende prorogare” (Cons. Stato, VI, 23.12.2008, n. 6516; IV, 22.05.2006, n. 3025; TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005, n. 3484; TAR, Sardegna, II, 13.07.2007, n. 1618; TAR Lazio, Roma, II, 13.10.2006, n. 10374; TAR Toscana, III, 05.03.2003, n. 857; Cons. Stato, IV, 22.12.2003, n. 8462);
   - che “l'istituto della proroga del termine, che per il suo carattere generale deve trovare applicazione anche ai termini stabiliti nelle ipotesi di pubblica utilità "ex lege", potrà operare solo se la proroga venga disposta prima della scadenza del triennio per l'inizio dei lavori, senza che possa attribuirsi alcun rilievo all'eventuale maggior termine ancora in corso fissato per l'ultimazione dell'opera, che comporta a sua volta l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità se i lavori, iniziati tempestivamente, non vengono ultimati nel maggiore termine fissato all'atto dell'approvazione del progetto” (Cass. Civ., I, 08.05.2003, n. 6979);
   - che “… il provvedimento di proroga deve essere motivato e non è sufficiente l'indicazione che il protrarsi delle procedure non consente il rispetto dei termini originariamente fissati circostanza quest'ultima che potrebbe essere imputabile all'amministrazione” (Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443; TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005, n. 3484);
   - che “(…) … l'istituto della proroga riveste caratteri eccezionali e la sua operatività deve essere giustificata dalla reale sussistenza di oggettive difficoltà al compimento di atti espropriativi, e comunque non dipendenti dalla volontà dell’Ente espropriante” (Cons. Stato, VI, 04.04.2003, n. 1768; 10.10.2002, n. 5443; IV, 28.12.2000, n. 6997; 23.11.2000, n. 6221; TAR Calabria, Reggio Calabria, 08.03.2001, n. 213);
   - che “in base all'art. 13 della Legge n. 2359 del 1865 (…) non costituisce valida ragione giustificativa la generica motivazione relativa al protrarsi delle procedure espropriative, che non abbia consentito il rispetto dei termini originariamente fissati” (TAR Toscana, III, 05.03.2003, n. 857; Cons. Stato, VI, 04.04.2003, n. 1768; IV, 28.12.2000, n. 6997);
   - che “è illegittimo il provvedimento con cui l'amministrazione dispone la proroga dei predetti termini, limitandosi a dare atto dell'impossibilità di concludere le procedure per l'esistenza di un contenzioso (non meglio specificato nel contesto del provvedimento), trattandosi di circostanza non riconducibile al concetto di forza maggiore o di impedimento obiettivo ed insuperabile” (TAR Calabria, Reggio Calabria, 08.03.2001, n. 213);
quanto al principio enunciato sub d):
   - che “qualora siano scaduti i termini fissati per il compimento dell'espropriazione”, la proroga -ove possa essere disposta- “… deve provenire dalla stessa autorità che ha dichiarato la pubblica utilità ed ha fissato i termini originari …” (Cass. Civ., I, 17.07.2001, n. 9700);
   - che "è illegittima la proroga dei termini per la conclusione delle espropriazione che non sia stabilita dalla medesima autorità che ha dichiarato di pubblica utilità" (Cons. Stato, VI, 02.05.2006, n. 2423);
quanto al principio enunciato sub e):
   - che “quando un sub-procedimento non fa parte dell'ordinaria sequenza procedimentale, come nel caso in cui riguardi la proroga dei termini per il completamento dei lavori di un'opera pubblica e della dichiarazione di pubblica utilità, l'amministrazione deve inviare ai diretti interessati un apposito avviso di inizio del procedimento ex art. 7 l. n. 241 del 1990” (Cons. Stato, IV, 16.03.2001, n. 1578);
   - che “la comunicazione di avvio del procedimento è stata ritenuta necessaria anche nel procedimento finalizzato a prorogare i termini del provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità, stante la sua natura di sub procedimento autonomo all'interno di quello più generale volto alla dichiarazione di pubblica utilità, anche se implicito, nell'approvazione del progetto di opera pubblica. (…) Del resto la proroga è un provvedimento discrezionale, rispetto al quale la partecipazione del privato non è inutile e può servire ad evidenziare la sussistenza degli eccezionali presupposti per l'adozione del provvedimento" (Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443);
   - che “è illegittima la proroga dei termini della dichiarazione di pubblica utilità non preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento” (Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443);
   - che “nell'ambito di un procedimento espropriativo il provvedimento che proroga i termini per l'intervento ablativo costituisce il frutto di un autonomo sub procedimento eventuale e straordinario rispetto al procedimento tipico; pertanto, in tal caso, l'amministrazione ha l'obbligo di comunicare l'avvio del sub procedimento col quale si proroga il termine di assoggettamento del bene privato all'intervento ablativo” (TAR Lazio, Roma, II, 13.10.2006, n. 10374);
   - che “anche in relazione al procedimento di proroga dei termini per l'espropriazione deve essere consentita la partecipazione degli eventuali interessati, potendo l'atto di proroga influire su diversi aspetti, tra cui quello del momento del pagamento dell'indennità” (Cons. Stato, VI, 05.12.2007, n. 6183);
quanto al principio enunciato sub f):
   - che “è illegittimo il provvedimento che, in luogo di rimuovere l'intera procedura, disponga la proroga dei termini per l'inizio della procedura espropriativa stabiliti nel decreto di dichiarazione di pubblica utilità in sanatoria dell'avvenuta scadenza di termini stessi” (Cons. Stato, IV, 23.11.2000, n. 6221);
   - che “la rinnovazione della procedura espropriativa a differenza dell'istituto della proroga dei termini - opera sempre in soluzione di continuità rispetto alla pregressa fase, alla quale non ha la possibilità di raccordarsi con effetti "ex tunc"; conseguentemente è necessario che alla data di adozione del provvedimento di riapprovazione sussistano le condizioni di attualità e concretezza dell'interesse pubblico che si intendono conseguire con la realizzazione dell'opera” (Cons. Stato, IV, 24.07.2003, n. 4239);
   - che “l'art. 13 l. n. 2359 del 1865 dispone che il decreto dichiarativo della pubblica utilità deve contenere anche i termini entro i quali devono iniziarsi e completarsi le espropriazioni ed i lavori; scaduti tali termini, la dichiarazione di pubblica utilità diviene inefficace e non può procedersi all'espropriazione se non in base ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità” (Cons. Stato, VI, 02.05.2006, n. 2423; 10.10.2002 n. 5443; TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2005, n. 3484; Cons. Stato, IV, 23.11.2000, n. 6221; 24.07.2003, n. 4239; TAR Toscana, III, 13.11.2002, n. 2699; Cons. Stato, VI, 10.10.2002, n. 5443);
   - che “seppure è in facoltà dell'espropriante condurre a realizzazione un progetto di opera pubblica, di cui siano scaduti i termini obbligatoriamente indicati per il compimento dei lavori, è necessario che la riapprovazione dia luogo ad una nuova dichiarazione di pubblica utilità, con un nuovo avvio del procedimento finalizzato a tale dichiarazione e con una nuova fissazione dei termini, essendo insufficiente la mera proroga dei termini originariamente fissati” (Cass. Civ., SS. UU., 26.04.2007, n. 10024)
(TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 02.07.2012 n. 3127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Sulla cosiddetta “espropriazione indiretta” o “sostanziale” in assenza di un idoneo titolo previsto dalla legge.
Ai fini dell’annullamento dell’atto oggetto di impugnazione, occorre poi tener conto dell’orientamento comunitario (Corte Europea Diritti Uomo, 06.03.2007, n. 43662) che preclude di ravvisare una “espropriazione indiretta” o “sostanziale” in assenza di un idoneo titolo previsto dalla legge.
Il T.U. n. 327/2001, attraverso la disciplina contenuta nell’art. 43, aveva originariamente introdotto un meccanismo che attribuiva all’Amministrazione il potere di acquisire la proprietà dell’area con un atto formale di natura ablatoria e discrezionale al termine del procedimento nel corso del quale vanno motivatamente valutati gli interessi in conflitto; il citato art. 43 era stato in definitiva emesso dal Legislatore delegato per consentire all'Amministrazione di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto quando il bene fosse stato <modificato per scopi di interesse pubblico> (fermo restando il diritto del proprietario di ottenere il risarcimento del danno).
La Corte Costituzionale, però, con sentenza n. 293 dell’08.10.2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del cennato art. 43: muovendo dalla contrapposizione tra la Corte di Cassazione, che esclude l’ammissibilità dell’adozione di un provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43 con riguardo alle occupazioni appropriative verificatesi prima dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001, e il Consiglio di Stato, secondo il quale «la procedura di acquisizione in sanatoria di un’area occupata sine titulo, descritta dal citato articolo 43, trova una generale applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate prima dell’entrata in vigore della norma», la Consulta ha affrontato la possibilità di acquisire alla mano pubblica un bene privato, in precedenza occupato e modificato per la realizzazione di un’opera di interesse pubblico, anche nel caso in cui l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità sia venuta meno, con effetto retroattivo, in conseguenza del suo annullamento o per altra causa, o anche in difetto assoluto di siffatta dichiarazione.
Preso atto che la delega riguardava il «riordino» delle norme elencate nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 ed, in particolare, il «procedimento di espropriazione per causa di pubblica utilità e altre procedure connesse: legge 25.06.1865, n. 2359; legge 22.10.1971, n. 865», il giudice delle leggi ha affermato la necessità che, in ogni caso, si faccia riferimento alla ratio della delega, si tenga conto della possibilità di introdurre norme che siano un coerente sviluppo dei principi fissati dal legislatore delegato e detta discrezionalità venga esercitata nell’ambito dei limiti stabiliti dai principi e criteri direttivi.
In definitiva l’istituto previsto e disciplinato dall’art. 43 era connotato da numerosi aspetti di novità, rispetto sia alla disciplina espropriativa oggetto delle disposizioni espressamente contemplate dalla legge-delega, sia agli istituti di matrice prevalentemente giurisprudenziale, specie nel momento in cui si era introdotta la possibilità per l’Amministrazione e per chi utilizza il bene di chiedere al giudice amministrativo, in ogni caso e senza limiti di tempo, la condanna al risarcimento in luogo della restituzione; nel regime risultante dalla norma impugnata, inoltre, si era previsto un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa Amministrazione che aveva commesso l'illecito, a dispetto di un giudicato che disponeva il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato. Il Legislatore delegato, in definitiva, non poteva innovare del tutto e derogare ad ogni vincolo alla propria discrezionalità esplicitamente individuato dalla legge-delega, dovendo piuttosto limitarsi a disciplinare in modi diversi la materia e ad espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato in analogia con altri ordinamenti europei.
A seguito dell’eliminazione dal mondo giuridico dell'istituto della cd. “acquisizione sanante” di cui all'art. 43 D.P.R. n. 327 del 2001, la Sezione (a partire dalle pronunce nn. 261 e 262 del 18.01.2011) ha ritenuto che in siffatte ipotesi il comportamento tenuto dall’Amministrazione dovesse essere qualificato non già come illecito, bensì come illegittimo; si trattava di un’illegittimità a cui non poteva porsi rimedio neppure riesumando l'istituto di origine giurisprudenziale della cosiddetta “espropriazione sostanziale” -nelle due ipotesi alternative della occupazione acquisitiva o usurpativa- perché tale istituto era stato ritenuto in contrasto con l'ordinamento comunitario (cfr.: TAR Sicilia Palermo I, 01.02.2011 n. 175; idem III, 21.01.2011 n. 115).
Del resto in nessun caso -neppure a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione dell’opera pubblica- era possibile giungere ad una condanna puramente risarcitoria a carico dell’Amministrazione, poiché una tale pronuncia presupponeva in ogni caso l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene per fatto illecito dalla sfera giuridica di parte ricorrente, originaria proprietaria, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata, esito, questo, non consentito dal primo protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, I, 01.07.2010, n. 1418).
Pertanto, ricorrendone i presupposti le Amministrazioni sono state condannate alla restituzione a parte ricorrente degli immobili in ragione dell’accertato utilizzo degli stessi per come materialmente appresi sia pure per fini pubblicistici, atteso l’irrilevanza, nell’ottica di una eventuale traslazione della proprietà della res, che fosse stata realizzata l’opera pubblica nella misura in cui questa aveva modificato la destinazione originaria del cespite e recato un pregiudizio patrimoniale e non a carico di parte ricorrente. Tale statuizione era peraltro compatibile con la restituzione dei cespiti e facoltà dello ius tollendi concessa al proprietario dei manufatti alle condizioni previste dall'art. 935 c.c., comma 1 e art. 937 c.c., laddove il diritto al risarcimento e l’applicabilità dell’art.2058 c.c. sarebbero entrati in discussione ove si fosse rientrati nella materia risarcitoria.
In costanza di vuoto normativo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (31.05.2011, n. 11963) hanno affermato che l’irreversibile trasformazione, anche parziale, del fondo determina l’acquisto della proprietà del bene, nei limiti della parte trasformata, da parte dell’Amministrazione che aveva dato corso al processo espropriativo, mentre l’eventuale domanda di risarcimento in forma specifica sarebbe ordinariamente destinata ad avere esito negativo, dovendo trovare prioritario soddisfacimento l’interesse posto a base della realizzazione dell’opera pubblica.
Dal canto suo, a titolo esemplificativo, la giurisprudenza amministrativa (TAR Emilia-Romagna, Parma, I, 12.07.2011, n 245) ha ritenuto che, proprio a seguito del citato vuoto normativo, ove il privato avesse chiesto unicamente il risarcimento del danno per equivalente in ragione dell’irreversibile trasformazione del bene, detta richiesta andava considerata come rinuncia alla restituito in integrum; comunque la richiesta del solo risarcimento per equivalente non determinerebbe un effetto abdicativo della proprietà all’Amministrazione occorrendo piuttosto un accordo transattivo tra le parti (Cons. Stato, IV, 13.06.2011, n. 3561; 01.06.2011, n. 3331; 28.01.2011, n. 676), mentre se il privato dovesse insistere per la tutela restitutoria la stessa andrebbe disposta eccezion fatta per la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione degli artt. 2933, comma 2, o 2058 c.c. Di recente si è poi affermato (Cons. Stato, IV, 29.08.2011, n. 4833) che, essendo venuto meno il procedimento espropriativo accelerato di cui al citato art. 43, la P.A. avrebbe potuto apprendere il bene facendo uso unicamente del contratto tramite l’acquisizione del consenso della controparte, ovvero del provvedimento anche in assenza del consenso ma con riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie.
Ad oltre nove mesi dalla sentenza di incostituzionalità dell’originario art. 43, con l’art. 34 del Decreto-Legge 06.07.2011, n. 98 convertito in Legge 15.07.2011, n. 111 (in materia di misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria) è stato reintrodotto attraverso l’art. 42-bis l’istituto dell’acquisizione coattiva dell’immobile del privato utilizzato dall’Amministrazione per fini di interesse pubblico, potendosi acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene del privato allorché la sua utilizzazione risponde a “scopi di interesse pubblico” nonostante difetti un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità.
Dunque anche nell’attuale quadro normativo l’Amministrazione ha l’obbligo giuridico di far venire meno l’occupazione sine titulo e deve adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, o attraverso la restituzione dei terreni ai titolari con demolizione di quanto realizzato e relativa riduzione in pristino (affrontando le relative spese), ovvero attivandosi perché vi sia un titolo d’acquisto dell’area da parte del soggetto attuale possessore e che sia demolito, paradossalmente, quanto altrimenti risulterebbe meritevole di essere ricostruito (Cons. Stato, VI, 01.12.2011, n. 6351).
A seguito di un siffatto provvedimento autoritativo sopravvenuto la domanda di restituzione dell’area diventa improcedibile, mentre l’obbligo motivazionale ai sensi del nuovo comma 4 impone di dare conto dell’assenza di ragionevoli alternative alla adozione del nuovo provvedimento, che entro trenta giorni va anche comunicato alla Corte dei Conti (comma 7); ancora nella nuova versione (commi 1, 2, 3 e 4) si fa riferimento all’indennizzo, piuttosto che al risarcimento del danno, quale corrispettivo dell’attività posta in essere dall’Amministrazione, ciò forse per la liceità dell’attività, non retroattiva, posta in essere dall’Autorità agente.
Laddove prima, anche in sede di contenziosi diretti alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, la P.A. poteva chiedere che il giudice amministrativo disponesse la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione, e successiva adozione del provvedimento sanante dall’Amministrazione interessata, ora (comma 2) il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche in corso di giudizio di annullamento previo ritiro dell’atto impugnato; il potere acquisitivo dell’Amministrazione è esercitabile anche in presenza di una pronunzia giurisdizionale passata in giudicato che abbia annullato il provvedimento che costituiva titolo per l’utilizzazione dell’immobile da parte della stessa Amministrazione, atteso che il giudicato è intervenuto sull’atto annullato e non sul rapporto tra privato ed Amministrazione.
Il nuovo atto, che l’Amministrazione è legittimata ad adottare finché perdura lo stato di utilizzazione pur se illegittima del bene del privato, è distinto da quello annullato, tant’è che non opera con efficacia retroattiva e non ha una funzione sanante del provvedimento annullato; in ogni caso la P.A. deve porre in essere tutte le iniziative necessarie per porre fine alla perdurante situazione di illiceità, restituendo il bene al privato solo quando siano cessate le ragioni di pubblico interesse che avevano comportato l’utilizzazione del suolo, dovendo in caso contrario acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene su cui insiste o dovrà essere realizzata l’opera pubblica o di pubblico interesse.
Va poi preso atto che la Corte di Strasburgo non si è pronunciata più in senso critico nei confronti dell’istituto originariamente disciplinato dal citato art. 43, mentre la previsione di una “legale via d’uscita” con l’esercizio di un potere basato sull’accertamento dei fatti e sulla valutazione degli interessi in conflitto appare immune da questioni di costituzionalità (Cons. Stato, VI, 15.03.2012, n. 1438) in quanto conforme alle disposizioni della CEDU ed alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che in passato ha condannato la Repubblica italiana proprio perché i giudici nazionali avevano riscontrato la perdita della proprietà in assenza di un valido provvedimento motivato.
Premesso che in ogni caso non sarà possibile la restituzione della nuda proprietà superficiaria al privato, atteso che ciò che rileva è appunto l’idoneità del bene del privato a soddisfare, attraverso la sua trasformazione fisica, l’interesse pubblico perseguito dall’Amministrazione, la prima giurisprudenza (TAR Sicilia, Catania, III, 19.08.2001, n. 2102) successiva all’entrata in vigore del nuovo art. 42-bis ha ritenuto che il giudice amministrativo, anche nell’esercizio dei propri poteri equitativi e nella logica di valorizzare la ratio della novella legislativa di far sì che l’espropriazione della proprietà privata per scopi di pubblica utilità non si trasformi in un danno ingiusto a carico del cittadino e che gli effetti indennitari e/o risarcitori conseguano necessariamente ad un formale provvedimento della PA, possa accogliere la domanda risarcitoria derivante dall’occupazione senza titolo di un bene privato per scopi di interesse pubblico, se irreversibilmente trasformato, differendone però gli effetti all’emissione di un formale provvedimento acquisitivo ai sensi dello stesso art. 42-bis
(TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 02.07.2012 n. 3127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del comune di ordinarne la demolizione.
Ciò non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, tanto deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica.
In definitiva, “in siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell’assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con d.i.a.”.
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L’efficacia dei provvedimenti di demolizione non è suscettibile di essere paralizzata dalla successiva presentazione di istanze (di accertamento di conformità, compatibilità paesaggistica o quant’altro) che non incidono sulla legittimità dei provvedimenti sanzionatori in precedenza emanati, ma unicamente sulla possibilità dell’amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, “autonomamente valutando gli effetti” delle sopravvenute istanze a detti fini; conclusione questa che si impone anche nella considerazione che il legislatore ha imposto un regime di sospensione automatico ex lege solo in seno alla legislazione condonistica straordinaria (artt. 38 e 44 l. 47 del 1985 e rinvii ad essi operati da quella del 1994 e del 2003) e non in presenza di istanze di accertamenti di conformità urbanistica o di verifiche di compatibilità paesaggistiche.

Ed invero, in primo luogo, l’amministrazione aveva l’obbligo di intervenire per sanzionare la realizzazione in un territorio assoggettato a vincolo paesaggistico di opere non autorizzate e omnricomprese fra quelle oggetto di istanza di condono, non potendo, in contrario, invocarsi alcuna vis actrattiva che precludesse di disporre il ripristino dello stato dei luoghi nelle more della definizione dell’istanza di condono non comprensiva dei nuovi interventi.
Fermo che dall’istruttoria eseguita è emerso che gli interventi realizzati non erano tutti interni alla struttura preesistente, con quanto ne consegue in termini di inderogabile necessità della previa autorizzazione paesaggistica, in ogni caso natura e dimensione degli interventi non possono assumere rilievo ai fini invocati ex latere attoreo alla luce del costante orientamento della Sezione, confortato da pronuncia del giudice di appello (Cons. Stato, sezione quarta, ord. n. 2182 del 18.05.2011), dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, secondo cui “in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi “la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del comune di ordinarne la demolizione” (cfr. Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, ex multis, sentenze n. 2006 del 02.05.2012; n. 2624 del 11.05.2011, n. 1218 del 25.02.2011, n. 26788 del 03.12.2010; 05.05.2010, n. 2811, 10.02.2010, n. 847 e 28.01.2010, n. 423; sezione seconda, 07.11.2008, n. 19372; negli stessi sensi, Cass. penale, sezione terza, 24.10.2008, n. 45070).
Sempre come precisato nelle cennate pronunce della Sezione, ai cui più ampi contenuti argomentativi può per brevità rinviarsi, ciò non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, tanto deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 ed art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326).
Procedura a doversi seguire rigidamente anche per quanto attiene alle modalità di presentazione dell’istanza, sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato dei luoghi che ad evitarsi postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza che, come previsto dalla legge, l’esecuzione delle opere, pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena consapevolezza -resa esplicita dal ricorso espresso alla procedura ex art. 35 cit.- che, sebbene interventi di natura eminentemente conservativa possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato si dovrà demolire anche le migliorie apportate (cfr. la giurisprudenza della Sezione, già sopra riportata).
In definitiva, “in siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell’assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con d.i.a.” (cfr. Tar Campania, Napoli, sempre questa sesta sezione, n. 2006 del 02.05.2012 cit.; 11.05.2011, n. 2626 e sezione settima 14.01.2011, n. 160).
A ciò aggiungendosi, come anticipato, che l’intervento effettuato, non suscettibile di atomizzazione (cfr. anche sul punto la riportata giurisprudenza della Sezione), incideva sugli esterni ed abbisognava quindi -comunque- della previa acquisizione del titolo abilitativo sotto il profilo paesaggistico.
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Per consolidato orientamento della Sezione, confortato da pronunce del giudice di appello, l’efficacia dei provvedimenti di demolizione non è suscettibile di essere paralizzata dalla successiva presentazione di istanze (di accertamento di conformità, compatibilità paesaggistica o quant’altro) che non incidono sulla legittimità dei provvedimenti sanzionatori in precedenza emanati, ma unicamente sulla possibilità dell’amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, “autonomamente valutando gli effetti” delle sopravvenute istanze a detti fini; conclusione questa che si impone anche nella considerazione che il legislatore ha imposto un regime di sospensione automatico ex lege solo in seno alla legislazione condonistica straordinaria (artt. 38 e 44 l. 47 del 1985 e rinvii ad essi operati da quella del 1994 e del 2003) e non in presenza di istanze di accertamenti di conformità urbanistica o di verifiche di compatibilità paesaggistiche (cfr., amplius, anche per i richiami giurisprudenziali, la recentissima pronuncia della Sezione n. n. 2644 del 05.06.2012) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 02.07.2012 n. 3109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: La competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino al giugno del 1998 deve reputarsi appartenente al Sindaco (o all’Assessore competente per materia) e non all'organo dirigenziale essendo stata la stessa trasferita espressamente ai dirigenti solo ai sensi dell'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n. 191.
Ciò, beninteso, in assenza di norme regolamentari che, nei singoli Comuni, in forza della previgente normativa primaria a partire dalla l. 142 del 1990, avessero già attuato “il principio legislativo” del trasferimento delle competenze dal sindaco agli organi dirigenziali del Comune.
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L’efficacia dei provvedimenti di demolizione non è suscettibile di essere paralizzata dalla successiva presentazione di istanze (di accertamento di conformità, compatibilità paesaggistica o quant’altro) che non incidono sulla legittimità dei provvedimenti sanzionatori in precedenza emanati, ma unicamente sulla possibilità dell’amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione “autonomamente valutando gli effetti” delle sopravvenute istanze a detti fini; conclusione questa che si impone anche nella considerazione che il legislatore ha imposto un regime di sospensione automatico ex lege solo in seno alla legislazione condonistica straordinaria (artt. 38 e 44 l. 47 del 1985 e rinvii ad essi operati da quella del 1994 e del 2003) e non in presenza di istanze di accertamenti di conformità urbanistica o di verifiche di compatibilità paesaggistiche.

Secondo la costante giurisprudenza della sezione, la competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino al giugno del 1998 deve reputarsi appartenente al Sindaco (o all’Assessore competente per materia) e non all'organo dirigenziale essendo stata la stessa trasferita espressamente ai dirigenti solo ai sensi dell'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n. 191 (cfr., ex multis, Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, 05.06.2012, n. 2365; 23.05.2012, n. 2373; 30.04.2008, n. 3072; 03.04.2008, n. 1832; cfr. ancora, negli stessi sensi, Tar Toscana, Firenze, sezione terza, 26.11.2010, n. 6627).
Ciò, beninteso, in assenza di norme regolamentari che, nei singoli Comuni, in forza della previgente normativa primaria a partire dalla l. 142 del 1990, avessero già attuato “il principio legislativo” del trasferimento delle competenze dal sindaco agli organi dirigenziali del Comune (cfr. Cons. Stato, sezione quinta, 06.03.2000, n. 1149 e Tar Campania, sempre questa sesta sezione, 05.06.2012, n. 2365 cit.): circostanza, questa, la cui sussistenza qui non è dedotta.
Migliore sorte non può essere riservata al secondo mezzo di impugnazione poiché il provvedimento -in assenza di ogni replica di merito ex latere attoreo in questa sede processuale- reca giustificazione esaustiva nell’indicazione dell’opera realizzata e nella pure dichiarata assenza di titolo abilitativo idoneo alla bisogna, senza che possa poi essere predicata alcuna violazione delle garanzie partecipative stante la doverosità di intervenire irrogando la sanzione ripristinatoria, quale dovuta nelle fin qui descritte circostanze (cfr. Cons. Stato, sezione quinta, sentenza 07.04.2011 n. 2159, sezione quarta, 05.03.2010, n. 1277 e, ex multis, Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2636 del 05.06.2012 cit., n. 1241 del 09.05.2012; n. 1114 del 05.03.2012, n. 1107 sempre del 05.03.2012; n. 5805 del 14.12.2011 e nn. 2074 e 2076 del 21.04.2010).
La stessa sorte reiettiva deve essere assicurata al terzo ed ultimo motivo che residua all’esame, in quanto, sempre a differenza di quanto suo tramite sostenuto, in presenza di opere edilizie realizzate senza titoli idonei su area vincolata, per far luogo all’emanazione del provvedimento sanzionatorio in concreto adottato non era necessario:
- anche avuta presente la legislazione della regione Campania, acquisire il previo parere della Commissione Edilizia Integrata (cfr. Tar Campania, Napoli, questa sezione sesta, n. 2293 del 18.05.2012, n. 1107 del 05.03.2012 cit., n. 2126 del 13.04.2011, n. 1770 del 07.04.2010, n. 3530 del 26.06.2009 e n. 2885 del 27.03.2007);
- far luogo a previ accertamenti di danni ambientali: in re ipsa (cfr. la stessa giurisprudenza di cui sopra).
Quanto, poi, all’ipotizzata suscettibilità di un positivo accertamento di conformità urbanistica ex art. 13 della l. 47 del 1985 (oggi art. 36 del d.P.R. 380 del 2001) per consolidato orientamento della Sezione, confortato da pronunce del giudice di appello, l’efficacia dei provvedimenti di demolizione non è suscettibile di essere paralizzata dalla successiva presentazione di istanze (di accertamento di conformità, compatibilità paesaggistica o quant’altro) che non incidono sulla legittimità dei provvedimenti sanzionatori in precedenza emanati, ma unicamente sulla possibilità dell’amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione “autonomamente valutando gli effetti” delle sopravvenute istanze a detti fini; conclusione questa che si impone anche nella considerazione che il legislatore ha imposto un regime di sospensione automatico ex lege solo in seno alla legislazione condonistica straordinaria (artt. 38 e 44 l. 47 del 1985 e rinvii ad essi operati da quella del 1994 e del 2003) e non in presenza di istanze di accertamenti di conformità urbanistica o di verifiche di compatibilità paesaggistiche (cfr., amplius, anche per i richiami giurisprudenziali, la recentissima pronuncia della Sezione n. 2644 del 05.06.2012) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 02.07.2012 n. 3107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ricostruzione di un edificio diruto deve qualificarsi, secondo consolidata giurisprudenza, come nuova opera e, dunque, non riconducibile ad un intervento di semplice ristrutturazione.
La ricostruzione di un edificio diruto deve qualificarsi, secondo consolidata giurisprudenza, come nuova opera e, dunque, non riconducibile ad un intervento di semplice ristrutturazione (cfr. ex multis CdS, Sez. V, 15.04.2004, n. 2142; TAR Campania, Sez. IV, 14.12.2006 n. 10553)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 29.06.2012 n. 3096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 27 del d.p.r. 380/2001 sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate e siffatta misura resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi (e non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione paesaggistica), alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria.
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia: l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.

Ed invero, la disciplina di settore (id est art. 27 del d.p.r. 380/2001) sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate e siffatta misura resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
Che, ancora, l'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi (e non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione paesaggistica), alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria (Tar Campania Napoli, sempre questa sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975);
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia (TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5556; TAR Lazio, sez. II-ter, 21.06.1999, n. 1540): l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 29.06.2012 n. 3096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia: l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione.

E’, infatti, ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia (TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5556; TAR Lazio, sez. II-ter, 21.06.1999, n. 1540): l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 29.06.2012 n. 3095 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi “la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del comune di ordinarne la demolizione.
Ciò non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 ed art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326).
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Gli ordini di demolizione sono sufficientemente giustificati con l'affermazione della abusività dell'opera, senza necessità di una più specifica istruttoria e motivazione anche in relazione alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione in re ipsa, ovvero di soffermarsi a meglio motivare sul contrasto con la normativa urbanistica/paesaggistica, profili questi sui quale parte ricorrente ancora in questa sede processuale nulla concretamente deduce sul merito, ancorché costituente suo onere preciso a sostegno dell’invocato annullamento giurisdizionale della sanzione demolitoria.
In siffatte evenienze, una volta accertata cioè la violazione, la sanzione va doverosamente applicata, né occorre motivazione specifica sull’interesse pubblico alla demolizione dell’opera, e neppure il previo accertamento della sua conformità o meno alla vigente disciplina urbanistica.
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La possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.

Il costante orientamento della Sezione, confortato da recente pronuncia del giudice di appello (Cons. Stato, sezione quarta, ord. n. 2182 del 18.05.2011), dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, è nel senso che “in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi “la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del comune di ordinarne la demolizione” (cfr. Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, ex multis, sentenze n. 2624 dell'11.05.2011, n. 1218 del 25.02.2011, n. 26788 del 03.12.2010; 05.05.2010, n. 2811, 10.02.2010, n. 847 e 28.01.2010, n. 423; sezione seconda, 07.11.2008, n. 19372; negli stessi sensi, Cass. penale, sezione terza, 24.10.2008, n. 45070);
Che, peraltro, sempre come precisato nelle cennate pronunce della Sezione, ai cui più ampi contenuti argomentativi può per brevità rinviarsi, “ciò non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 ed art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326)”;
Che la cennata giurisprudenza della Sezione ha avuto anche modo di chiarire come detta procedura debba anche essere seguita rigidamente anche per quanto attiene alle modalità di presentazione dell’istanza, sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato dei luoghi che ad evitarsi postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza che, come previsto dalla legge, l’esecuzione delle opere, pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena consapevolezza -resa esplicita dal ricorso espresso alla procedura ex art. 35 cit.- che, sebbene interventi di natura eminentemente conservativa (ossia ben diversi da quelli qui invece realizzati) possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato si dovrà demolire anche le migliorie apportate (cfr. la giurisprudenza della Sezione, già sopra riportata);
Che, in definitiva, “in siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell’assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con d.i.a.” (cfr. Tar Campania, Napoli, sempre questa sesta sezione, 11.05.2011, n. 2626 e sezione settima 14.01.2011, n. 160).
Privi di pregio si appalesano anche i residui mezzi di impugnazione.
Ed, invero, nelle descritte condizioni, non sussisteva, contrariamente a quanto dedotto, alcun onere di più accurata istruttoria e di dar contezza dell’interesse pubblico alla demolizione, come concluso da consolidata giurisprudenza, dal Collegio condivisa, secondo cui gli ordini di demolizione sono sufficientemente giustificati con l'affermazione della abusività dell'opera, senza necessità di una più specifica istruttoria e motivazione anche in relazione alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione in re ipsa (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. quinta, 11.01.2011, n. 79; sezione quarta, n. 3955/2010; Tar Campania, questa sesta sezione, n. 2382 del 28.04.2011; nn. 2126, 2128, 2129 del 13.04.2011; n. 160 del 14.01.2011, n. 24017 del 12.11.2010, n. 17238 del 26.08.2010, n. 16996 del 27.07.2010 e n. 2812 del 06.05.2010; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.02.2011, n. 240), ovvero di soffermarsi a meglio motivare sul contrasto con la normativa urbanistica/paesaggistica, profili questi sui quale parte ricorrente ancora in questa sede processuale nulla concretamente deduce sul merito, ancorché costituente suo onere preciso a sostegno dell’invocato annullamento giurisdizionale della sanzione demolitoria (cfr., sul punto, Tar Campania, questa sesta sezione, n. 2382 del 28.04.2011 cit. e cfr. anche, settima sezione, n. 6118 del 24.06.2008).
In siffatte evenienze, una volta accertata cioè la violazione, la sanzione va doverosamente applicata, né occorre motivazione specifica sull’interesse pubblico alla demolizione dell’opera, e neppure il previo accertamento della sua conformità o meno alla vigente disciplina urbanistica… (Cons. Stato, sezione quinta, sentenza 07.04.2011, n. 2159 cit.; Tar Campania, sentenza n. 914 del 22.02.2012).
Quanto, poi, alla denuncia di omissione di ogni valutazione del pregiudizio che la demolizione potrebbe arrecare al preesistente edificato, ferma l’astrattezza della denuncia, non supportata da alcun elemento atto a dimostrare la sussistenza del pregiudizio di cui l’amministrazione si sarebbe dovuta far carico, in ogni caso, per consolidata giurisprudenza, “la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi” (cfr., ex multis, Tar Campania Napoli, questa sesta sezione, 08.04.2011, n. 2039 e 15.07.2010, n. 16807; n. 1973 del 14.04.2010; Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 29.06.2012 n. 3094 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA-PRIVATALa mancata impugnazione dell’ordine di sospensione dei lavori non rende inammissibile la successiva impugnativa dell’ordine di demolizione, per essere il primo provvedimento di carattere provvisorio, fondato su di un’istruttoria sommaria e produttivo di una temporanea lesione della sfera giuridica del privato, mentre l’altro provvedimento costituisce l’atto finale del relativo procedimento ed ha alla sua base un’adeguata istruttoria, con definitiva lesione della sfera del privato.
Come è noto, infatti, la mancata impugnazione dell’ordine di sospensione dei lavori non rende inammissibile la successiva impugnativa dell’ordine di demolizione, per essere il primo provvedimento di carattere provvisorio, fondato su di un’istruttoria sommaria e produttivo di una temporanea lesione della sfera giuridica del privato, mentre l’altro provvedimento costituisce l’atto finale del relativo procedimento ed ha alla sua base un’adeguata istruttoria, con definitiva lesione della sfera del privato (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. V, 29.11.2004 n. 7746; TAR Basilicata 15.02.2001 n. 134). Nella fattispecie, peraltro, l’impugnativa dell’ordinanza di sospensione dei lavori è stata effettuata in via puramente prudenziale, sicché la controversia ha ad oggetto solo e soltanto l’ordine di demolizione delle opere abusive (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 29.06.2012 n. 464 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA-PRIVATAL'aver realizzato senza titolo abilitativo la pensilina sulla porta-finestra e il contiguo pergolato/gazebo non è sanzionabile quali opere abusive poiché entrambe le opere, invero, appaiono riconducibili agli “elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici” di cui all’art. 6, comma 2, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001, con la conseguenza che sarebbe stata necessaria solo la previa comunicazione di inizio dei lavori, sanzionabile –in caso di inerzia– con una mera sanzione pecuniaria (v. comma 7), non certamente con la qualificazione delle relative opere come abusive.
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I pergolati/gazebo con struttura leggera di legno articolata in quattro colonne e sovrastante copertura, se aperta su tutti i lati e di modeste dimensioni, fungono da mero arredo per spazi esterni e non creano superfici utili o volumetria, sicché restano, per definizione, insensibili alle norme urbanistiche che definiscono le distanze minime dai confini di proprietà, in ossequio a regole generali rispetto alle quali cedono eventuali differenti criteri interpretativi elaborati in sede locale.
In conclusione, si presenta illegittimo l’ordine di rimozione della pensilina e del pergolato/gazebo, per trattarsi di interventi ascrivibili alla fattispecie di cui all’art. 6, comma 2, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001, e per non avere l’Amministrazione comunale motivato la misura con profili ostativi correttamente riconducibili alla disciplina di piano locale o alla normativa di settore applicabile all’attività edilizia.

Nel merito, ritiene il Collegio che, relativamente alla pensilina e al pergolato/gazebo, vada innanzi tutto accertato se e in quali limiti l’invocata disciplina di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo risultante dalle modifiche apportate dal decreto-legge n. 40 del 2010 e dalla relativa legge di conversione (n. 73/2010), interviene a regolare la fattispecie oggetto della controversia.
Secondo la ricorrente, infatti, per doversi ascrivere le opere in esame alla categoria dell’«attività edilizia libera» ivi prevista –ed in particolare all’àmbito degli “elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici” [comma 2, lett. e)]–, insussistenti sarebbero le irregolarità che le sono state addebitate. Secondo l’Amministrazione comunale, invece, la necessità di un titolo abilitativo scaturirebbe dal disposto dell’art. 2 del Regolamento edilizio comunale, non travolto in parte qua dalla sopraggiunta normativa statale, ed abusivo in ogni caso risulterebbe il pergolato/gazebo perché lesivo del limite di distanza dal confine di proprietà condominiale.
Va premesso che, pur sottraendo al previo titolo abilitativo l’esecuzione di vari interventi edilizi, l’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce tuttavia che ciò avvenga “fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 …”.
La giurisprudenza ne ha desunto che a, fronte di una generale individuazione di tipologie di opere ritenute tendenzialmente prive di impatto sull’assetto territoriale, il legislatore statale sia stato consapevole di non poter operare scelte di carattere assoluto, e quindi di dover far salva, da un lato, la normativa di settore che abbia rilevanza nell’àmbito dell’attività edilizia, e di dover lasciare integro, dall’altro lato, il potere di governo del territorio di spettanza delle Amministrazioni comunali, sicché –ad es.– anche per tali opere va rispettata la destinazione urbanistica prevista in ogni comparto dallo strumento di piano e risulta quindi preclusa la loro realizzazione in caso di incompatibilità con il regime d’uso della corrispondente area (v. Cass. pen., Sez. III, 27.04.2011 n. 19316; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 13.01.2012 n. 184; TAR Veneto, Sez. II, 30.09.2010 n. 5244).
Naturalmente, per non vanificare la parziale liberalizzazione introdotta dalla normativa statale, le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali di cui occorre tenere conto sono solo quelle che attengono ai presupposti e alle modalità di realizzazione dell’attività edilizia, non quelle che si limitano a prevedere il rilascio di appositi titoli abilitativi senza accompagnare il precetto con vincoli di carattere sostanziale.
Ciò posto, appare fondata la doglianza con cui la ricorrente lamenta che le sia stato addebitato di avere realizzato senza titolo abilitativo la pensilina sulla porta-finestra e il contiguo pergolato/gazebo. Entrambe le opere, invero, appaiono riconducibili agli “elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici” di cui all’art. 6, comma 2, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001, con la conseguenza che sarebbe stata necessaria solo la previa comunicazione di inizio dei lavori, sanzionabile –in caso di inerzia– con una mera sanzione pecuniaria (v. comma 7), non certamente con la qualificazione delle relative opere come abusive.
Non è invece applicabile nella fattispecie l’invocato (dall’Amministrazione) art. 2 del Regolamento edilizio comunale (“Chiunque intenda, nell’ambito del territorio comunale, eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire quelle esistenti, ovvero procedere all’esecuzione di opere di urbanizzazione del territorio, deve chiedere apposita autorizzazione al Sindaco e deve sottostare alle prescrizioni procedurali e tecniche del presente regolamento. In particolare, sono soggette ad autorizzazione: … p) costruzione o trasformazione di vetrine, collocamento di insegne, mostre, cartelli od affissi pubblicitari o indicatori, lumi, memorie, monumenti, costruzioni di tettoie, di pensiline, cabine balneari, verande all’esterno degli edifici o tende anche provvisorie sporgenti su luoghi pubblici, aperti o prospettanti luoghi pubblici; q) esecuzione di manutenzione straordinaria qualora comporti modificazioni delle strutture o dell’aspetto esterno degli edifici ivi compresi rivestimenti, decorazioni e colorazioni; …”), per trattarsi di normativa locale che, in ragione del mero richiamo ad un obbligo di carattere procedimentale –svincolato da previsioni di carattere sostanziale–, cede di fronte alla prevalente disciplina statale in tema di liberalizzazione dell’attività edilizia minore.
Quanto al pergolato/gazebo, in verità, l’Amministrazione comunale ha altresì rilevato l’inosservanza della distanza dai confini di proprietà condominiale, limite nella fattispecie riferito alla regolamentazione contenuta nel piano particolareggiato di iniziativa pubblica “Quaderna”; la stessa ricorrente, da parte sua, si è detta consapevole di tale disciplina nel comparto di che trattasi, ma ne esclude l’applicabilità ai pergolati e nega altresì che il vincolo valga per i confini di proprietà condominiale.
In effetti, i pergolati/gazebo con struttura leggera di legno articolata in quattro colonne e sovrastante copertura, se aperta su tutti i lati e di modeste dimensioni, fungono da mero arredo per spazi esterni e non creano superfici utili o volumetria (v., tra le altre, TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 07.04.2011 n. 526), sicché restano, per definizione, insensibili alle norme urbanistiche che definiscono le distanze minime dai confini di proprietà, in ossequio a regole generali rispetto alle quali cedono eventuali differenti criteri interpretativi elaborati in sede locale. Dal che l’erroneità dell’assunto dell’Amministrazione.
In conclusione, si presenta illegittimo l’ordine di rimozione della pensilina e del pergolato/gazebo, per trattarsi di interventi ascrivibili alla fattispecie di cui all’art. 6, comma 2, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001, e per non avere l’Amministrazione comunale motivato la misura con profili ostativi correttamente riconducibili alla disciplina di piano locale o alla normativa di settore applicabile all’attività edilizia (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 29.06.2012 n. 464 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La pubblicazione all'albo pretorio del Comune è prescritta dall'art. 124 d.lgs. n. 267 del 2000, per tutte le deliberazioni del Comune e della Provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipali), ma anche le determinazioni dirigenziali, esprimendo la parola "deliberazione" "ab antiquo" sia risoluzioni adottate da organi collegiali che da organi monocratici ed essendo l'intento quello di rendere pubblici tutti gli atti degli enti locali di esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell'organo emanante.
Dunque, il termine per impugnare le determinazioni decorre al più tardi dall'ultimo giorno della relativa pubblicazione.

Vale appena evidenziare che la pubblicazione all'albo pretorio del Comune è prescritta dall'art. 124 d.lgs. n. 267 del 2000, per tutte le deliberazioni del Comune e della Provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipali), ma anche le determinazioni dirigenziali, esprimendo la parola "deliberazione" "ab antiquo" sia risoluzioni adottate da organi collegiali che da organi monocratici ed essendo l'intento quello di rendere pubblici tutti gli atti degli enti locali di esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell'organo emanante.
Ed allora la pubblicazione del provvedimento di affidamento in questione -non richiedendosi una notifica individuale al ricorrente, non individuato né direttamente inciso- sul detto Albo Pretorio del Comune, quale forma di pubblicità legale, vale di per sé ad integrare la piena conoscenza del provvedimento e dunque il termine per impugnare le relative determinazioni decorre al più tardi dall'ultimo giorno della relativa pubblicazione, con la conseguente tardività del ricorso che sia proposto oltre il suddetto termine (cfr. ex multis, Tar Liguria, sez. II, 28.03.2008, n. 459; Tar Toscana, sez. II, 09.09.2008, n. 1902; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 09.09.2008, n. 10066) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 28.06.2012 n. 3090 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un'impresa, va, invero, ben oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé, e al relativo incasso; alla mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano, infatti, indiretti nocumenti all'immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operino su medesimo target di mercato.
In linea di massima, allora, deve ammettersi che l'impresa illegittimamente privata dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale; tale danno viene generalmente rapportato, in via equitativa, a valori percentuali compresi fra l'1% e il 5% dell'importo globale dell'appalto da aggiudicare, depurato del ribasso offerto.
Al riguardo si rileva che, in sede di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata aggiudicazione di una gara di appalto, è onere dell'interessato richiedere in sede giurisdizionale il risarcimento del c.d. danno curriculare, in astratto risarcibile, e fornirne adeguatamente la relativa prova; pertanto l'onere di fornire la prova del danno ricade integralmente sull'interessato.
Ed infatti, sotto il profilo probatorio, ai sensi degli articoli 2697 c.c. e 115 c.p.c., applicabili anche al processo amministrativo, incombe sul danneggiato l'onere di fornire la prova del danno, del nesso di causalità, e dell'attribuibilità psicologica al soggetto agente.
La voce di danno in questione, pertanto, sebbene suscettibile di apprezzamento in via equitativa, esige, in ogni caso, l'allegazione, da parte del soggetto interessato, di tutti gli elementi atti a concretizzarla, onde evitare che la relativa quantificazione giudiziaria si risolva nel riconoscimento di un ristoro eccedente quello necessario alla compensazione patrimoniale del pregiudizio effettivamente subito: elementi relativi, ad esempio, al peso delle referenze correlate all'esecuzione dell'appalto in questione nell'ambito di quelle complessivamente maturate dalle società interessate, onde apprezzare la misura in cui l'impossibilità di allegare le prime incida, in futuro, sulle chances di aggiudicazione di ulteriori appalti.

Ed infatti l'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un'impresa, va, invero, ben oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé, e al relativo incasso; alla mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano, infatti, indiretti nocumenti all'immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operino su medesimo target di mercato (TAR Sicilia, Catania, sez. II, 04.06.2010, n. 2069).
In linea di massima, allora, deve ammettersi che l'impresa illegittimamente privata dell'esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale (Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2008, n. 2751; analogamente, Cons. Stato, Sez. VI, 02.03.2009, n. 1180; Cons. Stato, Sez. VI, 21.05.2009, n. 3144; Cons. Stato, Sez. V, 23.07.2009, n. 4594; TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 07.01.2010, n. 3); tale danno viene generalmente rapportato, in via equitativa, a valori percentuali compresi fra l'1% e il 5% dell'importo globale dell'appalto da aggiudicare, depurato del ribasso offerto.
Al riguardo si rileva che, in sede di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata aggiudicazione di una gara di appalto, è onere dell'interessato richiedere in sede giurisdizionale il risarcimento del c.d. danno curriculare, in astratto risarcibile, e fornirne adeguatamente la relativa prova (Consiglio di Stato, sez. VI, 21.09.2010, n. 7004); pertanto l'onere di fornire la prova del danno ricade integralmente sull'interessato.
Ed infatti, sotto il profilo probatorio, ai sensi degli articoli 2697 c.c. e 115 c.p.c., applicabili anche al processo amministrativo (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 07.10.2009, n. 6118), incombe sul danneggiato l'onere di fornire la prova del danno, del nesso di causalità, e dell'attribuibilità psicologica al soggetto agente (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 22.02.2010, n. 1038; Cass. civile, Sez. I, 15.02.2008, n. 3794).
La voce di danno in questione, pertanto, sebbene suscettibile di apprezzamento in via equitativa, esige, in ogni caso, l'allegazione, da parte del soggetto interessato, di tutti gli elementi atti a concretizzarla, onde evitare che la relativa quantificazione giudiziaria si risolva nel riconoscimento di un ristoro eccedente quello necessario alla compensazione patrimoniale del pregiudizio effettivamente subito: elementi relativi, ad esempio, al peso delle referenze correlate all'esecuzione dell'appalto in questione nell'ambito di quelle complessivamente maturate dalle società interessate, onde apprezzare la misura in cui l'impossibilità di allegare le prime incida, in futuro, sulle chances di aggiudicazione di ulteriori appalti (TAR Campania, Salerno, n. 203/2008) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 28.06.2012 n. 3089 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia urbanistica, il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale difformità della concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione. Di conseguenza, l'ordinanza di demolizione -in quanto atto vincolato- non richiede, in alcun caso, una specifica motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti o sacrificati
L'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico.
Non può ravvisarsi il lamentato difetto di motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione, in considerazione del fatto che, in presenza di immobile abusivo, la demolizione è atto dovuto che non necessita di particolari argomentazioni.
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Nel caso in cui in zona soggetta a vincolo panoramico venga realizzata una costruzione edilizia senza la preventiva autorizzazione, o in difformità del progetto approvato, la demolizione dell'opera abusiva costituisce la forma primaria ed ordinaria di repressione, per cui il provvedimento che ordina la demolizione è sufficientemente motivato col solo riferimento all'abusività della costruzione ed al pregiudizio derivante alla zona protetta, senza che sia necessario specificare le ragioni per le quali non si ritiene di comminare in sua vece la sanzione pecuniaria, che è misura diretta a realizzare in modo meno efficace la tutela del paesaggio.
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La criticata carenza dell’individuazione di un interesse pubblico specifico all’abbattimento è da intendersi in re ipsa, posto che compito primario della amministrazione pubblica è quello al corretto utilizzo del territorio e dunque alla repressione degli abusi al fine fondamentale e primario del ripristino dei luoghi alterati, per il tramite della demolizione.

Come afferma la giurisprudenza, “In materia urbanistica, il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale difformità della concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione. Di conseguenza, l'ordinanza di demolizione -in quanto atto vincolato- non richiede, in alcun caso, una specifica motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti o sacrificati”: TAR Campania Napoli, sez. VIII, 15.05.2008, n. 4556; “L'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico”: TAR Campania Napoli, sez. IV, 08.07.2008, n. 7798; “Non può ravvisarsi il lamentato difetto di motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione, in considerazione del fatto che, in presenza di immobile abusivo, la demolizione è atto dovuto che non necessita di particolari argomentazioni”: TAR Campania Napoli, sez. VI, 19.06.2008, n. 6016.
Quanto alla censurata assenza di comparazione fra demolizione e previsione di una sanzione equivalente, deve ritenersi che, nel caso di specie, le ragioni connesse all’ordinato assetto degli immobili edificati siano state razionalmente ritenute prevalenti, stante la natura dei luoghi che la stessa ricorrente assume “compressi” da edifici e problemi di viabilità; non va poi tralasciato l’inquadramento dell’invocata sanzione solo pecuniaria nell’ambito della condivisibile giurisprudenza ove afferma che “Nel caso in cui in zona soggetta a vincolo panoramico venga realizzata una costruzione edilizia senza la preventiva autorizzazione, o in difformità del progetto approvato, la demolizione dell'opera abusiva costituisce la forma primaria ed ordinaria di repressione, per cui il provvedimento che ordina la demolizione è sufficientemente motivato col solo riferimento all'abusività della costruzione ed al pregiudizio derivante alla zona protetta, senza che sia necessario specificare le ragioni per le quali non si ritiene di comminare in sua vece la sanzione pecuniaria, che è misura diretta a realizzare in modo meno efficace la tutela del paesaggio.” TAR Puglia/Bari nr. 547 del 03.09.1984.
Con il secondo motivo, si ritorna sulla problematica della motivazione che, anche nelle ulteriori articolazioni, va però parimenti respinta.
La criticata carenza dell’individuazione di un interesse pubblico specifico all’abbattimento è da intendersi (giova ribadirlo) in re ipsa, posto che compito primario della amministrazione pubblica è quello al corretto utilizzo del territorio e dunque alla repressione degli abusi al fine fondamentale e primario del ripristino dei luoghi alterati, per il tramite della demolizione (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 27.06.2012 n. 3075 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In nessuna delle disposizioni di cui all’art. 27 DPR 380/2001 è previsto un termine decadenziale per l’adozione della sanzione ripristinatoria allorquando l’amministrazione constati l’effettuazione di opere edilizie in zona vincolata, in assenza del permesso di costruire.
Rileva il Collegio che, il termine di 45 giorni, fissato dal comma 3, per adottare l’ordinanza di demolizione dopo l’emanazione di quella di sospensione dei lavori, deve intendersi quale termine di efficacia di tale ultimo ordine e non già quale termine perentorio entro cui l’Amministrazione è tenuta ad emettere l'ordine di demolizione.
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Lo specifico presupposto che differenzia il procedimento sanzionatorio previsto dall’art. 31 del T.U. dell’edilizia (ex art. 4 della legge n. 47 del 1985), rispetto a quello del medesimo testo normativo (ex art. 7 della stessa legge n. 47/1985) va rinvenuto nella localizzazione delle opere abusive su aree assoggettate a vincolo di inedificabilità, (comprensivo sia dell’inedificabilità assoluta sia di quella relativa, ovvero destinate ad opere e spazi pubblici o ad interventi di edilizia residenziale pubblica e quindi nella necessità di reintegrare con immediatezza il bene protetto, pregiudicato dall’abusivo intervento.
Ne consegue che in tal caso l’ordine di demolizione deve seguire automaticamente all’accertamento dell’illecito senza la necessità di una preventiva notifica della diffida a demolire e senza alcun margine per valutazioni discrezionali (anche in ordine alla scelta se procedere alla demolizione o unicamente alla acquisizione al patrimonio dell’ente), al fine di impedire che il trascorrere del tempo determini il consolidarsi di situazioni soggettive che potrebbero impedire l’applicazione della sanzione ripristinatoria.

In nessuna delle disposizioni di cui all’art. 27 citato è previsto un termine decadenziale per l’adozione della sanzione ripristinatoria allorquando l’amministrazione constati l’effettuazione di opere edilizie in zona vincolata, in assenza del permesso di costruire.
Dispone, infatti, la norma evocata che “Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa…3. Ferma rimanendo l'ipotesi prevista dal precedente comma 2, qualora sia constatata, dai competenti uffici comunali d'ufficio o su denuncia dei cittadini, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile dell'ufficio, ordina l'immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all'adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall'ordine di sospensione dei lavori. Entro i successivi quindici giorni dalla notifica il dirigente o il responsabile dell’ufficio, su ordinanza del sindaco, può procedere al sequestro del cantiere”.
Rileva il Collegio che, il termine di 45 giorni, fissato dal comma 3, per adottare l’ordinanza di demolizione dopo l’emanazione di quella di sospensione dei lavori, deve intendersi quale termine di efficacia di tale ultimo ordine e non già quale termine perentorio entro cui l’Amministrazione è tenuta ad emettere l'ordine di demolizione.
Ricorrono, inoltre, nella specie i presupposti previsti dalla legge per l’adozione dell’atto, posto che l’amministrazione ha accertato la presenza di un’opera abusiva in un’area gravata da specifico vincolo e non è necessario, ai fini dell’applicabilità del richiamato art. 27, che le opere siano ancora in uno stato diverso dalla “conclusione dei lavori”. Questa norma è stata infatti univocamente interpretata dalla giurisprudenza nel senso che lo specifico presupposto che differenzia il procedimento sanzionatorio previsto dall’art. 31 del T.U. dell’edilizia (ex art. 4 della legge n. 47 del 1985), rispetto a quello del medesimo testo normativo (ex art. 7 della stessa legge n. 47/1985) va rinvenuto nella localizzazione delle opere abusive su aree assoggettate a vincolo di inedificabilità, (comprensivo sia dell’inedificabilità assoluta sia di quella relativa – cfr. in questo senso TAR Campania, Napoli sez. III, 07.02.2008, n. 3862), ovvero destinate ad opere e spazi pubblici o ad interventi di edilizia residenziale pubblica e quindi nella necessità di reintegrare con immediatezza il bene protetto, pregiudicato dall’abusivo intervento.
Ne consegue che in tal caso l’ordine di demolizione deve seguire automaticamente all’accertamento dell’illecito senza la necessità di una preventiva notifica della diffida a demolire e senza alcun margine per valutazioni discrezionali (anche in ordine alla scelta se procedere alla demolizione o unicamente alla acquisizione al patrimonio dell’ente), al fine di impedire che il trascorrere del tempo determini il consolidarsi di situazioni soggettive che potrebbero impedire l’applicazione della sanzione ripristinatoria (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. IV, 12.04.2005, n. 3780).
La corretta applicazione, nella fattispecie dell’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001, vale a confutare anche il secondo motivo con il quale si deduce la mancata concessione del termine di 90 gg. (previsto dall’art. 31 del medesimo D.P.R. ma non dall’art. 27) per procedere alla demolizione
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 27.06.2012 n. 3054 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere”.
infatti, “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi”.
Presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l’eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l’ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall’ultimazione dell’opera avendo l’inerzia dell’amministrazione creato un qualche affidamento nel privato.
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I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento..qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data al ricorrente l’opportunità di interloquire con l’amministrazione.

Come affermato dalla giurisprudenza in presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021); infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l’eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l’ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall’ultimazione dell’opera avendo l’inerzia dell’amministrazione creato un qualche affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270).
Nella fattispecie, si tratta di un intervento di nuova costruzione in zona vincolata che, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera a), del D.P.R. n. 380/2001, avrebbe richiesto il previo rilascio del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesistica. L’amministrazione, riscontrata l’assenza dei predetti titoli, ha correttamente ordinato la demolizione dell’opera in contestazione sulla base dell’art. 31, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 (che prevede la sanzione della demolizione per gli interventi edilizi eseguiti in assenza del prescritto permesso di costruire).
D’altra parte, il ricorrente non mette in discussione né la consistenza delle opere individuate nella motivazione dell’atto, né l’assenza di qualsivoglia titolo abilitativo. Infondata al riguardo la censura della omessa descrizione dei lavori eseguiti che trova puntuale riscontro nell’atto gravato. Nessun dubbio può, quindi, porsi sull’oggetto della disposta demolizione mentre, come più volte affermato dalla giurisprudenza, la mancata specificazione delle aree da sottoporre all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio, non costituisce motivo di illegittimità di quest’ultimo, potendo l’amministrazione provvedere a tale incombenza con il successivo ed eventuale atto di acquisizione.
Destituita di ogni fondamento risulta la censura incentrata sulla omissione della fase partecipativa al procedimento (violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 – primo motivo) in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento..qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data al ricorrente l’opportunità di interloquire con l’amministrazione.
Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione del comma 3, dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 in quanto la demolizione è stata disposta ad horas senza concedere il termine di 90 gg. previsto dal citato art. 31 per l’adempimento spontaneo dell’ingiunzione. Osserva sul punto il Collegio che non risulta dagli atti di causa che l’amministrazione abbia portato in alcun modo ad esecuzione quest’ultima.
Pertanto, l’interessato è stato messo nelle condizioni di demolire spontaneamente il manufatto nel termine previsto dall’art. 31 del predetto D.P.R.. La giurisprudenza ha del resto sempre affermato che “è irrilevante l’assegnazione nel provvedimento demolitorio di un termine inferiore a 90 gg. se, in concreto, detto termine è stato rispettato dall’amministrazione comunale” (cfr. ex multis, C.d.S. sez V, 24.02.2003, n. 986) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 27.06.2012 n. 3053 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La legge Tognoli deve interpretarsi come integrativa delle disposizioni di piano laddove queste ultime non siano in grado o si pongano di ostacolo al soddisfacimento del bisogno di parcheggi nelle aree urbane congestionate.
Osserva in proposito il Collegio, come l’unanime giurisprudenza abbia considerato la possibilità di realizzare parcheggi in deroga allo strumento urbanistico posta dall’art. 9 come previsione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
Ebbene, se lo strumento urbanistico realizza in sé gli obiettivi della legge Tognoli (bilanciando, in particolare, l’esigenza di parcheggi pubblici con quella di parcheggi privati pertinenziali, attraverso un vincolo conformativo che si estende al sottosuolo – cfr. motivazione del provvedimento impugnato in replica alle osservazioni presentate dalla ricorrente in sede di partecipazione al procedimento) invocarne la deroga equivarrebbe a vanificare gli effetti della legge stessa. In altre parole la legge Tognoli deve interpretarsi come integrativa delle disposizioni di piano laddove queste ultime non siano in grado o si pongano di ostacolo al soddisfacimento del bisogno di parcheggi nelle aree urbane congestionate.
Nella fattispecie, questa condizione per l’applicazione della Tognoli e delle disposizioni che abilitano alla deroga ivi stabilita, non si realizza posto che lo strumento urbanistico prende direttamente in considerazione il problema dei parcheggi, facendo sì che in determinate zone (evidentemente centrali o commerciali), sia garantita un’adeguata presenza di parcheggi pubblici accanto a quelli pertinenziali privati (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 27.06.2012 n. 3051 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di volume tecnico, non computabile nel calcolo della volumetria massima consentita, può essere applicata solo con riferimento ad opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa; si tratta, in particolare, di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione, che non possono essere ubicati all'interno di essa, connessi alla condotta idrica, termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica.
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Occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumano tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche dell’intervento abusivo realizzato dal ricorrente risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto intervento –non essendo coessenziale ad un bene principale e potendo essere successivamente utilizzato in modo autonomo e separato (ndr: garage interrato regolarmente avente una superficie di 48,50 mq. e con altezza di 2,30 mt.)– non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire.
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La mancata specificazione delle aree da sottoporre all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio, non costituisce motivo di illegittimità di quest’ultimo, potendo l’amministrazione provvedere a tale incombenza con il successivo ed eventuale atto di acquisizione.
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L’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere.
Infatti, l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi”.
Presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l’eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l’ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall’ultimazione dell’opera avendo l’inerzia dell’amministrazione creato un qualche affidamento nel privato.
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In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza del prescritto permesso di costruire, l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.
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I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data al ricorrente l’opportunità di interloquire con l’amministrazione.

Oggetto della presente controversia è il provvedimento con il quale il Comune di Somma Vesuviana ha ingiunto al ricorrente di demolire un manufatto realizzato sopra un garage interrato regolarmente assentito con DIA del 23.04.2004 (prot. 5638), avente una superficie di 48,50 mq. e con altezza di 2,30 mt.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta che l’intervento edilizio contestato, concretandosi nella realizzazione di un volume tecnico, ricadrebbe nella disciplina di cui all’art. 22, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 con l’applicazione, in ipotesi, della sola sanzione pecuniaria.
Il motivo non ha pregio.
Il ricorrente ha realizzato un nuovo volume, di rilevanti dimensioni, al di sopra di un garage interrato e ciò avrebbe richiesto, ex art. 10, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001 la previa acquisizione del permesso di costruire nonché, trattandosi di zona paesaggisticamente vincolata ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, dell’autorizzazione paesaggistica; con la conseguenza che l’amministrazione, constatata l’assenza dei predetti titoli, ha correttamente ordinato la demolizione dell’opera ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001.
Il nuovo manufatto non può, poi, per le sue caratteristiche essere considerato né volume tecnico (seppure così formalmente definito dal provvedimento), né pertinenza dell’abitazione (primo e secondo motivo).
Si è, in particolare, evidenziato come nella fattispecie si tratti di un nuovo volume della superficie di circa 48 mq. con altezza di circa 2 metri che sorge su un garage interrato, sicuramente suscettibile di autonoma utilizzazione. Sul punto la giurisprudenza ha statuito che “La nozione di volume tecnico, non computabile nel calcolo della volumetria massima consentita, può essere applicata solo con riferimento ad opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa; si tratta, in particolare, di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione, che non possono essere ubicati all'interno di essa, connessi alla condotta idrica, termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica” (ex multis, TAR Piemonte Torino, sez. I, 14.01.2011 , n. 16).
Quanto alla censura circa la natura pertinenziale delle opere abusive in questione, secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2005, n. 365; TAR Lazio, sez. II, 04.02.2005, n. 1036) occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumano tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire. Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche dell’intervento abusivo realizzato dal ricorrente risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto intervento –non essendo coessenziale ad un bene principale e potendo essere successivamente utilizzato in modo autonomo e separato– non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire.
In relazione alla censura inerente la mancata verifica della reale difformità dell’abuso rispetto al titolo posseduto, osserva il Collegio come il provvedimento indichi con chiarezza che l’intervento edilizio colpito dalla sanzione ripristinatoria è il volume edificato sopra il garage (regolarmente assentito). L’opera in questione è stata realizzata in totale difformità dal titolo –la DIA del 23.03.2004– il cui contenuto era limitato alla realizzazione di un parcheggio interrato. Legittima sotto questo profilo l’applicazione dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001.
Nessun dubbio può quindi porsi sull’oggetto della disposta demolizione mentre, come più volte affermato dalla giurisprudenza, la mancata specificazione delle aree da sottoporre all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio, non costituisce motivo di illegittimità di quest’ultimo, potendo l’amministrazione provvedere a tale incombenza con il successivo ed eventuale atto di acquisizione.
Non rileva neppure che il parcheggio sia stato in precedenza considerato legittimo dal punto di vista urbanistico. La circostanza, infatti, che l’amministrazione abbia consentito la costruzione di un manufatto interrato non implica la possibilità per il ricorrente di edificarvi, senza alcun titolo, un ulteriore volume.
Infondato anche la censura di difetto di motivazione per non aver l’amministrazione qualificato la gravità dell’illecito edilizio. Come affermato dalla giurisprudenza in presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021); infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006 , n. 824) ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l’eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l’ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall’ultimazione dell’opera avendo l’inerzia dell’amministrazione creato un qualche affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270).
Peraltro, in presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza del prescritto permesso di costruire, l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi (secondo motivo).
Destituita di ogni fondamento risulta la censura incentrata sulla omissione della fase partecipativa al procedimento (violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 – terzo motivo) in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data al ricorrente l’opportunità di interloquire con l’amministrazione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 27.06.2012 n. 3048 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza impugnata, ingiungendo la sospensione dei lavori, oltre che la demolizione, è il primo provvedimento, interinale, che il Dirigente del servizio competente deve adottare allorché venga accertata l’esecuzione di opere senza permesso di costruire o in difformità dallo stesso, per cui integra anche la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla reprensione dell’abuso stesso.
L’ordinanza di demolizione, stante il suo carattere vincolato e l’inutilità dell’apporto collaborativo del destinatario, si sottrae all’obbligo della previa comunicazione di avvio del procedimento, la quale si risolverebbe in una formalità del tutto inutile, essendo inidonea and incidere con efficacia causale sul contenuto dell’adottando provvedimento repressivo.
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L’ordinanza di demolizione di opere abusive presuppone un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime e, pertanto, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento.

In disparte la circostanza che l’ordinanza impugnata, ingiungendo la sospensione dei lavori, oltre che la demolizione, è il primo provvedimento, interinale, che il Dirigente del servizio competente deve adottare allorché venga accertata l’esecuzione di opere senza permesso di costruire o in difformità dallo stesso, per cui integra, per pacifica giurisprudenza, anche la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla reprensione dell’abuso stesso, condividendone le finalità, va notato come, per giurisprudenza altrettanto pacifica, l’ordinanza di demolizione, stante il suo carattere vincolato e l’inutilità dell’apporto collaborativo del destinatario, si sottrae all’obbligo della previa comunicazione di avvio del procedimento, la quale si risolverebbe in una formalità del tutto inutile, essendo inidonea and incidere con efficacia causale sul contenuto dell’adottando provvedimento repressivo (per tutte, TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666).
Si è in tal senso affermato, condivisibilmente, che l’ordinanza di demolizione di opere abusive presuppone un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime e, pertanto, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento (TAR Liguria, Sez. I, 22.04.2011, n. 666, cit.; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 10.08.2008, n. 9710; TAR Umbria, 05.06.2007, n. 499; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 17.01.2007, n. 357) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 27.06.2012 n. 3041 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Amministrazione, una volta eventualmente accertata l’illegittimità di una determinata situazione fattuale, è vincolata -prima di procedere all’adozione dei conseguenziali provvedimenti sanzionatori- a valutare previamente la fondatezza delle istanze dei privati finalizzate ad ottenere il rilascio di provvedimenti di sanatoria, adottando al riguardo un espresso e motivato provvedimento.
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E' congruamente motivata l’ordinanza demolitoria che muova dall’accertamento di un intervento edilizio eseguito in contrasto con la normativia urbanistico-edilizia e in spregio della protezione vincolistica ex D.Lgs. n. 42/2004.
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Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.

L’astratta assentibilità delle opere non può costituire un elemento ostativo all’irrogazione delle sanzioni previste dall’ordinamento per interventi edilizi realizzati in assenza di titolo, salvo il caso –che qui non ricorre per le ragioni già esposte– in cui penda un’istanza di sanatoria straordinaria.
Costituisce, infatti, jus receptum nel nostro ordinamento, oltre che principio reiteratamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, l’assunto secondo il quale l’Amministrazione, una volta eventualmente accertata l’illegittimità di una determinata situazione fattuale, è vincolata -prima di procedere all’adozione dei conseguenziali provvedimenti sanzionatori- a valutare previamente la fondatezza delle istanze dei privati finalizzate ad ottenere il rilascio di provvedimenti di sanatoria, adottando al riguardo un espresso e motivato provvedimento (cfr. TAR Calabria Reggio Calabria 27.03.2002 n. 199; TAR Campania Napoli, sez. IV, 22.07.2002, n. 4335; TAR Campania Salerno, sez. II, 20.01.2003 n. 64).
Nel caso di specie, la pendenza delle domande di sanatoria ai sensi della Legge n. 326/2003, per la loro genericità ed inerenza ad altre opere, non determina la illegittimità dei provvedimenti sanzionatori.
In definitiva, nel caso di specie, l’attività edilizia è stata intrapresa senza né il titolo edilizio né il titolo paesistico prescritti e ha condotto alla realizzazione di manufatti per i quali neppure successivamente è stata proposta istanza di sanatoria né in via ordinaria (art. 36 D.P.R. 380/2001) né, tantomeno, come si è evidenziato, in via straordinaria.
Quanto poi alle doglianze relative a carenze istruttorie e motivazionali dei provvedimenti demolitori impugnati, il Tribunale si richiama al proprio costante indirizzo, secondo il quale è congruamente motivata l’ordinanza demolitoria che muova dall’accertamento di un intervento edilizio eseguito in contrasto con la normativia urbanistico-edilizia e in spregio della protezione vincolistica ex D.Lgs. n. 42/2004 (cfr. motivazione dei provvedimenti impugnati): «l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell'amministrazione in relazione al provvedere» (cfr., ex multis, TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021).
Del pari è infondata la censura inerente la violazione dell’art. 7 Legge n. 241/1990: secondo il costante orientamento di questo Tribunale, infatti, gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Lazio, Sez. II, 31.01.2001, n. 782) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 27.06.2012 n. 3035 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime.
Inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
Infatti, posto che l'ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame -trattandosi di un consistente intervento di nuova edificazione (sostanziatosi, secondo quanto emerge dalla documentazione versata in atti, nell’edificazione di un immobile destinato ad abitazione, articolato su due piani fuori terra) subordinato al preventivo rilascio del permesso di costruire- risulta palese che il contenuto dispositivo dell'impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se alla parte ricorrente fosse stata data comunicazione dell'avvio del procedimento.
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L'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
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La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia.

Il Collegio evidenzia, infatti, che secondo la prevalente giurisprudenza, (ex multis, TAR Liguria Genova, Sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Campania Salerno, Sez. II, 13.04.2011, n. 702; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 06.04.2011, n. 1941; Sez. IV, 13.01.2011, n. 84; TAR Puglia Lecce, Sez. III, 09.02.2011, n. 240) i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime.
Inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
Infatti, posto che l'ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame -trattandosi di un consistente intervento di nuova edificazione (sostanziatosi, secondo quanto emerge dalla documentazione versata in atti, nell’edificazione di un immobile destinato ad abitazione, articolato su due piani fuori terra) subordinato al preventivo rilascio del permesso di costruire- risulta palese che il contenuto dispositivo dell'impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se alla parte ricorrente fosse stata data comunicazione dell'avvio del procedimento.
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Il secondo motivo di ricorso -incentrato sul difetto di motivazione- risulta palesemente infondato perché, secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008, n. 20987), l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
Il Collegio reputa opportuna una ulteriore puntualizzazione.
Come esposto nella narrativa in fatto, la difesa del ricorrente ha depositato, in data 19.04.2012, un’istanza di sanatoria, presentata il 28.03.2000 all’amministrazione comunale, ai sensi dell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, avente ad oggetto l’immobile sanzionato con l’ordinanza di demolizione gravata, composto –secondo quanto emerge dalla stessa istanza– da due piani fuori terra, con sottotetto realizzato in legno e tegole.
Sebbene la difesa della ricorrente si sia limitata alla suddetta produzione senza avanzare alcuna domanda ad essa correlata, il Collegio ritiene di dover chiarire che la validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza. All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (in termini, Cons. St., sez. IV, 19.02.2008, n. 849; TAR, Campania, Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961).
Alla luce delle considerazioni che precedono deve, dunque, escludersi che la produzione della suddetta istanza determini un’incidenza sul presente giudizio, dovendosi anche osservare che la domanda di sanatoria è stata presentata in data 28.03.2000 sicché su tale istanza si è formato il provvedimento tacito di rigetto, che non risulta aver costituito oggetto di impugnazione: l’art. 13 della l. n. 47 del 1985, analogamente a quanto attualmente previsto dall’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, disponeva, infatti, che sulla “richiesta di concessione o di autorizzazione in sanatoria il sindaco si pronuncia entro sessanta giorni, trascorsi i quali la richiesta si intende respinta” (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 26.06.2012 n. 3017 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia.
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L’acquisizione gratuita rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale difformità o in assenza di concessione e, poi, non adempie l’obbligo di demolire l’opera stessa entro il termine fissato, sicché la questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata perché la gratuità del trasferimento al patrimonio indisponibile comunale delle costruzioni edilizie abusive rappresenta la naturale conseguenza del carattere sanzionatorio amministrativo del provvedimento di confisca, che esclude a priori ogni problema di indennizzo.

In relazione alla presentazione, successivamente all’adozione del provvedimento impugnato, della domanda di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 ed alle conseguenze che, ad avviso dei ricorrenti ne deriverebbero, il Collegio osserva, in primo luogo, che la validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata. Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (in termini, Cons. St., sez. IV, 19.02.2008, n. 849; TAR, Campania, Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961).
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Risulta manifestamente infondata, in riferimento all'art. 42 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 (disposizione applicata dall’amministrazione, di cui l’articolo 7 della l. n. 47 del 1985 richiamato dalla difesa dei ricorrenti costituisce l’antecedente normativo), nella parte in cui prevede l’acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile del comune, oltre che della costruzione abusiva non tempestivamente demolita, anche dell’area sulla quale essa insiste e delle aree pertinenziali.
Infatti, come evidenziato dalla giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. VII, 13.05.2009, n. 2599; Sez. III, 09.07.2007, n. 6581) l’acquisizione gratuita rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale difformità o in assenza di concessione e, poi, non adempie l’obbligo di demolire l’opera stessa entro il termine fissato, sicché la questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata perché la gratuità del trasferimento al patrimonio indisponibile comunale delle costruzioni edilizie abusive rappresenta la naturale conseguenza del carattere sanzionatorio amministrativo del provvedimento di confisca, che esclude a priori ogni problema di indennizzo
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 26.06.2012 n. 3015 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La proposizione della domanda di concessione o permesso di costruire in sanatoria, a seguito di ordinanza sanzionatoria di abusi edilizi, comporta la sopravvenuta carenza di interesse del ricorso proposto avverso quest’ultima, in quanto ai sensi degli artt. 38 e 44 della legge 28.02.1985 n. 47, che trovano applicazione anche per le domande di sanatoria presentate ex l. n. 326 del 2003, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere esplicitamente sulla domanda prima di adottare eventuali provvedimenti sanzionatori o portare ad esecuzione quelli già adottati.
Per giurisprudenza costante, anche di questa Sezione, la proposizione della domanda di concessione o permesso di costruire in sanatoria, a seguito di ordinanza sanzionatoria di abusi edilizi, comporta la sopravvenuta carenza di interesse del ricorso proposto avverso quest’ultima, in quanto ai sensi degli artt. 38 e 44 della legge 28.02.1985 n. 47, che trovano applicazione anche per le domande di sanatoria presentate ex l. n. 326 del 2003, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere esplicitamente sulla domanda prima di adottare eventuali provvedimenti sanzionatori o portare ad esecuzione quelli già adottati (cfr., per tutte, TAR Campania, Sez. II, 21.09.2006, n. 8199; Consiglio di Stato, Sezione IV, 11.12.1997, n. 1377)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 26.06.2012 n. 3013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della verifica del limite massimo di cubatura condonabile, va fatto riferimento all’unitarietà dell'immobile o del complesso immobiliare, ove sia stato realizzato l’abuso edilizio in esecuzione di un disegno unitario, essendo irrilevante la suddivisione dell’opera in più unità abitative.
Anche la Corte Costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 39, primo comma, della legge n. 724 del 1994, ha rilevato, in sostanza, che il soggetto legittimato non può utilizzare separate domande per aggirare il limite di volumetria previsto, da ritenersi assoluto ed inderogabile.

Come chiarito dalla giurisprudenza, anche di questa Sezione –già con riferimento all’art. 39 della L. n. 724 del 1994, richiamato nell’ambito dell’art. 32, comma 25, del D.L. n. 269/2003 convertito in L. n. 326/2003– ai fini della verifica del limite massimo di cubatura condonabile, va fatto riferimento all’unitarietà dell'immobile o del complesso immobiliare, ove sia stato realizzato l’abuso edilizio in esecuzione di un disegno unitario, essendo irrilevante la suddivisione dell’opera in più unità abitative (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 03.03.2001 n. 1229; TAR Campania, Sezione II, 07.05.2007 n. 4791 e 29.06.2007 n. 6376).
Anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 302 del 23.07.1996, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 39, primo comma, della legge n. 724 del 1994, ha rilevato, in sostanza, che il soggetto legittimato non può utilizzare separate domande per aggirare il limite di volumetria previsto, da ritenersi assoluto ed inderogabile.
In definitiva, ai fini in esame, l’edificio va inteso quale complesso unitario che fa capo ad un unico soggetto legittimato alla proposizione della domanda di condono, per cui le eventuali singole istanze presentate in relazione alle singole unità che compongono tale edificio devono riferirsi ad un’unica concessione in sanatoria, onde evitare l’elusione del limite di 750 mc. attraverso la considerazione delle singole parti in luogo dell'intero complesso (cfr., in termini, Cassazione penale, Sezione III, 19.04.2005 n. 20161)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 26.06.2012 n. 3013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La domanda di risarcimento del danno non sostenuta dalle allegazioni necessarie all'accertamento della responsabilità dell'Amministrazione deve essere disattesa, atteso che grava sul danneggiato l'onere di provare gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno e dunque almeno di una diminuzione patrimoniale o di perdita di chance, con la conseguenza che la totale assenza di queste indicazioni priva il giudice anche della possibilità di una valutazione equitativa.
Il danno conseguente alla lesione dell'interesse legittimo pretensivo (conseguente all'annullamento dell'illegittimo diniego di titolo edilizio), seppure nel circoscritto ambito della sola c.d. causalità giuridica di cui agli art. 1223 c.c. ss., e non della causalità materiale ex art. 41 c.p., è comunque governato dal rigido principio dell'onere d'allegazione e prova da parte del danneggiato, non suscettibile di essere supplito dalla valutazione equitativa del giudice che è rigidamente circoscritta alla sola definizione del quantum.

Il Collegio non può quindi che fare applicazione, nella specie, del pacifico insegnamento giurisprudenziale (discendente direttamente dal principio generale di cui all'articolo 2697 c.c.), secondo cui <<la domanda di risarcimento del danno non sostenuta dalle allegazioni necessarie all'accertamento della responsabilità dell'Amministrazione deve essere disattesa, atteso che grava sul danneggiato l'onere di provare gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno e dunque almeno di una diminuzione patrimoniale o di perdita di chance, con la conseguenza che la totale assenza di queste indicazioni priva il giudice anche della possibilità di una valutazione equitativa>>: Consiglio di Stato, sez. V, 27.04.2012, n. 2449 (cfr., altresì, TAR Liguria, sez. I, 06.02.2010, n. 303, secondo cui <<Il danno conseguente alla lesione dell'interesse legittimo pretensivo (conseguente all'annullamento dell'illegittimo diniego di titolo edilizio), seppure nel circoscritto ambito della sola c.d. causalità giuridica di cui agli art. 1223 c.c. ss., e non della causalità materiale ex art. 41 c.p., è comunque governato dal rigido principio dell'onere d'allegazione e prova da parte del danneggiato, non suscettibile di essere supplito dalla valutazione equitativa del giudice che è rigidamente circoscritta alla sola definizione del quantum>>) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 26.06.2012 n. 3000 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA La presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 in epoca successiva all’adozione dell’ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione contro l’atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell’abusività dell’opera, provocato dall’istanza, sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
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Ai sensi dell'art. 31, comma 4, DPR 380/2001 il titolo per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II. è costituito dall’accertamento di inottemperanza della ingiunzione a demolire; e per tale deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale.

Il Collegio aderisce all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 in epoca successiva all’adozione dell’ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione contro l’atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell’abusività dell’opera, provocato dall’istanza, sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
Nel senso dell’improcedibilità si è già peraltro più volte espressa la giurisprudenza anche di questo Tribunale con riferimento sia alle istanze di sanatoria sia alle richieste di accertamento di conformità ex art. 36 TU 06.06.2001 n. 380 presentate dopo l’ordinanza di demolizione (TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 07.11.2008, n. 1482; TAR Campania Napoli, sez. VI, 22.10.2008, n. 17688; TAR Campania Napoli, sez. III, 18.09.2008, n. 10346; TAR Campania Napoli, sez. VI, 16.09.2008, n. 10220; TAR Campania Napoli, sez. VI, 18.03.2008, n. 1399; TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 30.01.2008 n. 255/2008; TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 27.02.2008 n. 545/2008; Consiglio Stato, sez. V, 26.06.2007, n. 3659; Cons. Stato, 31.05.2006 n. 7884).
Tale istanza, peraltro, è stata negativamente decisa con l’anzidetta disposizione dirigenziale n. 36 del 09.03.2007, che ha contestualmente rinnovato l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
Il nuovo ordine di demolizione si presenta, quindi, come un provvedimento demolitorio sostitutivo del provvedimento gravato nell’atto introduttivo del presente giudizio, e la lesione alla sfera giuridica del ricorrente deriva pertanto unicamente dal nuovo provvedimento (cfr. Tar Campania Napoli, sez. III, sent. n. 2579/2004).
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Da ultimo, va esaminato il terzo gravame proposto con i motivi aggiunti, avverso il verbale di dissequestro dei vigili, che da atto della emissione di ordinanza di acquisizione e quindi non dispone la riconsegna dell’immobile al Vivenzio, in quanto l’avente diritto viene individuato nel Comune di Napoli. La impugnativa in parte qua è inammissibile.
Osserva in proposito il Collegio che detto verbale costituisce mero atto endoprocedimentale, non autonomamente impugnabile, trattandosi di accertamento di inottemperanza all’ordine di demolizione, circoscritto alla attestazione della mancata esecuzione della diffida a demolire.
Lo stesso, laddove aggiunge che l’immobile viene restituito al Comune di Napoli, quale avente diritto, da previamente atto che sarebbe stata emessa ordinanza sindacale di acquisizione ex art. 31 DPR 380/2001.
In tal senso, il detto verbale non riveste autonoma efficacia lesiva, in quanto si limita a dare atto della avvenuta emanazione di atto di acquisizione, che peraltro non forma oggetto del presente giudizio.
Dispone al riguardo l’art. 31 DPR 380/2001, commi 3 e 4: “3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.
4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente
.”
Ai sensi del citato art. 31, comma 4, DPR 380/2001 il titolo per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II. è costituito dall’accertamento di inottemperanza della ingiunzione a demolire; e per tale deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale (cfr. TAR Campania Napoli sez. II n. 5905/2008) ma un atto formale di accertamento compiuto dagli organi dell’ente dotati della relativa potestà provvedimentale
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 26.06.2012 n. 2999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In pendenza di una procedura di sanatoria non definita, l’ordine di demolizione successivamente spedito rappresenta un sovvertimento dell’ordine logico di valutazione della fattispecie sottoposta all’esame degli organi competenti, con conseguente vizio di eccesso di potere dell’atto repressivo anticipato.
L’art. 38 legge 47/1985 impone all’amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva, che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, sicché la P.A. ha l’obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno dell’opera edilizia prima di portare ad ulteriore corso il procedimento repressivo.

Già in via generale infatti, in pendenza di una procedura di sanatoria non definita, l’ordine di demolizione successivamente spedito rappresenta un sovvertimento dell’ordine logico di valutazione della fattispecie sottoposta all’esame degli organi competenti, con conseguente vizio di eccesso di potere dell’atto repressivo anticipato (giurisprudenza consolidata: cfr., fra le tante, TAR Veneto, 07.07.2000, n. 1301; TAR Calabria, Catanzaro, 04.11.2001, n. 4; TAR Sardegna, 07.08.2000, n. 769; TAR Campania, Napoli, 10.11.1997, n. 2905 e 01.04.1999, n. 940;).
Per quanto riguarda la normativa eccezionale in materia di cosiddetto condono edilizio, poi, l’art. 38 della legge 28.02.1985, n. 47 –riferibile anche alle procedure avviate ai sensi dell’art. 32, comma 25, del D.L.30.09.2003, n. 269, convertito in legge 24.11.2003, n. 326, che nel successivo comma 28 prevede l’applicabilità delle disposizioni di cui alla citata legge n. 47/1985, ove compatibili– prevede che "la presentazione entro il termine perentorio della domanda…sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative".
Tenuto conto del principio generale sopra enunciato, deve ritenersi che la sospensione di cui trattasi si traduca in interruzione dell’iter procedurale per le sanzioni emesse prima della presentazione dell’istanza e di inibitoria dell’avvio di ogni attività repressiva, per opere che siano astrattamente sanabili, in presenza di istanza di condono che si trovi già agli atti dell’amministrazione.
Pertanto il ricorso va dichiarato improcedibile, stante l’art. 38 legge 47/1985, il cui disposto impone all’amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva, che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, sicché la P.A. ha l’obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno dell’opera edilizia prima di portare ad ulteriore corso il procedimento repressivo (cfr. CdS sez. V 24.03.1998 n. 345; 17.03.1998 n. 298) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 26.06.2012 n. 2998 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi del sesto comma dell’art. 22 D.P.R. n. 380, per interventi edilizi di eseguire sugli immobili sottoposti a tutela paesaggistica, è necessario il preventivo rilascio dell’autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo.
In sua assenza il procedimento avviato con la d.i.a non si perfeziona, di talché alcun titolo abilitativo alla realizzazione delle opere può dirsi acquisito, sicché il programmato intervento edilizio, ove venga, comunque, eseguito, deve ritenersi eseguito “sine titulo” e l’amministrazione è tenuta a sanzionarlo.
La violazione del chiaro principio impostato nell’articolo 22, comma 6, del d.p.r. 380/2001 circa la realizzabilità degli interventi in regime di DIA subordinatamente al preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica elide –ripetesi– qualsivoglia dubbio sulla presunta formazione del silenzio–assenso, ovvero affidamenti nel privato sulla legittimazione ad eseguire l’intervento oggetto di denuncia.
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Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo si fondi su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall'annullamento.

Ed, invero, ai sensi del sesto comma dell’art. 22 D.P.R. n. 380, per interventi edilizi di eseguire sugli immobili sottoposti a tutela paesaggistica, è necessario il preventivo rilascio dell’autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo (che, nella specie, non risulta essere stato affatto resa).
In sua assenza il procedimento avviato con la d.i.a non si perfeziona, di talché alcun titolo abilitativo alla realizzazione delle opere può dirsi acquisito, sicché il programmato intervento edilizio, ove venga, comunque, eseguito, deve ritenersi eseguito “sine titulo” e l’amministrazione è tenuta a sanzionarlo.
La violazione del chiaro principio impostato nell’articolo 22, comma 6, del d.p.r. 380/2001 circa la realizzabilità degli interventi in regime di DIA subordinatamente al preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica elide –ripetesi– qualsivoglia dubbio sulla presunta formazione del silenzio–assenso, ovvero affidamenti nel privato sulla legittimazione ad eseguire l’intervento oggetto di denuncia (cfr. TAR Campania, VI Sezione, n. 2385 del 28.04.2011, TAR Campania, VI Sezione n. 3889 del 13.07.2009).
Resta, pertanto, acclarata la natura abusiva delle trasformazioni del territorio operate dalla parte ricorrente con l’intervento suddetto e l’incidenza delle medesime su un’area sottoposta a vincolo paesisitico.
In siffatte evenienze, consegue come effetto necessitato la spedizione dell’ordine demolitorio, stante la “straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali” (cfr. C. Cost. Ord.za 12/20.12.2007 n. 439).
L’articolo 167 del d.p.r. 42/2004 espressamente prevede, infatti, come misura sanzionatoria tipica quella della rimessione in pristino.
Né poteva ritenersi concretamente predicabile –contrariamente a quanto sostenuto nell’atto di gravame– la conversione della misura ripristinatoria irrogata in quella pecuniaria secondo quanto previsto dal combinato disposto dei commi 1, 4 e 5 dell’articolo 167 sopra citato.
E’, infatti, di tutta evidenza che il procedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica -che consente di sanare anche gli interventi di manutenzione straordinaria, tipologia cui vanno ricondotte le opere abusivamente realizzate dal ricorrente- delineato dalla suddetta disciplina di settore ha luogo, invero, solo su impulso di parte, occorrendo a tali fini che “il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 4 (tra cui giustappunto gli interventi di manutenzione straordinaria) presenti apposita domanda …di accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi”.
Poste, dunque, da un lato, l’assenza della previa autorizzazione paesaggistica, che ha bloccato il perfezionamento del titolo edilizio sotto forma di dichiarazione di inizio attività, e, dall’altro, la mancata attivazione del procedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica di cui all’articolo 167, è dunque evidente che l’Amministrazione non ha avuto altra scelta che sanzionare gli interventi abusivamente eseguiti con gli strumenti repressivi (id est misure ripristinatorie) imposti dalla disciplina di settore.
A fronte della richiamata cornice normativa –che costruisce l’intervento repressivo demolitorio come atto dovuto ed a contenuto vincolato– devono evidentemente ritenersi recessive le ulteriori doglianze articolate nel gravame con le quali la parte ricorrente lamenta l’insufficienza dell’istruttoria ovvero l’inadeguatezza del corredo motivazionale del provvedimento impugnato.
Peraltro, la natura assorbente delle considerazioni fin qui svolte (che impingono nella necessità di una tutela “reale” ex articolo 167 del d.lgs. 42/2004 in ragione del valore paesistico dell’area) rispetto ai profili giuridici che involgono il (solo) rilievo edilizio delle opere eseguite (ai sensi della concorrente previsione sanzionatoria di cui all’articolo 31 del d.p.r. 380/2001, parimenti richiamata nell’ordine di demolizione) trova conforto nel principio giurisprudenziale secondo cui devono ritenersi inammissibili le censure tese a contestare aspetti ulteriori della motivazione i cui eventuali vizi non potrebbero determinare l’annullamento del provvedimento (cfr., ex multis, Consiglio Stato, sez. VI, 29.03.2011, n. 1897, che ribadisce come “laddove una determinazione amministrativa di segno negativo si fondi su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall'annullamento”) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.06.2012 n. 2987 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza dell'esercizio della facoltà straordinaria prevista dalla legge il provvedimento repressivo "perde efficacia in quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l'Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, in base a quanto previsto dall'art. 40 comma 1, l. n. 47 del 1985, al completo riesame della fattispecie", con conseguente "traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva.
In data 03.02.2012, la ricorrente ha prodotto due domande di condono (n. 2034/95 e 2035/95) presentate ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 39 della legge 23.12.1994 n. 724, corredandole di una relazione tecnica –non smentita dall’Amministrazione intimata, nemmeno costituita in giudizio- che attesta la corrispondenza delle opere oggetto di condono a quelle in contestazione.
Tanto è sufficiente ai fini di una declaratoria di improcedibilità del ricorso in epigrafe.
Ed invero, per giurisprudenza risalente e consolidata, a tale definizione in rito della causa deve pervenirsi ove, in sede di decisione di un ricorso proposto avverso ordini di demolizione, risulti successivamente presentata domanda per conseguire il condono edilizio.
E ciò in quanto in presenza dell'esercizio della facoltà straordinaria prevista dalla legge il provvedimento repressivo "perde efficacia in quanto deve essere sostituito o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l'Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, in base a quanto previsto dall'art. 40 comma 1, l. n. 47 del 1985, al completo riesame della fattispecie", con conseguente "traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva" (cfr. fra le ultime, Cons. Stato, sezione sesta, 07.05.2009, n. 2833; Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, 25.10.2010, n. 21366; 07.06.2010, n. 12741; 04.06.2010, n. 12345; 25.02.2010, n. 1158 e 09.11.2009, n. 7051; sezione settima, 09.02.2009, n. 645; Tar Lazio, Roma, sezione prima, 09.02.2010, n. 1780; Tar Emilia Romagna Bologna, sezione seconda, 12.01.2010, n. 20) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.06.2012 n. 2986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA-PRIVATA: CAVE E MINIERE - Installazione di due silos metallici - Permesso di costruire - Necessità - Scavo con dinamite - Trasformazione del suolo - Fattispecie - Art. 44, D.P.R. n. 380/2001.
Anche per l'installazione di due silos metallici e di un impianto di frantumazione occorre il titolo concessorio (Cass. Sez. 3, n. 4891 del 25/02/1985 per i silos) così come le opere edili realizzate all'interno di una cava in cui si svolgono attività estrattive autorizzate necessitano del permesso di costruire, ove non precarie, anche se connesse al ciclo produttivo, configurandosi, in difetto, il reato di cui all'art. 44, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Cass. Sez. 3, n. 18546 del 07/04/2010).
Inoltre, la trasformazione del suolo si materializza, anche, nello scavo con dinamite sul medesimo arrecando modifiche permanenti. Fattispecie: realizzazione di un impianto per materiale lapideo e di due silos in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione ambientale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2012 n. 23222 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA-PRIVATA: Opere abusive - Condono edilizio - Nozione di ultimazione - Cessazione della permanenza del reato.
In materia urbanistica, la cessazione della permanenza del reato di costruzione abusiva va individuata nel momento della ultimazione dell'opera, ivi comprese le rifiniture esterne ed interne, che anticipa tale momento a quello della ultimazione della struttura.
Tale criterio, è funzionale ed applicabile solo in materia di condono edilizio e non anche per stabilire in via generale il momento consumativo del reato di costruzione in difetto di permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2012 n. 23222 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA-PRIVATA: Reati paesaggistici - Cessazione e permanenza del reato - Effetti del sequestro - Computo dei termini di prescrizione - Artt. 142, lett. c) e 181 D.L.vo n.42/2004.
Il reato di cui all'art. 181, comma primo, D.Lgs. n. 42 del 2004, realizzato mediante una condotta che si protrae nel tempo (come si verifica per una costruzione edilizia) è permanente e si consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la cessazione della condotta per altro motivo. (Cass. Sez. 3, n. 16393 del 17/02/2010).
E' vero che anche il sequestro determina la cessazione della permanenza ma, evidentemente, solo in quanto si concretizzi come evento impeditivo alla prosecuzione dei lavori (Sez. 3, n. 7286 del 06/05/1994 Rv. 198200). E' di tutta evidenza, pertanto, che la data del sequestro del manufatto, qualora successiva alla ultimazione di quest'ultimo, non possa avere alcuna autonoma rilevanza per il computo dei termini di prescrizione in quanto la permanenza del reato è già cessata con l'ultimazione del manufatto stesso.
E ciò vale, anche per la violazione dell'art. 181 DLvo n. 42/2004 ove la contestazione abbia anch'essa ad oggetto la realizzazione del manufatto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2012 n. 23222 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Emissioni di fumi - Idoneità della molestia - Accertamento mediante perizia - Necessità - Esclusione - Elementi probatori di diversa natura - Art. 674 C.P - D.L.vo n.152/06.
Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 674 cod. pen. l'attitudine delle emissioni di gas, vapori o fumi a molestare le persone non deve essere accertata necessariamente mediante perizia, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento, secondo le regole generali, su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni testimoniali di coloro che siano in grado di riferire caratteristiche ed effetti delle emissioni, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma si limitino a riferire quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2012 n. 23222 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA-PRIVATA: Ai fini dell’individuazione del vero momento terminale della procedura per il rilascio della concessione edilizia, occorre avere riguardo a quello dell’atto di determinazione del contributo, necessariamente questo presupponendo la intervenuta positiva “determinazione di legge sulla domanda”, ossia l’accoglimento di questa da parte dell’organo competente.
Appare necessario, per una corretta soluzione della questione concreta all’esame del Collegio, svolgere alcune osservazioni in merito alla natura della concessione edilizia (di cui alla legge 28.01.1977 n. 10), che costituisce l’atto formale che pone termine a un iter amministrativo complesso.
Alla fase preliminare (presentazione della domanda, esame tecnico del progetto e parere della commissione edilizia comunale) segue quella della determinazione di legge sull’istanza (riservata, in via esclusiva, all’organo abilitato al rilascio della concessione), che, se negativa, sarà seguita dalla notificazione all’interessato del diniego all’assenso, mentre, se positiva, richiederà l’espletamento di una ulteriore attività valutativo accertativa per la determinazione del contributo di urbanizzazione e di quello sul costo di costruzione.
Pertanto, ai fini dell’individuazione del vero momento terminale della procedura per il rilascio della concessione edilizia, occorre avere riguardo a quello dell’atto di determinazione del contributo, necessariamente questo presupponendo la intervenuta positiva “determinazione di legge sulla domanda”, ossia l’accoglimento di questa da parte dell’organo competente (cfr., Cassazione penale, sez. III, 27.02.1996, n. 3134) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 07.06.2012 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA-PRIVATAL’art. 23, comma 7, D.Lg.vo n. 285/1992 prevede l’autorizzazione da parte dell’Ente proprietario e del concessionario dell’autostrada esclusivamente per le insegne di esercizio, ma esclude espressamente il rilascio dell’autorizzazione per le insegne pubblicitarie.
Da quest’ultima norma si evince che le insegne di esercizio hanno la finalità di individuare il punto di accesso dell’impresa e possono essere autorizzate soltanto se non pregiudicano la sicurezza della circolazione stradale, mentre, al contrario, se le insegne di esercizio assumono le caratteristiche di insegne di tipo pubblicitario non possono essere autorizzate.

Nel merito il presente ricorso risulta infondato e pertanto va respinto, atteso che l’art. 23, comma 7, D.Lg.vo n. 285/1992 prevede l’autorizzazione da parte dell’Ente proprietario e del concessionario dell’autostrada esclusivamente per le insegne di esercizio, ma esclude espressamente il rilascio dell’autorizzazione per le insegne pubblicitarie.
Da quest’ultima norma si evince che le insegne di esercizio hanno la finalità di individuare il punto di accesso dell’impresa e possono essere autorizzate soltanto se non pregiudicano la sicurezza della circolazione stradale, mentre, al contrario, se le insegne di esercizio assumono le caratteristiche di insegne di tipo pubblicitario non possono essere autorizzate.
Dai rilievi fotografici contenuti nella Relazione tecnica, allegata al ricorso, risulta che l’insegna, oggetto della controversia in esame:
1) poggia su 10 pali di acciaio, installati sul tetto dello stabilimento industriale della società ricorrente, il quale risulta composto dal solo piano terra;
2) si trova ad oltre un metro dal tetto del predetto stabilimento;
3) ed occupa quasi tutta la superficie del tetto del citato stabilimento.
Da tali caratteristiche si ricava agevolmente che l’insegna di cui è causa non è una normale e/o semplice insegna di esercizio, che consente alla clientela di individuare il punto di accesso ai locali commerciali, ma svolge una funzione promozionale dell’attività imprenditoriale della ricorrente ed assume essenzialmente e/o prevalentemente carattere pubblicitario, tenuto pure conto che l’accesso ai locali commerciale non poteva avvenire direttamente dall’Autostrada (per una fattispecie analoga, in cui l’insegna era stata collocata sul tetto di uno stabilimento industriale cfr. C.d.S. Sez. VI Sent. n. 3782 del 28.06.2007, la quale ha riformato la Sentenza Sez. III TAR Veneto n. 1645 del 03.05.2002, citata dalla ricorrente).
Comunque, l’ANAS di Potenza ha anche ritenuto con una valutazione discrezionale, non manifestamente irragionevole, che l’insegna di cui è causa arreca disturbo visivo agli utenti dell’Autostrada, potendone distrarne l’attenzione con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione stradale.
Per completezza va, altresì, precisato che il decorso del termine di 60 giorni, previsto dall’art. 53, comma 5, DPR n. 495/1992 per l’emanazione del provvedimento di autorizzazione all’installazione di un’insegna visibile da un’Autostrada, non consuma il potere dell’Ente proprietario o del concessionario dell’Autostrada di pronunciarsi sul’istanza di autorizzazione, ma consente al richiedente di proporre l’azione giurisdizionale ex art. 21-bis L. n. 1034/1971.
Inoltre, va evidenziato che, nella specie, non si è formato il silenzio assenso ai sensi dell’art. 20 L. n. 241/1990, nel testo sostituito dall’art. 3, comma 6-ter, D.L. n. 35/2005 conv. nella L. n. 80/2005, in quanto il 4° comma dell’art. 20 L. n. 241/1990 esclude espressamente la formazione del silenzio assenso con riferimento agli atti e procedimenti relativi, tra l’altro, alla pubblica sicurezza ed alla pubblica incolumità, per cui nella specie non si è formato alcun silenzio assenso, poiché il procedimento in commento, essendo attinente alla sicurezza della circolazione stradale, rientra senz’altro nell’ambito oggettivo delle materie della pubblica sicurezza e della pubblica incolumità (TAR Basilicata, sentenza 24.05.2012 n. 247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il generale potere conformativo di cui è titolare l’Amministrazione Comunale in sede di pianificazione del territorio non coincide in tale evenienza con il ben diverso potere di carattere ablatorio previsto dall’art. 25 della L. 17.08.1942 n. 1150, in forza del quale “le aree libere sistemate a giardini privati adiacenti a fabbricati possono essere sottoposte al vincolo dell’inedificabilità anche per una superficie superiore a quella di prescrizione secondo la destinazione della zona”, con la precisazione che “in tal caso, e sempre che non si tratti di aree sottoposte ad analogo vincolo in forza di leggi speciali, il Comune è tenuto al pagamento di un’indennità per il vincolo imposto oltre il limite delle prescrizioni di zona”.
Tale disciplina è infatti applicabile nell’ipotesi, ben differente dal caso di specie, in cui lo strumento urbanistico generale imponga, con riferimento ad una singola area edificabile, un indice di fabbricabilità diverso ed inferiore rispetto a quello fissato in via generale per la medesima zona omogenea.
Se così è, pertanto, la destinazione urbanistica di un’area a “verde privato” operata dalle previsioni del vigente strumento urbanistico primario non assume la natura di vincolo ablatorio o assimilabile, ma rientra nell’ambito della normale conformazione della proprietà privata, espressione del potere di pianificazione del territorio comunale.
In tal senso, per risalente ma ancora attuale e non smentito indirizzo giurisprudenziale, la destinazione a verde privato di un’area rientra infatti tra le ipotesi di qualificazione delle zone territoriali omogenee di cui lo strumento urbanistico primario si compone e, anche se pone preclusione all’edificazione implicando l’esclusione della possibilità di realizzare qualsiasi opera edilizia incidente sulla destinazione a verde, rimane comunque espressione delle funzioni di ripartizione in zone del territorio, senza determinare vincoli tali da escludere potenzialmente il diritto di proprietà nella sua interezza.
In relazione a quanto ora evidenziato, la destinazione stessa non sostanzia alcun vincolo correlato al regime di decadenza conseguente all’inutile decorso del termine quinquennale all’epoca contemplato dall’art. 2 della L. 19.11.1968 n. 1187 (e, ora, dall’art. 9 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 327 come modificato dall’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 352) e che altrimenti implicherebbe -per l’appunto- l’obbligo del Comune di procedere alla riqualificazione urbanistica delle aree stesse dopo la scadenza del vincolo.

Il punto nodale della causa risiede nella configurazione giuridica della destinazione a “verde privato” imposta ad una determinata area dallo strumento urbanistico primario.
A ragione il giudice di primo grado ha affermato che, in tal senso, il generale potere conformativo di cui è titolare l’Amministrazione Comunale in sede di pianificazione del territorio non coincide in tale evenienza con il ben diverso potere di carattere ablatorio previsto dall’art. 25 della L. 17.08.1942 n. 1150, in forza del quale “le aree libere sistemate a giardini privati adiacenti a fabbricati possono essere sottoposte al vincolo dell’inedificabilità anche per una superficie superiore a quella di prescrizione secondo la destinazione della zona”, con la precisazione che “in tal caso, e sempre che non si tratti di aree sottoposte ad analogo vincolo in forza di leggi speciali, il Comune è tenuto al pagamento di un’indennità per il vincolo imposto oltre il limite delle prescrizioni di zona”.
Tale disciplina è infatti applicabile nell’ipotesi, ben differente dal caso di specie, in cui lo strumento urbanistico generale imponga, con riferimento ad una singola area edificabile, un indice di fabbricabilità diverso ed inferiore rispetto a quello fissato in via generale per la medesima zona omogenea.
Se così è, pertanto, la destinazione urbanistica di un’area a “verde privato” operata dalle previsioni del vigente strumento urbanistico primario non assume la natura di vincolo ablatorio o assimilabile, ma rientra nell’ambito della normale conformazione della proprietà privata, espressione del potere di pianificazione del territorio comunale.
In tal senso, per risalente ma ancora attuale e non smentito indirizzo giurisprudenziale, la destinazione a verde privato di un’area rientra infatti tra le ipotesi di qualificazione delle zone territoriali omogenee di cui lo strumento urbanistico primario si compone e, anche se pone preclusione all’edificazione implicando l’esclusione della possibilità di realizzare qualsiasi opera edilizia incidente sulla destinazione a verde (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 05.10.1995 n. 781), rimane comunque espressione delle funzioni di ripartizione in zone del territorio, senza determinare vincoli tali da escludere potenzialmente il diritto di proprietà nella sua interezza (così Cons. Stato, Sez. IV, 24.07.1985 n. 290).
In relazione a quanto ora evidenziato, e a differenza di quanto affermato dalla parte appellante, la destinazione stessa non sostanzia alcun vincolo correlato al regime di decadenza conseguente all’inutile decorso del termine quinquennale all’epoca contemplato dall’art. 2 della L. 19.11.1968 n. 1187 (e, ora, dall’art. 9 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 327 come modificato dall’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 352) e che altrimenti implicherebbe -per l’appunto- l’obbligo del Comune di procedere alla riqualificazione urbanistica delle aree stesse dopo la scadenza del vincolo (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 14.12.1993 n. 1068).
Da ciò consegue, quindi, non solo che nessuna decadenza si è nella specie verificata per quanto segnatamente attiene alla destinazione a verde privato imposta all’area in questione, ma anche che dalla destinazione stessa non discende alcun obbligo di indennizzo per il privato, non potendosi pertanto dare accesso a qualsivoglia censura tesa a far valere l’illegittimità della previsione di destinazione sotto il profilo della mancanza di un ristoro economico al riguardo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.05.2012 n. 2919 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Scioglimento del Consiglio comunale o provinciale a seguito delle dimissioni di oltre la metà dei Consiglieri.
Con le dimissioni di oltre la metà dei Consiglieri comunali o provinciali, si realizza una delle cause di impedimento del normale funzionamento degli organi e dei servizi di cui alla lett. b) del comma 1, dell'art. 141 del d.lgs. 267 del 2000 (T.U.E.L.), cioè un fatto sul quale l'ordinamento ha già espresso un giudizio di disvalore, prevedendo la procedura di scioglimento con decreto del Capo dello Stato. Pertanto, i motivi che giustificano la sospensione del Consiglio comunale o provinciale (e che già in parte trovano giustificazione nei motivi di scioglimento stabiliti dalla norma stessa), non necessitano di una estesa e penetrante motivazione, avendo un contenuto di ampia discrezionalità, sindacabile soltanto per palese illogicità (1).
L'art. 141, lett. b), n. 3, del d.lgs. 267 del 2000, che disciplina l'ipotesi di scioglimento del Consiglio comunale o provinciale per dimissioni contestuali della metà più uno dei Consiglieri, non introduce una diversa e speciale forma di dimissioni rispetto a quella regolamentata dall'art. 38 del medesimo d.lgs., intendendo il legislatore, con la citata norma, semplicemente far scaturire un preciso effetto giuridico (lo scioglimento dell'organo) al verificarsi di un mero fatto (le contestuali dimissioni di più della metà dei consiglieri), sulla base della presunzione che la contestuale presentazione delle dimissioni della metà più uno dei consiglieri sottende la volontà politica di sciogliere il Consiglio (2). Non si configura, pertanto, un "atto collettivo" (negoziale) di dimissioni, unitario e plurimo allo stesso tempo, bensì a un mero fatto consegue l'effetto dissolutorio previsto dalla norma.
L'atto di rassegnazione delle dimissioni di oltre la metà dei Consiglieri comunali o provinciali è un atto giuridico in senso stretto, cioè un atto i cui effetti giuridici non dipendono dalla volontà dell'agente, ma sono disposti dall'ordinamento, senza riguardo all'intenzione di colui che li pone in essere; è, infatti, atto irrevocabile, non ricettizio e immediatamente efficace (3).
E’ legittimo il decreto prefettizio con cui, a seguito delle dimissioni di oltre la metà dei consiglieri comunali, è stato sospeso il Consiglio comunale e nominato il Commissario per la provvisoria amministrazione del Comune, essendo irrilevante la mancanza di motivazione in ordine ai motivi di grave urgenza e necessità, da intendersi quali motivi ulteriori rispetto alle dimissioni ultra dimidium dei consiglieri comunali; infatti, i motivi di grave e urgente necessità che devono essere posti alla base del decreto di sospensione e di nomina provvisoria del Commissario, sono da ritenersi impliciti nel caso di dimissioni ultra dimidium dei Consiglieri, venendo altrimenti meno, in modo gravemente pericoloso per il regolare funzionamento dell’Ente, la maggioranza dell’organo rappresentativo, con conseguente nocumento alle garanzie che l’organo consigliare, nella sua regolare composizione, assicura alla vita della Comunità Locale (4).
E’ irrilevante che il decreto prefettizio di scioglimento del Consiglio comunale per dimissioni di oltre la metà dei Consiglieri non abbia considerato il fatto che la Giunta, pur decaduta, sarebbe comunque rimasta in carica per prorogatio ex lege (con la conseguenza che non avrebbe potuto, il Commissario nominato, esercitare i poteri della Giunta e del Sindaco), atteso che l’istituto della prorogatio non ha applicazione generalizzata, ma opera solo con riferimento a specifiche situazioni tassativamente determinate, come risulta dalla l. n. 444 del 1994, nella quale la decadenza della Giunta, nell’ipotesi in questione, non è prevista e, anzi, gli effetti sono direttamente tratti dalla legge.
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(1) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2009, n. 4936
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.11.2009, n. 7166
(3) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.11.2009, n. 7166
(4) Ha aggiunto la sentenza in rassegna che proprio le funzioni del Commissario, volte a garantire la ripresa del processo democratico in seno alla comunità locale, al fine di ricomporre e superare la crisi istituzionale determinatasi nell’ente, in una posizione di evidente neutralità rispetto agli interessi contrapposti che confluiscono nelle varie forse politiche, rende evidente che sia non solo indispensabile, bensì anche insita nella stessa figura in esame, la circostanza che il Commissario debba sostituire gli organi di rappresentanza politica dell’Ente Locale.
A contrariis, risulterebbe evidentemente compromessa la funzione di garanzia e di terzietà che assume il Commissario stesso, che è funzionale a condurre l’ente al rinnovo elettorale dei propri organi di governo, funzione che sarebbe compromessa, rendendone impossibile l’esercizio, in presenza di una Giunta ancora pienamente operante
(commento tratto da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2012 n. 2444 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA-PRIVATADIA-SCIA, la denuncia di abusi edilizi dev'essere ''seria''.
Per convincere l'amministrazione ad intervenire per reprimere un abuso edilizio derivante da una d.i.a. ci vuole molto di più di una segnalazione orale. E' necessario depositare una denuncia scritta con l'indicazione del tipo di violazione e la richiesta di misure atte a reprimerle. In mancanza di queste formalità, l'amministrazione può tranquillamente rimanere inerte, non incombendo sulla medesima alcun obbligo di attivarsi.

Lo ha stabilito la II Sez. del TAR Lombardia-Milano con la
sentenza 12.04.2012 n. 1075.
Nel caso concreto un condomine (peraltro un avvocato) si è accorto che alcuni lavori avviati dal suo dirimpettaio (in forza di una d.i.a.) facevano pensare ad un abuso edilizio. Per questo motivo ha segnalato la vicenda all'amministratore di condominio il quale, a sua volta, si è attivato notiziando dell'abuso la polizia municipale di paese. L'amministrazione, tuttavia, a seguito di un sopralluogo, ha deciso di non intervenire lasciando indisturbato il titolare della d.i.a.
La lite non poteva finire lì.
Ed infatti il condomino-avvocato ha scelto la strada del ricorso al tribunale amministrativo.
A quest'ultimo è stato chiesto di prendere atto del silenzio tenuto dall'amministrazione (nonostante la segnalazione dell'abuso e la richiesta di intervento repressivo), e di condannare lui stesso l'amministrazione ad intervenire, bloccando i lavori in corso.
Il Tar Lombardia, però, ha rigettato il ricorso.
Secondo i giudici milanesi l'amministrazione non sarebbe stata adeguatamente sollecitata ad intervenire, posto che un messaggio di posta elettronica e una telefonata non potevano dirsi sufficienti per lamentare il mancato rispetto di una d.i.a. o di una s.c.i.a. .
Per censurare le attività legittimate da questi atti (privati) il terzo rimasto leso deve formalizzare una denuncia dotata di quei requisiti minimi di “serietà” che la rendano idonea a porre in capo alla amministrazione l’obbligo di esercitare i propri poteri di verifica ed insieme a configurare, in caso di inerzia della stessa, un vero e proprio silenzio inadempimento che abbia un rilievo giuridico e possa così essere censurato davanti al tribunale amministrativo.
Il Tar Lombardia si preoccupa di indicare quale siano i requisiti necessari della denuncia del terzo. Anzitutto la forma dev'essere quella scritta. Quanto al contenuto, invece, la denuncia deve dare atto del tipo di abuso, al contempo sollecitando espressamente l'amministrazione ad adottare tutte le misure che possono considerarsi adeguate ad eliminare l'abuso.
E' importante precisare che questa procedura così formale imposta al controinteressato per raggiungere l'intento di bloccare l'agire del vicino vale solo per gli abusi che attengono a quei lavori realizzabili tramite una semplice dichiarazione (di intenti) del privato (d.i.a./s.c.i.a.).
Lo stesso rigore, infatti, non vale per gli abusi edilizi più gravi, per i quali il terzo leso può limitarsi a fare una denuncia orale all'amministrazione che a quel punta avrà l'obbligo di intervenire, attesa anche la rilevanza penale di tali eventi.
In detti termini la giurisprudenza sembra interpretare la disciplina prevista dal legislatore differenziando gli oneri imposti al terzo leso in base all'importanza del bene giuridico che si prenda in considerazione.
Le differenze che intercorrono tra i due tipi di abusi e le relative procedure per denunciarli dipendono dal fatto che solo nel caso di lavori soggetti a permesso di costruire il legislatore ha previsto un procedimento amministrativo che culmina, appunto, in una autorizzazione all'inizio dei lavori; lo stesso non accade nei casi in cui il privato è libero di iniziare l'attività una volta adempiute le dovute segnalazioni all'amministrazione competente, che potrà espletare tutti i controlli necessari solo in seguito (secondo la logica del controllo successivo).
Se non c'è un procedimento, spiega il Tar Lombardia, non ci può essere un silenzio giuridicamente rilevante dell'amministrazione che, a quel punto, è legittimata a rimanere inerte.
La decisione merita attenzione perché rappresenta il precipitato della riforma del legislatore con la legge n. 148 del 2011 (“Manovra d'estate”), intervenuta sull'articolo 19 della Legge n. 241/1990, con l'innesto del nuovo comma 6-ter.
In quell'occasione il Parlamento già aveva smantellato gran parte della costruzione offerta dalla sentenza n. 15/2011 dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la quale, diversamente dal legislatore, aveva accordato grande tutela al controinteressato rimasto leso dall'attività scaturente dall'allora d.i.a. (oggi s.c.i.a.), e ciò proprio in base alla consapevolezza della forte incidenza che alcuni interventi “liberalizzati” possono avere nei confronti dei terzi, similmente a quanto accade per le opere soggette a permesso di costruire.
Nei termini che precedono non può negarsi come l'onere di formalizzare una denuncia scritta incombente sul terzo costituisca un ulteriore arretramento della soglia della sua tutela, il tutto in nome di un processo di trasformazione verso uno Stato sociale di diritto che, tuttavia, sembra avvantaggiare solo taluni (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 09.07.2012

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NOVITA' NEL SITO

● Inserito il nuovo bottone dossier CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La revisione della spesa pubblica secondo il governo Monti (CGIL-FP di Bergamo, nota 05.07.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: EE.LL.: la disciplina delle assunzioni di personale a tempo indeterminato (CGIL-FP di Bergamo, nota 30.06.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: EE.LL.: il ricorso alle forme di lavoro flessibile (CGIL-FP di Bergamo, nota 30.06.2012).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIAI rifiuti urbani indifferenziati prodotti nei luoghi di assistenza del sisma in Emilia dove possono essere smaltiti? (29.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAI beni di valore storico–artistico derivanti dai crolli del sisma in Emilia sono rifiuti? (29.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAI materiali derivanti dal crollo degli edifici del sisma in Emilia se contenenti amianto ricadono nella deroga all’art. 184 del D.Lgs n. 152/2006? (29.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAI materiali derivanti dal crollo degli edifici del sisma in Emilia sono rifiuti speciali o rifiuti urbani? (29.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTIOggetto: DURC - obbligo di richiesta d'ufficio da parte delle stazioni appaltanti diverse dalle amministrazioni aggiudicatrici (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nota 02.07.2012 n. 12064 di prot.).

COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto: sentenza del TAR dell'Emilia Romagna in materia di competenze professionali degli Ingegneri e degli Architetti nel settore delle opere stradali (Ordine degli Ingegneri di Bergamo, nota 29.06.2012 n. 766 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: d.P.R. n. 160/2010 - Chiarimenti in merito alle competenze del SUAP (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Segreteria tecnica dell'Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione, nota 19.06.2012 n. 465 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI FORNITURE - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 06.07.2012, suppl. ord. n. 141/L, "Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini" (D.L. 06.07.2012 n. 95).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 04.07.2012, "Modalità di presentazione ai competenti uffici comunali della documentazione cartografica necessaria all’istituzione e all’aggiornamento del catasto del sottosuolo di cui al comma 3, art. 42, della l.r. 18.04. 2012, n. 7 “Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione" (deliberazione G.R. 02.07.2012 n. 3692).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 04.07.2012, "Sostegno finanziario agli enti locali ed agli enti gestori delle aree regionali protette per l’esercizio delle funzioni paesaggistiche (art. 79, l.r. n. 12/2005) - Determinazioni per l’anno 2012" (deliberazione G.R. 02.07.2012 n. 3670).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 04.07.2012, "Modalità attuative per il funzionamento del comitato per la trasparenza degli appalti e sulla sicurezza dei cantieri" (deliberazione G.R. 02.07.2012 n. 3656).

VARI: G.U. 03.07.2012 n. 153 "Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita" (L. 28.06.2012 n. 92).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI: R. Camporesi, Teoremi interpretativi dell’art. 14, comma 32, del D.l. 78/2010 sui limiti imposti agli enti locali a detenere società (SECONDA PARTE) (link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: S. Corvaja, Accessibilità degli elaborati di soggetti risultati vincitori e/o idonei di un concorso pubblico: commento a sentenza TAR Trentino Alto Adige-Bolzano, Sez. I, 13.12.2011 n. 390 (link a www.diritto.it).

SEGRETARI COMUNALI: A. Lo Destro, Segretari comunali contro la corruzione. Come si può pensare che un funzionario, privo delle garanzie di indipendenza e stabilità, nominato ogni cinque anni dal sindaco e che scade automaticamente al cessare del mandato, possa esercitare una efficace azione anticorruzione? (27.06.2012 - link a www.leggioggi.it).
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C. Rossi, Il segretario comunale, riedizione moderna del mito di Atlante (04.07.2012 - link a www.leggioggi.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: R. Vitale, I latrati dei cani, quando scatta la responsabilità del proprietario - L’abbaiare dei cani, tra “diritto esistenziale” degli animali e reato ex art. 659 c.p. “Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (01.07.2012 - link a www.leggioggi.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: P. Mantegazza, Impianto generale della l.r. 4/2012 e rapporti con la legislazione urbanistica ed edilizia nazionale - Intervento a L.R. 13.03.2012, n. 4 -Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico–edilizia / Nuove questioni e quadro d'insieme del nuovo Piano Casa della Regione Lombardia.
● LEGGE REGIONALE 13.03.2012 N. 4 - Parte primaLegge sulla casa” (art. 1 – 6);
● LEGGE REGIONALE 13.3.2012 N. 4 - Parte secondaModifiche alla L.R. 11.3.2005 n. 12” (Legge per il Governo del Territorio) (30.05.2012 - tratto da
www.cameramministrativacomo.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Spallino, Quadro degli interventi derogatori eccezionali della l.r. 4/2012 - Nuove questioni e quadro d’insieme del nuovo Piano Casa della Regione Lombardia.
Quadro degli interventi derogatori eccezionali della l.r. 4/2012 (30.05.2012 - tratto da
www.cameramministrativacomo.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALIGestione associata – convenzioni.
La Corte dei Conti, sezione Regionale Lombardia, con parere 22.06.2012 n. 293, risponde ad un quesito posto dal Sindaco del Comune di Clusone (BG) inerente ad eventuale convenzione per la gestione associata di servizi e/o funzioni che non implica necessariamente il ricorso a "nuovo personale", bensì potrebbe anche essere attuata dando vita ad una semplice forma associativa con la creazione di uffici comuni che operano con il personale distaccato dagli enti partecipanti.
La Corte dei Conti precisa: "la decisione se procedere o meno a stipulare una convenzione per la gestione associata di servizi e/o funzioni attiene al merito dell'azione amministrativa e rientra, ovviamente, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell'ente che potrà orientare la sua decisione in base alle conclusioni contenute nel parere della Sezione."
Queste le conclusioni della Corte dei Conti: "indipendentemente dalla circostanza che la convenzione tra gli Enti partecipanti preveda modalità di ripartizione dei relativi oneri e (conseguentemente) rimborsi in favore del Comune capofila, quest'ultimo agisce, non già in mancanza di un interesse diretto, ma per il conseguimento di propri fini istituzionali individuabili nella volontà di esercitare in forma associata -secondo le modalità indicate dall'art. 30 TUEL- determinate funzioni amministrative di propria competenza al fine di realizzare un utilizzo delle risorse pubbliche maggiormente rispondete ai principi di efficacia, efficienza ed economicità (Sez. Reg. Contr. Puglia, deliberazione n. 91/PRSP/2010)." (tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALIAssociazioni. Caos per l'applicazione ai centri che si convenzionano per mettere in comune i servizi. Nodo-personale per le unioni di funzioni
IL VINCOLO/ Il decreto legge 78/2010 ha limitato al 50% dei costi sostenuti nel 2009 le forme di lavoro «atipiche».

La gestione del personale, nell'associazione di funzioni e servizi, è incompatibile con i vincoli assunzionali e le limitazioni di spesa volute dal legislatore. A complicare le cose è l'articolo 9, comma 28, del decreto legge 78/2010 il quale, nel limitare al 50% della spesa 2009 le forme di lavoro flessibile, ha indicato anche le «convenzioni» tra le tipologie oggetto del taglio.
La Corte dei conti della Lombardia, nel parere 15.06.2012 n. 279, pur evidenziando la dubbia razionalità, funzionalità e costituzionalità di norme che impongono un rigido limite quantitativo, ancorato a un dato di spesa storico, ha affermato che anche in caso di stipula di convenzioni "obbligatorie" –disciplinate dall'articolo 14, commi da 25 a 31, del decreto legge 78/2010– sia necessario rispettare questa norma.
Quindi, in caso di convenzione, dovrà essere rispettato l'obbligo di avvalersi di personale nel limite del 50% rispetto alla spesa sostenuta nel 2009. Ma chi deve fare questo calcolo? L'ente che verrà individuato capofila? E perché solo questo dovrebbe caricarsi di un simile vincolo?
In pratica: due comuni decidono di mettere insieme la funzione fondamentale 08, quella della viabilità e dei trasporti. Un ente ha in servizio dieci dipendenti, l'altro ente cinque. Viene stabilito che il comune con dieci dipendenti diventi il capofila della convenzione. Quindi si costituisce un ufficio comune, in base all'articolo 30, comma 4, del decreto legislativo 267/2000 con 15 dipendenti. È evidente che, in questo caso, non ci sono maggiori spese, perché non ci sono nuove immissioni in servizio. Si convenzionano i dipendenti che già sono conteggiati nei singoli enti; dipendenti che restano «giuridicamente ed economicamente» in capo all'ente di appartenenza. Quindi, in questo caso, la norma non può operare.
Caso diverso, invece, è se dalla convenzione scaturisse la necessità di implementare l'organico della gestione associata, mediante una nuova assunzione nelle forme flessibili. In questa ipotesi la disposizione dell'articolo 9, comma 28, si applica anche se resta da stabilire (per esempio, in un articolo della convenzione) chi si accollerà l'onere dell'assunzione e in quale modo si procederà al conteggio del tetto del 50% della spesa 2009.
Se, invece, si utilizza l'articolo 14 del contratto collettivo nazionale di lavoro del 22.01.2004, non necessariamente le funzioni vengono esercitate in forma associata. Anzi, lo strumento sembra più vicino a quello che è stato anche definito "comando a tempo parziale" in assenza di convenzione, disciplinato dall'articolo 30 del decreto legislativo 267/2000. Di fatto, quindi, per l'ente utilizzatore, si tratterebbe di un incremento di personale, con una maggiore attività lavorativa e una conseguente maggiore spesa di personale.
Questo è quanto emerge dalla deliberazione 180/2012 della Corte dei conti della Campania. I giudici concludono che non esistono margini per interpretazioni diverse rispetto a quanto contenuto nella norma. Le "convenzioni" vi sono indicate al pari delle altre forme di assunzione in essa menzionate e a tutte è espressamente riferito il limite previsto. Viene anche aggiunto che non appare corretta alcuna distinzione tra una tipologia di convenzione rispetto a un'altra, data l'univocità del termine, riferibile potenzialmente a ognuna di esse. Chiusura totale, quindi. Ora, può spettare solo al legislatore chiarire le priorità tra gestione obbligatoriamente associata e vincoli di contenimento della spesa (articolo Il Sole 24 Ore del 02.07.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALIPartecipate. Compenso unico per chi cumula le cariche sociali.
Nelle società partecipate dagli enti locali guidate da un consiglio di amministrazione (e non da un amministratore unico) è possibile cumulare le cariche di amministratore e di direttore generale ma non i compensi.
Lo ha precisato la Corte dei conti della Calabria che, con il parere 14.06.2012 n. 84, formulato in risposta a una serie di quesiti posti dal Comune di Reggio Calabria, contribuisce a fare chiarezza su alcune questioni in tema di consigli di amministrazione delle società partecipate.
Il primo tema che viene posto è se nell'omnicomprensività del compenso debba rientrare tutto e quindi anche l'incarico di amministratore delegato e se siano cumulabili funzioni e compensi di amministratore e di dipendente della società (in particolare di direttore generale). Per la Corte, anzitutto, le cariche di amministratore e di direttore generale possono essere cumulate, purché «si riscontri in concreto la presenza di una volontà imprenditoriale autonoma, che si formi indipendentemente dalla volontà dell'amministratore-dipendente». È ammissibile, in sostanza, se vi sia un consiglio di amministrazione e non un amministratore unico.
In merito ai compensi, però, la Corte ritiene che non solo l'omnicomprensività vada comunque rispettata ma che il cumulo non si possa applicare proprio in virtù dell'articolo 2, comma 44, della legge 244/2007, che prevede che «coloro che sono legati da un rapporto di lavoro con organismi pubblici anche economici, ovvero con società a partecipazione pubblica o loro partecipate (...), e che sono al tempo stesso componenti degli organi di governo (...) sono collocati di diritto in aspettativa senza assegni».
La Corte, quindi, ritiene che la norma non si applichi solo alle amministrazioni centrali ma anche agli enti locali. In sostanza, la Corte interpreta in chiave antielusiva la norma, perché in questi anni si è verificato molto spesso che, a fronte di compensi ritenuti inadeguati, si utilizzasse l'escamotage di nominare direttore generale l'amministratore delegato o il presidente della società, così da aumentare il corrispettivo complessivo.
Inoltre, il Comune ha chiesto alla Corte se il limite quantitativo ai compensi erogabili sia un tetto cumulativo implicito, entro il quale liberamente conformare i corrispettivi dei singoli (quindi anche oltrepassando il tetto previsto per il presidente e per i singoli amministratori), oppure no. La Corte sottolinea che l'articolo unico, comma 725, della legge 296/2006 non configura una soglia indistinta, ma che espressamente prevede un massimale per il presidente e uno per i consiglieri di amministrazione. In sostanza, i giudici calabresi ritengono che lo spirito e la lettera della norma intendano limitare i compensi individuali e non permettano perciò di manovrare i corrispettivi entro un massimo teorico "complessivo".
E questo sia che la delibera sia dell'assemblea, sia che venga assunta dal consiglio di amministrazione, come consentito dall'articolo 2389, comma 3, del Codice civile. Da questo punto di vista la Corte dei conti calabrese conferma l'orientamento ligure (sezione Liguria, 63/2011) e contrasta la più datata interpretazione della sezione per il Piemonte (29/2009).
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Doppio chiarimento
01|I RUOLI
La Corte dei conti della Calabria ha chiarito che le funzioni di amministratore delegato e di direttore generale possono essere cumulate all'interno delle società partecipate dove vi sia un consiglio di amministrazione e non un amministratore unico. Ma non è possibile cumulare i compensi.
02|LA RIPARTIZIONE
Secondo i giudici calabresi, il limite quantitativo ai compensi non è una soglia indistinta. Al contrario, è previsto un massimale per il presidente e uno per i consiglieri di amministrazione. Non è quindi permesso manovrare i compensi entro un massimo teorico «complessivo» (articolo Il Sole 24 Ore del 02.07.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALIPubblico impiego. La Corte dei conti ripubblica il parere 11/2012 senza l'inciso che bloccava le assunzioni.
Turn-over salvo nei mini-enti. I Comuni non soggetti al Patto restano esclusi dal tetto del 40%.
L'ALLARME/ La versione originaria della deliberazione a Sezioni riunite avrebbe creato problemi ai piccoli municipi.

La Corte dei conti cambia rotta sulle assunzioni nei piccoli enti. E lo fa con la ripubblicazione della deliberazione 17.04.2012 n. 11 delle Sezioni riunite: che aveva creato scompiglio perché, di fatto, aveva bloccato il turn-over imponendo il rispetto del tetto del 40% della spesa delle cessazioni dell'anno precedente anche agli enti non soggetti al patto di stabilità.
L'affondo delle Sezioni riunite
I magistrati contabili, nel parere 11/2012, hanno affrontato alcune questioni inerenti l'applicazione dei limiti al lavoro flessibile, fissati dall'articolo 9, comma 28, del decreto legge 78/2010.
Analizzando la normativa applicabile agli enti locali, la Corte si è soffermata sulla modifica fatta all'articolo 76, comma 7, del decreto legge 112/2008 dall'articolo 14, comma 9, del decreto legge 78/2010. In pratica, secondo i giudici, quest'ultimo «ha introdotto per tutti gli enti, sia quelli sottoposti al patto che quelli esclusi, una restrizione alle assunzioni di personale che possono essere effettuate nel limite del 20 (oggi 40) per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente».
Dopo poche righe, nella stessa deliberazione, si legge che «è stato chiarito che la restrizione alle assunzioni di personale valida per tutti gli enti, sia quelli sottoposti al patto che quelli esclusi, che ne rendono possibile l'effettuazione nel limite del 20 (oggi 40) per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente, riguarda esclusivamente i rapporti a tempo indeterminato, e non si estende alle assunzioni a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale».
Si è trattato di una presa di posizione diversa rispetto al passato per la Corte dei conti, che fino a quel momento aveva sempre ritenuto applicabile agli enti non soggetti al patto di stabilità l'articolo unico, comma 562, della legge 296/2006, che prevede il contenimento della spesa di personale rispetto all'ammontare del 2008 (in origine il riferimento era il 2004) e la sostituzione integrale delle cessazioni avvenute nell'anno precedente.
L'intervento lombardo
Il parere delle Sezioni riunite ha scatenato grande clamore visti gli enormi problemi organizzativi creati agli enti. È quindi intervenuta la Corte dei conti della Lombardia che, con la deliberazione 242/2012/PAR, da un lato ha ammesso che nella deliberazione 11/2012 era presente l'affermazione incriminata, ma dall'altro ha ritenuto questa affermazione un inciso di nessun valore, in quanto fuori dal contesto della problematica affrontata.
Vale a dire, il parere riguarda il lavoro flessibile, mentre l'affermazione "impropria" ha per oggetto le assunzioni a tempo indeterminato.
La ripubblicazione
La conferma di questa impostazione è arrivata dalla pubblicazione della nuova edizione della deliberazione 11/2012. Nel nuovo testo è stato eliminato qualsiasi collegamento fra l'articolo 14, comma 9, del decreto legge 78/2010 e gli enti non soggetti al patto di stabilità.
Così, si legge nella versione attuale, pubblicata sul sito internet della Corte dei conti, che «l'articolo 14, comma 9, dello stesso decreto legge 78/2010 ha introdotto per tutti gli enti, sottoposti al patto, una restrizione alle assunzioni di personale che possono essere effettuate nel limite del 20 (oggi 40) per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente». Di conseguenza, la norma si applica solo alle amministrazioni soggette al patto.
Per evitare ulteriori incertezze, viene, invece, evidenziato che «resta fermo, inoltre, per gli enti non sottoposti al patto di stabilità l'obbligo di contenere la spesa entro il limite del 2004 (oggi 2008)».
In conclusione, viene data conferma dell'applicazione dell'articolo unico, comma 562, della legge 296/2006 in tema di assunzioni per gli enti non soggetti al patto di stabilità, così come affermato dagli stessi magistrati contabili, a Sezioni riunite, con le delibere 3 e 4 del 2011.
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La vicenda
Sul Sole 24 Ore del lunedì del 28 maggio sono state illustrate le conseguenze della delibera 11/2012 delle Sezioni riunite della Corte dei conti, secondo cui anche negli enti esclusi dal Patto di stabilità si applicano i vincoli al turn-over (40% delle cessazioni dell'anno precedente).
Un'estensione che, negli enti con piccole strutture, avrebbe determinato, di fatto, l'impossibilità di coprire i vuoti in organico. Il Sole 24 Ore del lunedì del 4 giugno ha invece dato conto dell'intervento della Corte dei conti Lombardia che ha proposto di non tenere conto della posizione delle Sezioni riunite (articolo Il Sole 24 Ore del 02.07.2012 - link a www.corteconti.it).

NEWS

ENTI LOCALI: Il riordino dei municipi. Gestione associata delle funzioni fondamentali per i centri fra mille e 5mila abitanti. Tornano le unioni di piccoli Comuni.
SOTTO QUOTA MILLE/ Viene azzerata la Giunta, i sindaci vanno a formare il consiglio dell'Unione, che gestisce anche bilancio e programmazione economica.

Gestione associata delle funzioni fondamentali per i Comuni fra mille e 5mila abitanti (in Italia sono 3.738), e Unioni di Comuni "riformate" per quelli che non arrivano a mille residenti (sono 1.948).
Insieme alla sfoltita delle Province e al rilancio delle Città metropolitane, torna nel testo finale del decreto 95/2012 sulla spending review anche il riordino dei piccoli Comuni (anticipato sul Sole 24 Ore del 4 luglio).
Anche in questo caso, non si tratta di un inedito, perché il tentativo di mettere insieme le funzioni nei mini-enti era già stato scritto nella manovra estiva del 2010, ma era naufragato in un mare di proroghe dettate dai problemi applicativi.
La riforma dell'amministrazione scritta nel nuovo provvedimento prova a trarre insegnamento proprio dagli errori iniziali, e in questa chiave riscrive le regole. Prima di tutto, si evolve l'elenco delle funzioni fondamentali (questo aspetto riguarda anche gli enti più grandi), che vengono articolate in 10 punti anziché in 6. Ad allungare all'elenco ci sono nuovi ingressi, dal Catasto (con l'eccezione delle funzioni statali) alla protezione civile, oltre a voci scorporate da quelli che nel vecchio elenco erano capitoli più generali (per esempio la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, con la riscossione dei tributi collegati, viene separata dalla gestione dei servizi pubblici: si veda la scheda qui a fianco).
Su questa base di regole, la famiglia dei mini-enti si divide ancora una volta in due: quelli sotto i mille abitanti, per i quali si torna a prevedere l'affidamento obbligatorio di tutte le funzioni all'Unione, che si fa carico anche della programmazione economico-finanziaria e della gestione del bilancio sulla base della delibera programmatica votata da ogni ente entro il 30 novembre dell'anno prima). I mini-Comuni perdono la Giunta, e i loro sindaci vanno a formare il consiglio dell'Unione, ma si evita il meccanismo cervellotico scritto nel Dl 78/2010 in base al quale il primo Comune dell'Unione che fosse arrivato al voto avrebbe fatto decadere in automatico anche le Giunte dei municipi vicini. Le Unioni dovranno contare almeno 5mila abitanti (3mila in montagna), e costituirsi entro la fine del 2013: dal 2014 saranno soggette al Patto di stabilità.
Fin qui, la regola, ma la nuova norma porta con sé anche l'eccezione: si apre infatti anche ai Comuni fino a mille abitanti la via alternativa della convenzione, meno vincolante, che probabilmente sarà sfruttata da molti gelosi di non veder sciogliere la propria «individualità istituzionale» nell'Unione.
Per gli enti fra mille e 5mila abitanti, invece, cambia il calendario della gestione associata: le prime tre funzioni andranno messe insieme entro l'01.01.2013 (la vecchia scadenza, dopo la girandola di proroghe, si era attestata al 30 settembre prossimo), e il quadro dovrà completarsi entro l'01.01.2014 con le altre funzioni. Le gestioni associate dovranno abbracciare almeno 10mila abitanti, ma le Regioni avranno tempo fino al 30 settembre per rivedere i limiti demografici (qualcuna l'aveva già fatto in relazione alla vecchia normativa).
Il riordino degli obblighi gestionali per i piccoli enti era atteso dagli amministratori locali, alle prese con gli inciampi applicativi delle norme del 2010, anche se è presto per capire se le novità sono sufficienti a migliorare il giudizio dei diretti interessati. Il tema sarà al centro oggi dell'Assemblea nazionale dell'Anci piccoli Comuni, in corso a Roma.
Nella giornata inaugurale di ieri (quando ancora non era noto il testo finale del decreto), il presidente dell'Anci Graziano Delrio ha rivendicato che il riordino degli enti locali deve essere uno dei «pilastri dell'autonomia», aggiungendo l'esigenza che sia «evitato il rischio di fusioni» che farebbero scomparire «il presidio rappresentato dal sistema dei piccoli Comuni». Il riferimento critico era alla vecchia normativa: ora si vedrà se la riscrittura rilanciata dal decreto è in grado di attenuare l'ostilità degli amministratori locali.
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FUNZIONI E OBBLIGHI
Le funzioni
L'articolo 19 del decreto 95/2012 sulla spending review riscrive l'elenco delle funzioni fondamentali dei Comuni, che diventano:
a) Organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e controllo
b) Organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, compreso il trasporto pubblico locale
c) Catasto, ad eccezione delle funzioni dello Stato
d) Pianificazione urbanistica ed edilizia
e) Attività in ambito comunale di pianificazione di protezione civile e coordinamento dei primi soccorsi
f) Organizzazione e gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e riscossione dei relativi tributi
g) Progettazione e gestione dl sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle prestazioni
h) Edilizia scolastica, organizzazione e gestione dei servizi scolastici
i) Polizia municipale e amministrativa locale
l) Tenuta dei registri di stato civile e di popolazione, servizi anagrafici ed elettorali e statistici
Gli obblighi
Comuni fino a mille abitanti: Gestione di tutte le funzioni in Unioni o convenzioni di almeno 5mila abitanti (3mila in montagna) entro l'01.01.2014.
Comuni fra mille e 5mila abitanti: gestione associata di 3 funzioni entro l'01.01.2013 e delle altre entro l'01.01.2014 (articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: La cura dimagrante inizia dalla Pa. Per il personale scatta la procedura di mobilità.
Iniziamo la pubblicazione del testo del decreto legge 06.07.2012, n. 95 con le «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini».
Il provvedimento è stato pubblicato sul supplemento 141/L alla «Gazzetta Ufficiale» 156 del 06.06.2012. Sul Sole 24 Ore di domani la seconda parte. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODipendenti pubblici messi a dieta. Dal 1° ottobre buono pasto per gli statali ridotto a 7 euro.
Dal prossimo anno si ridurranno del 50% le spese sostenute dalla pubblica amministrazione per l'acquisto o il noleggio delle auto di servizio. Inoltre, il buono pasto per gli statali, dal prossimo 1° ottobre, non potrà superare il valore nominale di 7 euro, ... (articolo ItaliaOggi del 07.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: Piccoli comuni, unioni in libertà. Gestione associate obbligatorie. Si riparte del 1° gennaio 2013. Ma gli enti potranno scegliere le modalità più opportune per svolgere insieme le funzioni fondamentali.
Obbligo di dare vita ad unioni o convenzioni per gestire la gran parte delle proprie funzioni, oggetto di una mappatura più precisa di quella contenuta nella legge delega sul federalismo fiscale. ... (articolo ItaliaOggi del 07.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALIAncora sacrifici per gli enti locali. Attesi 7,2 mld di tagli in 24 mesi. Indebitamento su base annua. Le assunzioni di segretari non potranno superare l'80% delle cessazioni.
Nuovi tagli per più di 2 miliardi nel 2012 e per oltre 5 miliardi a regime. E un conto piuttosto salato quello che il decreto legge sulla spending review, varato ieri dal governo, presenta a regioni, province e comuni. Tanto salato da far dubitare che il titolo del provvedimento (-Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica, a invarianza dei servizi ai cittadini-) rappresenti un auspicio, più che una certezza.
In effetti, un impatto sulla quantità e qualità delle prestazioni erogate non può essere escluso in partenza, anche perché le nuove sforbiciate si aggiungono a quelle già previste dalle pesanti manovre correttive varate negli ultimi due anni. A calare ancora una volta la mannaia sulle spettanze regionali e locali è l'art. 16 della bozza di decreto, che impone agli enti territoriali un nuovo, consistente contributo alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, da garantire -anche mediante riduzione delle spese per consumi intermedi-.
Il comma 2 agisce sulle risorse a qualunque titolo dovute dallo stato alle regioni ordinarie, escluse quelle destinate al finanziamento corrente del servizio sanitario nazionale, riducendole di 700 milioni per il 2012 e di 1 miliardo a decorrere dal 2013. Ancora più pesante la decurtazione imposta a regioni speciali e province autonome, cui il comma 3 taglia 500 milioni per quest'anno, 1 miliardo per il prossimo e 1.500 milioni a decorrere dal 2014.
Brutte notizie anche per gli enti locali. Il comma 4 fa nuovamente dimagrire il fondo sperimentale di riequilibrio dei comuni (destinato a essere sostituito dal fondo perequativo, se e quando il federalismo fiscale sarà pienamente attuato), nonché i residui trasferimenti erariali erogati ai municipi di Sicilia e Sardegna: meno 500 milioni per il 2012 e meno 2 miliardi dal 2013. Misure analoghe sono ... (articolo ItaliaOggi del 06.07.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTI FORNITUREForniture, nulli i contratti non centralizzati. Metodo Consip vincolante per gas, carburanti e telefoni - Canoni di affitto della Pa ridotti subito del 15%.
L'OBIETTIVO/ Si punta a far salire la spesa trattata con il metodo Consip da 30 a 35 miliardi già nel 2012 per arrivare a 47 miliardi nel 2013.

Decadenza immediata di tutti i contratti di acquisizione di beni e servizi stipulati senza il ricorso al metodo adottato da Consip e dalle Centrali di committenza territoriale. Che diventa vincolante per tutte le amministrazioni e gli enti territoriali per le forniture di energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e mobile. Riduzione del 15%, altrettanto immediata, dei contratti di locazione a carico della pubblica amministrazione per l'affitto di immobili destinati a uffici.
È un giro di vite significativo quello impresso dal piano del commissario straordinario Enrico Bondi al doppio capitolo delle spese per acquisti di beni e servizi e per gli affitti delle amministrazioni pubbliche.
Nel primo caso l'obiettivo è far salire subito, già nel 2012, da quasi 30 miliardi a quota 35 miliardi l'asticella della spesa per approvvigionamenti affrontata con il metodo Consip. E poi arrivare nel 2013 a 47 miliardi (circa un terzo dei 136 miliardi di spesa complessiva per beni e servizi). Per avere la garanzia di ottenere da questa stretta risparmi certi il testo d'ingresso del decreto sulla spending review prevede anche una misura rafforzativa, con configurazione da taglio lineare: la riduzione del 5% nel 2012 e del 10% nel 2013 dei trasferimenti dal bilancio dello stato a una lunga serie di enti intermedi, Authority incluse, utilizzati per coprire le uscite per consumi intermedi.
Uno dei pilastri del piano Bondi resta l'estensione a vasto raggio del metodo Consip facendo anche leva su una sorta di raccordo "a rete" con le centrali di committenza territoriali. Tutti i contratti fuori da questo perimetro e non in linea con il parametro qualità-prezzo fissato dalla Finanziaria del 2000 vengono considerati nulli, ad esclusione di quelli stipulati tramite le centrali di committenza territoriali a condizioni più favorevoli. La bozza del decreto prevede che i contratti fuori dal perimetro Consip «costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa».
E altrettanto è previsto per quelli sulle forniture di carburante, riscaldamento e telefonia. Confermata la nascita, sotto l'input del commissario Bondi, del nuovo Albo delle centrali di committenza. Previsto anche un ricorso più massiccio al Mercato elettronico della pubblica amministrazione: in alcune amministrazioni centrali sarà istituita una sezione speciale. E anche i piccoli Comuni potranno effettuare i loro acquisti utilizzando gli strumenti elettronici a disposizione.
Nel testo è inserita pure una misura ad hoc per favorire il processo di dismissione dei beni mobili anche attraverso l'utilizzo di strumenti telematici: il ministero dell'Economia, con il supporto di Consip, avrà il compito di stilare un apposito programma per centrare questo obiettivo.
Sul taglio degli affitti il governo fa un altro giro di vite: la riduzione del 15% dei canoni attualmente corrisposti avrà un impatto diretto sui contratti in corso. E questo anche in deroga alle eventuali clausole presenti nel contratto. Inoltre il rinnovo dei contratti di locazione saranno vincolati a due specifiche condizioni che se venissero a mancare consentirebbero alle amministrazioni di risolvere di diritto i contratti di locazione alla loro scadenza.
In questo senso i contratti di locazione diventano rinnovabili solo se c'è disponibilità delle risorse finanziarie per il pagamento di canoni, costi d'uso e oneri per la durata dell'intero contratto, nonché la presenza di esigenze "allocative" delle amministrazioni legate al raggiungimento di piani di razionalizzazione, riorganizzazione e accorpamento delle strutture.
Confermato, infine, il blocco triennale 2012-2014 degli adeguamenti Istat dei canoni di affitto pagati dalle amministrazioni per l'uso di immobili in locazione passiva (articolo Il Sole 24 Ore del 06.07.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALIAziende partecipate. Stop entro il 2013 per le attività strumentali alle amministrazioni.
Da vendere o sciogliere le società di servizi alla Pa
IN SINTESI/ Incerto il destino dei dipendenti Subito al via i limiti alle spese.

Data di scadenza fissata al 31.12.2013 per tutte le società che «svolgono prevalentemente» servizi a favore delle Pubbliche amministrazioni proprietarie. Si allarga ancora, rispetto alle versioni del decreto circolate mercoledì (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), lo stop alle società «strumentali» dello Stato e degli enti territoriali.
Nelle prime bozze del testo a decretare lo scioglimento del l'azienda sarebbe stata la presenza nell'oggetto sociale della «prestazione di servizi a favore della Pa», mentre il testo circolato ieri mette gli occhi sull'attività «prevalente». A salvarle, in questo caso, può essere solo il fatto che nel portafoglio della loro attività si trovino anche «servizi in favore dei cittadini».
Formulazione a parte, la ratio della norma è chiara: le società strumentali, che lavorano solo in appoggio all'amministrazione a cui appartengono, e che in tante occasioni possono aver rappresentato una strada aperta per l'elusione dei vincoli di bilancio o dei limiti alle assunzioni che regolano gli enti proprietari, vanno alienate o sciolte entro il prossimo anno.
Per il momento, alle Pubbliche amministrazioni è vietato costruirne di nuove, mentre quelle già esistenti, per il tempo residuo che resta loro da vivere, devono veder dimagrire le spese gestionali a partire dai consigli di amministrazione: massimo tre membri (per quelle degli enti locali era già così), di cui due devono essere però scelti fra i dipendenti dell'amministrazione titolare della partecipazione o controllante. A loro, non può essere offerto nessun emolumento, perché la Finanziaria 2007 e la manovra estiva 2010 impedisce di pagare ai dipendenti incarichi in organismi partecipati.
Le società strumentali, in questa chiave, diventano l'unico oggetto della norma taglia-posti nei consigli di amministrazione, che nelle prime versioni aveva un raggio d'azione più ampio e mirava direttamente alle grandi aziende di Stato.
Il meccanismo, almeno nelle versioni presenti nelle bozze che finora è stato possibile esaminare, lascia interamente aperta la partita del personale. Non esiste al momento un censimento ufficiale delle società strumentali, ma i dati della Corte dei conti sulle partecipate degli enti locali e i database disponibili sulle società di Regioni e Stato permettono di stimare (prudenzialmente) in almeno 4-500 le realtà interessate dalla nuova regola. Ipotizzando per queste aziende una dimensione media pari alla metà di quella censita per il totale delle partecipate locali, si arriverebbe a un numero di dipendenti intorno ai 20mila. Che fine faranno? La norma, per ora, non lo dice, ma è naturalmente impensabile un loro assorbimento all'interno degli enti proprietari.
Negli altri casi, le norme approvate finora nel tentativo di sfoltire la ramificazione societaria intorno agli enti pubblici si sono sempre occupate delle sorti del personale, per esempio inserendo la tutela dell'occupazione fra i parametri di valutazione nelle gare per l'acquisto da parte dei privati delle società in via di dismissione. Oltre al personale, resta da capire la sorte dell'indebitamento che eventualmente si sia formato in capo a queste società, e quella dei loro obblighi fiscali. L'alienazione, tramite gara, è una delle possibilità offerte oggi alle strumentali, entro il 30.06.2013. Se la procedura dovesse fallire, l'unica alternativa è lo scioglimento della società, da chiudere non più tardi della fine del prossimo anno.
Salve, per espressa previsione, solo la Sogei, che cura l'infrastruttura informatica su cui vive l'amministrazione finanziaria, e la Consip, impegnata nel mercato unico degli acquisti rilanciato proprio dal decreto sulla revisione di spesa (nulla si dice di altre realtà importanti come per esempio la Sose, la società per gli studi di settore ora attiva anche nella definizione dei fabbisogni standard di Comuni e Province).
Anche per i servizi oggi garantiti dalle società strumentali, la norma propone due soluzioni: o riportarli direttamente all'interno dell'amministrazione, ovviamente senza deroghe ai vincoli sull'assunzione di personale, oppure l'acquisto sul mercato (articolo Il Sole 24 Ore del 06.07.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOResta la possibilità del turn-over.
LA RIFORMA/ Entro fine anno nuovi parametri di virtuosità sul numero di dipendenti. Stop agli ingressi se si supera del 20% la media nazionale.

Salta la stretta sul turn-over degli enti locali, ai quali viene riservata una più generale revisione meritocratica degli organici, sulla base di parametri da individuare entro fine anno.
Stando alle ultime bozze, insomma, per i Comuni (non per le Province, alle quali viene impedito del tutto, in via transitoria, di effettuare assunzioni a tempo indeterminato), rimangono per il momento in vigore le regole riviste a marzo dalla legge di conversione del decreto sulle «semplificazioni fiscali»: turn-over al 40% (si può spendere in nuove assunzioni il 40% dei risparmi ottenuti con le uscite del servizio negli anni precedenti), disciplina di favore per i contratti relativi ad educatori, insegnanti delle scuole comunali e Polizia locale, il cui costo viene conteggiato al 50% nel calcolo delle facoltà assunzionali.
L'allineamento ai parametri in vigore per il resto delle amministrazioni pubbliche (turn-over al 20%) è stato infatti sostituito nelle versioni del decreto circolate ieri da una riscrittura più generale. In pratica, stando al testo, il Governo e gli amministratori locali dovranno stabilire entro fine anno all'interno della Conferenza Stato-Città i «parametri di virtuosità» sulla base dei quali determinare le dotazioni organiche degli enti locali. Il primo criterio di riferimento è già scritto nella norma, e punta sul rapporto fra dipendenti dell'ente e cittadini amministrati.
Il primo passaggio, spiega la bozza, sarà la determinazione della «media nazionale» (verosimilmente differenziata per fasce demografiche), calcolando oltre al personale dell'ente anche quello impiegato nelle società strumentali e nelle affidatarie dirette di servizi pubblici locali. Chi si troverà a un livello del 20% superiore alla media si vedrà bloccata ogni possibilità di assumere (come accade oggi a chi dedica al personale più di metà della spesa corrente), e chi starà ancora più in alto subirà un trattamento ancora più duro (da definire). Confermato l'ingresso nel turn-over (con parametro all'80%) dei segretari comunali (articolo Il Sole 24 Ore del 06.07.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti, gli organici scampano ai tagli. Un dpcm definirà la dotazione ottimale in rapporto ai residenti. Nel calcolo saranno compresi anche i dipendenti delle società partecipate dalle p.a..
Gli enti locali sono, per ora, fuori dai tagli sostanzialmente lineari alle dotazioni organiche previste dal decreto sulla spending review in via espressa solo per le amministrazioni statali.
Tuttavia, una cura dimagrante è egualmente prevista anche per comuni e province ... (articolo ItaliaOggi del 06.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità non cumulabili. Ai consiglieri gettone di presenza onnicomprensivo. Le commissioni vanno considerate un'articolazione dell'organo consiliare.
Sussiste la possibilità di cumulare i gettoni di presenza spettanti ai consiglieri comunali per la partecipazione, nell'ambito della stessa giornata, alle sedute del consiglio comunale, delle commissioni consiliari permanenti e delle commissioni comunali istituite da leggi statali, regionali o da norme statutarie?
Le regole generali inerenti al riconoscimento e alla corresponsione dell'indennità collegata alla funzione svolta dagli amministratori locali nonché dei gettoni di presenza sono fissate agli artt. ... (articolo ItaliaOggi del 06.07.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazioni edilizie, tetto annuale a 96mila euro. La risposta del sottosegretario Ceriani al question-time.
Il limite di 96mila euro per la detrazione Irpef del 50% sulle spese di ristrutturazione edilizia sostenute dal 26.06.2012 al 30.06.2013, oltre ad essere riferito allo stesso intervento (anche pluriennale) effettuato nella stessa abitazione (comprensiva di pertinenze), è anche il limite massimo per il 2012 e il 2013 quali anni civili.
Se vi sono due interventi diversi nello stesso immobile, il limite massimo per quest'anno non potrà superare i 96mila euro (per quell'immobile), neanche se il pagamento di 48mila euro per il primo intervento è avvenuto entro il 25.06.2012 e il bonifico di 96mila euro per il secondo intervento è stato effettuato successivamente ed entro quest'anno.

Sono queste le conseguenze della risposta 04.07.2012 del sottosegretario al ministero dell'Economia Vieri Ceriani, per conto dell'agenzia delle Entrate, a un'interrogazione parlamentare.
Per il 2012 spetta la detrazione del 36% per le spese pagate fino al 25.06.2012 con un limite massimo di 48mila euro e la detrazione del 50% per quanto pagato «dal 26.06.2012 al termine del periodo di imposta per un ammontare massimo di 96mila euro, al netto delle spese già sostenute alla predetta data, comunque nei limiti di 48mila euro, per le quali resta ferma la detrazione del 36 per cento».
In questo passaggio, le Entrate non specificano se si tratti o meno di mera prosecuzione dell'intervento, quindi, deve ritenersi che la regola sostenuta valga indipendentemente dal fatto che vi sia o meno una mera prosecuzione dell'intervento. Ad esempio, se alla data del 20 giugno sono stati pagati, con bonifico “parlante” (che riporta causale e relativi codici fiscali), 50mila euro per un intervento e al 30 giugno ne sono stati pagati 100mila per un altro, per il primo pagamento si potrà detrarre il 36% di 48mila euro (non recuperando i 2mila euro, che eccedono il limite di 48mila euro del primo periodo), mentre per il secondo pagamento si potrà recuperare il 50% di 48mila euro, non recuperando i 52mila euro che eccedono i 48mila euro agevolati nel primo periodo (96mila euro del secondo periodo, meno i 48mila euro già agevolati).
La risposta non dice nulla circa la possibilità del contribuente di considerare rilevanti in Unico 2013 o nel 730, relativi al 2012, solo i bonifici effettuati dopo il 25.06.2012 (nel limite di 96mila euro e detraibili al 50%), ma si ritiene non possibile questa scelta. Non si possono cioè utilizzare solo i bonifici relativi a interventi con detrazione del 50% escludendo quelli con detrazione al 36 per cento. Vanno riportati tutti in ordine cronologico.
Per il periodo d'imposta 2013, spetta la detrazione del 50% per le spese sostenute dall'inizio dell'anno fino al 30.06.2013, «per un ammontare massimo di 96mila euro, tenendo conto –in caso di mera prosecuzione dei lavori– delle spese sostenute negli anni precedenti. Se alla data del 30.06.2013 sono state sostenute spese per un ammontare pari o superiore a 48mila euro, le ulteriori spesse sostenute nel periodo di imposta non consentiranno alcuna ulteriore detrazione del 36 per cento».
Si ritiene, però, che se non vi sia una mera prosecuzione dell'intervento, debba valere la regola dettata per il 2012, cioè che il limite massimo di spesa annuale sia di 96mila euro anche per il 2013 (articolo Il Sole 24 Ore del 05.07.2012).

APPALTILavori pubblici. La bozza dell'Autorità di vigilanza: modelli base uniformi per le stazioni appaltanti.
Gare d'appalto con bandi-tipo. L'obiettivo è tipizzare le esclusioni per evitare contenziosi.

Ridurre l'arbitrarietà delle amministrazioni nel decidere l'esclusione delle imprese dalle gare d'appalto e di conseguenza anche la guerra di carte bollate che in genere scoppia in coda ad ogni aggiudicazione.
È un progetto ambizioso quello che sta dietro al lavoro della Autorità di vigilanza per definire i bandi-tipo cui dovranno attenersi le oltre 12mila stazioni appaltanti attive in Italia alle prese con la pubblicazione di un avviso di gara.
Il documento -che prenderà la forma di una determinazione- dettaglia in circa 49 pagine tutte le possibili «cause tassative di esclusione» da inserire nei bandi di gara. In pratica stabilisce i paletti entro i quali le Pa possono e devono muoversi, senza andare incontro al rischio di innescare una nuova forma di contenzioso per non aver rispettato le indicazioni di Via Ripetta e riducendo la prassi delle esclusioni legate a violazioni «meramente formali».
La determinazione, ancora in bozza, è stata inviata dall'Authority alle associazioni di imprese per un nuovo giro di consultazioni prima del via libera finale che dovrebbe arrivare prima delle ferie estive. Almeno questa è l'intenzione del presidente Sergio Santoro che proprio domani presenterà a Roma presso la Camera dei Deputati la relazione annuale 2011 al Parlamento.
I bandi-tipo prendono le mosse dal Dl 70/2011 che ha dato all'Autorità il compito di predisporre le regole quadro per le gare. La determinazione -cui i tecnici di Via Ripetta lavorano ormai da tempo rincorrendo le circa 100 modifiche introdotte per decreto al Codice degli appalti (Dlgs 163/2006)- servirà da base per elaborare i successivi bandi tipo distinti in base all'oggetto del contratto (lavori, servizi e forniture).
L'Authority individua tre tipologie di cause di esclusione «tassativa». Primo: gli adempimenti previsti da Codice e regolamento. Secondo: l'incertezza sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta «per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali». Terzo: la non integrità del plico con l'offerta o la domanda di partecipazione alla gara «o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere che sia stato violato il principio di segretezza».
L'obiettivo è dare alle Pa una bussola indicando quali irregolarità devono essere sanzionate con l'esclusione. E, per contro, quali prescrizioni siano da considerare nulle, nonostante l'amministrazione ne chieda, con il bando, il rispetto «a pena di esclusione».
Nella categorie delle prescrizioni imposte dalle norme, via Ripetta individua sette cause di esclusione. Si va dal possesso dei requisiti di partecipazione ai termini di presentazione delle offerte, fino al mancato versamento del contributo all'Autorità.
In particolare, l'Autorità si sofferma sui «requisiti speciali» e cioè quelle caratteristiche di professionalità necessarie richieste dalle stazioni appaltanti per garantirsi la buona esecuzione del contratto, che invece spesso si traducono in un percorso a ostacoli, ideato ad hoc per ridurre al minimo gli spazi di partecipazione. In materia di offerta, invece, si stabilisce che le domande devono essere «debitamente sottoscritte da parte del titolare dell'impresa o del legale rappresentante».
Seguono l'accettazione delle condizioni contrattuali, il divieto di offerte condizionate o plurime, la presentazione della cauzione, l'obbligo di sopralluogo contenute nella documentazione di gara. Infine un focus sulle irregolarità formali dell'offerta con l'indicazione delle carenze «veniali» che rendono illegittimo il cartellino rosso.
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Il quadro
01 | I BANDI TIPO
Previsti dal Dl 70/2011, i bandi tipo sono predisposti dall'Autorità per dare un bussola di orientamento uniforme alle circa 12mila stazioni appaltanti italiane. La bozza del bando quadro si concentra sulle cause di esclusione dalle gare che sono da considerare «tassative».
02 | A CHE PUNTO SONO
L'Authority ha predisposto uno schema di provvedimento che attualmente è stato mandato in consultazione alle categorie interessate. Prima del via libera definitivo bisognerà sentire anche il parere del ministero delle Infrastrutture (articolo Il Sole 24 Ore del 03.07.2012 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATADecreto sviluppo/ GLI INCENTIVI SULLE RISTRUTTURAZIONI.
Il bonus del 50% scatta anche senza cantiere. Sicurezza in casa e antifurto tra i lavori agevolati.

Per brevità chiamato «bonus sulle ristrutturazioni», il nuovo 50% riguarda in realtà tutta una serie di lavori che non richiedono sempre l'intervento del muratore. E che possono essere avviati molto più rapidamente di un cantiere edile. La detrazione maggiorata al 50%, infatti, si applica anche alle opere per prevenire furti e atti illeciti, come l'installazione di una porta blindata, o a quelle per la sicurezza domestica, come l'applicazione dei rilevatori per le fughe di gas.
Il 26 giugno data chiave
L'elenco degli interventi agevolati è lo stesso dettato dall'articolo 16-bis del Tuir (Dpr 917/1986), che dal 1° gennaio di quest'anno disciplina la detrazione del 36 per cento. Il decreto sviluppo varato dal Governo, di fatto, non fa altro che stabilire che per le spese sostenute dal 26 giugno di quest'anno fino al 30.06.2013 la detrazione è maggiorata al 50% e l'importo massimo su cui calcolarla sale da 48 a 96mila euro.
Chi ha già un cantiere in corso, semplicemente, beneficerà del bonus del 50% per i bonifici effettuati dal 26 giugno in poi. Anche se la fattura ha una data anteriore e anche se sono già stati pagati acconti in precedenza (acconti che avranno la detrazione del 36 per cento). L'unica condizione da non mancare –ma questa non è certo una novità– è che il bonifico sia "parlante", e cioè indichi:
- la causale del pagamento (il riferimento all'articolo 16-bis del Tuir);
- il codice fiscale del soggetto che paga (o dei soggetti, se le persone che sostengono la spesa e vogliono ottenere la detrazione sono più di una);
- il codice fiscale o la partita Iva del beneficiario del pagamento.
Chi non ha ancora avviato i lavori, invece, potrà scegliere cosa fare pescando nel catalogo delle opere ammesse al bonus. Ed è evidente –considerati i tempi necessari a pianificare e avviare una ristrutturazione– che chi decide di rifare il tetto o di modificare la distribuzione interna delle stanze ben difficilmente sarà pronto a partire prima dell'estate.
La prevenzione infortuni
Al di fuori delle opere edili, gli interventi agevolati al 50% non si limitano a quelli per la sicurezza e la prevenzione degli atti illeciti, ma comprendono anche l'eliminazione delle barriere architettoniche, le opere per favorire la mobilità dei disabili e la cablatura degli edifici (si veda il grafico a destra). Ci sarebbero anche gli interventi per il risparmio energetico, ma in questo caso il discorso è un po' più complesso, perché quando non rientrano già in una categoria di opere edilizie –come ad esempio la manutenzione straordinaria del tetto che include anche la coibentazione– la legge impone di rispettare la «normativa vigente» e acquisire l'«idonea documentazione». Due concetti che le Entrate dovranno meglio chiarire.
L'iter per la detrazione
Per beneficiare del 50% su interventi "non edilizi", la procedura non cambia. E in questo senso diventa sicuramente un vantaggio l'eliminazione della comunicazione di inizio lavori al centro operativo delle Entrate di Pescara, che in passato era dettata a pena di decadenza e che spesso bloccava le piccole spese per le quali il contribuente si accorgeva in ritardo di poter beneficiare della detrazione. Idem per l'obbligo di indicare la manodopera in fattura, cancellato con effetto retroattivo.
In pratica, se le opere effettuate non richiedono assensi edilizi (come nel caso dell'installazione di una porta blindata) basta che il proprietario prepari un'autocertificazione in cui indica la data di inizio lavori e attesta che gli interventi realizzati rientrano tra quelli agevolabili. Addirittura, se il pagamento fosse già stato effettuato prima dell'entrata in vigore del decreto sviluppo con un bonifico non parlante (o con un bonifico parlante, ma sbagliato) si potrebbe rifare il pagamento con un bonifico tracciabile, e a quel punto si avrebbe diritto alla detrazione del 50 per cento.
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IN SINTESI
50% - La nuova detrazione
I lavori agevolati con la classica detrazione del 36% (così come disciplinata dall'articolo 16-bis del Tuir) beneficiano della detrazione del 50% per le spese sostenute tra il 26.06.2012 e il 30.06.2013. Per i bonifici con data anteriore o successiva a questa finestra temporale, la detrazione era e resta del 36%
96mila euro - La spesa massima
Di pari passo con la detrazione, aumenta anche l'importo massimo su cui può essere applicata, che sale da 48mila a 96mila euro, per lo stesso periodo in cui sono stati effettuati i lavori
10 rate - La suddivisione
La nuova detrazione del 50% segue tutte le regole del 36%, a parte l'innalzamento del limite massimo di spesa per unità immobiliare, compreso il recupero, che dal 1° gennaio di quest'anno avviene in dieci anni per tutti i contribuenti, compresi quelli di età superiore a 75 anni
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La lista degli interventi
Il dettaglio dei lavori agevolati al 50% che non richiedono l'effettuazione di opere edilizie, così come indicati nella Guida fiscale dell'agenzia delle Entrate
ELIMINAZIONE DELLE BARRIERE ARCHITETTONICHE
LE OPERE
Lavori per l'eliminazione delle barriere architettoniche riguardanti ascensori e montacarichi
GLI ESEMPI
Realizzazione di un elevatore esterno all'abitazioni
MOBILITÀ DEI PORTATORI DI HANDICAP
LE OPERE
Interventi per realizzare strumenti atti a favorire la mobilità di persone con handicap gravi
GLI ESEMPI
Installazione di un servoscala.
Motorini elettrici per tapparelle
Non agevolati: telefoni vivavoce, computer con touch screen
OPERE CONTRO GLI INFORTUNI DOMESTICI
LE OPERE
Esecuzione di opere volte a evitare gli infortuni domestici
GLI ESEMPI
Installazione di rilevatori di gas. Cambio del tubo del gas.
Riparazione di una presa malfunzionante. Installazione di un corrimano. Installazione del salvavita
Non agevolato: acquisto di elettrodomestici con dispositivi di sicurezza
INTERVENTI  CONTRO GLI ATTI ILLECITI
LE OPERE
Adozione di misure che prevengono il rischio di atti illeciti da parte di estranei
GLI ESEMPI
Installazione o cambio di una porta blindata. Installazione o cambio di serrature, lucchetti, eccetera. Installazione di saracinesche antisfondamento. Vetri antisfondamento. Sistemi antifurto. Installazione di telecamere. Cassaforti a muro. Trasformazione del citofono in videocitofono
CABLATURA DEGLI EDIFICI
LE OPERE
Interventi per la cablatura degli edifici
GLI ESEMPI
Installazione di cavi o fibre ottiche che interconnettano tutte le unità immobiliari residenziali.
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«Scontate» anche le spese professionali.
Il perimetro delle spese che possono avere la detrazione del 50% è un po' più ampio del costo "nudo e crudo" dei lavori. L'importo su cui applicare il bonus fiscale include l'Iva, ma anche l'imposta di bollo e i diritti pagati per eventuali concessioni, autorizzazioni, Dia, Scia o comunicazioni, oltre agli oneri di urbanizzazione.
Se queste sono voci di spesa che entrano in gioco quasi solo quando si effettuano lavori edilizi rilevanti (ma non sempre, basti pensare agli oneri per il cambio d'uso) è pur vero che si può avere il 50% anche sulle spese per la messa in regola degli edifici in relazione alle norme sugli impianti elettrici e a metano, oltre che su tutta una serie di spese in senso lato professionali: per la progettazione, per le certificazioni, per la relazione di conformità dei lavori alle leggi vigenti, per le perizie e i sopralluoghi.
Quanto alla documentazione da conservare, nella maggior parte dei lavori che non implicano opere edilizie ci si limiterà all'autocertificazione del proprietario (si veda l'articolo a fianco), corredata dalle fatture o ricevute fiscali e dalle ricevute dei bonifici di pagamento, oltre che dalle ricevute Ici, che il provvedimento del direttore delle Entrate del 2 novembre scorso continua a richiedere (articolo Il Sole 24 Ore del 02.07.2012).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALISe è pacifico il potere dell’ente locale di disciplinare e vigilare nell’esercizio dei suoi poteri di polizia veterinaria sulle condizioni di igiene e sicurezza pubblica in cui si svolge l’attività circense e su eventuali maltrattamenti degli animali, sanzionati anche penalmente dall’art. 727 c.p., non esiste, in contrasto, una norma legislativa che attribuisca allo stesso il potere di fissare in via preventiva e generalizzata il divieto assoluto di uso degli animali in spettacoli, ed anzi un simile intervento si pone in palese contrasto con la legge n. 337 del 1968, che tutela il circo nella sua dimensione tradizionale, implicante anche l’uso degli animali.
... per l'annullamento, previa sospensiva, dell'ordinanza del Sindaco del comune di Ferrara P.G. n. 114819 del 24.12.2010, nella parte in cui ordina il divieto di attendamento nel territorio comunale, ivi compresi i terreni privati, dei circhi con animali appartenenti alle specie indicate nella stessa ordinanza, la cui detenzione sia stata giudicata palesemente incompatibile con le strutture circensi e di spettacolo viaggiante, nonché di ogni altro atto presupposto, conseguente o comunque connesso, tra cui, in particolare la Deliberazione della Giunta Regionale del 14.05.2007, n. 647, espressamente richiamata nella gravata ordinanza, nella parte in cui raccomanda che, in futuro, nell'ambito dell'attività circense non siano più detenute le specie animali in via di estinzione o il cui modello gestionale non è compatibile con la detenzione in una struttura mobile, con particolare riferimento a:primati, delfini, lupi, orsi, grandi felini, foche, elefanti, rinoceronti, ippopotami, giraffe e rapaci.
...
Quanto al primo profilo, basti rilevare che la vigente normativa in materia di circhi equestri e spettacoli viaggianti: L. 18/03/1968 n. 337, all’art. 1 riconosce espressamente la funzione sociale dei circhi equestri e ne sostiene il consolidamento e lo sviluppo, stabilendo, inoltre, al successivo art. 9, l’obbligo, per le amministrazioni comunali, di individuare adeguati spazi, nell’ambito dei loro territori, per l’installazione degli impianti per l’esibizione degli spettacoli circensi.
Oltre a ciò, si rileva che in nessuna parte della legge o in altre normative vigenti è stabilito alcun divieto di impiego, in detti spettacoli, di animali appartenenti a diverse specie, con conseguente palese contrasto dell’ordinanza impugnata con tale specifica vigente disciplina nazionale in materia di spettacoli circensi.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale che il Collegio pienamente condivide, nell’attuale vigente ordinamento giuridico, “Se è pacifico il potere dell’ente locale di disciplinare e vigilare nell’esercizio dei suoi poteri di polizia veterinaria sulle condizioni di igiene e sicurezza pubblica in cui si svolge l’attività circense e su eventuali maltrattamenti degli animali, sanzionati anche penalmente dall’art. 727 c.p., non esiste, in contrasto, una norma legislativa che attribuisca allo stesso il potere di fissare in via preventiva e generalizzata il divieto assoluto di uso degli animali in spettacoli, ed anzi un simile intervento si pone in palese contrasto con la legge n. 337 del 1968, che tutela il circo nella sua dimensione tradizionale, implicante anche l’uso degli animali" (v. TAR Abruzzo –PE- Sez. I, 24/04/2009, n. 321; Toscana, Sez. I, 26/05/2008 n. 1531).
Il Collegio ritiene, inoltre, che tale finalità nemmeno possa dirsi assolta dalla deliberazione della Giunta Regionale della regione Emilia Romagna 14/05/2007 n. 647, atto espressamente richiamato nell’ordinanza impugnata, con specifico riferimento al passaggio in cui la Giunta “…raccomanda che nell’ambito dell’attività circense in futuro non vengono più detenute le specie in via di estinzione o il cui modello gestionale non è compatibile con la detenzione in una struttura mobile…”, trattandosi, all’evidenza, di mera disposizione programmatica, soggetta ad eventuale futura applicazione, che, allo stato, certamente non impone, né tanto meno autorizza o comunque faculta i Comuni a vietare le manifestazioni di spettacoli circensi che usano determinate specie animali sulla base di motivazioni incentrate esclusivamente su detto utilizzo (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 04.07.2012 n. 470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’ordinanza sindacale ex art. 50 D.Lgs. n. 267 del 2000 deve contenere specifica motivazione circa la sussistenza, in concreto, degli elementi giustificativi dell’esercizio del potere, con indicazione dell’istruttoria compiuta e dei presupposti di fatto considerati, posto che il relativo potere presuppone la necessità di provvedere, con immediatezza, riguardo a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, alle quali sia impossibile fare fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall’ordinamento
L’ordinanza impugnata è pure illegittima sotto altro profilo, parimenti rilevato dalla ricorrente, costituito dalla palese mancanza, nella specie, dei presupposti di legge per l’adozione di ordinanza extra ordinem ai sensi dell’art. 50 D.Lgs n. 267 del 2000.
Come è stato più sopra rilevato, l’oggetto dell’ordinanza del Sindaco di Ferrara impone un divieto assoluto e temporalmente indeterminato di attendamento nel territorio comunale per quegli spettacoli circensi che utilizzino determinate specie animali, senza peraltro indicare alcuna ragione (quale risultante dal necessario esperimento di adeguata attività istruttoria), in riferimento alla quale la presenza e l’utilizzo di questi animali costituisca o possa costituire un pericolo, anche potenziale per la salute e la sicurezza pubblica dei cittadini.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, l’ordinanza sindacale ex art. 50 D.Lgs. n. 267 del 2000 deve contenere specifica motivazione circa la sussistenza, in concreto, degli elementi giustificativi dell’esercizio del potere, con indicazione dell’istruttoria compiuta e dei presupposti di fatto considerati, posto che il relativo potere presuppone la necessità di provvedere, con immediatezza, riguardo a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile, alle quali sia impossibile fare fronte con gli strumenti ordinari apprestati dall’ordinamento (v. TAR Liguria Genova, Sez. I, 22/09/2011 n. 1409) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 04.07.2012 n. 470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' stato stabilito il principio di diritto in materia di sindacato sulla legittimità della verifica dell’anomalia secondo cui il giudice deve solo stabilire se la stazione appaltante sia incorsa in qualche errore o illogicità manifesta e se l’offerta risulti nel suo complesso affidabile, e non può anche spingersi a sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Amministrazione.
Di conseguenza il giudice non può ritenere anomala un’offerta sulla base delle risultanze di una verificazione tecnica, qualora il tecnico incaricato svolga una nuova valutazione delle componenti dell'offerta economica rilevando che le giustificazioni addotte da questa erano, per più punti, generiche, insufficienti o non documentate.
Un giudizio di anomalia può essere espresso dal giudice solo sulla base di una relazione dalla quale emergano indicazioni idonee ad attestare la manifesta illogicità o all’insufficienza di motivazioni o all’esistenza di errori di fatto che abbiano inficiato la valutazione di congruità dell'offerta fatta dalla Amministrazione.
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L'obbligo dell'amministrazione di assicurare il contraddittorio nel sub-procedimento di verifica dell’anomalia non implica la confutazione puntuale di tutte le osservazioni svolte dagli interessati, essendo sufficiente che il provvedimento amministrativo sia corredato da una motivazione che renda nella sostanza comunque percepibile la ragione del mancato accoglimento delle deduzioni difensive del privato.
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Del tutto legittimamente la stazione appaltante può procedere all’esclusione dell’offerta per anomalia allorquando si accerti ex post l’incongruità di alcune voci, ancorché queste possano essere compensate da altre, poiché una posizione dell’offerente siffatta non è coerente con le finalità del sub-procedimento di verifica dell’anomalia, in quanto volto non già a consentire aggiustamenti dell’offerta in itinere ma ad accertare “la serietà di una offerta consapevolmente già formulata ed immutabile”, potendo a tal riguardo le modifiche alle componenti dell’offerta stessa essere circoscritte:
a) o una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo (rispetto alle giustificazioni già fornite), lasciando le voci di costo invariate;
b) oppure un aggiustamento di singole voci di costo, che trovi il suo fondamento o in sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo, o in altre ragioni plausibili.

Si è infatti detto sopra che il provvedimento di esclusione è fondato sul giudizio di complessiva inattendibilità dell’offerta presentata dall’odierna appellante.
Come è dato evincere dalla lettura del verbale n. 19 del 31.05.2010, il giudizio di non congruità risulta analiticamente motivato
Le censure formulate dalla DEC in primo grado e qui ritualmente riproposte avverso tale giudizio non giungono tuttavia a disvelarne profili sintomatici di eccesso di potere per illogicità o travisamento delle risultanze istruttorie del procedimento, ma rimangono sulla soglia di una contrapposta versione dell’interessata, opinabile al pari del giudizio tecnico-discrezionale formulato dalla Commissione, tale dunque da non consentire il sindacato del giudice amministrativo, secondo il costante insegnamento espresso al riguardo (cfr., da ultimo C.d.S., sez. III, 14.02.2012, n. 710, che ha stabilito il principio di diritto in materia di sindacato sulla legittimità della verifica dell’anomalia che il giudice “deve solo stabilire se la stazione appaltante sia incorsa in qualche errore o illogicità manifesta e se l’offerta risulti nel suo complesso affidabile, e non può anche spingersi a sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Amministrazione. Di conseguenza il giudice non può ritenere anomala un’offerta sulla base delle risultanze di una verificazione tecnica, qualora il tecnico incaricato svolga una nuova valutazione delle componenti dell'offerta economica rilevando che le giustificazioni addotte da questa erano, per più punti, generiche, insufficienti o non documentate. Un giudizio di anomalia può essere espresso dal giudice solo sulla base di una relazione dalla quale emergano indicazioni idonee ad attestare la manifesta illogicità o all’insufficienza di motivazioni o all’esistenza di errori di fatto che abbiano inficiato la valutazione di congruità dell'offerta fatta dalla Amministrazione”; in senso conf. le Sez. un. civili della Corte di Cassazione, sent. 28.05.2012, n. 8412).
Va ancora soggiunto che secondo altro consolidato indirizzo giurisprudenziale dal quale non vi è motivo di discostarsi l'obbligo dell'amministrazione di assicurare il contraddittorio nel sub-procedimento di verifica dell’anomalia non implica la confutazione puntuale di tutte le osservazioni svolte dagli interessati, essendo sufficiente che il provvedimento amministrativo sia corredato da una motivazione che renda nella sostanza comunque percepibile la ragione del mancato accoglimento delle deduzioni difensive del privato (C.d.S., sez. V, 10.05.2012, n. 2701; 10.09.2009, n. 5424; sez. IV, 05.10.2005, n. 5365; sez. VI, 23.03.2009, n. 1700; 07.01.2008, n. 17; 11.04.2006, n. 1999).
Ciò precisato in diritto, ad avviso del Collegio la correttezza dell’operato della stazione appaltante nel caso di specie emerge agevolmente dalla stessa lettura del provvedimento di esclusione.
In esso sono enucleati plurimi elementi di anomalia, con riguardo, ad esempio, la produttività dell’impianto di produzione dei conglomerati; lo smaltimento dei materiali e la non plausibilità delle giustificazioni della DEC circa il fatto che questi verranno interamente riciclati; il prezzo di fornitura new jersey e la non plausibilità delle giustificazioni della DEC per il fatto di avere indicato un ulteriore passaggio commerciale senza aumento del prezzo; la mancanza di adeguate certificazioni a supporto della giustificazione consistente nella possibilità di realizzare un impianto di produzione di conglomerati e manifesta inverosimiglianza del prezzo offerto, del costo tecnico di produzione e della sua capacità produttiva.
Né è corretto porre in evidenza la modesta entità delle voci di prezzo risultate non congrue in sede di sub-procedimento di verifica rispetto all’importo dei lavori oggetto di appalto e la possibilità di assorbimento dei maggiori valori quali ricostruiti dalla Commissione di gara nell’utile dichiarato in sede di offerta.
In contrario si segnala un indirizzo, recentemente espresso, secondo cui del tutto legittimamente la stazione appaltante può procedere all’esclusione dell’offerta per anomalia allorquando si accerti ex post l’incongruità di alcune voci, ancorché queste possano essere compensate da altre, poiché una posizione dell’offerente siffatta non è coerente con le finalità del sub-procedimento di verifica dell’anomalia, in quanto volto non già a consentire aggiustamenti dell’offerta in itinere ma ad accertare “la serietà di una offerta consapevolmente già formulata ed immutabile”, potendo a tal riguardo le modifiche alle componenti dell’offerta stessa essere circoscritte: “a) o una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo (rispetto alle giustificazioni già fornite), lasciando le voci di costo invariate; b) oppure un aggiustamento di singole voci di costo, che trovi il suo fondamento o in sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo, o in altre ragioni plausibili” (cfr. C.d.S., sez. VI, 07.02.2012 n. 636).
Il principio espresso in quest’ultimo precedente è pienamente condiviso da questo Collegio, poiché coerente con le esigenze di affidabilità del contraente privato che il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta tende ad accertare (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.07.2012 n. 3850 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Non è indispensabile pubblicare il bando di gara anche nella gazzetta ufficiale oltre che nell'albo pretorio del comune, nel caso di gara per l'affidamento in concessione di servizi.
L'omessa pubblicazione del bando sulla gazzetta ufficiale, prescritto per gli appalti sottosoglia dall'art. 124 del D.lvo 12.04.2006, n. 163 -Codice dei contratti pubblici deve essere valutata nell'ambito di una procedura- quale è quella di specie- che ha avuto ad oggetto l'affidamento di una concessione di servizi, fattispecie cui a norma dell'art. 30 del medesimo D.lvo n. 163/2006, non si applicano le disposizioni del Codice dei contratti quanto piuttosto i principi generali desumibili dal Trattato.
Si tratta quindi di valutare se la pubblicazione del bando -anche nella Gazzetta Ufficiale, oltre che all'albo pretorio- sia una condizione irrinunciabile a garanzia del rispetto dei principi di trasparenza e di adeguata pubblicità, consapevoli che su tale questione si è già pronunciato implicitamente questo Consiglio, nel senso di ritenere che si possa legittimamente fare a meno della pubblicazione del bando anche nella gazzetta ufficiale (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.07.2012 n. 3843 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZIL’omessa pubblicazione del bando sulla gazzetta ufficiale, prescritto per gli appalti sottosoglia dall’art. 124, deve essere comunque valutata nell’ambito di una procedura che ha avuto ad oggetto l’affidamento di una concessione di servizi, fattispecie cui, come noto, a norma dell’art. 30 non si applicano le disposizioni del Codice dei contratti quanto piuttosto i principi generali desumibili dal Trattato.
Si tratta quindi di valutare se la pubblicazione del bando -anche nella Gazzetta Ufficiale, oltre che all’albo pretorio- sia una condizione irrinunciabile a garanzia del rispetto dei principi di trasparenza e di adeguata pubblicità, consapevoli che su tale questione si è già pronunciato implicitamente questo Consiglio, nel senso di ritenere che si possa legittimamente fare a meno della pubblicazione del bando anche nella Gazzetta Ufficiale.

Nel merito del vizio dedotto con il terzo motivo, si osserva incidentalmente come l’omessa pubblicazione del bando sulla gazzetta ufficiale, prescritto per gli appalti sottosoglia dall’art. 124, deve essere comunque valutata nell’ambito di una procedura -quale è quella in esame- che ha avuto ad oggetto l’affidamento di una concessione di servizi, fattispecie cui, come noto, a norma dell’art. 30 non si applicano le disposizioni del Codice dei contratti quanto piuttosto i principi generali desumibili dal Trattato.
Si tratta quindi di valutare se la pubblicazione del bando -anche nella Gazzetta Ufficiale, oltre che all’albo pretorio- sia una condizione irrinunciabile a garanzia del rispetto dei principi di trasparenza e di adeguata pubblicità, consapevoli che su tale questione si è già pronunciato implicitamente questo Consiglio, nel senso di ritenere che si possa legittimamente fare a meno della pubblicazione del bando anche nella Gazzetta Ufficiale (v. Cons. St., V, n. 2709/2011) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.07.2012 n. 3843 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Muovendo dall'art. 878 c.c., è muro di cinta, quello che non ha un'altezza superiore a tre metri e che solo per un manufatto di queste dimensioni è ravvisabile la possibilità di applicare l'art. 4 del D.L. 05.10.1993, n. 398 (convertito dalla L. 04.12.1993 n. 493, modificato dall'art. 5 D.P.R. 22.04.1994, n. 425, sostituito dall'art. 2, comma 60, L. 23.12.1996, n. 662, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 10 del T.U. 06.06.2001 n. 380).
In tali limiti va, pertanto, interpretato il comma 7 dell’art. 4 sopracitato, il quale ha subordinato alla denunzia d'inizio d'attività gli interventi ivi indicati (tra i quali "recinzioni, mura di cinta e cancellate").
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Nel caso in cui la funzione del muro sia quella di sostenere, il muro stesso deve essere autorizzato mediante il rilascio di una concessione edilizia.
I muri di contenimento, invero, hanno una consistenza diversa dalle recinzioni, dalle quali si differenziano per funzione (che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma, essenzialmente, di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso) e struttura (che deve, appunto, essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento).
Ne consegue che mentre il muro di cinta può essere ricondotto alla categoria delle pertinenze, il muro di contenimento, destinato a contenere o sostenere esso stesso dei volumi ulteriori, invece, viene assimilato alla categoria delle costruzioni: in tal caso, infatti, il manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. di recente sez. IV, 03.05.2011, n. 2621) è nel senso che, muovendo dall'art. 878 c.c., è muro di cinta, quello che non ha un'altezza superiore a tre metri e che solo per un manufatto di queste dimensioni è ravvisabile la possibilità di applicare l'art. 4 del D.L. 05.10.1993, n. 398 (convertito dalla L. 04.12.1993 n. 493, modificato dall'art. 5 D.P.R. 22.04.1994, n. 425, sostituito dall'art. 2, comma 60, L. 23.12.1996, n. 662, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 10 del T.U. 06.06.2001 n. 380); in tali limiti va, pertanto, interpretato il comma 7 dell’art. 4 sopracitato, il quale ha subordinato alla denunzia d'inizio d'attività gli interventi ivi indicati (tra i quali "recinzioni, mura di cinta e cancellate") e che erroneamente -in punto di fatto- il ricorrente invoca a proprio vantaggio.
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In proposito, è sufficiente richiamare, ex multis, la sentenza del C.G.A. 05.05.1993, n. 165, secondo la quale, nel caso in cui la funzione del muro sia quella di sostenere, il muro stesso deve essere autorizzato mediante il rilascio di una concessione edilizia.
I muri di contenimento, invero, hanno una consistenza diversa dalle recinzioni, dalle quali si differenziano per funzione (che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma, essenzialmente, di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso) e struttura (che deve, appunto, essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento).
Ne consegue che mentre il muro di cinta può essere ricondotto alla categoria delle pertinenze, il muro di contenimento, destinato a contenere o sostenere esso stesso dei volumi ulteriori, invece, viene assimilato alla categoria delle costruzioni: in tal caso, infatti, il manufatto ha una funzione autonoma, dal punto di vista edilizio e da quello economico (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, 12.03.2001, n. 106; 27.04.2001, n. 246; TAR Piemonte 07.05.2003, n. 657; TAR Liguria, sez. I, 14.11.1996, n. 492; 19.10.1994, n. 345)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.07.2012 n. 1265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il riferimento -in ogni deliberazione di acquisizione ex art. 7 legge 47/1985- all'esistenza di prevalenti interessi pubblici costituisce presupposto indefettibile per non procedere, ai sensi dell'art. 7, comma 5, della l. n. 47/1985, alla demolizione del manufatto abusivo e sostituirla, alternativamente ed eccezionalmente, con la mera acquisizione al patrimonio del Comune.
E' sufficiente osservare che, decorso il termine di 90 giorni dalla notifica dell'ingiunzione di demolizione senza che si sia atteso alla demolizione o al ripristino dello stato dei luoghi, la conseguente acquisizione gratuita al patrimonio disponibile del Comune dell'opera abusiva, della relativa area di sedime, nonché dell'ulteriore superficie astrattamente necessaria per la realizzazione di opere analoghe a quella abusiva si attua ope legis ed avviene a titolo originario e di diritto, ossia per il mero decorso del tempo.
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La giurisprudenza ha sempre interpretato l'art. 7 l. 28.02.1985, n. 47, nel senso che in base a tale norma è sempre ammessa l'acquisizione gratuita di una superficie pari a dieci volte quella abusivamente costruita.

Invero, le censure dedotte con il primo motivo di ricorso vanno disattese, tenuto conto che:
a) il riferimento -in ogni deliberazione di acquisizione ex art. 7 legge 47/1985- all'esistenza di prevalenti interessi pubblici costituisce presupposto indefettibile per non procedere, ai sensi dell'art. 7, comma 5, della l. n. 47/1985, alla demolizione del manufatto abusivo e sostituirla, alternativamente ed eccezionalmente, con la mera acquisizione al patrimonio del Comune (cfr. da ultimo: TAR Catania sez. I, 25.03.2010, n. 937; TAR Napoli sez. VI, 05.07.2006, n. 7301). Dunque nella esplicitazione di tale interesse pubblico da parte della deliberazione controversa (ottimizzazione del servizio pubblico di raccolta rifiuti) non è ravvisabile alcun sviamento dalla causa tipica, bensì la puntuale applicazione del richiamato art. 7, comma 5, legge 47/1985;
b) quanto al lasso di tempo (9 anni) intercorso tra realizzazione dell’abuso e acquisizione gratuita, il Collegio aderisce al principio di recente ribadito in giurisprudenza, secondo cui <<è sufficiente osservare che, decorso il termine di 90 giorni dalla notifica dell'ingiunzione di demolizione senza che si sia atteso alla demolizione o al ripristino dello stato dei luoghi, la conseguente acquisizione gratuita al patrimonio disponibile del Comune dell'opera abusiva, della relativa area di sedime, nonché dell'ulteriore superficie astrattamente necessaria per la realizzazione di opere analoghe a quella abusiva si attua ope legis ed avviene a titolo originario e di diritto, ossia per il mero decorso del tempo>> (cfr. TAR Napoli sez. II, 06.02.2012, n. 589).
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La giurisprudenza (sin da TAR Toscana, sez. II, 15.07.1993, n. 322) ha sempre interpretato l'art. 7 l. 28.02.1985, n. 47, nel senso che in base a tale norma è sempre ammessa l'acquisizione gratuita di una superficie pari a dieci volte quella abusivamente costruita e, secondo la stessa prospettazione dei ricorrenti, nel caso di specie sono stati acquisiti 3.970 mq a fronte di un’estensione dell’abuso pari a 650 mq.: il che equivale a circa 6 volte (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.07.2012 n. 1264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: a) il termine per impugnare i titoli edilizi decorre, per i terzi, dalla data di piena conoscenza del provvedimento che si intende avvenuta alternativamente al momento del rilascio della copia degli stessi (inclusi i documenti di progetto), ovvero al completamento delle opere (salvo che non sia data la prova rigorosa di una conoscenza anteriore o che non si deducano censure di inedificabilità assoluta);
b) il completamento dei lavori, infatti, rivela in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l’incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo;
c) considerato che la pubblicazione dei titoli edilizi non fa decorrere i termini per l’impugnazione da parte del terzo, tale principio costituisce il punto di equilibrio fra due contrapposte esigenze: da un lato, garantire la tutela dei terzi lesi dall’iniziativa edificatoria, dall’altro, evitare abusi da parte di questi ultimi che potrebbero differire sine die il consolidamento del titolo edilizio postergando la richiesta di indicazione dei suoi estremi o di rilascio di copia completa del medesimo.

Sul punto di diritto controverso il collegio non intende decampare da consolidati principi, di recente recepiti dall’adunanza plenaria di questo Consiglio (cfr. 29.07.2011, n. 15; successivamente sez. VI, 16.09.2011, n. 5170), secondo i quali:
a) il termine per impugnare i titoli edilizi decorre, per i terzi, dalla data di piena conoscenza del provvedimento che si intende avvenuta alternativamente al momento del rilascio della copia degli stessi (inclusi i documenti di progetto), ovvero al completamento delle opere (salvo che non sia data la prova rigorosa di una conoscenza anteriore o che non si deducano censure di inedificabilità assoluta);
b) il completamento dei lavori, infatti, rivela in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l’incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo;
c) considerato che la pubblicazione dei titoli edilizi non fa decorrere i termini per l’impugnazione da parte del terzo, tale principio costituisce il punto di equilibrio fra due contrapposte esigenze: da un lato, garantire la tutela dei terzi lesi dall’iniziativa edificatoria, dall’altro, evitare abusi da parte di questi ultimi che potrebbero differire sine die il consolidamento del titolo edilizio postergando la richiesta di indicazione dei suoi estremi o di rilascio di copia completa del medesimo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.06.2012 n. 3777 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In materia di accesso alla documentazione amministrativa i soggetti privati sono assimilati alle pubbliche amministrazioni –in relazione al potere-dovere di esaminare le domande di accesso- solo limitatamente alla attività di pubblico interesse che risulti disciplinata dal diritto nazionale o comunitario (art. 22, lett. e), della legge n. 241 del 07.08.1990).
Come è noto, in materia di accesso alla documentazione amministrativa i soggetti privati sono assimilati alle pubbliche amministrazioni –in relazione al potere-dovere di esaminare le domande di accesso- solo limitatamente alla attività di pubblico interesse che risulti disciplinata dal diritto nazionale o comunitario (art. 22, lett. e), della legge n. 241 del 07.08.1990).
Nel caso di specie difettano anzitutto i presupposti per assimilare l’attività delle società private oggetto della domanda di accesso (relativa a documenti da cui desumere il grado di commercializzazione dell’apparecchiatura diagnostica) ad una attività di pubblico interesse disciplinata dalla normativa nazionale o comunitaria.
Manca infatti una disciplina nazionale o comunitaria che disciplini o condizioni le scelte imprenditoriali di un soggetto privato riguardo alle modalità di commercializzazione di un prodotto medicale, trattandosi di una attività riservata alle insindacabili valutazioni del management societario ovvero alle scelte di politica industriale (anch’esse incensurabili) del soggetto titolare del marchio o del brevetto, non potendo ravvisarsi, nei confronti di un soggetto privato, un obbligo giuridico di commercializzare un prodotto o un macchinario, financo ove possa ritenersi provata la sua positiva efficacia sulla salute umana..
La mancanza del suindicato requisito normativo nella fattispecie oggetto della originaria domanda ostensiva rende già di per sé accoglibile l’appello in esame.
La questione dirimente, pertanto, nella prospettiva della infondatezza della istanza ostensiva, risulta quella della carenza di una disciplina normativa che regolamenti la specifica attività di commercializzazione del bioscanner; laddove non appare al contrario insussistente, come non condivisibilmente sostenuto dal Tar, il requisito dell’interesse pubblico sotteso alla più ampia divulgazione possibile dell’apparato medicale di che trattasi, e ciò sia perché, sul piano oggettivo, si tratta di una strumentazione medica almeno potenzialmente rafforzativa delle possibilità di tutelare il diritto alla salute dei consumatori, in considerazione delle sue significative risposte sul piano della diagnosi precoce di alcune patologie, sia perché, sul piano soggettivo, il controllo di fatto e di diritto che lo Stato esercita, in forza della quota azionaria di riferimento ma anche in virtù dei poteri speciali di cui risulta titolare (d.p.c.m. 28.09.1999, attuativo dell’art. 2 del D.L. 31.05.1994 n. 241) conferiscono all’attività dell’ente privato una rilevanza pubblicistica che difficilmente potrebbe negarsi (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.06.2012 n. 3768 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla legittimità delle condizioni apposte alla lettera di invito per la concessione avente ad oggetto la vendita dei biglietti di accesso ed altri servizi collaterali nell'ambito del cosiddetto "polo museale romano".
Sono legittime le condizioni apposte alla lettera di invito rivolta ad imprese già prequalificate per una concessione, avente ad oggetto la vendita dei biglietti di accesso ed altri servizi collaterali nell'ambito del cosiddetto "polo museale romano", che prevedono l'obbligo di prestare una cauzione, ai sensi dell'art. 75 del d.lgs. n. 163/2006 e richiedano, a pena di esclusione, l'obbligo di conservazione del posto di lavoro dei dipendenti del precedente concessionario (cd "clausola sociale").
Per quanto riguarda l'applicabilità alla concessione di cui trattasi dell'art. 75 del d.lgs. 12.4.2006, n. 163, pur essendo le prescrizioni del codice stesso formalmente riferite ai pubblici appalti per forniture, lavori o servizi, con specifica esclusione, ai sensi dell'art. 30, delle concessioni di servizi (salvo per quanto riguarda i principi generali in materia di scelta del concessionario, tramite gara informale in cui siano assicurati "trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità") è rimessa alla discrezionalità dell'Amministrazione concedente, ove quest'ultima si sia esplicitamente vincolata in tal senso.
Il medesimo art. 30 del codice peraltro, nel dichiarare applicabili alle concessioni di cui trattasi "i principi generali relativi ai contratti pubblici", non può non recepire il carattere cogente della cd autodeterminazione vincolistica dell'Amministrazione, a tutela dell'interesse pubblico da quest'ultima perseguito sia nell'attività autoritativa, sia (per la parte procedurale che l'affianca) in quella privatistica; i medesimi principi rendono, inoltre, congrua la previsione di adeguate garanzie per l'Autorità concedente, tenuto conto dei numerosi profili di affinità fra la concessione di cui trattasi e l'appalto di servizi, alla luce della normativa comunitaria e della giurisprudenza. Infine, per quanto riguarda la "clausola sociale" (detta anche "di protezione" o di "salvaguardia sociale") la medesima corrisponde, nel caso di specie, ad un protocollo di intesa trilaterale, sottoscritto fra Ministero per i beni e le attività culturali e le principali Organizzazioni sindacali.
Nella situazione in esame non si tratta infatti di riconoscere un diritto -in ogni caso rivendicabile- dei lavoratori dipendenti del concessionario in scadenza alla continuità del rapporto di lavoro col nuovo concessionario, ma dell'impegno richiesto a quest'ultimo di assicurare tale continuità.
Un impegno, che non è contrastante con i principi fondamentali, riconosciuti a livello nazionale e comunitario in materia di lavoro e di sicurezza sociale e che, pertanto, poteva costituire legittimo oggetto di una scelta discrezionale dell'Autorità concedente il servizio, circa le modalità di definizione del nuovo rapporto concessorio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.06.2012 n. 3764 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: Le norme della certificazione ISO 9001:2000 sono universali, la loro applicabilità prescinde dalla dimensione o dal settore dell’attività, e le stesse definiscono principi generici che l’organizzazione deve seguire in funzione della soddisfazione dei clienti, ma non i requisiti intrinseci dei prodotti, sicché tale certificazione è idonea a fornire un’ulteriore prova dell’impegno dell’organizzazione a garanzia dell’orientamento dell’organizzazione verso la soddisfazione del cliente ed il correlativo miglioramento continuo.
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L’attestazione di qualificazione attiene e garantisce il possesso dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria, mentre la certificazione di qualità aziendale, come già precisato, attiene alla garanzia qualitativa di un determinato livello di esecuzione dell’intero rapporto contrattuale.
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La certificazione dei sistemi di gestione si sostanzia nel riconoscimento delle capacità imprenditoriali di un’azienda che ha saputo effettuare la propria organizzazione dotandosi di una gestione efficiente, di strutture idonee e di competenze adeguate, e costituisce anche una garanzia di affidabilità per clienti, fornitori, dipendenti e collaboratori.
Tutto ciò a prescindere dalla specifica attività esercitata, proprio perché il rispetto dell’insieme di regole e di procedure, riconosciute da norme di valore internazionali, è teso a consentire alla organizzazione complessiva della società di raggiungere obiettivi definiti quali, ad esempio, la soddisfazione del cliente ed il miglioramento continuo delle prestazioni.

Rileva in via preliminare il Collegio, che l’art. 9, punto 4), del bando di gara richiede, ai fini della partecipazione, il semplice possesso della certificazione UNI EN ISO 2001 rilasciata da un organismo accreditato, senza ulteriori specificazioni e, tantomeno, alcun riferimento all’oggetto specifico dell’appalto.
Ciò posto, in relazione al primo profilo di censura, va osservato che l’art. 4, comma 2, del DPR n. 34 del 25.01.2000, applicabile al caso di specie, dispone quanto segue: “La certificazione del sistema di qualità aziendale e la dichiarazione della presenza degli elementi significativi e tra loro correlati del sistema di qualità aziendale si intendono riferite agli aspetti gestionali dell’impresa nel suo complesso, con riferimento alla globalità delle categorie e classifiche.”
A sua volta l’art. 63 del DPR 207/2010, entrato in vigore l’08.06.2011 e applicabile ai bandi di gara emanati successivamente alla sua entrata in vigore, ripete al comma n. 2 la stessa ed identica formulazione.
Non v’è dubbio, quindi, che la certificazione del sistema di qualità aziendale attesta la presenza nell’azienda di caratteristiche organizzative e di modalità operative predeterminate dalle norme UNI EN ISO 9000.
Esse concernono una serie articolata di elementi denotanti la capacità imprenditoriale tout court, quali la funzionalità dell’organizzazione, le modalità di reclutamento e di formazione del personale, la suddivisione di ruoli e competenza, le procedure di formulazione e di presentazione delle offerte, le verifiche in caso di aggiudicazione e le modalità di pianificazione della commessa, le modalità di approvvigionamento dei materiali, le selezioni dei fornitori, la gestione dei subappalti, l’esecuzione dei lavori e il relativo controllo, le procedure di verifiche interne ed esterne, il rilievo e la gestione delle criticità (cfr. allegato C) al D.P.R. 25.01.2000, n. 34).
In definitiva, si tratta di un complesso predefinito di caratteristiche che conferiscono ad un’impresa la capacità di soddisfare elevate esigenze di qualità, perché la loro esistenza garantisce un determinato livello qualitativo della struttura aziendale e dei processi lavorativi, in quanto capaci di garantire il controllo del complesso delle operazioni che influiscono sui prodotti e sulle prestazioni con risorse adeguate, la corretta esecuzione dei rapporti contrattuali e l’orientamento alla soddisfazione del cliente.
Si tratta di caratteristiche generali che prescindono dalle dimensioni e dal settore di attività dell’azienda. Esse codificano gli standard industriali e commerciali, le regole organizzative e i principi vigenti nei Paesi industrializzati che un’azienda efficiente deve seguire per i suoi processi produttivi, ma non attengono alle modalità con le quali si fabbricano specifici prodotti o si rendono individuati servizi.
Ed è per queste ragioni che la certificazione di qualità attiene agli aspetti gestionali dell’impresa, intesa nel suo complesso, e non ai prodotti da essa realizzati ovvero alle attività ed ai processi produttivi per cui sia specificamente abilitata.
L’assunto, oltre a trovare formale riscontro nel dato normativo sopra richiamato, trova altresì puntuale conferma nel consolidato insegnamento della giurisprudenza amministrativa, secondo cui “le norme della certificazione ISO 9001:2000 sono universali, la loro applicabilità prescinde dalla dimensione o dal settore dell’attività, e le stesse definiscono principi generici che l’organizzazione deve seguire in funzione della soddisfazione dei clienti, ma non i requisiti intrinseci dei prodotti, sicché tale certificazione è idonea a fornire un’ulteriore prova dell’impegno dell’organizzazione a garanzia dell’orientamento dell’organizzazione verso la soddisfazione del cliente ed il correlativo miglioramento continuo“ (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10.09.2010 n. 6530; Sez. VI, 21.04.2010, n. 2222; Sez. VI, 27.10.2003, n. 6619; Sez. IV, 14.10.2005, n. 5800).
Del resto, nel caso di specie le capacità tecniche, ovvero quelle relative alla costruzione e alla gestione di discariche, dovevano essere comprovate dall’attestazione SOA relativa alle specifiche categorie indicate dalla lex specialis e non, quindi, dalla certificazione di qualità ( UNI ES ISO 9001 ).
Infatti, l’attestazione di qualificazione attiene e garantisce il possesso dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria, mentre la certificazione di qualità aziendale, come già precisato , attiene alla garanzia qualitativa di un determinato livello di esecuzione dell’intero rapporto contrattuale (cfr. da ultimo Consiglio di Stato, Sez. V 24.03.2011 n. 1773).
Così, la capacità tecnica in relazione all’oggetto dell’appalto e cioè la “costruzione e gestione della discarica“, è stata prevista dall’art. 9, punto 2, del bando di gara, laddove viene richiesta una “SOA debitamente autorizzata, che attesti il possesso della qualificazione adeguata alla categoria e all’importo totale dei lavori di cui ai punti 6.1 e 6.2 e cioè la categoria OG12 classe V.
Attestazione SOA regolarmente posseduta dall’ATI ricorrente, come correttamente verificato dalla Commissione di gara e non contestato.
Inoltre lo stesso bando richiedeva, ai fini della partecipazione (cfr. punto 3 dell’art. 9), la “effettuazione, nell’ultimo decennio, di gestioni operative di discariche analoghe a quelle di cui alla gara” per le quantità ivi specificate.
Requisito tecnico parimenti soddisfatto dalla ricorrente.
Pertanto, la certificazione dei sistemi di gestione si sostanzia nel riconoscimento delle capacità imprenditoriali di un’azienda che ha saputo effettuare la propria organizzazione dotandosi di una gestione efficiente, di strutture idonee e di competenze adeguate, e costituisce anche una garanzia di affidabilità per clienti, fornitori, dipendenti e collaboratori.
Tutto ciò a prescindere dalla specifica attività esercitata, proprio perché il rispetto dell’insieme di regole e di procedure, riconosciute da norme di valore internazionali, è teso a consentire alla organizzazione complessiva della società di raggiungere obiettivi definiti quali, ad esempio, la soddisfazione del cliente ed il miglioramento continuo delle prestazioni
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.06.2012 n. 3752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’offerta, sia economica che tecnica, presentata dall’impresa partecipante deve essere “unica e immodificabile” al fine di garantire l’effettiva parità di condizioni tra i concorrenti.
Conseguentemente, né l’impresa partecipante può nel corso della gara modificare l’offerta né , tantomeno, la commissione giudicatrice può intervenire sulla stessa correggendola o scorporandola al fine di individuare un diverso ammontare rispetto a quello indicato dalla impresa partecipante.
In particolare, la commissione di gara non ha poteri modificativi e/o manipolativi della volontà espressa dai concorrenti nel redigere l’offerta e ciò non solo perché, diversamente opinando, si violerebbe il principio della par condicio dei concorrenti , ma soprattutto perché il concorrente che risulti poi aggiudicatario sarà tenuto al rispetto della sola offerta che ha sottoscritto e non di quella, diversa, risultante dalla modifica operata dalla commissione.
Si tratta di un principio fondamentale, ripetesi improntato a salvaguardare la trasparenza dell’azione amministrativa e la parità di trattamento tra i concorrenti, che costituisce espressione del più generale principio di imparzialità codificato dall’art. 97 della Costituzione e, come tale, intangibile.

Costituisce principio fondamentale in materia di gara per l’affidamento di appalti pubblici, quello per cui l’offerta, sia economica che tecnica, presentata dall’impresa partecipante deve essere “unica e immodificabile” al fine di garantire l’effettiva parità di condizioni tra i concorrenti.
Conseguentemente, né l’impresa partecipante può nel corso della gara modificare l’offerta né , tantomeno, la commissione giudicatrice può intervenire sulla stessa correggendola o scorporandola al fine di individuare un diverso ammontare rispetto a quello indicato dalla impresa partecipante.
In particolare, la commissione di gara non ha poteri modificativi e/o manipolativi della volontà espressa dai concorrenti nel redigere l’offerta (Cons. Stato, IV Sez., 29.01.2008 n. 263) e ciò non solo perché, diversamente opinando, si violerebbe il principio della par condicio dei concorrenti , ma soprattutto perché il concorrente che risulti poi aggiudicatario sarà tenuto al rispetto della sola offerta che ha sottoscritto e non di quella, diversa, risultante dalla modifica operata dalla commissione.
Si tratta di un principio fondamentale, ripetesi improntato a salvaguardare la trasparenza dell’azione amministrativa e la parità di trattamento tra i concorrenti, che costituisce espressione del più generale principio di imparzialità codificato dall’art. 97 della Costituzione e, come tale, intangibile
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.06.2012 n. 3752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Il terzo ha titolo ad adire il Giudice amministrativo quando esista una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta da un intervento che, se illegittimamente assentito, sia idoneo ad arrecare pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima, onde la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a radicare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo altresì la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse giuridicamente rilevante.
L'art. 31, comma 9, della l. 17.08.1942, n. 1150 (come modificato dall'art. 10 l. 06.08.1967 n. 765), nel legittimare chiunque a ricorrere contro le concessioni edilizie, pur non avendo introdotto un'azione popolare, va comunque correttamente inteso nel senso che deve riconoscersi una posizione qualificata e differenziata ai singoli proprietari siti nella zona in cui la costruzione è assentita e a tutti coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento con la zona stessa, ove gli stessi ritengano che per effetto della nuova costruzione, in contrasto con le prescrizioni urbanistiche, si determini una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, che i ricorrenti intenderebbero, invece, conservare.
Il principio di diritto testé richiamato, pur essendo stato affermato in relazione all’impugnativa di concessioni edilizie, può agevolmente essere esteso –per intuibili ragioni sistematiche– alla materia che qui rileva dell’impugnativa di delibere comunali di approvazione di progetti comunque incidenti sui valori urbanistici della zona.

Si osserva al riguardo che, anche ad annettere rilevanza ai fini del decidere al fatto che, nelle more del giudizio, sia venuta a scadenza la concessione demaniale a suo tempo rilasciata in favore della signora Giacosa per il mantenimento di una boa sulla medesima area interessata dal progetto comunale, nondimeno la stessa vanterebbe un’autonoma legittimazione ed interesse alla coltivazione del ricorso nella sua indiscussa qualità di proprietario di un immobile antistante l’area interessata dal progetto per cui è causa.
Al riguardo il Collegio ritiene di prestare adesione al condiviso orientamento secondo cui il terzo ha titolo ad adire il Giudice amministrativo quando esista una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta da un intervento che, se illegittimamente assentito, sia idoneo ad arrecare pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima, onde la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a radicare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo altresì la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse giuridicamente rilevante (Cons. Stato, IV, 29.07.2009, n. 4756).
La giurisprudenza di questo Consiglio ha altresì stabilito che l'art. 31, comma 9, della l. 17.08.1942, n. 1150 (come modificato dall'art. 10 l. 06.08.1967 n. 765), nel legittimare chiunque a ricorrere contro le concessioni edilizie, pur non avendo introdotto un'azione popolare, va comunque correttamente inteso nel senso che deve riconoscersi una posizione qualificata e differenziata ai singoli proprietari siti nella zona in cui la costruzione è assentita e a tutti coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento con la zona stessa, ove gli stessi ritengano che per effetto della nuova costruzione, in contrasto con le prescrizioni urbanistiche, si determini una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, che i ricorrenti intenderebbero, invece, conservare (Cons. Stato, IV, 11.04.2007, n. 1672).
Ad avviso del Collegio il principio di diritto testé richiamato, pur essendo stato affermato in relazione all’impugnativa di concessioni edilizie, può agevolmente essere esteso –per intuibili ragioni sistematiche– alla materia che qui rileva dell’impugnativa di delibere comunali di approvazione di progetti comunque incidenti sui valori urbanistici della zona (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.06.2012, n. 3750 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Le imprese partecipanti ad un costituendo raggruppamento devono indicare le quote di lavori che ciascuna eseguirà in modo da permettere subito la verifica dei requisiti, atteso che la normativa vigente si impernia su un principio di corrispondenza sostanziale tra quote di qualificazione e quote di partecipazione e tra queste e le quote di esecuzione con la conseguenza che tali informazioni non possono essere evidenziate ex post, in sede di esecuzione del contratto, costituendo requisiti di ammissione la cui inosservanza determina la esclusione dalla gara.
La giurisprudenza ha messo in luce che il principio di buon andamento e di trasparenza impone che le imprese partecipanti ad un costituendo raggruppamento indichino le quote di lavori che ciascuna eseguirà in modo da permettere subito la verifica dei requisiti, atteso che la normativa vigente si impernia su un principio di corrispondenza sostanziale tra quote di qualificazione e quote di partecipazione e tra queste e le quote di esecuzione con la conseguenza che tali informazioni non possono essere evidenziate ex post, in sede di esecuzione del contratto, costituendo requisiti di ammissione la cui inosservanza determina la esclusione dalla gara (Cons. Giust. Amm. Sicilia, 31.03.2006 n. 116; Cons. Stato, VI, 08.02.2008 n. 416) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.06.2012 n. 3741 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La presenza di un d.u.r.c. negativo alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, obbliga la stazione appaltante ad escludere dalla procedura l'impresa interessata, senza che si possano effettuare apprezzamenti in ordine alla gravità degli adempimenti ed alla definitività dell'accertamento previdenziale.
La regolarità contributiva deve essere conservata nel corso di tutto l’arco temporale impegnato dallo svolgimento della procedura mentre non assume rilievo l’intervento di un adempimento tardivo da parte dell’impresa.

Ritenuto che l’appello proposto dalla Voto Group s.r.l. merita accoglimento alla stregua delle seguenti considerazioni:
a) secondo un condivisibile indirizzo interpretativo, alla luce della disciplina introdotta dal d.m. del Ministero del lavoro 24.10.2007 e dalla successiva circolare applicativa n. 5 del 2008, e in omaggio ad un coerente indirizzo giurisprudenziale, la presenza di un d.u.r.c. negativo alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, obbliga la stazione appaltante ad escludere dalla procedura l'impresa interessata, senza che si possano effettuare apprezzamenti in ordine alla gravità degli adempimenti ed alla definitività dell'accertamento previdenziale (cfr., ex plurimis, Consiglio Stato, sez. V, 12.10.2011 n. 5531; id., 30.06.2011, n. 3912);
b) merita adesione, altresì, l’indirizzo ermeneutico secondo cui la regolarità contributiva deve essere conservata nel corso di tutto l’arco temporale impegnato dallo svolgimento della procedura mentre non assume rilievo l’intervento di un adempimento tardivo da parte dell’impresa (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, decisione 12.03.2009, n. 1458; id. 15.09.2010, n. 6907);
c) alla stregua di detti principi, deve ritenersi legittima nella specie la decisione con la quale la stazione appaltante ha deciso di revocare l’aggiudicazione in favore della ricorrente originaria con riguardo alla quale era stata accertata, durante la gara, una situazione di irregolarità mediante d.u.r.c. negativo del 13.12.2010 con riguardo ad un importo di €. 1076,00, che eccede la soglia stabilita dall’art. 8 del citato d.m. 24.10.2007 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.06.2012 n. 3738 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sono sindacabili le valutazioni tecnico-discrezionali della commissione di gara in sede di verifica dell’anomalia unicamente in caso di evidente sviamento, travisamento dei fatti ed arbitrarietà, le quali rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta invece reputata congrua.
Il motivo è invece infondato per il resto e cioè nella parte in cui si indirizza avverso il giudizio di congruità formulato dalla stazione appaltante nei confronti dell’offerta della controinteressata.
Il TAR ha infatti fatto corretta applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa che reputa sindacabili le valutazioni tecnico-discrezionali della commissione di gara in sede di verifica dell’anomalia unicamente in caso di evidente sviamento, travisamento dei fatti ed arbitrarietà, le quali rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta invece reputata congrua (ancora di recente: C.d.S., Sez. III, 14/02/2012, n. 210; Sez. V, 08/09/2010, n. 6495; 18/03/2010, n. 1589; sez. VI, 21/05/2009, n. 3146).
Giova allora sottolineare sul punto che in ragione di un simile atteggiarsi della sfera di apprezzamento dei fatti riservata all’amministrazione da un lato e del potere del giudice di ripercorrere l’iter decisionale di questa, necessariamente ab extrinseco, l’onere di allegazione e prova a carico di colui che deduce i suddetti profili di illegittimità non può ritenersi assolto attraverso una versione alternativa di parte, occorrendo invece enucleare specifici punti in cui il positivo riscontro sull’attendibilità dell’offerta si riveli, nel suo complesso, logicamente deficitario ed incongruamente motivato (in termini: sez. V, 12/03/2012, n. 1369).
Ciò non pare ricorrere nel caso di specie, visto che l’appellante si limita a prospettare la non congruità dei preventivi esposti nelle giustificazioni offerte dalla Tredil senza che tale deduzione sia corroborata da prove puntuali circa l’inattendibilità dell’offerta avversaria nel suo complesso e dunque senza che essa, fuoriuscendo dai margini di opinabilità entro i quali non è consentito sindacare l’operato dell’amministrazione nell’esercizio della sua discrezionalità, riesca ad enucleare specifici profili di illogicità ed arbitrarietà del procedimento di verifica concretamente esperito dalla stazione appaltante (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.06.2012 n. 3737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa fattispecie di esonero dal contributo di costruzione contemplata dall’art. 17, terzo comma, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001, già art. 9 della l. 28.01.1977, n. 10, trova applicazione per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento, di edifici unifamiliari, anche ove ricadenti in zona agricola.
Il ricorso è fondato.
Il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dall’orientamento giurisprudenziale di questo Tribunale Amministrativo, di cui alla sentenza, richiamata anche in sede cautelare, n. 854 del 05.08.2009.
Merita condivisione, in particolare, il profilo, sollevato anche con l’odierna impugnativa, della disparità di trattamento che verrebbe a determinarsi tra proprietari di edifici unifamiliari nelle zone urbane, esonerati dal pagamento degli oneri concessori, e proprietari di edifici unifamiliari in zone agricole, che, in mancanza della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale, sarebbero tenuti al pagamento degli oneri concessori, pur a fronte di un intervento edilizio con le medesime caratteristiche.
Deve ritenersi, pertanto, che la fattispecie di esonero dal contributo di costruzione contemplata dall’art. 17, terzo comma, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001, già art. 9 della l. 28.01.1977, n. 10, trovi applicazione per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento, di edifici unifamiliari, anche ove ricadenti in zona agricola (TAR Marche, sentenza 22.06.2012 n. 449 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Mancata sottoscrizione dell'offerta tecnica.
Il principio di tassatività delle cause di esclusione introdotto dall’articolo 46, comma 1-bis, del d.lgs. 163/2006, è stato oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali che hanno contribuito a chiarire l’esatta portata di questa disposizione che sin dall’inizio aveva destato alcune perplessità in ordine alla sua concreta applicazione.
Come noto, l’articolo in oggetto prevede che “La stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle.”.
La nuova normativa ha fatto sorgere alcuni dubbi in merito alla legittimità del provvedimento di esclusione in caso di alcune carenze formali come l’assenza di sottoscrizione dell’ offerta tecnica ed economica.
Con la sentenza 21.06.2012 n. 3669 il Consiglio di Stato, Sez. V, ha chiarito che la mancata sottoscrizione dell’offerta tecnica rappresenta una legittima causa di esclusione anche ai sensi dell’articolo 46, comma 1-bis.
Nell’appalto in oggetto di gara aveva escluso la concorrente in quanto l’offerta tecnica risultava priva della firma del rappresentante legale della società capogruppo di un’A.T.I. e di conseguenza non aveva esaminato l’offerta in quanto ritenuta non validamente presentata.
Il Consiglio di Stato adito ha confermato la legittimità della decisione della commissione di gara, ritenendo come la mancata sottoscrizione dell’offerta tecnica non possa essere negozialmente imputabile ad alcuno.
In particolare i giudici della V sezione hanno precisato come “La circostanza secondo cui il punto 5 del disciplinare di gara che, nell’elencare le “cause di esclusione”, sancisce che fra tali cause rientra l’ipotesi della mancata sottoscrizione dell’offerta economica, non incide affatto sulla sussistenza di tale causa di esclusione, trattandosi di mancanza di un elemento essenziale dell’offerta che anche nell’attuale assetto normativo disegnato dall’attuale art. 46, comma 1-bis, del Codice appalti, in cui è stato codificato il principio di tassatività delle cause di esclusione, rileva quale causa di estromissione del concorrente dalla gara d’appalto”.
In conclusione, la mancata sottoscrizione dell’offerta tecnica rende legittima l’esclusione della concorrente poiché rappresenta un’ipotesi di mancanza di un elemento essenziale dell’offerta così come richiesto dall’articolo 46, comma 1-bis, del d.lgs. 163/2006 (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici - Concessione per nuove costruzioni.
La scala, anche se priva di copertura, costituisce corpo aggettante rilevante ai fini della disciplina delle distanza, essendo idoneo a ridurre le intercapedini tra un edificio e l’altro e quindi a pregiudicare l’esigenza di salubrità che costituisce finalità essenziale della previsione di distanze minime.
Nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato (nella specie, scala esterna in muratura), qualora queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia.
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Mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono invece corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
Il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza ai sensi della norma in questione solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò, mentre nel caso di specie il regolamento prevede norma contraria.

Infine, con riferimento alla lamentata violazione della distanza dal confine prevista dall’art. 10 N.T.A. (m. 5), essendo prevista una rampa di scale a distanza inferiore, osserva il Collegio che la scala, anche se priva di copertura, costituisce corpo aggettante rilevante ai fini della disciplina delle distanza, essendo idoneo a ridurre le intercapedini tra un edificio e l’altro e quindi a pregiudicare l’esigenza di salubrità che costituisce finalità essenziale della previsione di distanze minime.
In tal senso si è espressa con orientamento costante la giurisprudenza della Cassazione in materia di distanze, evidenziando che “Nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato (nella specie, scala esterna in muratura), qualora queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia” (Cass. 1966/2007, 17390/2004, 4372/2002, tutte con riferimento a scale esterne).
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Va quindi esaminata la violazione dell’art. 26-bis del Regolamento Edilizio Comunale, dedotta come secondo motivo di ricorso.
La norma citata prevede infatti la distanza minima di m. 8 dalle finestre nei cortili interni, senza contare gli aggetti e i balconi se di profondità inferiore a cm 80, mentre nel caso di specie essendo i balconi di profondità di m. 1,20 la distanza non sarebbe rispettata.
Sul punto risulta pacifico che il balcone ha un aggetto superiore al limite di 80 cm, avendo anche il Comune confermato tale circostanza, deducendo che è prassi dell’ente autorizzare balconi di maggiore aggetto senza computarli ai fini del rispetto delle distanze.
Tale assunto, tuttavia, non è idoneo a fondare la legittimità del titolo edilizio, a fronte della perdurante vigenza della regola di cui al regolamento edilizio secondo la quale non vengono computati ai fini del rispetto delle distanza solo i balconi di sporgenza inferiore a cm. 80; il balcone in questione, profondo m. 1,20, va quindi computato ai fini della determinazione della distanza minima e deve, pertanto, costituire il limite esterno a partire dal quale va misurata la distanza di m. 8, con conseguente illegittimità della sua edificazione a distanza inferiore di m. 8 dalla parete dell’edificio dei ricorrenti.
La norma del regolamento è coerente con la giurisprudenza in materia di distanze fra edifici, secondo la quale, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono invece corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (TAR Lombardia, Milano, 04.05.2011, n. 1174, Cass. 17242/2010, TAR Sardegna sez. II, 06.04.2009, n. 432).
Il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza ai sensi della norma in questione solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (TAR Liguria, sez. I, 10.07.2009 n. 1736, TAR Toscana sez. III, 09.06.2011 n. 993), mentre nel caso di specie il regolamento prevede norma contraria.
Si consideri, altresì, che la realizzazione di cortili secondari e chiostrine a cavallo sul confine tra due proprietà é possibile secondo la disciplina edilizia applicabile nel Comune di Cellamare ove sia stipulata, a tale scopo, una apposita convenzione, la quale non deve pregiudicare in alcun modo le possibilità costruttive sui fondi, mentre in tal caso nessuna convenzione è stata stipulata tra le parti
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 21.06.2012 n. 1219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per usufruire delle deroghe previste dalla disciplina in materia di risparmio energetico (art. 11 d.lgs. 115/2008) occorre farvi riferimento nel progetto sottoposto ad autorizzazione affinché l’amministrazione possa verificarne i presupposti e riconoscere la possibilità di deroga rispetto ai limiti di edificabilità nell’autorizzare la costruzione, non potendo invece i richiedenti usufruirne autonomamente senza la relativa autorizzazione.
Di conseguenza la maggiore altezza dell’edificio, se non correttamente inserita e giustificata all’interno della richiesta di permesso di costruire, risulta priva di titolo, con conseguente illegittimità anche in parte qua del permesso di costruire.

Come affermato dalla giurisprudenza penale citata dai ricorrenti, per usufruire delle deroghe previste dalla disciplina in materia di risparmio energetico (art. 11 d.lgs. 115/2008) occorre farvi riferimento nel progetto sottoposto ad autorizzazione affinché l’amministrazione possa verificarne i presupposti e riconoscere la possibilità di deroga rispetto ai limiti di edificabilità nell’autorizzare la costruzione, non potendo invece i richiedenti usufruirne autonomamente senza la relativa autorizzazione (Cass. Pen. 28048/2011).
Di conseguenza la maggiore altezza dell’edificio, se non correttamente inserita e giustificata all’interno della richiesta di permesso di costruire, risulta priva di titolo, con conseguente illegittimità anche in parte qua del permesso di costruire
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 21.06.2012 n. 1219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla nullità delle clausole del bando di gara che prevedono cause di esclusione dalla gara di concorrenti che non trovano specifico riscontro in prescrizioni dettate dalla normativa di rango primario.
Sulla funzione della verifica della integrità dei plichi.

L'art. 46, c. 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, come modificato dalla l. n. 106 del 2011, prevede la nullità delle clausole di bando comportanti cause di esclusione dalla gara di concorrenti che non trovano specifico riscontro in prescrizioni dettate dalla normativa di rango primario.
E' quindi da escludere l'applicabilità delle disposizioni del bando che impongono la esclusione nel caso di mancata produzione di un documento, laddove se necessario la stazione appaltante, in base all'art. 46, c. 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, deve piuttosto invitare i concorrenti, come ha fatto nel caso di specie, a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto della documentazione presentata per la partecipazione alla gara, nei limiti previsti dagli artt. da 38 a 45 del medesimo codice dei contratti pubblici.
Pertanto va applicata l'esclusione nel caso di carenza di un determinato requisito e non per il mero difetto della relativa documentazione.
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La verifica della integrità dei plichi non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinata a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di gara.
In tale prospettiva la pubblicità delle sedute destinate a tale operazione risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post, una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato.
Ne consegue che, anche per l'offerta tecnica, così come per la documentazione amministrativa e per l'offerta economica, l'apertura della busta costituisce un passaggio essenziale e determinante dell'esito della procedura concorsuale, e quindi richiede di essere presidiata dalle medesime cautele, a tutela degli interessi privati e pubblici coinvolti dal procedimento, in modo che sia ufficializzata l'acquisizione dei documenti che la compongono.
La garanzia di trasparenza richiesta in questa fase si considera assicurata quando la commissione, aperta la busta del singolo concorrente, abbia proceduto ad un esame della documentazione, leggendo il solo titolo degli atti rinvenuti e dandone atto nel verbale della seduta (TAR Campania, Napoli, Sez. I, sentenza 12.06.2012 n. 2751 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Riutilizzo delle terre e rocce da scavo.
La Corte Suprema di Cassazione si pronuncia in merito alla disciplina dell'utilizzo come sottoprodotto delle terre e rocce da scavo.

Con la sentenza 23.05.2012 n. 19439 la Corte Suprema di Cassazione, Sez. III penale, interviene in materia di terre e rocce da scavo, in particolare sulla possibilità di esclusione dalla disciplina dei rifiuti ed il conseguente impiego come sottoprodotto.
In merito la Corte chiarisce che non si rinviene una normativa più favorevole nel D. Leg.vo 03/12/2010, n. 205, in seguito al quale viene definito sottoprodotto «qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all'art. 184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all'art. 184-bis, comma 2» e ciò per la mancanza della certezza dell'utilizzo e per la mancata ottemperanza alle prescrizioni poste dai commi 3 e 4 del modificato art. 186 del D. Leg.vo 152/2006 (Codice Ambiente).
Di tale articolo, infatti, il D. Leg.vo 205/2010 ha soltanto previsto la futura abrogazione ad opera di un decreto ministeriale (non ancora emanato) che dovrà definire i criteri qualitativi e quantitativi dei sottoprodotti e, una volta adottato tale decreto, troverà applicazione solo l'art. 184-bis dello stesso D. Leg.vo. 152/2006 disciplinante i sottoprodotti in generale (commento tratto tratto da www.legislazionetecnica.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi. Obbligo della Pubblica amministrazione di provvedere nel caso di richiesta di adozione di provvedimenti repressivi.
Nel caso in cui la P.A. abbia ricevuto segnalazioni sottoscritte, circostanziate e documentate, relative alla realizzazione di un abuso edilizio, la stessa ha comunque l’obbligo di attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso stesso, della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella della motivata archiviazione; e ciò in forza dei principi di cui all’art. 2 della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., sul procedimento amministrativo, dovendosi in particolare escludere che la mancanza dei presupposti per l’esercizio dei poteri sanzionatori -ritenuta sussistente in ragione del lunghissimo lasso di tempo decorso dalla realizzazione dell’abuso (nella specie, si trattava di quaranta anni)- possa giustificare un comportamento meramente silente (1).
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(1) V. in termini diversi, sia pure in tema di esercizio del potere di autotutela a distanza di tempo, Cons. Stato, Sez. V, sentenza 03.05.2012 n. 2549.
Ha osservato la sentenza in rassegna che il principio della tutela dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato circa la legittimità dell’azione amministrativa della quale egli è destinatario non può applicarsi nel campo degli abusi edilizi, atteso che in tal caso si è in presenza di un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. Il fattore tempo, quindi, nel caso di abusi edilizi, non agisce in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse, ma opera in antagonismo con l’azione amministrativa sanzionatoria, secondo una logica che al passare del tempo riduce o limita, sino ad annullare, il potere dell’amministrazione di reagire all’illecito, molto simile a quella che presidia i meccanismi decadenziali o quelli prescrizionali nel diritto penale.
Una logica siffatta non può trovare fondamento nei principi generali dell’affidamento né in quelli di efficacia e buon andamento dell’amministrazione, necessitando invece di un’apposita previsione normativa che, agendo sulla patologia dell’inerzia, la sanzioni con l’estinzione o con il mutamento del potere amministrativo esercitabile. In assenza, vale il principio dell’inesauribilità del potere amministrativo di vigilanza e controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito dei privati, qualunque sia l’entità dell’infrazione e il lasso temporale trascorso, salve le ipotesi di dolosa preordinazione o di abuso.
E’ quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha sempre posto l’accento sulla non configurabilità di un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, in forza di una legittimazione fondata sul tempo (Cfr. da ultimo, Consiglio Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 27.04.2011, n. 2497; sez. VI, 11.05.2011, n. 2781; sez. I, 30.06.2011, n. 4160)
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.05.2012 n. 2592 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Natura dei pareri espressi in sede di conferenza di servizi.
Il Consiglio di Stato ribadisce che i pareri espressi in sede di conferenza di servizi hanno natura provvedimentale, e pertanto un eventuale ricorso avverso la determinazione finale va notificato a tutte le amministrazioni che, nell’ambito della conferenza medesima, hanno espresso pareri o determinazioni ritenute lesive.

Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 02.05.2012 n. 2488, confermando la precedente pronuncia del TAR, ribadisce che l’utilizzo del modulo procedimentale della conferenza di servizi - che come tale non configura un ufficio speciale della p.a., autonomo rispetto ai soggetti che vi partecipano - non altera le regole che presiedono, in via ordinaria e generale, all’individuazione delle autorità emananti, con la conseguenza che un ricorso avverso la determinazione finale assunta in conferenza di servizi va notificato a tutte le amministrazioni che, nell’ambito della conferenza medesima, hanno espresso pareri o determinazioni che la parte ricorrente avrebbe avuto l’onere di impugnare autonomamente, se fossero stati emanati al di fuori del peculiare modulo procedimentale in esame.
Nella specie, la determinazione negativa della Regione in sede di conferenza di servizi, adottata nell’ambito del procedimento autorizzatorio riferito alle esigenze di difesa idraulica (di cui agli artt. 132 e 136 R.D. 368/1904) come atto conclusivo, aveva natura provvedimentale e doveva essere impugnata congiuntamente alla determinazione conclusiva della conferenza di servizi prodotta dal Comune quale amministrazione procedente (commento tratto tratto da www.legislazionetecnica.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Denuncia delle opere in cemento armato.
La Corte di Cassazione ricorda che la legge pone l’obbligo della denuncia delle opere in cemento armato in esclusiva in capo al costruttore.

La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 19.04.2012 n. 15184, ricorda che, in tema di adempimenti in materia di opere in cemento armato (artt. 65 e 72, D.P.R. 380/2001 TU edilizia), l’omessa denuncia costituisce un reato omissivo proprio configurabile in capo al costruttore, a carico del quale la legge pone in via esclusiva l'obbligo di denuncia; sicché, non essendo destinatario del suddetto obbligo, nessun altro soggetto è tenuto a rispondere del reato de quo.
In particolare, il reato omissivo non si estende né al direttore dei lavori, in capo al quale non sussiste l'obbligo di impedire l'omissione della denuncia in questione, né ad altri soggetti. Il committente o il direttore dei lavori potranno rispondere del reato in esame soltanto qualora abbiano in concreto compiuto atti tali da configurare un concorso materiale o morale con il costruttore (come, ad esempio, quando la denuncia sia stata omessa proprio su istigazione di chi ha ordinato i lavori) (commento tratto tratto da www.legislazionetecnica.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAFabbricati di nuova costruzione - Locale per stoccaggio dei rifiuti nei condomini.
Per i fabbricati di nuova costruzione l'applicazione delle nuove regole è comunque necessaria; questi quindi, dovranno tassativamente dotarsi, in applicazione dell'art. 59 del regolamento edilizio, di un locale per lo stoccaggio dei rifiuti. Per i fabbricati vetusti invece l'applicazione delle nuove regole (e quindi l'adeguamento del fabbricato al regolamento edilizio sopravvenuto), pur non essendo sempre dovuta, può essere imposta dall'Autorità amministrativa qualora ricorrano superiori esigenze di interesse pubblico, con il limite oggettivo degli interventi tecnicamente realizzabili.
Tipico esempio di superiori ragioni di interesse pubblico sono quelle connesse alle esigenze di tutela della salute e dell'igiene ed in particolare al corretto svolgimento delle operazioni di raccolta e stoccaggio dei rifiuti, prodotti dalle unità abitative, all'interno di spazi ed aree condominiali, in attesa del loro conferimento al servizio pubblico di raccolta.
E' invero intollerabile, per ovvie ragioni di igiene e per inderogabili esigenze di prevenzione della salute, che i rifiuti vengano ammassati (pur se allocati in appositi cassonetti) per stazionare, in attesa del conferimento, in aree condominiali non adatte allo scopo poste in immediata vicinanza alle finestre delle abitazioni. Necessario risulta l'adeguamento dei fabbricati al vigente regolamento edilizio, attraverso la realizzazione di un apposito locale di raccolta.
In ogni caso si può considerare che per i condomini realizzati prima dell'entrata in vigore del nuovo regolamento edilizio, non debbono trovare sempre applicazione le norme in quest'ultimo contenute (in particolare, come detto, quando vi siano oggettive ragioni tecniche contrarie), qualora si accerti l'assoluta impossibilità tecnica di un integrale adeguamento delle strutture al regolamento, potranno essere individuate soluzioni intermedie che, pur non strettamente aderenti al dettato regolamentare, siano comunque idonee a salvaguardare le imprescindibili esigenze di tutela della salute e dell'igiene pubblica (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 27.02.2012 n. 627 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Avvio della procedura di S.U.A.P. - Legittimità dell'attività - Costituisce presupposto - Utilizzabilità della procedura di S.U.A.P. per la sanatoria di abusi edilizi - Non sussiste.
2. Attivazione della procedura S.U.A.P. - Obbligatorietà - Non sussiste.

1. La valutazione di accessibilità al procedimento ex art. 5, D.P.R. n. 447 del 1998 deve muovere da presupposti di piena legittimità dell'attività e non può, invece, essere considerata come un procedimento di sanatoria degli abusi edilizi. La disciplina dettata dal D.P.R. n. 447 del 1998 è infatti finalizzata a semplificare i procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l'ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione degli impianti produttivi (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.04.2006, n. 2170).
Tale semplificazione amministrativa si risolve in un procedimento che, attraverso la conferenza di servizi indetta dal responsabile del procedimento, porta alla formazione di una proposta di variante sulla quale il Consiglio Comunale si pronuncia definitivamente.
Detto strumento ha natura eccezionale: esso non costituisce un mezzo ordinario volto a modificare l'assetto urbanistico, né è attivabile in base alle soggettive preferenze e convenienze dell'imprenditore (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 03.03.2006, n. 1038).
2. Ai sensi dell'art. 5, D.P.R. n. 447 del 1998, l'attivazione del procedimento ivi disciplinato non consegue obbligatoriamente ad istanza di parte. La conferenza di servizi non deve infatti essere sempre e comunque convocata, qualora il progetto proposto non contrasti con divieti specifici ambientali e sanitari, poiché ragionando in tal modo si giungerebbe a privare il Comune dei suoi poteri discrezionali di programmazione e di governo dell'ordinato sviluppo del territorio.
Deve, pertanto, escludersi -in via generale- la configurabilità di un obbligo di attivazione della procedura S.U.A.P. in capo al responsabile del procedimento (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.02.2012 n. 618 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI1. Ricorso giurisdizionale - Rinuncia al risarcimento in forma specifica - Rinuncia alla domanda di annullamento - Equivalenza.
2. Servizi pubblici locali - Gara per la scelta del socio prodromica all'affidamento del servizio - Pubblicità delle sedute - Necessità.
3. Criteri di aggiudicazione - Offerta economicamente più vantaggiosa - Attribuzione di punteggi in forma numerica - Indicazione di parametri precisi - Necessità.

1. La dichiarazione, fatta dal ricorrente, di non avere più interesse al risarcimento in forma specifica equivale alla rinuncia alla domanda di annullamento degli atti impugnati; ciò in quanto la pronuncia di risarcimento del danno per equivalente non presuppone più la previa caducazione dei provvedimenti lesivi. La rinuncia alla domanda di reintegrazione in forma specifica comporta altresì il venir meno dell'interesse alla pronuncia sul ricorso incidentale proposto dal controinteressato.
2. Qualora un'operazione di cessione di quote di una società a capitale prevalentemente pubblico non si esaurisca in una mera dismissione di quote societarie, ma è volta alla costituzione di una partnership tra gli enti pubblici titolari del servizio pubblico locale e l'imprenditoria privata il cui apporto non è limitato al mero acquisto di quote del capitale sociale, ma è finalizzato alla gestione del servizio, è necessario il rispetto del principio di pubblicità delle sedute di gara.
Alle gare per la scelta del socio privato si applicano, infatti, le norme che riguardano gli appalti di servizi; la cogenza del principio sussiste anche per gli appalti di servizi nei settori speciali posto che l'art. 226 D.Lgs. n. 163/2006 non esclude il rispetto del principio di pubblicità, atteso che la ratio ispiratrice della pubblicità delle sedute di gara è comune in ogni procedura concorsuale di scelta del contraente relativa a qualsiasi contratto pubblico di lavori, servizi e forniture ed è rivolta a tutelare le esigenze di trasparenza e imparzialità che devono guidare l'attività amministrativa e che caratterizzano tutta la disciplina dell'evidenza pubblica (Consiglio Stato, sez. V, 05.10.2011, n. 5454).
In altri termini, l'esigenza di consentire ai partecipanti il controllo delle operazioni di gara nel momento della apertura delle buste e dell'esame dell'offerta economica costituisce una regola di base di ogni procedura ad evidenza pubblica che non può soffrire eccezioni di sorta.
3. Nella valutazione della componente tecnica dell'offerta economicamente più vantaggiosa da parte di una commissione di gara, l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica è consentita quando il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro i quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, sia sufficientemente analitico da delimitare il giudizio della commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo, rendendo così evidente l'iter logico seguito nel valutare i singoli progetti sotto il profilo tecnico, essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito (Consiglio Stato, sez. III, 11.03.2011, n. 1583; Consiglio Stato, sez. V, 03.12.2010, n. 8410) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIConcessione Servizi - Termine ricezione offerte - Non applicabilità.
L'art. 70 del Codice dei Contratti Pubblici non si applica alle concessioni di servizi il cui affidamento è soggetto solamente al rispetto dei principi di pubblicità, trasparenza, non discriminazione, proporzionalità e mutuo riconoscimento, posti dal Trattato ed alle regole essenziali di procedura previste dall'art. 30, comma 3, D.Lgs. n. 163/2006 (Consiglio Stato, sez. V, 11.05.2009, n. 2864); pertanto, la stazione appaltante non è tenuta al rispetto dei termini di cui al primo dei citati articoli, anche nel caso in cui il disciplinare di gara richieda la presentazione di un progetto definitivo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIProgetto definitivo - Sottoscrizione professionista abilitato - Necessità.
A mente dell'art. 90 del D.Lgs. n. 163/2006, la progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva dei lavori è espletata esclusivamente da professionisti abilitati interni o esterni all'amministrazione; di conseguenza, l'affidamento da parte di un ente pubblico della progettazione di opere ad un professionista non abilitato deve considerarsi illegittimo (TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 09.04.2008, n. 354).
Analogamente, qualora la progettazione definitiva sia demandata ai concorrenti, essi devono presentare in gara, a prescindere da prescrizioni del bando in tal senso, elaborati progettuali sottoscritti da un professionista abilitato, pena l'inammissibilità del progetto (Consiglio Stato, sez. VI, 14.12.1991, n. 1083) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Verifica di congruità dell'offerta - Può essere effettuata dal RUP.
2. Giudizio di anomalia - Spese generali - Non possono risultare di valore irrisorio.
3. Giudizio di anomalia - Spese generali - Devono raccordarsi con i bilanci dell'impresa.
4. Giudizio di anomalia - Costo del lavoro - Giustificazione minor tasso di assenteismo per infortuni - In caso di nuove assunzioni .
5. Giudizio di anomalia - Costo del lavoro - Coordinatori.

1. La verifica di anomalia può essere effettuata dal responsabile del procedimento anziché dalla Commissione nominata per la valutazione delle offerte, qualora il responsabile del procedimento sia dotato di adeguate competenze tecniche (TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 17.05.2011, n. 732; TAR Lazio, Roma, sez. III, 21.01.2011, n. 643).
Ciò, anche in considerazione del fatto che, come avviene nel caso di specie (in cui la Commissione risulta composta quasi esclusivamente da personale medico), la Commissione potrebbe non avere le competenze tecniche richieste per effettuare le valutazioni di tipo economico-aziendale necessarie a stabilire la congruità dell'offerta.
2. Le spese generali non possono essere pari a zero o di valore irrisorio, in quanto tale voce di costo tiene conto degli oneri generali sostenuti da un'impresa per l'esecuzione della commessa, i quali, anche a prescindere dalla prescrizione oggi contenuta nell'art. 32 del D.P.R. n. 207/2010, devono necessariamente figurare nel suo conto economico, essendo impensabile che un operatore economico di un certo rilievo non debba sostenere costi per dotarsi di una sede amministrativa, per l'amministrazione del personale e per ogni altro onere di carattere generale.
3. Qualora l'Amministrazione, attraverso l'esame dei bilanci, rilevi l'incompletezza delle spese generali indicate dall'impresa in offerta, la concorrente non può limitarsi ad affermare che le relative voci del conto economico del suo bilancio si riferirebbero ad altre commesse, trattandosi di affermazioni apodittiche e indimostrate. L'impresa deve invece fornire tutti i riscontri documentali necessari a far comprendere come i costi indicati in offerta possano raccordarsi con le risultanze di bilancio.
4. Qualora l'impresa indichi -in sede di giustificazione del costo del lavoro- un minor tasso di assenteismo per malattie, infortuni o maternità rispetto a quello risultante dalle tabelle ministeriali, l'attendibilità del dato dichiarato non può essere riscontrata analizzando il registro infortuni e l'elenco del personale dipendente prodotto in sede procedimentale, qualora l'esecuzione della commessa richieda l'assunzione di un certo numero di nuove unità (nella specie 40).
In tal caso, infatti, il tasso di assenteismo, evidentemente, non può emergere dalle statistiche relative al personale già in servizio (sul punto Cons. Stato, V, 28.06.2011, n. 3865).
5. Con riguardo ai costi relativi ai coordinatori dell'appalto, la giustificazione dell'Impresa secondo cui il coordinamento del servizio avviene attraverso personale già assunto, a tal fine debitamente incentivato, risulta generica.
L'Impresa deve, infatti, dimostrare quale sia la percentuale di utilizzo della forza lavorativa dei coordinatori da essa dipendenti in relazione alla situazione precedente all'acquisizione della commessa in oggetto e la conseguente disponibilità residua per effettuare il coordinamento del nuovo servizio, in relazione all'aumento del personale previsto per l'esecuzione dell'appalto (nel caso di 40 unità). Deve inoltre dimostrare la sufficienza della somma indicata a compensare l'impegno dei coordinatori, per come risultante dall'offerta (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 594 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI1. Responsabilità della P.A. - Prova del pregiudizio - Onere del ricorrente - Art. 2729 c.c. - Inapplicabilità del principio c.d. acquisitivo - Necessità di allegare elementi precisi di valutazione.
2. Responsabilità della P.A. - Annullamento di un atto della P.A. - Riesercizio del potere discrezionale - Risarcimento dei danni - Danno da ritardo - Ammissibile solo dopo il riesercizio comportante riconoscimento del bene della vita.

1. In ogni ipotesi di responsabilità della P.A. per i danni causati per l'illegittimo o mancato esercizio dell'attività amministrativa, secondo orientamento costante della giurisprudenza amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti; pertanto, se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l'obbligo di allegare circostanze di fatto precise (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 28.02.2011, n. 1271; TAR Lombardia Milano, sez. I, 03.03.2010 n. 513).
2. Allorché persistano in capo alla P.A. spazi di riesercizio del potere discrezionale, deve essere esclusa ogni indagine sulla spettanza del "bene della vita" e resta, conseguentemente, priva di fondamento la domanda risarcitoria, potendosi ammettere un risarcimento solo dopo e a condizione che, una volta riesercitato il proprio potere come le compete, la P.A. abbia riconosciuto al richiedente il bene della vita, nel qual caso il danno ristorabile non potrà che ridursi al pregiudizio derivante dal ritardo (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 24.01.2011, n. 462; TAR Lombardia Milano, sez. II, 10.01.2011, n. 18) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.02.2012 n. 592 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Permesso di costruire - Efficacia temporale e decadenza - Istanza di proroga - Nozione di fatti sopravvenuti - Crisi economica nel settore edile - Inidoneità.
2. Permesso di costruire - Efficacia temporale e decadenza - Istanza di proroga - Nozione di fatti sopravvenuti - Pendenza di un giudizio relativo alla quantificazione del contributo concessorio - Inidoneità.

1. L'art. 15, D.P.R. n. 380 del 2001, disposizione che ricalca quella dell'art. 4, L. n. 10 del 1977 (oggi parzialmente abrogato), consente la proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori previsti nel permesso di costruire, esclusivamente "per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso".
Secondo la giurisprudenza, è dunque illegittimo il provvedimento dell'Amministrazione comunale di declaratoria di decadenza del permesso di costruire, qualora sussistano impedimenti assoluti all'esecuzione dei lavori segnalati o comunque conosciuti all'Amministrazione e l'impedimento non sia riferibile alla condotta del concessionario, per cui è tale da costituire quella causa di forza maggiore che sospende il decorso dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori.
Sotto questo profilo, la crisi del settore edile, collegata alla difficile congiuntura economica italiana, appare una circostanza estremamente generica, inidonea ad impedire in maniera assoluta la possibilità edificatoria connessa al permesso di costruire.
2. La pendenza di un contenzioso avente ad oggetto l'esatta determinazione del contributo concessorio dinanzi al Consiglio di Stato, senza domanda di sospensione dell'efficacia della sentenza di primo grado, non costituisce circostanza idonea a giustificare la proroga ai sensi dell'art. 15, D.P.R. n. 380 del 2001, posto che l'esistenza del contenzioso non è oggettivamente ostativa alla realizzazione dell'intervento edilizio, che può comunque essere effettuato, in attesa della definitiva determinazione del contributo concessorio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.02.2012 n. 580 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALIAmbiente - Procedimenti finalizzati al trattamento dei rifiuti - Competenza comunale - Non sussiste - Competenza provinciale - Sussiste.
La competenza in materia di procedimenti finalizzati al trattamento dei rifiuti è riservata in via esclusiva alla Provincia e non alle amministrazioni comunali che, per il tramite del sindaco pro tempore, possono intervenire soltanto attraverso provvedimenti contingibili e urgenti necessari per la tutela della salute.
Ed infatti, ai sensi dell'art. 197 del D.Lgs. n. 152 del 2006 "alle province competono in linea generale le funzioni amministrative concernenti la programmazione ed organizzazione del recupero e dello smaltimento dei rifiuti (…) ed in particolare (…) b) il controllo periodico su tutte le attività di gestione, di intermediazione e di commercio dei rifiuti, ivi compreso l'accertamento delle violazioni (…) c) la verifica ed il controllo dei requisiti previsti per l'applicazione delle procedure semplificate (…)" (cfr. Consiglio di Stato, V, 12.06.2009, n. 3765; II, parere 24.10.2007, n. 2210 e TAR Lombardia, Milano, IV, 08.06.2010, n. 1758).
(Fattispecie nella quale il Tribunale ha annullato il provvedimento comunale con cui la ricorrente era stata diffidata a non proseguire le operazioni di montaggio dell'impianto di rigassificazione, trattamento dei rifiuti e recupero energetico già autorizzato in ambito provinciale) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.02.2012 n. 571 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOConcorsi a pubblici impieghi - Procedimento di concorso - Impugnabilità degli atti - Prove orali - Giudizio negativo - Costituisce atto direttamente lesivo per l'interessato - Onere di impugnazione - Sussiste - Necessità di impugnazione del successivo provvedimento di approvazione della graduatoria - Non sussiste.
Nei concorsi a pubblico impiego, la regola, che individua nel generale provvedimento di approvazione della graduatoria il solo atto dal quale possa scaturire una lesione attuale della posizione degli interessati, subisce un adattamento in tema di impugnativa dei giudizi negativi delle prove orali o pratiche, allorquando sia prevista una forma di pubblicità obbligatoria (realizzata, ad esempio, mediante affissione di avviso pubblico) ed il provvedimento di approvazione della graduatoria non rechi in sé tutti gli elementi che consentono all'interessato di percepirne la portata lesiva (cfr. Cons. Giust. Amm., 27.12.2006, n. 843).
In tali ipotesi, infatti, il giudizio (negativo) costituisce l'atto conclusivo e lesivo per l'interessato, il quale ha l'onere d'impugnarlo, mentre il successivo atto di approvazione della graduatoria assume valore meramente e tacitamente confermativo (cfr. ex plurimis Consiglio Stato, sez. V, 11.10.2005, n. 5507; Consiglio Stato sez. VI, 08.05.2001, n. 2572; Consiglio Stato, sez. V, 04.03.2008, n. 862) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.02.2012 n. 566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIContratti della PA - Opere pubbliche - Società a capitale pubblico - Non esclusione dalla gara - Aggiudicazione.
La compartecipazione societaria dell'amministrazione aggiudicatrice alla società concorrente non determina alcuna automatica violazione dei principi concorrenziali e di parità di trattamento (Cons. Stato, Sez. VI, 11.07.2008 n. 3499; Cons. Stato, sez. V, 27.09.2004, n. 6325; Cons. Giust. Amm., 24.12.2002, n. 692). In linea di principio le società a capitale pubblico hanno, infatti, rispetto a quelle private, uguale capacità giuridica e lo stesso diritto di offrire sul mercato i propri servizi, lavori o forniture.
Anche per diritto comunitario la proprietà pubblica dell'impresa costituisce, di per sé, un fattore neutro rispetto al dispiegarsi della concorrenza (art. 295 del Trattato), purché da ciò non derivino, sotto forma di finanziamenti, affidamenti diretti etc., aiuti idonei ad alterare la par condicio fra essa e gli altri operatori. Le ipotesi in cui l'ordinamento, a tutela della concorrenza, impone a determinate imprese a capitale pubblico divieti di partecipazione alle gare devono, perciò, ritenersi tassative e fra queste non rientra il caso in cui il capitale della società partecipante alla gara sia di proprietà della stazione appaltante.
In base alla giurisprudenza della Corte di Giustizia CE l'esclusione dalla gara degli autori della progettazione non può essere intesa in senso rigido ed assoluto, dovendo il giudice tenere in considerazione anche gli elementi della fattispecie concreta dai quali si possa desumere che l'attività compiuta da uno dei concorrenti non era idonea a falsare la concorrenza (sentenza 03.03.2005 in cause riunite C-21/03 e C- 34/03). Inoltre va specificato che non pare ravvisabile alcun conflitto funzionale fra la carica di Direttore del Settore competente e la sua partecipazione alla Commissione deputata a valutare le offerte relative alla aggiudicazione della concessione dei lavori di realizzazione di una determinata opera pubblica.
Infatti, il predetto incarico dirigenziale non attiene alla gestione economico patrimoniale delle partecipazioni comunali ma ha natura strettamente tecnica in relazione al profilo della mobilità, sicché appare del tutto naturale che il Comune possa nominare come membro di una Commissione di gara per la realizzazione di un'opera per il sistema comunale dei trasporti un dirigente che si occupa da molto tempo delle problematiche del settore (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 10.02.2012 n. 458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAImpugnabilità diretta della D.I.A. - Applicabilità del legittimo affidamento prima della pronuncia dell'Adunanza Plenaria n. 15/2011 - Sussiste.
La decisione del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 15/2011, ed il successivo intervento legislativo, che negano la diretta impugnabilità della D.I.A. non possono trovare diretta ed immediata applicazione nelle controversie instaurate quando l'indirizzo che sosteneva l'impugnabilità immediata della D.I.A. era prevalente perché su di esso la parte ricorrente ha riposto un legittimo affidamento che non può esserle "confiscato" a posteriori (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.02.2012 n. 457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAD.I.A. - Recupero abitativo di sottotetto - Documentazione incompleta - Preesistenze non riscontrabili - Illegittimità.
Un intervento di recupero di un sottotetto da attuarsi con D.I.A., soggetto in quanto tale a verifica ex post, non può essere progettato e realizzato sulla base di documentazione incompleta o comunque non rappresentativa dello stato di fatto su cui il progetto interviene con modifiche, specie laddove in seguito alla prevista demolizione di preesistenze lo stato di fatto non sia suscettibile di riscontro postumo da parte dell'Amministrazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.02.2012 n. 457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZILa prima gara è libera. Nei servizi già affidati è possibile partecipare. Sentenza Consiglio di Stato su raccolta e trasporto locali dei rifiuti.
I soggetti già affidatari diretti di servizi pubblici locali possono partecipare alla prima gara svolta per l'affidamento del medesimo servizio, anche in presenza di altri affidamenti in corso.

E' quanto affermato dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 07.02.2012 n. 640, in merito ad una gara per l'affidamento del servizio di raccolta e trasporto rifiuti in cui due concorrenti si trovano entrambi nella condizione ostativa per la partecipazione alla procedura di cui al comma 9 dell'art. 23-bis del dl 112/2008 ... (articolo ItaliaOggi del 04.07.2012 - link a www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOConcorso - Prova d'esame di stato per avvocati - Sufficienza del voto motivazione nelle prove scritte.
In merito al problema del voto motivazione nelle prove scritte relative all'esame di stato per conseguire l'abilitazione come avvocato, la Consulta è intervenuta spiegando che il punteggio numerico (peraltro diffusamente adottato nelle procedure concorsuali ed abilitative) rivela una valutazione che, attraverso la graduazione del dato numerico, conduce ad un giudizio di sufficienza o di insufficienza della prova espletata e, nell'ambito di tale giudizio, rende palese l'apprezzamento più o meno elevato che la commissione esaminatrice ha attribuito all'elaborato oggetto di esame.
Pertanto, non è sostenibile che il punteggio indichi soltanto il risultato della valutazione. Esso, in realtà, si traduce in un giudizio complessivo dell'elaborato, alla luce dei parametri dettati dall'art. 22, nono comma, del citato r.d.l. n. 1578 del 1933, suscettibile di sindacato in sede giurisdizionale, nei limiti individuati dalla giurisprudenza amministrativa.
D'altro canto, va anche considerato che il criterio in questione risponde ad esigenze di buon andamento dell'azione amministrativa (art. 97, primo comma, Cost.), che rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni che hanno condotto ad un giudizio di non idoneità, avuto riguardo sia ai tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia al numero dei partecipanti alle prove.
Orbene, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, il motivo di difetto di motivazione deve essere respinto, essendo stato definitivamente riconosciuta la legittimità dell'orientamento del Consiglio di Stato il quale esclude che la commissione esaminatrice, nel procedere alla correzione degli elaborati, debba supportare l'indicazione del voto numerico con una ulteriore motivazione. Ciò perché il voto espresso numericamente costituirebbe in sé una motivazione sintetica, ma comunque idonea a rendere palese la valutazione compiuta dalla commissione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 03.02.2012 n. 392 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEDichiarazione di pubblica utilità - Decreto di Espropriazione - Annullamento della dichiarazione di pubblica utilità - Caducazione del decreto di espropriazione.
La dichiarazione di pubblica utilità, esplicita o implicita deve essere valutata quale presupposto indefettibile del decreto di espropriazione, tanto che l'art. 8 del d.p.r. 2001 n. 327 considera la d.p.u. un presupposto di emanazione del decreto di espropriazione.
Del resto, l'art. 23 del d.p.r. n. 327 consente l'adozione del decreto di espropriazione solo entro il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
In tal senso, un consistente orientamento giurisprudenziale giunge a qualificare in termini di presupposizione necessaria la relazione che intercorre tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di espropriazione, sicché l'annullamento con efficacia retroattiva della prima determina la caducazione automatica del secondo, comunque emanato (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 30.06.2003, n. 3896; Consiglio di stato, sez. IV, 29.01.2008, n. 258; Consiglio di stato, sez. IV, 19.03.2009, n. 1651.
Va, però, dato atto dell'esistenza di un diverso orientamento che esclude l'automatica caducazione in ragione dell'autonomia dell'effetto ablatorio riconducibile al solo decreto di espropriazione, così Consiglio di stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1869; TAR Puglia Lecce, sez. I, 07.07.2010, n. 1694) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 01.02.2012 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITUREContratto di fornitura - Offerte - Valutazioni comparative offerte tecniche - Complessità discipline specialistiche di riferimento - Opinabilità valutazioni - Discrezionalità tecnica - Limiti alla sindacabilità in sede giurisdizionale (solo nel caso di macroscopici vizi logici, disparità di trattamento, errore manifesto o di contraddittorietà) - Possibilità di sindacato intrinseco svolto sulla base di valutazioni di parte - Non sussiste.
In sede di valutazione comparativa delle offerte tecniche presentate nell'ambito delle gare d'appalto, le valutazioni tecniche, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell'esito della valutazione, sfuggono al sindacato intrinseco del giudice amministrativo, se non vengono in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o circa la loro applicazione. Le valutazioni tecniche relative alle offerte presentate nelle gare d'appalto sono caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell'esito della valutazione.
Di conseguenza, gli apprezzamenti in ordine all'eventuale inidoneità tecnica delle offerte, in quanto espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale a carattere complesso, non possono essere sostituiti da valutazioni di parte circa l'insussistenza delle prescritte qualità, trattandosi di questioni afferenti al merito delle suddette valutazioni tecnico-discrezionali (Fattispecie nella quale il ricorrente ha impugnato l'esclusione disposta ai suoi danni dalla commissione di gara per il mancato raggiungimento della soglia di sbarramento fissata dalla lex specialis) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.01.2012 n. 346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIProcedimento amministrativo - Preavviso di rigetto dell'istanza ex art. 10-bis l. n. 241/1990 - Diniego sulla base di presupposti diversi da quelli rappresentati nella comunicazione ex art. 10-bis l. n. 241/1990 - Illegittimità del provvedimento - Sussiste.
L'istituto del preavviso di rigetto ha lo scopo di consentire all'interessato di interloquire con l'amministrazione sulle ragioni a fondamento di un probabile provvedimento finale sfavorevole, presentando una memoria che porti elementi utili ad un possibile ripensamento da parte di chi deve esercitare il potere amministrativo.
Per tale ragione, deve ritenersi illegittimo per violazione delle norme sulla partecipazione procedimentale del privato il provvedimento di diniego conclusivo del procedimento, le cui motivazioni a fondamento del diniego stesso differiscano da quelle a suo tempo indicate nell'avviso di rigetto ex art. 10-bis l. n. 241/1990.
In tale ipotesi, infatti, la salvaguardia della partecipazione procedimentale è vanificata, perché l'interessato non può far presenti le sue ragioni in relazione agli effettivi motivi del diniego (cfr. anche, TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 31.01.2012, n. 335) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.01.2012 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILegge n. 241/1990 - Partecipazione al procedimento -Comunicazione motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza - Motivi ostativi differenti rispetto a quelli comunicati - Illegittimità.
Il provvedimento con cui viene rigettata l'istanza presentata dal privato, motivato con riferimento a ragioni differenti rispetto a quelle indicate nella comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di cui all'art. 10-bis della L. n. 241/1990, è illegittimo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.01.2012 n. 335 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAComunicazioni elettroniche - D.Lgs. n. 259/2003 - Procedimento autorizzatorio relativo a infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici - D.G.R. Lombardia n. 7/111045/2002 - Istanza per l'istallazione di una SRB di potenza inferiore ai 300 W - Diniego del Comune - Motivazioni legate alle scelte pianificatorie ed al mancato rispetto dei limiti di esposizione - Illegittimità.
Non può essere legittimamente rigettata dal Comune l'istanza presentata da una società operante nel settore delle comunicazioni elettroniche ai sensi dell'articolo 87 del D. Lgs. n. 259/2003, prodromica all'installazione di una stazione radio base per telefonia mobile, laddove il diniego si fondi sull'asserito mancato rispetto dei limiti di esposizione, in contrasto con il parere rilasciato dall'A.R.P.A..
Infatti, la verifica circa il rispetto dei limiti di esposizione spetta unicamente all'organo tecnico, senza che residuino competenze in capo al Comune. Le SRB di potenza inferiore ai 300 W non soffrono limitazioni alla loro installazione, che possano derivare dalla normativa pianificatoria comunale, ovvero da quella regionale di cui alla D.G.R. n. 7/111045/2002 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.01.2012 n. 335 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA1. Bonifica di siti di interesse nazionale - Conferenza di servizi - Verbali conclusivi - Natura endoprocedimentale.
2. D.Lgs. n. 156/2003 - Rifiuti abbandonati in un fondo - Ordine di bonifica rivolto alla società proprietaria del fondo - Mancata prova della responsabilità dell'inquinamento della proprietaria (a titolo di dolo o colpa) - Illegittimità.

1. In tema di bonifica di siti di interesse nazionale, la conferenza di servizi decisoria è uno strumento procedimentale di mero coordinamento tra amministrazioni autonome e distinte, con la conseguenza che i verbali stilati a conclusione dei lavori, avendo natura endoprocedimentale, non sono autonomamente impugnabili.
2. E' illegittimo il provvedimento che impone la messa in sicurezza e bonifica del terreno rivolto nei confronti della società proprietaria del terreno medesimo, nel caso in cui le risultanze disponibili non permettano di ascrivere alla società stessa una responsabilità per l'inquinamento (Fattispecie nella quale il Ministero dell'Ambiente ha intimato alla società Milano Serravalle-Milano Tangenziali S.p.A. la messa in sicurezza e bonifica di terreni sui quali si trova uno svincolo autostradale, per inquinamenti riscontrati nel sottosuolo di aree un tempo di proprietà della Falck S.p.A.) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.01.2012 n. 332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO1. Esame per l'abilitazione all'esercizio della professione di avvocato - Punteggio numerico - Criteri di valutazione - Legittimità.
2. Esame per l'abilitazione all'esercizio della professione di avvocato - Correzione e valutazione - Tempo impiegato - Non rileva - Esigenza di buon andamento dell'azione amministrativa - Garanzia - Necessita.

1. Non può essere accolto perché infondato il ricorso contro il giudizio di non ammissione alla prova orale dell'esame per l'abilitazione all'esercizio della professione di avvocato proposto dalla ricorrente che lamenta il difetto di motivazione del voto attribuito in forma esclusivamente numerica. Con ordinanza il TAR Lombardia, Milano, aveva già sollevato, in riferimento agli articoli 3, 4, 24, 41, 97 e 117 della Costituzione, il dubbio della legittimità costituzionale degli artt. 17-bis, comma 2, 23, quinto comma, 24, primo comma, del regio decreto 22.01.1934, n. 37, come novellato dal decreto-legge 21.05.2003 n.112, nella parte in cui essi, secondo l'interpretazione giurisprudenziale costituente "diritto vivente", consentono che i giudizi di non ammissione dei candidati che partecipano agli esami di abilitazione all'esercizio della professione forense possano essere motivati con l'attribuzione di un mero punteggio numerico: la Consulta con sentenza n. 175/2011 aveva dichiarato la questione infondata, spiegando nella motivazione che il punteggio numerico (peraltro diffusamente adottato nelle procedure concorsuali ed abilitative) rivela una valutazione che, attraverso la graduazione del dato numerico, conduce ad un giudizio di sufficienza o di insufficienza della prova espletata e, nell'ambito di tale giudizio, rende palese l'apprezzamento più o meno elevato che la commissione esaminatrice ha attribuito all'elaborato oggetto di esame.
Pertanto, non è sostenibile che il punteggio indichi soltanto il risultato della valutazione; esso infatti si traduce in un giudizio complessivo dell'elaborato, alla luce dei parametri dettati dall'art. 22, nono comma, del R.D.L. n. 1578/1933, suscettibile di sindacato in sede giurisdizionale, nei limiti individuati dalla giurisprudenza amministrativa.
2. Il criterio in questione risponde ad esigenze di buon andamento dell'azione amministrativa (a norma dell'art. 97, primo comma, della Costituzione), che rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni che hanno condotto ad un giudizio di non idoneità, avuto riguardo sia ai tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia al numero dei partecipanti alle prove.
Alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale, il motivo di difetto di motivazione deve essere respinto, essendo stata definitivamente riconosciuta la legittimità dell'orientamento del Consiglio di Stato il quale esclude che la commissione esaminatrice, nel procedere alla correzione degli elaborati, debba supportare l'indicazione del voto numerico con una ulteriore motivazione: il voto espresso numericamente costituirebbe in sé una motivazione sintetica, ma comunque idonea a rendere palese la valutazione compiuta dalla commissione, esternata attraverso la graduazione del voto e l'omogeneità del giudizio attribuito all'elaborato.
Non rileva neanche il difetto di ponderazione della decisione, quale si evincerebbe dal tempo impiegato dalle correzioni (all'uopo si deduce che 51 compiti sarebbero stati valutati in 180 minuti): l'esiguità del tempo medio impiegato per lo svolgimento della revisione degli elaborati, in mancanza di altri pregnanti elementi di valutazione, non può essere sintomo di una decisione non particolarmente approfondita; l'eventuale brevità del tempo complessivamente impiegato non può costituire motivo che "ex se" possa inficiare la legittimità delle operazioni, avuto riguardo al fatto che, di norma, non è possibile stabilire quali degli esaminati abbia fruito di maggiore o minore attenzione da parte della commissione e se, quindi, il vizio denunciato infici in concreto il giudizio dal singolo candidato contestato; inoltre, il tempo occorrente per la valutazione non è predeterminato, ben avendo i commissari la facoltà di utilizzare tempi differenti in relazione alle diverse posizioni dei candidati, a seconda che questi presentino o meno particolari problematiche e che sia necessaria una maggiore o minore ponderazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 31.01.2012 n. 327 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Ricorso giurisdizionale - Interesse all'impugnazione - Censure afferenti alla V.A.S. - Occorre dimostrarne l'incidenza diretta e determinante sulle scelte riguardanti le aree dei ricorrenti.
1.
Per fondare l'interesse al ricorso in relazione a censure afferenti alla V.A.S. occorre fornire la dimostrazione che i lamentati vizi della V.A.S. stessa abbiano inciso in modo diretto e determinante sulle scelte specificamente riguardanti le aree dei ricorrenti, traendo da ciò la logica conseguenza che dette scelte avrebbero potuto essere differenti ove si fosse proceduto ad una nuova V.A.S. emendata dei ridetti vizi.
L'interesse al ricorso non può infatti sostanziarsi in un generico interesse a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza, che, in quanto tale, non si differenzia dall'eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Consiglio Stato, 12.01.2011, n. 133; id. 12.10.2010, n. 7439; id. 13.07.2010, n. 4542; id. 06.05.2010, n. 2629; Ad. Plen. Consiglio Stato 07.04.2011, n. 4) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Piano di Governo del Territorio - Destinazione agricola - Finalità - Conservazione di valori naturalistici e recupero di aree dismesse o congestionate.
2. Piano di Governo del Territorio - Scelte urbanistiche - Onere di motivazione - Sussiste in caso di destinazione urbanistica innovativa incidente su singole posizioni differenziate - Ipotesi.
3. Piano di Governo del Territorio - Perequazione - Sostituzione della proprietà pubblica a quella privata sulle aree destinate a servizi pubblici - Legittimità dell'effetto - Sussiste.
4. Piano di Governo del Territorio - Perequazione - Differenza di valore delle aree "di decollo" e "di atterraggio" - Rappresenta pregiudizio di fatto giustificabile in ragione della limitazione che la proprietà privata può subire in dipendenza della sua funzione sociale.

1. L'attribuzione di una destinazione agricola a un determinato terreno è volta non tanto e non solo a garantire il suo effettivo utilizzo a scopi agricoli, quanto piuttosto a preservarne le caratteristiche attuali di zona di salvaguardia da ogni possibile nuova edificazione, anche in funzione conservativa di valori naturalistici, nonché a favorire il recupero di aree dismesse o congestionate.
2. Poiché il potere di pianificazione urbanistica riveste un carattere ampiamente discrezionale, e si concretizza in scelte che, nel merito, appaiono insindacabili e che sono per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, per abnormità e irrazionalità, l'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate nella predetta sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione del piano (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 16.02.2011, n. 1015; id. 10.08.2004, n. 4550), salvo il caso in cui la nuova destinazione urbanistica innovi rispetto alla precedente, incidendo con ciò su singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa alla conservazione della destinazione dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni degli altri soggetti interessati.
Ciò avviene nelle ipotesi di:
a) superamento degli standard minimi di cui al D.M. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 10.02.2009, n. 2418; TAR Lombardia Milano, sez. II, 06.10.2011, n. 2379; TAR Lazio Roma, sez. II, 02.03.2011, n. 1950).
3. La perequazione è finalizzata ad attenuare le disuguaglianze derivanti dalla pianificazione urbanistica, ma assicurando al contempo all'Amministrazione lo strumento per acquisire, senza oneri, con modalità diverse dall'esproprio, aree da destinare a scopi di pubblico interesse.
Il perseguimento di tale fine può, pertanto, legittimamente risolversi nella sostituzione della proprietà pubblica a quella privata sulle aree destinate a servizi pubblici, senza denotare perciò solo alcun profilo di illegittimità, trattandosi di un effetto riconducibile, in parte, all'esercizio del potere conformativo e, per il resto, all'accordo tra p.a. e privato in sede di pianificazione di dettaglio.
4. Nell'ambito del meccanismo perequativo, il diverso valore delle aree "di decollo" rispetto a quello delle aree "di atterraggio", si configura quale pregiudizio di fatto, pur sempre possibile in presenza delle diverse scelte urbanistiche che l'Amministrazione adotta per la medesima zona, nonché ascrivibile alle limitazioni che la proprietà privata risulta suscettibile di subire in ragione della funzione sociale della medesima ex art. 42 Cost., secondo comma (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruire - Motivi ostativi al rilascio - Valutazioni viabilistiche - Rilevanza - Sussiste.
Non è fondata la censura di violazione degli artt. 36 L.R. n. 12/2005 e 12 D.P.R. n. 380/2001, mossa avverso un diniego di costruire le cui ragioni sono legate a problemi viabilistici e di sicurezza e ordine pubblico, tenuto conto che tali ragioni sarebbero estranee al contenuto tipico del permesso di costruire, che è atto vincolato e che richiede soltanto la verifica della conformità dell'intervento agli strumenti urbanistici ed edilizi vigenti.
In realtà, fra i presupposti che devono formare oggetto di accertamento da parte comunale, ai fini del rilascio del permesso di costruire, rientrano le opere di urbanizzazione primaria (e, quindi, l'adeguatezza della rete stradale), ai sensi degli artt. 12, commi 1 e 2 D.P.R. n. 380/2001 e 36 L.R. n. 12/2005 (su tale aspetto, cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 29.12.2008, nn. 6187 e 6189; TAR Lazio Latina, sez. I, 20.07.2007, n. 531; TAR Liguria, sez. I, 13.07.2006, n. 825) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA1. Nuovo insediamento residenziale - Preesistente kartodromo - Ammissibilità di livelli di rumorosità più elevati - Sussiste il legittimo affidamento dei soggetti che hanno confidato in un determinato assetto morfologico del territorio.
2. Abbattimento delle emissioni sonore - Potere di ordinanza del Sindaco - Art. 9 della L. 447/1995 - Artt. 50 e 54 del D.lgs. 286/2000 - Competenza del Dirigente - Esclusa.

1. L'avvertita necessità di salvaguardia per un insediamento residenziale realizzato in prossimità della struttura (kartodromo) della ricorrente disattende, infatti, acriticamente le caratteristiche morfologiche dell'area interessata, quali consolidatesi nel tempo, mortificando l'affidamento di quanti abbiano legittimamente confidato in una tutela corrispondente a quell'assetto del territorio, laddove assoggetta quella zona a limiti di emissione acustica minori, pregiudicando le esigenze dei soggetti che operano nel settore (…) ove lo stesso legislatore ha consentito più elevati livelli di rumorosità in considerazione delle esigenze scaturenti dalla natura dell'attività svolta (TAR Lombardia, Milano, IV, 05.07.2011, n. 1781).
2. L'art. 9 della legge 447/1995 attribuisce espressamente al Sindaco il potere di adottare ordinanze per il contenimento o l'abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate attività. Si tratta di un potere sostanzialmente analogo a quello attribuito al Sindaco dal D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali), agli articoli 50 e 54 e che pertanto deve essere esercitato dal Sindaco stesso, con esclusione della competenza dei dirigenti, cui spetta invece l'adozione di tutti gli atti di gestione del Comune, ai sensi dell'art. 107 del medesimo D.Lgs. 267/2000 (TAR Lombardia, Milano, IV, 01.07.2009, n. 4225) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 23.01.2012 n. 256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIContratti della PA - Proroga - Ammissibilità.
In via di principio, l'amministrazione che, esaurita l'esecuzione di un determinato contratto, abbia ancora necessità di avvalersi delle specifiche prestazioni oggetto del vincolo scaduto è tenuta ad effettuare una nuova gara. Peraltro, nel caso in cui gli atti indittivi la procedura conclusasi con la stipula del contratto ed il contratto stesso prevedessero espressamente la facoltà di proroga, la stazione appaltante può, prima della scadenza del vincolo contrattuale, disporne la proroga esclusivamente per il tempo strettamente necessario all'indizione di una nuova procedura ad evidenza pubblica.
Al ricorrere di tali presupposti, il contraente privato è tenuto alla prosecuzione del rapporto (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.01.2012 n. 251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGORichiesta di congedo straordinario - Diniego non preceduto dall'avviso ex art. 10-bis L. 241/1990 - Illegittimità - Sussiste.
Il provvedimento di diniego della concessione di congedo straordinario ex art. 42, comma 5, D.Lgs. 151/2001 -per l'assistenza a genitore affetto da invalidità grave- pur essendo caratterizzato da discrezionalità tecnica, impone comunque all'Amministrazione di svolgere delle valutazioni, così da non rendere inutile l'apporto informativo che possa eventualmente derivare dalla memoria dell'interessato.
Pertanto, nel rispetto del contraddittorio procedimentale, è necessario, a pena di illegittimità, che l'Amministrazione notifichi all'istante l'avviso ex art. 10-bis L. 241/1990 (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 17.01.2012, n. 184) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.01.2012 n. 183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONIL. 2359/1865, art. 13 - Termine iniziale e finale della procedura e per il completamento dei lavori - Non applicabilità ai Piani di zona di edilizia popolare - L. 167/1962, art. 9 - Durata del Piano di zona - 18 anni - Vincolo espropriativo di durata pari a quella del Piano.
Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, la disciplina dettata dall'art. 13 della legge 25.06.1865 n. 2359, in materia di apposizione dei termini, iniziale e finale, per l'espletamento delle procedure espropriative e per l'inizio ed il completamento dei relativi lavori, non è applicabile alle espropriazioni attinenti ai piani di zona per l'edilizia economica e popolare, essendo sostituito ed assorbito dalle disposizioni che delimitano nel tempo ope legis l'efficacia dei piani stessi (Consiglio Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2339).
Si tratta dell'art. 9 L. 167/1962 che fissa la durata del Piano in diciotto anni, stabilendo altresì che durante l'efficacia del Piano le aree in esso ricomprese rimangono soggette ad espropriazione, offrendo così quelle garanzie di certezza di durata della procedura espropriativa che costituisce la ratio dell'art. 13 L. 2359/1865 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.01.2012 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso - Atti e documenti di immobile commerciale di nuova costruzione - Interesse.
La domanda di accesso agli atti relativi alla costruzione di un edificio destinato ad ospitare una struttura di vendita da parte del titolare di un'attività di impresa esercitata in prossimità della nuova struttura di vendita deve ritenersi fondata.
È evidente l'interesse della ricorrente a vigilare sul legittimo esercizio delle potestà pubbliche in materia di urbanistica, edilizia e commercio, in forza delle quali è stato o potrà essere autorizzato l'insediamento di una nuova struttura di vendita operante nel settore non alimentare (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 13.01.2012 n. 107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Locazione di aree della P.A. ad uso cantieristico - Possibilità di realizzazione di opere strutturalmente imponenti ancorché definite temporalmente e funzionalmente precarie - Necessità di idoneo titolo edilizio - Sussiste - Ratio.
2. Natura precaria di un manufatto - Condizione contrattuale che preveda la futura demolizione del manufatto - Irrilevanza ai fini della configurabilità della precarietà.
3. Edificio precario destinato ad uffici di cantiere - Sottraibilità al regime edilizio e urbanistico delle nuove costruzioni - Possibilità - Limiti.

1. In caso di locazione di aree della P.A. ad uso cantieristico, una cosa è il contratto di locazione delle aree di cantiere con la relativa disciplina negoziale, nel quale sono previste e stabilite le condizioni d'uso dell'area stessa -tra cui quella di realizzare solo le opere precarie di cantiere ivi descritte e di restituire l'area al Comune nello status quo ante- ed altra cosa sono le eventuali autorizzazioni necessarie per realizzare qualsiasi manufatto (precario o meno che sia nelle intenzioni di chi lo realizza e di chi ne consente la realizzazione), che in base alle norme edilizie richiede il previo rilascio di un titolo edilizio, in funzione della natura dell'intervento e della trasformazione del territorio che ad esso inerisce.
Pertanto, anche qualora nel contratto sia prevista la realizzazione di opere strutturalmente imponenti ancorché definite precarie - temporalmente e funzionalmente - non per questo il locatario ricorrente può intraprenderle senza munirsi del titolo occorrente, non essendo possibile realizzare manufatti soggetti a titolo edilizio, in forza del benestare, comunque espresso, della P.A. in una sede impropria e inconferente quale è quella negoziale, nella specie la locazione dell'area destinata alle strutture di cantiere.
2. Deve considerarsi stabile e non precario un manufatto ancorato al suolo e dotato di tutti gli elementi propri della stabilità -ossia notevoli dimensioni, struttura portante in cemento armato, ecc.-, che non è suscettibile di immediata e comunque agevole e pronta rimozione ma che richieda un intervento di demolizione: né la precarietà del manufatto può essere ravvisabile per la sola condizione contrattualmente prevista circa la sua futura demolizione.
3. Un edificio precario, destinato ad uffici di cantiere, può essere sottratto, eccezionalmente, al regime edilizio e urbanistico delle nuove costruzioni, solo in considerazione della sua temporaneità e precarietà strutturale: temporaneità e precarietà che devono trovare, tuttavia, oggettivo riscontro nelle caratteristiche costruttive dell'edificio posto che diversamente anche i manufatti provvisori, la cui durata è limitata e prestabilita, devono ritenersi soggetti al rilascio di un titolo abilitativo di durata annuale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.01.2012 n. 83 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Ordinanza di sospensione lavori abusivi - Natura - E' atto di avvio di un procedimento sanzionatorio.
2. Ordinanza di sospensione lavori abusivi - Natura - E' atto vincolato - Conseguenze.

1. Il provvedimento di sospensione lavori di natura urgente e cautelare costituisce esso stesso l'atto di avvio di un procedimento sanzionatorio, nell'ambito del quale parte ricorrente può intervenire attraverso gli strumenti partecipativi previsti dalla L. 241/1990 (cfr. ex multiis, TAR Perugia Umbria sez. 1, 28.10.2010, n. 499; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 05.05.2010, n. 2667 e, Sez. III, 13.07.2010, n. 16683).
2. L'ordine di sospensione di lavori abusivi e non sorretti da valido titolo edilizio costituisce atto vincolato e doveroso, non suscettibile, in quanto tale, di essere intaccato da censure formali, che non sono idonee ad inficiare un tale genere di provvedimenti (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.01.2012 n. 83 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Gara - Cause di esclusione - Negligenza o malafede - Valutazione di gravità - Necessità.
2. Gara - Cause di esclusione - Dichiarazioni soggetti cessati dalla carica - Inciso "per quanto a mia conoscenza" non integra limitazione di responsabilità.

1. L'esclusione dalla gara pubblica dell'impresa che sia incorsa in grave negligenza o malafede nell'esecuzione di lavori affidati dalla stazione appaltante postula una valutazione di gravità fatta dalla stessa amministrazione; ciò in quanto l'esclusione non ha carattere sanzionatorio, costituendo invece presidio dell'elemento fiduciario destinato a connotare, sin dal momento genetico, i rapporti contrattuali con la P.A.. Invero, tale valutazione può consistere nel semplice richiamo per relationem dell'atto con cui, in un precedente rapporto contrattuale, l'amministrazione aveva provveduto alla risoluzione per inadempimento.
2. Le dichiarazioni riguardanti i soggetti cessati dalla carica nel triennio, rese ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 163/2006 e contenenti l'inciso "per quanto a mia conoscenza" non devono ritenersi viziate; tale inciso, del resto, sarebbe giustificato proprio dal fatto che riguarda gli amministratori cessati dalla carica ai quali non può essere imposto il rilascio di dichiarazioni personali ed in riferimento ai quali chi rappresenta l'impresa può attestare quanto è a sua conoscenza, salvo ovviamente possibili richieste integrative da parte della stazione appaltante (Consiglio Stato, sez. V, 30.06.2011, n. 3926) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 10.01.2012 n. 57 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADiniego di installazione infrastruttura di telecomunicazione - Art. 86, D.Lgs. n. 259/2003 - Opere di urbanizzazione primaria - Misure a tutela dai rischi dell'elettromagnetismo - Illegittimità.
Il Comune non ha alcuna potestà di introdurre un divieto generalizzato di installazione di impianti di telefonia, né di introdurre misure che, pur essendo di natura tipicamente urbanistica, non siano funzionali al governo del territorio, quanto, piuttosto, alla tutela dai rischi dell'elettromagnetismo che rientra nelle esclusive attribuzioni statali; di conseguenza la localizzazione degli impianti solo in determinate zone si pone in contrasto, non solo con l'esigenza di permettere la copertura del servizio di telefonia mobile sull'intero territorio comunale, ma anche con la loro natura di infrastrutture primarie e di impianti di interesse generale, così come dispone l'art. 86 D.Lgs. n. 259/2003, posti al servizio della comunità e quindi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.01.2012 n. 35 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Qualificazione di intervento edilizio - Criterio della visione complessiva delle opere - Creazione di un quid novi - Ristrutturazione edilizia.
2. Oggettiva trasformazione dell'immobile - Qualificazione dell'intervento edilizio come di ristrutturazione edilizia - Sussiste.
1.
Va condivisa la decisione dell'Amministrazione di qualificare l'intervento come ristrutturazione, se l'immobile, complessivamente considerato, risulti differente rispetto al precedente, non limitandosi ad un adeguamento, bensì alla creazione di un quid novi (Nella specie, il Collegio ha ritenuto indici rivelatori della tipologia dell'opera: la realizzazione di venticinque interventi ai prospetti, con creazione di nuovi accessi; la creazione di una nuova copertura, ad una quota più alta, con modifica della sagoma; l'ampliamento del piano interrato, con realizzazione di cantine e depositi; l'aumento di volumetria anche attraverso la creazione, all'interno del fabbricato, di celle frigorifere; la creazione dell'ascensore, all'esterno del fabbricato; modifiche del piano seminterrato, tramite interventi di demolizione di pareti, ridistribuzione degli spazi e creazione di nuove scale).
2. L'intervento edilizio che comporta un'oggettiva trasformazione dell'immobile, mediante la sostituzione e l'inserimento di elementi, nonché con la modifica di altri, è annoverabile tra gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui alla lett. c) del comma 1 dell'art. 10, D.P.R. n. 380/2001 e non tra gli interventi di manutenzione straordinaria, né di restauro o risanamento conservativo (i quali presuppongono, ai sensi dell'art. 3, lett. b-c, D.P.R. n. 380/2001, la sostituzione o la conservazione di elementi -anche strutturali- degli edifici, che siano comunque preesistenti, ovvero l'inserimento di elementi nuovi, che abbiano carattere accessorio) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.01.2012 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOrdine di demolizione - Mancata e/o non corretta notificazione ad uno dei proprietari - Nullità del provvedimento - Non sussiste.
La mancata e/o non corretta notifica ad uno dei proprietari incide esclusivamente sulla decorrenza dei termini dell'impugnativa, non determinando l'illegittimità del provvedimento (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.01.2012 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Vincoli - Destinazioni a parco urbano, parcheggio e viabilità - Sono destinazioni realizzabili da privati in regime di mercato - Carattere conformativo del vincolo - Sussiste - Conferma del vincolo - Necessità di prevedere un indennizzo - Non sussiste - Necessità di particolare motivazione - Non sussiste.
2. Vincoli conformativi - Definizione.
3. Piano Regolatore generale - Scelte urbanistiche - Onere di motivazione - È assolto facendo riferimento alle linee guida illustrate nella relazione generale allo strumento urbanistico o in presenza di particolari condizioni configuranti, in capo al privato, situazioni di aspettativa qualificata - Ipotesi.
4. Piano Regolatore generale - Scelte urbanistiche - Onere di motivazione - Destinazione a verde privato - Esigenza di tutela ambientale - Necessità di ampia motivazione - Non sussiste.
5. Ricorso giurisdizionale - Interesse all'impugnazione - Impugnazione di norme procedurali di approvazione di strumenti urbanistici o loro varianti - Utilità meramente ipotetica ed eventuale discendente dall'annullamento - Interesse - Non sussiste.

1. Non sono vincoli "sostanzialmente espropriativi", ma sono da ritenere vincoli conformativi, le destinazioni a parco urbano, a parcheggio e viabilità. Tali destinazioni, infatti, non comportano automaticamente l'ablazione dei suoli e ammettono, anzi, chiaramente la realizzazione, anche da parte di privati in regime di economia di mercato, delle relative attrezzature destinate all'uso pubblico.
Per tali tipi di destinazione, conseguentemente, nel caso in cui siano confermate da un nuovo strumento urbanistico o da una sua variante generale, non occorre né la previsione di indennizzo né una particolare motivazione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 01.10.2007, n. 5059; TAR Veneto, Venezia, 18.04.2011, n. 639; TAR Lazio, Latina, 20.05.2008, n. 575; TAR Puglia, Lecce, 07.02.2008, n. 378; TAR Sicilia, Catania, 15.10.2007, n. 1662).
2. Sono vincoli di tipo conformativo quelli che importano destinazioni, anche di contenuto specifico, realizzabili a iniziativa privata o promiscua (ovvero sia pubblica sia privata) senza comportare necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica, atteso che, tali vincoli non svuotano di contenuto il diritto di proprietà, ma si limitano a imporre al titolare del bene, il quale ne voglia trarre le relative utilità, di seguire una determinata modalità (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 29.01.2009, n. 989; TAR Lombardia Milano, sez. III, 21.12.2010, n. 7636; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 11.06.2007 n. 507).
3. L'onere di motivazione che deve assistere le scelte in materia di pianificazione urbanistica si deve ritenere assolto facendo riferimento alle linee guida illustrate nella relazione generale allo strumento urbanistico, salvo che si sia in presenza di particolari condizioni, che consentano di configurare, in capo al privato, situazioni di aspettativa qualificata (sulle quali, cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 06.10.2011, n. 2379, che richiama i casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui al D.M. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo).
4. La motivazione della scelta urbanistica posta a base della destinazione a verde privato di un fondo (a proposito della necessità di salvaguardare un "polmone verde") evoca chiaramente un'esigenza di tutela ambientale sulla quale non è richiesta una motivazione particolarmente ampia, avuto riguardo al valore costituzionale dell'ambiente, come presidiato dall'art. 9 Cost. (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 01.02.2001, n. 420; Consiglio di Stato, sez. IV, 08.05.2000, n. 2639; id. 19.01.2000, n. 245; id. 13.03.1998, n. 431).
5. È inammissibile una censura attinente a norme procedurali di approvazione di strumenti urbanistici o loro varianti, laddove l'utilità che la parte ricorrente aspira a conseguire dall'annullamento di questi ultimi sia meramente ipotetica ed eventuale, richiedendo per la sua compiuta realizzazione il passaggio attraverso una rinnovata attività di pianificazione urbanistica, ricadente nella sfera della più ampia disponibilità dell'amministrazione.
L'interessato deve infatti chiarire come e perché la violazione di norme procedurali di approvazione di strumenti urbanistici, ad esempio in caso di adozione di una variante con la procedura semplificata, avrebbe svolto un ruolo decisivo sulle opzioni relative al regime dei suoli in sua proprietà (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.01.2012 n. 15 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI1. Deliberazione del Commissario prefettizio che ha disposto la sospensione di una Delibera della Giunta Comunale e dell'annessa convenzione sottoscritta ex art. 11 L. n. 241/1990 - Indicazione del termine - Certezza nell'an, ma non nel "quando" - Violazione dell'art. 21-quater, L. n. 241 del 1990 - Non sussiste.
2. Deliberazione del Commissario prefettizio che ha disposto la sospensione di una Delibera della Giunta Comunale e dell'annessa convenzione sottoscritta ex art. 11 L. n. 241/1990 - Nozione di "gravi ragioni" previste dall'art. 21-quater, comma 2, L. n. 241 del 1990 - Atti che appaiono il risultato di un'attività corruttiva - Rientrano.

1. Non sussiste la violazione dell'art. 21-quater, L. n. 241 del 1990, qualora il termine indicato nel provvedimento di sospensione (nella specie, individuato nella "definizione delle indagini penali in corso") non sia certo nel "quando", ma certo con riguardo all'"an" della conclusione.
La durata della sospensione non è quindi legata ad un evento futuro ed incerto (come sarebbe accaduto se la sospensione dell'efficacia fosse stata sottoposta a condizione), ma ad un evento certo, anche se non ancora identificabile cronologicamente (sulla differenza, rilevante anche in diritto amministrativo, fra "termine" e "condizione", cfr. Cassazione civile, sez. II, 22.03.2001, n. 4124).
2. L'adozione di un provvedimento amministrativo di sospensione di atti che appaiono il risultato di un'attività corruttiva non può reputarsi illegittima, ma deve configurarsi come un atto quasi doveroso, ispirato a ragioni di prudenza e di tutela della Pubblica Amministrazione nelle more del processo penale, il cui esito -nell'ipotesi di accertamento dei delitti contestati- non potrebbe essere privo di effetti sugli atti amministrativi oggetto di sospensione, potendo ravvisarsi i presupposti per l'esercizio del potere di autotutela (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.12.2011 n. 3369 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAnnullamento e revoca - Sussistenza del vizio di incompetenza - Preclusione a ogni altra valutazione sul ricorso - Esclusione.
Per effetto dell'entrata in vigore del Codice del processo amministrativo (D.Lgs. n. 104/2010), è stata abrogata e non più riprodotta la disposizione dell'art. 26, comma 2, della L n. 1034/1971, in forza della quale, in caso di accoglimento del ricorso per incompetenza, il giudice doveva annullare l'atto e rimettere l'affare alla competente autorità amministrativa.
Tale ultima disposizione non è più rinvenibile nel nostro ordinamento, sicché la giurisprudenza amministrativa formatasi dopo l'entrata in vigore del Codice esclude che la mera sussistenza del vizio di incompetenza imponga al giudice l'annullamento dell'atto, con preclusione di ogni altra valutazione sul ricorso (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. III, 13.05.2011, n. 1233 e TAR Toscana, sez. II, 16.06.2011, n. 1076) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.12.2011 n. 3368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAOneri di urbanizzazione - Bonifica dei siti inquinati - Art. 21, comma 5, Legge Regione Lombardia n. 26/2003 - Agevolazione (dimezzamento oneri di urbanizzazione secondaria), per interventi sui siti di interesse nazionale - Art. 21, comma 7, Legge Regione Lombardia n. 26/2003 - Scomputo totale degli oneri di urbanizzazione secondaria se il sito è acquistato nell'ambito di una procedura concorsuale o di esecuzione giudiziale - L'incentivazione di cui al comma 7 rappresenta rimodulazione di quella di cui al comma 5.
L'art. 21, L.R. Lombardia n. 26/2003, recante "Bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati" prevede, al comma 5, una forma di agevolazione (dimezzamento degli oneri di urbanizzazione secondaria), per gli interventi effettuati sui siti di interesse nazionale, come individuati dall'art. 1, comma 4, L. n. 426/1998, caratterizzati da fenomeni di inquinamento di particolare gravità e di rilevante allarme per la salute pubblica; al successivo comma 7 dell'art. 21 richiamato è prevista una ulteriore agevolazione, a favore dei medesimi soggetti di cui al comma 5 (ossia, chi effettua interventi di bonifica sui siti di interesse nazionale), vale a dire lo scomputo totale degli oneri di urbanizzazione secondaria se il sito è acquistato nell'ambito di una procedura concorsuale o di esecuzione giudiziale.
Non si tratta di fattispecie separata, ma della stessa incentivazione di cui al comma 5, che al comma 7 è rimodulata in modo da rendere ancora più conveniente, per gli operatori interessati, l'effettuazione di opere di bonifica (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.12.2011 n. 3366 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Ordinanza di demolizione relativa ad opere di ristrutturazione ex art. 10 D.P.R. n. 380/2001 - Sanzione ripristinatoria - Legittimità.
2. Ordinanza di demolizione - Giudizio analitico-ricognitivo - Natura di diffida - Sanzione pecuniaria - Successivo giudizio sintetico valutativo - Legittimità.

1. In mancanza dei presupposti della conservazione di elementi, anche strutturali, degli edifici, ovvero dell'inserimento di elementi nuovi che abbiano tuttavia carattere accessorio (previsti dell'art. 3, lett. c), D.P.R. n. 380/2001), l'opera (nella specie dei soppalchi), che determina una modifica della superficie dell'appartamento, rientra nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 10, comma primo, lett. c), D.P.R. n. 380/2001 risultando, di conseguenza, legittimamente applicabile, se realizzata in difformità dal titolo edilizio, la sanzione ripristinatoria di cui all'art. 33 D.P.R. n. 380/2001.
2. L'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto la sanzione demolitoria ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria viene effettuato soltanto in un secondo momento con l'ordine di esecuzione rivolto all'ufficio competente, e cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione, risultando conseguentemente legittima l'ordinanza di demolizione impugnata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.12.2011 n. 3210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: 1. Contratti della PA - Concessione di costruzione e gestione di opere pubbliche - Nozione - Natura commutativa - Differenze rispetto alla nozione di appalto di lavori - Corrispettivo.
2. Contratti della PA - Concessione di costruzione e gestione di opere pubbliche - Domanda del concessionario di compensazione dovuta all'aumento dei costi di costruzione ex art. 133 D.Lgs. n. 163/2006 - Ammissibilità.
3. Contratti della PA - Concessione di costruzione e gestione di opere pubbliche - Domanda di compensazione per aumento dei costi di costruzione ex art. 133 D.Lgs. n. 163/2006 - Accoglimento - Conseguenze - Possibilità di mutare le condizioni delle gestione previste nel PEF.

1. Sotto il profilo causale la concessione di lavori pubblici costituisce al pari dell'appalto di lavori, un contratto sinallagmatico e si caratterizza solo per il fatto che il corrispettivo per la esecuzione dell'opera è dato dal diritto di gestirla per un determinato periodo di tempo, anziché dal pagamento di un prezzo in danaro.
2. Il fatto che la remunerazione del concessionario consista anziché in una prestazione pecuniaria nella attribuzione del diritto di gestire l'opera realizzata non incide sul riparto dei rischi relativi alla costruzione. La maggiore alea che il concessionario si accolla rispetto all'appaltatore riguarda, infatti, la gestione dell'opera: egli nel momento in cui accetta che il proprio investimento venga remunerato attraverso la concessione del diritto di sfruttare economicamente il manufatto realizzato si assume un rischio di impresa che, normalmente, grava sull'ente concedente.
A parte ciò il contratto di concessione, in base alla sua stessa definizione normativa (sia interna che comunitaria), non presenta differenze rispetto ad un comune contratto di appalto, con la conseguenza che il rischio di costruzione assunto dal concessionario rimane nei limiti dell'alea normale tipica dell'appalto di lavori.
3. Nel contratto di concessione di costruzione e gestione l'adeguamento dell'equilibrio contrattuale ai costi eccedenti l'alea normale del contratto non necessariamente deve avvenire attraverso il pagamento di una somma di danaro. Essendo la parte preponderante dell'investimento remunerata attraverso il diritto di gestire l'opera, appare conforme allo schema causale del contratto che l'alterazione dell'equilibrio contrattuale dovuta all'aumento dei costi di costruzione per effetto di eventi eccezionali ed imprevedibili possa avvenire anche tramite il mutamento delle condizioni della gestione previste nel piano economico finanziario (come la durata della concessione, il regime tariffario, etc.).
Per tali ragioni, nonostante l'art. 143 del D.Lgs. n. 163 del 2006 non annoveri fra le cause di revisione del PEF l'aumento dei costi dei materiali o della manodopera, appare pienamente lecita una disciplina convenzionale che, invece, includa tale evento fra i presupposti che ne comportano la rinegoziazione; e, comunque, anche in assenza di una specifica previsione contrattuale, il concessionario che reclami il compenso revisionale non potrebbe rifiutare in buona fede l'offerta dell'amministrazione di far fronte ai maggiori costi attraverso modalità diverse dal pagamento di una somma di danaro (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 16.12.2011 n. 3200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Programma Integrato di Intervento (P.I.I.) in variante al P.R.G. - Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.) - Possibilità di avvalersi della V.A.S. effettuata nel procedimento di adozione del Piano di Governo del Territorio (P.G.T.) - Incarico per effettuare la V.A.S. affidato ad un organo o ad ufficio della stessa Autorità procedente - Legittimità - Sussiste.
2. Programma Integrato di Intervento in variante al P.R.G. - Censure sorrette dall'interesse all'integrità delle finanze del Comune - Inammissibilità per carenza di interesse a ricorrere stante il carattere di giurisdizione soggettiva del vigente sistema di giustizia amministrativa.
3. Programma Integrato di Intervento in variante al P.R.G. - Mancanza parere di valutazione acustica - Art. 5 L.R. Lombardia n. 13/2001 - Istruttoria rinviata alla fase di rilascio dei titoli abilitativi - Legittimità.

1. In occasione dell'approvazione di un Programma Integrato di Intervento (P.I.I.) in variante al P.R.G. è legittimo avvalersi della valutazione ambientale strategica (V.A.S.) effettuata nel procedimento di adozione del Piano di Governo del Territorio (P.G.T.) anche se risulta completato solo tale sub-procedimento e non sia ancora approvato lo strumento urbanistico generale.
Al riguardo si deve, altresì, ritenere che l'autorità incaricata della V.A.S. possa legittimamente essere identificata in un organo o ufficio della stessa Autorità procedente, e che la scelta dei funzionari apicali dell'Ente costituisca una garanzia sufficiente in ordine al possesso, in capo a costoro, delle competenze necessarie per effettuare la V.A.S..
2. In occasione dell'approvazione di P.I.I. il mancato incasso di una determinata somma a compensazione dell'incremento della s.l.p., l'accollo da parte del Comune del costo delle aree a parcheggio o l'inadeguatezza dell'importo ricevuto dall'Amministrazione a fronte della monetizzazione dello standard, essendo censure sorrette dall'interesse all'integrità delle finanze del Comune -che non si configura come un interesse personale attuale e concreto dei ricorrenti- sono inammissibili.
Diversamente si ammetterebbe un'azione popolare volta al controllo oggettivo della legittimità dell'atto amministrativo da parte del giudice, che sarebbe in contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa.
3. L'approvazione di un Programma Integrato di Intervento in mancanza del parere di compatibilità acustica non viola il giusto procedimento e l'art. 5 L.R. Lombardia n. 13/2001, in quanto tale norma pone l'obbligo di acquisizione del parere dell'A.R.P.A. in occasione del rilascio dei titoli abilitativi, e non nella fase antecedente di approvazione del P.I.I., risultando, conseguentemente, legittima la decisione del Comune di rinviare tali verifiche istruttorie alla fase attuativa del P.I.I., nel caso in cui l'Amministrazione abbia già affermato la necessità di un parere dell' A.R.P.A. nella successiva fase attuativa (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.12.2011 n. 3170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Giudizio di anomalia - Limiti del sindacato giurisdizionale - Discrezionalità tecnica - Cognizione piena del giudice amministrativo sull'attendibilità dei giudizi e apprezzamenti espressi dalla commissione giudicatrice.
2. Giudizio di anomalia - Costo delle attrezzature - Possibilità di giustificare mediante i bilanci e i libri dei cespiti.

1. In materia di giudizio di anomalia, l'area della riserva amministrativa non è violata, ove si contesti l'esistenza di errori di apprezzamento da parte della stazione appaltante, che involgono fatti anche tecnici che a detta area sono palesemente estranei.
Una volta distinta l'area della discrezionalità tecnica da quella del merito amministrativo, il giudice amministrativo ha infatti cognizione piena non solo sulle modalità (di formazione), ma anche sull'attendibilità dei giudizi e degli apprezzamenti espressi dalla commissione giudicatrice nell'ambito di una gara di appalto (TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 10.01.2011, n. 11).
La verificazione disposta dal Giudice sul procedimento di verifica dell'anomalia non deve pertanto limitarsi ad un controllo meramente formale ed estrinseco sul procedimento amministrativo seguito dalla stazione appaltante.
2. Qualora l'impresa abbia presentato i bilanci e i libri dei cespiti, la mancata formale indicazione -in sede di giustificazione dell'offerta- del parco delle attrezzature impiegate per l'appalto, comunque aliunde desumibile, non è circostanza che renda di per sé anomala l'offerta della ricorrente (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.12.2011 n. 3162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Procedimento di verifica della congruità dell'offerta - Termini per il deposito di giustificazioni - Non perentorietà.
2. Subappalto - Individuazione subappaltatori - Può essere rimandata al momento di costituzione del rapporto contrattuale.
3. Giudizio di anomalia - In caso di prestazione già integralmente eseguita - Affidabilità dell'offerta è confermata da avvenuta esecuzione a regola d'arte.

1. Nell'ambito del procedimento di verifica della congruità dell'offerta condotto dalla stazione appaltante, i termini per il deposito delle giustificazioni richieste in detta sede non sono qualificati come perentori, mentre il termine di 10 giorni, previsto dall'art. 88 del D.Lgs. n. 163/2006, integra il termine minimo che l'Amministrazione deve concedere per dar modo al concorrente di redigere e produrre le proprie giustificazioni (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. III, 09.12.2010, n. 35952).
2. L'art. 118 del D.lgs. n. 163/2006, nel prevedere che tutte le lavorazioni sono subappaltabili e che all'atto della predisposizione dell'offerta il concorrente debba partecipare l'intenzione di subappaltare a soggetti qualificati, va interpretato nel senso che è rimandata al momento della costituzione del rapporto contrattuale l'individuazione di questi ultimi, nonché la specificazione della loro qualificazione e del possesso dei requisiti generali di partecipazione; salvo che la lex specialis non disponga diversamente (TAR Lazio, Latina, sez. I, 04.06.2009, n. 541).
3. Qualora la prestazione oggetto di appalto risulti già integralmente eseguita nei termini contrattuali, risulta definitivamente preclusa la possibilità di effettuare, ora per allora, valutazioni prognostiche di presunta anomalia dell'offerta; risultando la prestazione eventualmente suscettibile solo di una valutazione diagnostica, ossia ex post, di corretta esecuzione.
La realizzazione dell'opera a regola d'arte conferma la globale affidabilità dell'offerta (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.12.2011 n. 3160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZICosti per la sicurezza - Rischi da interferenza e rischi relativi all'organizzazione dell'appaltatore - Soggetti obbligati alla quantificazione.
I costi concernenti la sicurezza sul lavoro negli appalti di servizi si distinguono in due gruppi. Da un lato, essi debbono corrispondere ai cosiddetti rischi da interferenza derivanti dallo svolgimento del servizio presso la stazione appaltante, previsti dall'art. 26 del D.Lgs. 81/2008: tali costi vanno quantificati dalla stazione appaltante, a pena di illegittimità della procedura. Dall'altro, vi sono i costi relativi all'organizzazione interna dell'appaltatore, che questi è invece tenuto ad indicare ex lege, quand'anche il capitolato non lo preveda espressamente (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.12.2011 n. 3154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAttribuzione al seggio di gara del compito di aprire le buste contenenti offerte tecniche ed economiche e di esaminare le offerte economiche - Legittimità.
E' legittima la previsione del capitolato che attribuisce al Seggio di Gara, e non alla Commissione Tecnica, il compito di aprire le buste contenenti offerte tecniche ed economiche e di esaminare le offerte economiche.
La giurisprudenza ha già precisato che, nell'ipotesi di aggiudicazione secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, nulla impedisce che il disciplinare di gara attribuisca al Seggio, e non alla Commissione, il compito di applicare meccanicamente i criteri di attribuzione matematica del punteggio relativo al prezzo offerto, atteso che in tale operazione non si esercita alcuna discrezionalità (Tar Lombardia, Brescia, 10.02.2011, n. 244).
Tale conclusione è valida anche con riguardo alla fase di mera apertura della busta contenente la documentazione amministrativa e l'offerta tecnica, al solo scopo di verificare, con operazione altrettanto priva di discrezionalità, l'inserimento di quanto richiesto dal capitolato speciale. Ciò che invece è necessario riservare alla Commissione è la sola valutazione dell'offerta, in quanto espressiva di discrezionalità tecnica (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.12.2011 n. 3154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI1. Competenza legislativa - Competenza statale in materia di organizzazione degli enti locali - Potestà legislativa residuale delle Regioni - Sussiste.
2. Comune e Provincia - Consiglio Provinciale - Ruolo, attribuzioni e revoca del Presidente - Competenza residuale dello Statuto della Provincia - Fattispecie.
3. Comune e Provincia - Consiglio Provinciale - Provvedimento di revoca del presidente - Natura giuridica - Sindacabilità - Ammissibilità.

1. La giurisprudenza costituzionale dopo una fase iniziale di ridimensionamento delle novità in tema di competenza sull'ordinamento degli enti locali introdotte dalla riforma costituzionale per le Regioni a statuto ordinario (cfr. sentt. nn. 48 del 2003 e 377 del 2003) sembra, da ultimo, indirizzarsi verso il riconoscimento di uno spazio normativo impregiudicato dalla legge statale, concernente la "organizzazione" dell'ente (cfr. sentenza n. 324 del 2010).
Da ultimo, sia pure con pronuncia di inammissibilità, si è suggerito che, per l'ipotesi in cui la competenza dello Stato non dovesse ritenersi "omnicomprensiva", verrebbe a configurarsi una potestà legislativa residuale della Regione (cfr. sentenza n. 261 del 2011).
2. In materia di organizzazione degli enti locali, al di fuori delle materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, spetta allo statuto della Provincia definire ruolo ed attribuzioni del presidente del consiglio provinciale, ed in particolare prevederne la revoca anche per motivi connessi alla rottura del rapporto di consonanza politica con la maggioranza assembleare, fermo il divieto di procedervi per il solo fatto che il presidente abbia agito con imparzialità nel garantire i diritti dei consiglieri e dei gruppi di opposizione.
3. Il giudice amministrativo non si limiterà a verificare la legalità del procedimento di revoca, ma accerterà altresì, con gli ampi poteri istruttori di cui oramai dispone, la sussistenza dei fatti storici posti a base della decisione, ove contestata in giudizio. In particolare, dovrà vigilare che vi sia corrispondenza tra le ragioni selezionate dallo statuto ai fini della revoca, o comunque desumibili implicitamente dal ruolo che tale fonte ha conferito all'organo, e lo scopo perseguito dall'atto nel caso concreto.
Difatti, quand'anche lo statuto si allarghi fino all'ipotesi estrema della costituzione del rapporto di consonanza politica, resta fermo che la revoca dovrà comunque fondarsi su elementi che non siano manifestamente estranei alla sfera pubblica propria delle dinamiche politico-amministrative, senza trasmodare in censure che abbiano un rilievo meramente privato, o che, peggio ancora, investano l'esercizio dei diritti della persona garantiti dalla Costituzione e dalle fonti di diritto internazionale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.12.2011 n. 3150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Edilizia residenziale pubblica - Convenzione - Concessione di diritto di superficie per la costruzione di alloggi destinati all'edilizia convenzionata con obbligo del concessionario di cedere alla P.A. parte degli alloggi - E' assimilabile ad un contratto di permuta - Fallimento del concessionario prima del trasferimento degli alloggi - Comporta la risoluzione del rapporto concessorio.
2. Edilizia residenziale pubblica - Convenzione per la costruzione di alloggi destinati all'edilizia economica e popolare - Soggetti che hanno acquistato dal concessionario l'esclusiva proprietà degli immobili - Non sono soggetti controinteressati nella controversia avente ad oggetto la risoluzione della convenzione - Ragioni.
3. Edilizia residenziale pubblica - Provvedimento che dichiara la decadenza della convenzione - Competenza - Spetta alla Giunta Comunale.

1. Avuto riguardo agli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, il concordato reciproco trasferimento dei diritti di superficie sull'area pubblica e del diritto di proprietà su cosa futura (gli alloggi) è riconducibile agli effetti di un contratto di permuta il quale, se stipulato prima della dichiarazione di fallimento, è regolato secondo il criterio delineato nei primi tre commi dell'art. 72 della L. Fall. (cfr. Cassazione civile, Sez. Un., 07.07.2004 n. 12505).
Essendo il fallimento del costruttore intervenuto successivamente all'avvenuto trasferimento del diritto di superficie dell'area e dopo che la costruzione degli alloggi è stata eretta, si sono prodotti, ex uno latere, gli effetti finali della operazione economica programmata e ciò ha comportato, per la parte pubblica, l'integrale esecuzione della prestazione dovuta, come tale preclusiva, una volta sopravvenuto il fallimento del costruttore, della facoltà di scioglimento unilaterale del contratto conferita al curatore, essendo tale facoltà esercitabile solo se il contratto di permuta è ancora ineseguito, o non compiutamente eseguito, da entrambe le parti.
2. Coloro che hanno acquistato dall'impresa concessionaria l'esclusiva proprietà superficiaria degli immobili non sono soggetti controinteressati, nella controversia avente ad oggetto la decadenza dalla concessione, in quanto il loro titolo di acquisto non sarebbe affatto travolto né reso precario dall'accoglimento della domanda di annullamento; ciò in quanto la risoluzione della convenzione, quale effetto dell'esercizio della facoltà contrattuale di pronunciare la decadenza non travolge i diritti dei terzi aventi causa (ex art. 1458 comma 2, c.c., salvi ovviamente gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione).
Piuttosto, i terzi aventi causa dall'impresa vedranno estinguersi il proprio diritto di proprietà superficiaria soltanto a seguito dell'estinzione del termine di durata originariamente apposto al diritto di superficie del dante causa (ciò ai sensi dell'art. 954 c.c.).
3. La competenza ad adottare un provvedimento di decadenza dalla concessione del diritto di superficie spetta alla Giunta Comunale, ove il provvedimento non sia diretto ad affermare una diversa (e contraria) volontà rispetto a quella manifestata dall'organo consiliare ed ove, dunque, non vi sia alcun esercizio di poteri di disposizione del patrimonio immobiliare comunale, il solo che radica la competenza del Consiglio Comunale ai sensi dell'art. 42, lett. l), T.U.E.L..
Né può configurarsi, in ordine all'adozione del medesimo atto, la competenza del dirigente preposto all'Ufficio Comunale che, come è noto, resta limitata agli atti di gestione in conformità alle direttive dell'organo di governo (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 17.09.2010 n. 6982) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 12.12.2011 n. 3144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Permesso di costruire - Intervento di sostituzione edilizia ex art. 3, comma 3, L.R. n. 13/2009 - Divieto di applicazione alle cortine edilizie esistenti introdotto con apposita deliberazione comunale - Ambito di operatività del divieto - Interpretazione restrittiva.
2. Permesso di costruire - Intervento di sostituzione edilizia ex art. 3, comma 3 L.R. n. 13/2009 - Progetto che garantisce l'allineamento, lungo la via, dei nuovi edifici - Contrasto con il divieto di applicazione alle cortine edilizie esistenti introdotto con apposita deliberazione comunale - Non sussiste.
3. Quinta architettonica - Definizione.

1. La legge regionale n. 13/2009 persegue la finalità di garantire "la massima valorizzazione e utilizzazione del patrimonio (...) presente nel territorio lombardo (...) contribuendo al rilancio del comparto economico interessato" (cfr. art. 1 della legge).
Pur nell'ambito di tali finalità, è consentito alle Amministrazioni locali individuare parti del proprio territorio dove non trova applicazione la legge, per la salvaguardia, fra l'altro, delle "cortine edilizie esistenti" (così, espressamente, l'art. 5 comma 6, della L.R. n. 13/2009); tuttavia, le eccezioni all'applicazione della L.R. n. 13/2009 non possono essere interpretate estensivamente, per evitare che siano irrimediabilmente frustrate le finalità di sviluppo edilizio ed economico generale di cui al menzionato art. 1 della normativa regionale.
2. La nozione di "cortina edilizia" -in mancanza di indicazione nello strumento urbanistico considerato- deve desumersi dalla letteratura tecnica in materia e dalla giurisprudenza amministrativa: per la prima, la cortina edilizia è un "fronte costruito di un edificio o di un insieme di edifici disposto, senza soluzione di continuità e per una lunghezza considerevole, lungo un asse viario urbano o altro simile elemento di allineamento"; per i giudici, si tratta della "edificazione di immobili realizzati in continuità e linearità con l'esistente ovvero (...) l'allineamento dell'edificazione, senza soluzione di continuità e per uno sviluppo non irrilevante, lungo una qualsiasi linea di edificazione interna al lotto" (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 11.06.2007, n. 4951, con la giurisprudenza ivi richiamata).
Deve, quindi, ritenersi non in contrasto con il divieto di applicazione dell'art. 3 della L.R. n. 13/2009, introdotto da un Comune con apposita deliberazione di C.C. ai sensi dell'art. 5, comma 6, della L.R. n. 13/2009, posto a salvaguardia di una cortina edilizia esistente, il progetto edilizio che garantisca l'allineamento, lungo la via, dei nuovi edifici mediante strutture facenti parte del corpo di fabbrica ed aventi i caratteri della stabilità e della durevolezza.
3. Per "quinta architettonica", secondo la giurisprudenza amministrativa, deve intendersi una struttura edilizia aperta avente funzioni per certi versi ornamentale e non integrata né facente parte del corpo di fabbrica (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.12.2011 n. 3122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Variazione di destinazione d'uso dell'immobile - Istanza - Diniego - Adozione - Sindaco - Vizio di incompetenza - Competenza del Dirigente - Ipotesi di ordinaria attività gestionale. (D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 107).
L'istanza di variazione di destinazione d'uso dell'immobile, non rientrando nell'ambito della definizione di obiettivi e programmi o della verifica della rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa, integra una ipotesi di ordinaria attività gestionale, come tale affidata, in virtù del principio della separazione fra livello di indirizzo politico e gestionale, alla generale competenza del Dirigente in quanto apice della struttura burocratica.
Qualora, dunque, il provvedimento di diniego sull'istanza suddetta sia stato adottato dal Sindaco ha luogo una ipotesi di vizio di incompetenza per violazione dell'art. 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000, nella parte in cui contempla una previsione generale che attribuisce ai dirigenti tutti i compiti non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo, ivi compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'Amministrazione verso l'esterno (TAR Valle d'Aosta, sentenza 20.10.2011 n. 68 - massima tratta da www.diritto24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini del rispetto delle distanze, soltanto le strutture edilizie meramente accessorie o ornamentali possono essere escluse dall’obbligo del rispetto delle stesse, come chiarito dalla giurisprudenza, secondo la quale “in tema di distanze fra edifici, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza".
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Mentre non sono [ai fini delle distanze] computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di costruzione le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato; e che, agli effetti dell'art. 873 c.c., la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, è unica, e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell’art. 873 c.c., è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica.

Nel provvedimento impugnato si assume, erroneamente, che il progetto presentato dai ricorrenti sia destinato a creare un ampliamento in sopraelevazione, mentre appare evidente che con lo stesso si mira a creare una maggiore volumetria dell’immobile, non modificando in alcun modo l’altezza massima dell’edificio.
Difatti la presenza di un muro di altezza di 6,20 metri su un lato dell’edificio non può essere considerata come un’appendice di carattere puramente estetico, rappresentando al contrario una struttura di sicura rilevanza e impatto in termini urbanistici.
Del resto, ai fini del rispetto delle distanze, soltanto le strutture edilizie meramente accessorie o ornamentali possono essere escluse dall’obbligo del rispetto delle stesse, come chiarito dalla giurisprudenza, secondo la quale “in tema di distanze fra edifici, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza” (Cassazione civile, II, 22.07.2010, n. 17242).
Con il secondo motivo si assume che nessuna violazione delle distanze tra la costruzione e la strada sarebbe realizzata con la concessione richiesta, visto che nessuna modifica sarebbe effettuata con riferimento alla parete più vicina alla strada, oggetto di concessione in sanatoria nel 1995.
Anche questa doglianza è fondata.
In tal senso la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha costantemente affermato che “mentre non sono [ai fini delle distanze] computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di costruzione le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato; e che, agli effetti dell'art. 873 c.c., la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, è unica, e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell’art. 873 c.c., è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica” (Cassazione civile, II, 10.09.2009, n. 19554).
Essendo la parete di 6,20 m. già esistente, nessuna violazione di distanze si può configurare in relazione al richiesto intervento edilizio della cui legittimità si controverte (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 04.05.2011 n. 1174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alberghi - Residenza turistica alberghiera - Immobili - Destinazione - Bene - Apertura al pubblico - Servizi.
La destinazione turistico alberghiera, quale definita dall'art. 27 della L.R. n. 42/2000, viene meno qualora il godimento degli alloggi o dei sevizi provenga dalla titolarità delle unità abitative o delle quote nelle quali è stato frazionato l'immobile.
Alberghi - Residenza turistica alberghiera - Immobili - Destinazione - Bene - Apertura al pubblico - Servizi.
La destinazione a residenza turistico alberghiera di un immobile si caratterizza con l'apertura del bene al pubblico, ovvero si esprime attraverso atti di offerta al pubblico dei servizi ad esso inerenti e la gestione unitaria dell'immobile, come precisa l'art. 27 della L.R. n. 42 del 23/03/2000 (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.01.2011 n. 67 - massima tratta da www.diritto24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esecuzione del giudicato - Decorso del termine assegnato - Nomina di un Commissario.
Il Comune deve eseguire il giudicato della sentenza che autorizza il cambio di destinazione d'uso da abitazione a laboratorio medico e la trasformazione di un garage interrato in locale commerciale.
La decisione fa sorgere a carico dell'amministrazione comunale l'obbligo di adeguare la situazione di fatto degli immobili a quella di diritto; ne consegue l'ordine di dar esecuzione al giudicato, con l'avvertenza che, in caso di inutile decorso del termine assegnato, si procederà alla nomina di un commissario ad acta che adotti, in sostituzione dell'amministrazione inadempiente, i provvedimenti necessari per l'ottemperanza al giudicato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.07.2010 n. 4841 - massima tratta da www.diritto24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Giudizio di ottemperanza - Esecuzione delle sentenze recanti l'autorizzazione al cambio di destinazione d'uso da abitazione a laboratorio medico e la concessione in sanatoria per la trasformazione di un garage interrato in locale commerciale - Inottemperanza - Obbligo della P.A. di dare esecuzione al giudicato - Nomina di un commissario ad acta in caso di ulteriore inadempimento.
E' fondato e meritevole di accoglimento il ricorso esperito per l'esecuzione del giudicato formatosi in merito all'annullamento della concessione edilizia recante l'autorizzazione al cambio di destinazione d'uso da abitazione a laboratorio medico e della concessione in sanatoria rilasciata per la trasformazione di un garage interrato in locale commerciale ed artigianale, ove, a seguito della notificazione della sentenza al Comune, sia stata constatata l'inerzia della P.A. in ordine all'esecuzione della decisione.
La sentenza fa sorgere a carico dell'amministrazione comunale l'obbligo di adeguare la situazione di fatto degli immobili a quella di diritto; ne consegue, in accoglimento della pronuncia, l'ordine di dar esecuzione al giudicato con l'avvertenza che in caso di inutile decorso del termine assegnato si procederà alla nomina di un commissario ad acta che adotti, in sostituzione dell'amministrazione inadempiente i provvedimenti necessari per l'ottemperanza al giudicato (massima tratta da www.diritto24.ilsole24ore.com - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.07.2010 n. 4841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon v'è dubbio in ordine alla qualificazione della sopraelevazione di un edificio alla stregua di una nuova costruzione per cui essa deve rispettare le norme di legge e del piano a tale riguardo.
Il collegio osserva al riguardo che non v’è dubbio in giurisprudenza in ordine alla qualificazione della sopraelevazione di un edificio alla stregua di una nuova costruzione (ad esempio, in epoca recente, cons. Stato, 31.03.2009, n. 1998; cass., 11.06.2008, n. 15527), per cui essa deve rispettare le norme di legge e del piano a tale riguardo: la scheda d’ambito prodotta dalla ricorrente in data 08.04.2009 come documento sub-13 prescrive una distanza dal confine metri cinque ed una distanza tra le pareti finestrate di metri dieci (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 10.07.2009 n. 1736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza tra edifici solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò, posto che uno sporto come quello effigiato in atti non integra la specie dell’intercapedine dannosa che legittima l’applicazione della norma di ordine pubblico derivante dal d.m. 02.04.1968, n. 1444 (vengono pertanto in applicazione le norme di piano, ed a tale stregua si osserva che l’art. 4 del vigente PUC di Varazze attribuisce rilevanza ai fini del calcolo delle distanze solo ai balconi che superano la misura di m. 1,20, circostanza che incombeva alla ricorrente comprovare e che risulta invece senza riscontri in atti, derivandone l’infondatezza del motivo).
A tale proposito l’amministrazione ha considerato legittimo il progetto assentito, dal quale risulta che la distanza tra lo spigolo più vicino della casa della ricorrente e la parte meno rientrante della sopraelevazione in progetto supera i dieci metri lineari: l’interessata eccepisce che non s’è tenuto conto dei balconi sporgenti dalla facciata della sua casa, che contribuiscono al computo delle distanze (tar Campania, Napoli, 23.04.2007, n. 4215, cass., 31.05.2006, n. 12964).
Il tribunale rileva che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza ai sensi della norma in questione solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò, posto che uno sporto come quello effigiato in atti non integra la specie dell’intercapedine dannosa che legittima l’applicazione della norma di ordine pubblico derivante dal d.m. 02.04.1968, n. 1444: vengono pertanto in applicazione le norme di piano, ed a tale stregua si osserva che l’art. 4 del vigente PUC di Varazze attribuisce rilevanza ai fini del calcolo delle distanze solo ai balconi che superano la misura di m. 1,20, circostanza che incombeva alla ricorrente comprovare e che risulta invece senza riscontri in atti, derivandone l’infondatezza del motivo (TAR Liguria. Sez. I, sentenza 10.07.2009 n. 1736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMentre rientrano nella categoria delle sporgenze, non computabili ai fini delle distanze, soltanto gli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari dimensioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
In tema di distanze legali fra edifici non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati.
Ai fini del computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.

In tema di distanze fra edifici, infatti, per consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, mentre rientrano nella categoria delle sporgenze, non computabili ai fini delle distanze, soltanto gli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari dimensioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr: TAR Campania, Napoli, Sez. II, 23.04.2007 n. 4215).
Anche la Corte di Cassazione è pacificamente orientata nel senso di ritenere che “In tema di distanze legali fra edifici non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati” (Cass. Civ., Sez. II, 26.05.2006 n. 12964).
Deve quindi concludersi nel senso che, ai fini del computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 06.04.2009 n. 432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai proprietari di immobili frontisti è riconosciuta una posizione di uso speciale della strada dalla quale hanno accesso ai loro beni, poiché da essa essi traggono un’utilità diversa e maggiore di quella accordata alla collettività, non limitandosi a transitarvi, ma utilizzandola quale tramite per l’accesso alle loro proprietà, senza bisogno di costituire servitù di passaggio, sicché sono titolari di una posizione di interesse legittimo nei confronti dell’amministrazione proprietaria.
In linea con tali rilievi, del resto, si è posta parte della giurisprudenza, affermando che “ai proprietari di immobili frontisti è riconosciuta una posizione di uso speciale della strada dalla quale hanno accesso ai loro beni, poiché da essa essi traggono un’utilità diversa e maggiore di quella accordata alla collettività, non limitandosi a transitarvi, ma utilizzandola quale tramite per l’accesso alle loro proprietà, senza bisogno di costituire servitù di passaggio, sicché sono titolari di una posizione di interesse legittimo nei confronti dell’amministrazione proprietaria” (Cassazione civile, Sezione III, 18.07.2003 n. 11242) (TAR Campania-Salerno Sez. II, sentenza 25.05.2005 n. 834 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 02.07.2012

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UTILITA'

APPALTI: Slides Travaglini sulle cause di esclusione dopo il decreto sviluppo 2011 e le manovre Monti.
Pubblichiamo le slides 15.06.2012 predisposte dal dott. Travaglini di Confindustria Vicenza per il convegno di Arzignano sulle cause di esclusione dalle gare di appalto, ringraziando sentitamente l'autore (tratto da e link a http://venetoius.myblog.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: chiarimenti in ordine all'applicazione dell'art. 2, l. 07.08.1990 n. 241, nel testo modificato dall'art. 1, d.l. 09.02.2012, n. 5 (circolare 10.05.2012 n. 4/2012).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi all'esodo e danno erariale (CGIL-FP dfi Bergamo, nota 25.06.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Revisione della spesa pubblica: nuovi tagli per i pubblici dipendenti? (CGIL-FP dfi Bergamo, nota 23.06.2012).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 02.07.2012, "Precisazioni relative alle disposizioni per l’efficienza energetica in edilizia, approvate con d.g.r. 8745/2008, con riferimento al recupero abitativo dei sottotetti e della certificazione energetica in presenza di unità immobiliari con più destinazioni d’uso" (circolare regionale 26.06.2012 n. 3).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALI: G.U. 26.06.2012 n. 147, suppl. ord. n. 129/L, "Misure urgenti per la crescita del Paese" (D.L. 22.06.2012 n. 83).
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Le disposizioni del Decreto Legge sono già in vigore; tra queste ricordiamo:
● Innalzamento della detrazione per ristrutturazione (dal 36% al 50%)
● Credito di imposta per le nuove assunzioni di profili altamente qualificati
● Tariffe minime nelle gare
● Ripristino Iva sull'invenduto
● Semplificazioni per i titoli abilitativi (SCIA e DIA)
● Sospensione del Sistri
● Finanziamenti green economy
● Possibilità di costituire “Srl semplificata” anche agli over 35
In allegato a questo articolo, oltre al testo del Decreto, riproponiamo il documento di sintesi delle principali disposizioni elaborato da BibLus-net
(commento tratto da e link a http://www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROLinee Guida Regionali per la Sorveglianza Sanitaria in Edilizia: aggiornamento del decreto Direttore Generale Giunta Regionale 31.10.2002 n. 20647 (decreto D.G. 19.06.2012 n. 5408).
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Regione Lombardia: ecco le Linee Guida per la sorveglianza sanitaria in edilizia.
Le malattie professionali in edilizia sono le più numerose tra quelle riconosciute dall’Inail, nonostante sia notoria la sottostima di tale fenomeno.
Al riguardo, la Regione Lombardia ha approvato le nuove “Linee Guida Regionali per la Sorveglianza Sanitaria in Edilizia”, con il Decreto n. 5408 del 19.06.2012.
Le linee guida, seppur di carattere regionale, offrono utili indicazioni a tutti gli operatori della prevenzione, pubblici e privati, ai medici competenti, ai medici delle ASL, ai datori di lavoro, ai RSPP, ai RLS e lavoratori del settore edile,
Il documento è così strutturato:
Parte 1
Þ Visita ed accertamenti sanitari periodici
Þ Visite di minori, apprendisti e studenti della scuola edile
Þ Accertamenti finalizzati ad escludere o identificare l’assunzione di sostanze stupefacenti
Þ Vaccinazioni
Parte 2
Þ Esami integrativi per i lavoratori esposti ad AMIANTO
Þ Esami integrativi per i lavoratori esposti a SILICE
Þ Esami integrativi per i lavoratori esposti a IPA
Þ Esami integrativi per i lavoratori che svolgono attività in quota in sospensione su funi
Parte 3
Þ Accertamenti sanitari a richiesta del lavoratore
Þ Accertamenti sanitari nel caso di cambio di mansione del lavoratore
Þ Accertamenti sanitari nel caso di ripresa del lavoro dopo assenza per motivi di salute di durata superiore ai 60 giorni
Þ Accertamenti sanitari a fine rapporto di lavoro
Þ
Titolari di impresa, artigiani e lavoratori autonomi del settore edile che svolgono attività a rischio come i lavoratori dipendenti (commento tratto da www.acca.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: FAQ - Risposte a quesiti frequenti sui “requisiti speciali” dei fornitori e dei prestatori di servizi per l’affidamento degli appalti di servizi e di forniture (aggiornato al 06.06.2012) (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: FAQ - Istruttoria per i pareri non vincolanti su questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara (Precontenzioso) (aggiornato al 06.06.2012) (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: FAQ - Tracciabilità dei flussi finanziari (aggiornato al 14.03.2012) (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: FAQ - Acquisizioni in economia di lavori, beni e servizi (aggiornato all’11.04.2012) (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: FAQ - Obblighi informativi verso l’Autorità di cui all’articolo 7, comma 8, DEL D.LGS. n. 163/2006 (aggiornato al 23.11.2011)
A - QUESITI DI NATURA GENERALE
B - QUESITI RELATIVI ALLA FASE DI AGGIUDICAZIONE O DI DEFINIZIONE DI PROCEDURA NEGOZIATA
C - QUESITI RELATIVI ALLA FASE INIZIALE DI ESECUZIONE DEL CONTRATTO
D - QUESITI RELATIVI ALLA FASE DI ESECUZIONE E AVANZAMENTO DEL CONTRATTO
E - QUESITI RELATIVI ALLA SCHEDE DI RILEVAZIONE BASATE SU EVENTI (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: FAQ - Controlli sul possesso dei requisiti di cui all’articolo 48 del d.lgs. n. 163/2006 (aggiornato al 28.03.2011) (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: FAQ - Contributi in sede di gara (aggiornato all'01.03.2011) (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: FAQ - “Decreto” o “determina” a contrarre di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 163/2006 e s.m. (aggiornato al 26.01.2011) (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: FAQ - Documento unico di regolarità contributiva (DURC) (aggiornato al 26.01.2011) (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: FAQ - Verifica di congruità delle offerte (aggiornato al 26.01.2011) (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: FAQ - Istruttoria dei quesiti giuridici (aggiornato al 26.01.2011) (link a www.autoritalavoripubblici.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Acquasaliente, L’autorizzazione paesaggistica può essere rilasciata se l'intervento contrasta con la disciplina urbanistico-edilizia? (link a http://venetoius.myblog.it).

APPALTI: S. De Blasi, Annullamento del bando e responsabilità precontrattuale: Tar Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 25.01.2012 n. 139 (Appalti – annullamento – autotutela – revoca – interesse pubblico – responsabilità precontrattuale – buona fede – correttezza) (link a www.diritto.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIASe le emissioni moleste non sono quotidiane si ha diritto al risarcimento del danno? (21.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAA quali condizioni i materiali provenienti da demolizioni sono sottoprodotti? (21.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome saranno regolati i processi di riciclaggio di pile e accumulatori? (21.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASISTRI: sospensione o rinvio? (21.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Art. 76, comma 7, D.L. 112/2008 , Turn-over.
La Corte dei Conti, sezione Regionale Marche, con il parere 14.06.2012 n. 29 risponde al Comune di Macerata che con nota a firma del suo Sindaco ha formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003, una richiesta di parere in materia di personale e, segnatamente, in ordine alla corretta interpretazione del vincolo previsto dall’art. 76, comma 7, DL 112/2008 (c.d. turn-over).
Richiamate, in particolare, la normativa vigente, le interpretazioni rese dalle diverse Sezioni regionali della Corte dei conti e le indicazioni fornite dal Dipartimento della Funzione pubblica, il Comune istante chiede di conoscere il motivato avviso della Sezione in ordine alla possibilità di riportare nell’esercizio finanziario 2012 le quote di turn-over non utilizzate nel precedente esercizio 2011 svolgendo, peraltro, a sostegno della tesi favorevole circostanziate ed articolate argomentazioni.
Queste le conclusioni della Corte dei Conti:
Venendo alla questione prospettata dal Comune di Macerata circa la possibilità per gli Enti di usufruire negli esercizi successivi delle quote di turn-over non utilizzato nessun riferimento positivo è dato rinvenire. La stessa Sezione, invero, con la recente deliberazione n. 176/PAR/2012, pur mantenendo ferme le considerazioni svolte in precedenza, ha rilevato come “pur in assenza di una normativa o di prassi interpretativa ad hoc che attribuisca agli enti locali la facoltà di utilizzare i resti delle cessazioni degli anni pregressi si ritiene che i principi vigenti in materia non escludono tale possibilità”.
Il Collegio ritiene non sussistano i presupposti per discostarsi da questo ulteriore orientamento che condivide e fa proprio
.” (tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALICorte dei conti. Mobilità ammessa. Segretari comunali nei costi di personale.
Per la Corte dei conti (sezione autonomie, deliberazione 30.05.2012 n. 8) le norme che regolano il ruolo, le funzioni e lo status dei segretari comunali e provinciali non giustificano una posizione funzionale all'interno degli enti locali diversa da quella attuale. Non si può dunque prevedere che le relative spese siano allocate in bilancio diversamente da quelle per il personale dipendente degli stessi enti.
In altri termini, la tesi secondo la quale le assunzioni dei segretari comunali e provinciali, essendo prive di limitazioni, non consentono di considerare neutre le relative mobilità (articolo 1, comma 47, della legge 311/2004) è smentita dall'assunto della stessa sezione autonomie della Corte dei conti. La decisione della Corte appare risolutiva, dunque, anche del problema della mobilità dei segretari in altre amministrazioni.
L'altro orientamento
In base alla circolare del dipartimento della Funzione pubblica, emanata congiuntamente alla Ragioneria generale dello Stato il 22.02.2011, le assunzioni dei segretari comunali e provinciali sarebbero escluse dai vincoli sulle assunzioni e la conseguente mobilità «ad eccezione dei segretari collocati in disponibilità nell'elenco di cui all'articolo 34 del Dlgs 165/2001 non sarebbe neutra sotto il profilo contabile. Ciò in quanto l'assunzione degli stessi è autorizzata in relazione ad un fabbisogno che non trova copertura finanziaria in un budget appositamente dedicato dalla legge. La relativa assunzione è quindi priva di vincoli normativi specifici. In caso contrario, si avrebbe un'alterazione dei livelli occupazionali, rigidamente controllati finanziariamente, in quanto l'assunzione di segretari comunali potrebbe fungere da serbatoio che alimenta le amministrazioni sottoposte a vincoli». Questa tesi è dunque smentita dalla Corte dei conti.
D'altronde, dall'esame del Dpr del ministero dell'Interno del 21.04.2011 con cui si autorizzava ad assumere a tempo indeterminato segretari comunali e provinciali, si desume come gli oneri connessi alle assunzioni siano posti (articolo 3 del Dpr) «a carico del bilancio degli enti locali presso i quali i segretari presteranno servizio in qualità di titolari»: l'affermazione ben si concilia con la considerazione che il rapporto di lavoro si instaura solo con la prima nomina a cura del sindaco di un Comune di classe adeguata e conseguente entrata in servizio dei segretari comunali e provinciali di prima nomina e non certo con l'inserimento nell'ambito nell'Albo regionale a cura del ministro dell'Interno e delle singole prefetture (articolo Il Sole 24 Ore del 25.06.2012).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOI dipendenti comunali che non fanno il loro dovere si possono licenziare. Un sindaco del Veronese ne ha già mandati a casa sei. E spiega come.
Lo chiamano SuperMario ma Ballotelli, il bomber azzurro, non c'entra. L'accostamento giusto è appunto al personaggio dei videogiochi Nintendo, l'idraulico tuttofare inarrestabile nell'aggiustare tutto. È Mario Faccioli, sindaco di Villafranca di Verona che licenzia i dipendenti comunali e non fa pagare l'Imu.
SuperMario, classe 1964, da Nagrar (Verona), perito in telecomunicazioni e impiegato nella vita, guida il municipio a capo di una lista civica ma è pidiellino lato An, come molti da quelle parti, tanto che sotto quelle insegne ha già fatto il consigliere provinciale. SuperMario è diventato tale agli occhi dei suoi 34mila amministrati da quando s'è messo a usare il pugno duro nel suo municipio. Non discorsi ma lettere di richiamo ai dipendenti fannulloni e, in casi di infedeltà clamorosa, licenziamenti veri e propri. Un Renato Brunetta della Bassa veronese che, a differenza dell'ex-ministro veneziano, non scherza affatto: di travet furbetti ne ha già cacciati ben sei. Fra loro, un impiegato che prendeva soldi indebitamente per pratiche funerarie, un altro che aveva chiesto e ottenuto una tangente da 10mila euro e un'altra ancora che godeva permessi per assistere familiari e che, al contrario, se ne andava all'università. Con buona pace di chi ritiene che i dipendenti statali godano dell'impunità totale, anche i presenza di mancanze gravi.
«Le norme per poterlo fare ci sono. Eccome», ha spiegato giorni fa al Corriere Veneto, «e siccome sono un pignolo le conosco. È lo stesso contratto nazionale che ti permette di agire. E devi farlo subito, altrimenti diventa tutto più difficile...». Il segreto? Il puntiglio. «Sono una zecca fastidiosa e mi controllo tutti gli atti amministrativi», ha chiarito, «non dico che sia facile ma è probabile trovare anomalie in certi comportamenti. Sono un pignolo, ripeto, controllo tutto, faccio rifare. Basta fare degli incroci e, se c'è qualcosa che non va, lo scopri...».
Ma non basta essere vigili, non è sufficienti essere attenti, SuperMario sindaco ha svelato che occorre anche la prontezza: «Bisogna anticipare l'atto penale», ha teorizzato, «perché, quando inizia l'iter in tribunale, sei fregato, devi aspettare i tre gradi di giudizio prima di licenziare. Ma se lo fai prima, avendo tutte le carte che dimostrano la bontà del tuo provvedimento, è fatta» Come? «Verifico gli atti con i miei legali e applico il licenziamento senza preavviso. Lo dico anche ai miei colleghi sindaci: se conosci le norme puoi fare».
Lui le norme dice di averle imparate nientemeno che nel vecchio Movimento sociale italiano, in cui militava sin da ragazzo, tanto che amici e nemici ormai lo chiamano «il Dux di Villaffranca», in omaggio alle sue capacità di leadership certo, ma anche al Capo cui il Msi si richiamava: Benito Mussolini. «Un partito che faceva formazione, che ti preparava», ha sospirato e, sulla scorta di quel ricordo un po' nostalgico, s'è dichiarato piuttosto pessimista sulle sorti della politica attuale: «A tutti i livelli, regionale, provinciale o locale, molti non hanno una preparazione politico-amministrativa», ha osservato mestamente, «oggi si pensa alle preferenze, alle lobby, non al buongoverno». Critiche che valgono anche per il suo partito, il Pdl: «È una storia che mi piace poco», aveva già ammesso ai microfoni di Radio Padova, «e sarebbe errato dire che è una brutta cosa perché ha nei suoi principi cose belle, ma non siamo stati all'altezza come classe dirigente, a tutti livelli. Abbiamo perso il senso dell'appartenenza».
Lui appartiene ai suoi amministrati e, nel suo piccolo, fa cose importanti: per esempio ha rinunciato alla quota di Imu di spettanza municipale, alleggerendo di molto il prelievo sul cittadino. «Come ho fatto? Da quando hanno tolto l'Ici abbiamo ristrutturato le nostre finanze: via mutui, costi ridotti, nessuna auto di servizio, niente telefonini, niente mazzette dei giornali», ha chiarito, «siamo riusciti a mantenere i servizi essenziali o ora possiamo anche non chiedere l'Imu». Un duro che però i suoi collaboratori li difende: «Ho dei dipendenti di prim'ordine e non voglio che, per il mal agire di qualcuno, si pensi che tutti sono dei lavativi. Io li voglio sul pezzo. E gli faccio la posta». A suo modo gli vuol bene, SuperMario.
Con lui l'antipolitica non avrebbe vita facile. Su YouTube circola ancora un video dei grillini che lo ritrae mentre li ringrazia per le riprese dei lavori in consiglio comunale: una prassi contro cui più di un suo collega, a destra e a sinistra, s'era ribellato. Lui, invece, sorrideva lieve. O forse sfotteva (articolo ItaliaOggi del 30.06.2012 - link a www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Numero legale fai-da-te. Il regolamento indica il quorum per le sedute. Per l'elezione del presidente alla terza votazione basta la maggioranza assoluta.
Può ritenersi validamente costituito, ai fini dell'elezione del presidente, un consiglio comunale con un numero di consiglieri inferiore a quello dei due terzi prescritto per l'elezione in questione?

La disciplina del numero legale per la validità delle adunanze, «quorum strutturale», e delle votazioni, «quorum funzionale o deliberativo», di cui all'art. 38 del dlgs n. 267/2000, si limita a disporre che «il regolamento indica il numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, prevedendo che in ogni caso debba esservi la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco».
Nel caso di specie, per quanto riguarda il quorum strutturale, lo statuto comunale prevede che «le sedute del consiglio comunale sono valide con la presenza di 16 consiglieri, o in seconda convocazione, con almeno undici di essi, computando a tal fine anche il sindaco», facendo salvi i casi in cui la legge o lo stesso Statuto «richiedano una maggioranza qualificata o dispongano particolari modalità di votazione».
Per lo specifico quorum funzionale, invece, lo statuto prevede che «il presidente è eletto tra i consiglieri con il voto favorevole dei due terzi dei componenti il consiglio comunale. Qualora tale maggioranza non venga raggiunta, si procederà a una nuova votazione con le stesse modalità della prima. In caso di ulteriore esito negativo, si procederà a una terza votazione, nella quale sarà sufficiente raggiungere il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti il consiglio».
Il regolamento consiliare, peraltro, ribadisce sostanzialmente il contenuto delle norme statutarie senza apportare ulteriori integrazioni alle modalità di elezione del presidente.
Pertanto, in base alle disposizioni sopra richiamate, per la validità della seduta sarà necessario il raggiungimento del quorum strutturale indicato, ovvero la presenza di 16 consiglieri.
Ne consegue che, accertata la validità della seduta con la presenza del numero dei consiglieri prescritto dallo statuto, qualora le prime due votazioni, che necessitano del voto favorevole di due terzi dei componenti, dovessero risultare infruttuose, si potrà procedere alla terza votazione per la quale è richiesta la maggioranza assoluta.
Diversamente, qualora si accogliesse la tesi secondo cui il quorum funzionale iniziale dei due terzi dei componenti del consiglio rende necessitato il raggiungimento del medesimo quorum ai fini della validità della seduta, ne deriverebbe l'oggettiva impossibilità, in carenza del suddetto quorum, di procedere alla terza votazione. Tale conclusione è incongruente con il meccanismo contemplato dalla norma statutaria in argomento, mirante a pervenire necessariamente all'elezione del presidente.
Si soggiunge, infatti, che il presidente è un organo obbligatorio previsto dal nostro ordinamento che svolge funzioni fondamentali per l'attività del consiglio comunale e ne garantisce l'ordinato svolgimento dei lavori a tutela e garanzia della vita democratica dell'ente stesso (articolo ItaliaOggi del 29.06.2012 - link a www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARILa malattia in vacanza non mina le ferie retribuite.
Le ferie annuali retribuite sono un diritto inviolabile. E come tali, non possono essere sottratte al lavoratore nemmeno se l'incapacità lavorativa dovesse sopravvenire proprio durante il periodo di vacanza.

Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea confermando il diritto a recuperare le ferie non godute. Il ricorso è arrivato su istanza del Tribunal supremo spagnolo (Corte suprema) chiamato a dirimere la causa intentata dai sindacati dei lavoratori dei grandi magazzini contro l'Associazione nazionale delle grandi imprese di distribuzione (Anged). I primi miravano a far riconoscere il diritto dei lavoratori di beneficiare delle ferie annuali retribuite anche quando fossero coincise con periodi di congedo per incapacità lavorativa.
Di parere contrario l'Anged secondo cui «i lavoratori che si trovano in una situazione di incapacità lavorativa -prima dell'inizio di un periodo di ferie previamente stabilito, o nel corso di tale periodo- non hanno alcun diritto di beneficiare delle ferie». Ebbene, la Corte di giustizia europea ha sottolineato come il diritto alle ferie annuali retribuite debba essere considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale, sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Ue. E come tale non può essere interpretato in senso restrittivo.
Secondo i giudici europei, lo scopo del diritto alle ferie annuali è quello di consentire al lavoratore di riposarsi e di beneficiare di un periodo di distensione e di ricreazione. Le finalità sono quindi diverse da quelle del diritto al congedo per malattia, volto a consentire al lavoratore di ristabilirsi da una malattia che dà luogo a incapacità lavorativa. La Corte Ue ha così rigettato le motivazioni dell'Anged dichiarando che «un lavoratore che si trovi in una situazione d'incapacità lavorativa prima dell'inizio di un periodo di ferie retribuite ha diritto di beneficiarne in un periodo diverso da quello coincidente con il periodo di congedo per malattia. Il momento in cui l'incapacità sopravviene è irrilevante».
Pertanto, il lavoratore ha diritto a fruire delle ferie annuali retribuite coincidenti con un periodo di congedo di malattia in un periodo successivo. E ciò indipendentemente dal momento in cui è sopravvenuta l'incapacità lavorativa. Sarebbe infatti aleatorio riconoscere questo diritto al lavoratore soltanto a condizione che questi si trovi già in una situazione di incapacità lavorativa all'inizio del periodo di ferie annuali retribuite (articolo ItaliaOggi del 27.06.2012).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALavori senza gara, Italia a rischio.
Il decreto-legge n. 201 del 2011 (cosiddetto salva Italia) ha modificato le norme sull'esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria, ammettendo che quelle d'importo inferiore alla soglia comunitaria (5 milioni di euro) possano essere realizzate dal titolare del permesso di costruire, senza applicare il codice dei contratti.
La disposizione è, di tutta evidenza, in contrasto con l'orientamento comunitario, in base al quale l'esecuzione delle opere di urbanizzazione, indipendentemente dalla natura del soggetto che realizza, costituisce un «appalto pubblico di lavori» e come tale dev'essere trattato all'interno degli ordinamenti nazionali.
La disciplina antecedente faceva salva questa impostazione, prevedendo che, a scomputo totale o parziale degli oneri concessori dovuti, il titolare del permesso potesse obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto del codice dei contratti. Limitatamente alle opere d'importo inferiore alla cosiddetta soglia comunitaria il medesimo codice ammetteva il ricorso a una procedura di evidenza pubblica, seppure semplificata e meno gravosa, rappresentata dalla cosiddetta procedura negoziata.
L'operazione correttiva del governo Monti non soltanto espone lo stato italiano all'ennesima censura comunitaria, ma pone problemi interpretativi, determinando il rischio che la ricercata semplificazione dia luogo a incertezza e stallo, visti gli interrogativi cui le amministrazioni locali dovrebbero dare una risposta prima di applicare le nuove disposizioni.
L'interrogativo principale è: perché il legislatore ha qualificato l'esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria d'importo inferiore alla soglia comunitaria come «a carico del titolare del permesso di costruire» e non ha precisato, invece, che si tratta di una prestazione obbligatoria, effettuata dal titolare del permesso, in alternativa al versamento degli oneri concessori comunque dovuti e dunque a scomputo di questi ultimi?
Nel caso in cui il governo (eludendo pure due distinte interrogazioni presentate da parlamentari radicali sull'argomento) ritenga che la norma non abbia modificato sostanzialmente il regime delle prestazioni obbligatorie a carico del titolare del permesso di costruire e dunque che le opere di urbanizzazione primaria vengono comunque effettuate «a scomputo» degli oneri concessori dovuti, si pone comunque la necessità di precisare la norma e di fornire indicazioni operative.
Per questa ragione, in sede di conversione in legge del decreto-legge per la crescita, che contiene anche norme correttive del testo unico per l'edilizia, sarebbe opportuno un intervento del parlamento per abrogare il comma 2-bis dell'art. 16 del dpr n. 380 del 2001(modificato dal «salva Italia») ed evitare all'Italia una probabile procedura d'infrazione.
In via subordinata, nel caso in cui non ci fossero le condizioni per cancellare la norma, bisognerebbe emendare tale disposizione, precisando in che modo debba essere fissato il valore economico delle opere di urbanizzazione, realizzate senza applicare il codice dei contratti, al fine di determinare l'importo delle somme (il cosiddetto scomputo) che il privato detrae da quanto dovuto a titolo di oneri concessori.
Bisognerebbe altresì individuare la procedura per assicurare un'appropriata e corretta destinazione delle eventuali economie che il privato (anche e soprattutto grazie alla mancata applicazione del codice dei contratti) può perseguire nell'esecuzione delle opere (articolo ItaliaOggi del 26.06.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Se la scuola è chiusa per neve o per altre calamità naturali l'assenza non si recupera.  Così la Fornero sulle assenze negli uffici pubblici. Chiusi per neve, non c'è recupero.
É quanto si evince da
ll'interpello 07.06.2012 n. 15/2012 emanato dal ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Il dicastero guidato da Elsa Fornero, è intervenuto in risposta a un interpello concernente la chiusura degli uffici pubblici a Roma, durante la nevicata del febbraio scorso.
E ha chiarito che, nel settore pubblico, la mancata effettuazione della prestazione lavorativa nelle giornate di chiusura può considerarsi ascrivibile alle ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al lavoratore.
«Nello specifico» si legge nella nota «la fattispecie prospettata sembrerebbe afferire al c.d. factum principis, inteso quale provvedimento autoritativo –ordinanza di chiusura degli uffici pubblici causa neve– che impedisce in modo oggettivo ed assoluto l'adempimento della prestazione, ossia l'espletamento dell'attività lavorativa, fermo restando l'obbligo datoriale di corrispondere la retribuzione nelle giornate indicate». Insomma se la scuola è chiusa i docenti e i non docenti sono impossibilitati materialmente ad erogare la prestazione. E ciò non dipende dalla loro volontà, ma da fatti impeditivi non rimuovibili o modificabili dagli stessi.
Pertanto, la prestazione non è dovuta e, soprattutto, non deve essere recuperata. Il chiarimento del minlavoro fa il paio con la nota 1000 del 22.02.2012 del ministero dell'istruzione. In quell'occasione il dicastero di viale Trastevere era intervenuto per spiegare ai dirigenti scolastici che l'anno scolastico vale lo stesso, anche se si scende al di sotto dei 200 giorni di lezione, quando la riduzione avviene per il verificarsi di «eventi imprevedibili e straordinari (ad esempio gravi calamità naturali, eccezionali eventi atmosferici) che inducano i sindaci ad adottare ordinanze di chiusura delle sedi scolastiche.».
Tale conclusione era già stata anticipata dall'ufficio scolastico regionale per l'Abruzzo che, in merito alle assenze dovute alla chiusura delle scuole per neve, nel 2005 (prot. 1700) aveva fatto presente che: «Per quanto riguarda la questione dell' obbligo o meno al recupero delle giornate di lavoro non prestate» si legge nella nota «lo scrivente ritiene che in caso di blocco totale delle attività didattiche ed amministrative delle istituzioni scolastiche detto obbligo non esista, avuto riguardo alle cause di forza maggiore non imputabili al personale» (articolo ItaliaOggi del 26.06.2012 - link a www.ecostampa.it).

APPALTI - ENTI LOCALIPAGAMENTI P.A./ Riscossione dei crediti anticipata. Con la certificazione l'impresa può avere liquidità immediata. Pubblicati in GU due decreti del Mef. È possibile anche cedere l'operazione alla banca.
È possibile accelerare i pagamenti dei crediti verso le pubbliche amministrazioni, grazie a due misure ad hoc messe in campo dal ministero dell'economia e delle finanze. La prima misura riguarda la possibilità di richiedere la certificazione dei crediti verso le pubbliche amministrazioni, la seconda di ottenere l'estinzione del credito mediante il rilascio dei titoli di stato.
La certificazione dei crediti permetterà di ottenere l'anticipazione del credito dalla banca e avere quindi subito liquidità, oppure di effettuare la cessione del credito in banca o in alternativa la compensazione dei crediti verso le p.a. con le somme iscritte a ruolo.
Certificazione dei crediti per accelerare i pagamenti delle Pubbliche Amministrazioni. Con decreto del 22 maggio, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 143 del 21 giugno scorso (si veda ItaliaOggi del 22 giugno) il ministero dell'economia e delle Finanze ha definito le modalità per richiedere la certificazione del credito di somme per somministrazione, forniture e appalti da parte delle Amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici nazionali. La certificazione dei crediti può essere richiesta solo per crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili.
Con la certificazione l'amministrazione o ente debitore accetta preventivamente la possibilità che il credito venga ceduto a banche o intermediari finanziari abilitati ai sensi della legislazione vigente. Gli obbiettivi di questa misura, possono essere così riassunti: fornire liquidità alle imprese, rendere semplice per fornitori e debitori il meccanismo della certificazione, superando la frammentazione sul territorio, ridurre il rischio di inerzia della pubblica amministrazione ed infine favorire una risoluzione per i debiti iscritti a ruolo.
Come presentare l'istanza di certificazione del credito. La certificazione del credito può essere richiesta in maniera ordinaria (cartacea), oppure in maniera telematica. Al momento la possibilità di presentare l'istanza cartacea è già operativa, mentre per la modalità telematica sarà necessario attendere qualche mese affinché la piattaforma telematica sia attivata.
Nel caso della procedura cartacea il procedimento è il seguente: i titolari dei crediti possono presentare all'amministrazione o ente debitore l'istanza di certificazione del credito utilizzando il modello allegato 1 disponibile sul sito web del Mef. Entro 60 giorni dalla ricezione dell'istanza l'amministrazione o ente debitore, certifica che il credito è certo, liquido ed esigibile, oppure ne rileva l'insussistenza o l'inesigibilità, anche parziale del credito. La certificazione non può essere rilasciata qualora risultino procedimenti giurisdizionali pendenti, per la medesima ragione di credito.
Prima di rilasciare la certificazione, per i crediti di importo superiore a diecimila euro, l'amministrazione o ente debitore procede, ricorrendone i presupposti, alla verifica prescritta dall'art. 48-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602. Nel caso di accertata inadempienza all'obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento, la certificazione ne da' atto e viene resa al lordo delle somme ancora dovute, il cui importo viene comunque indicato nella certificazione medesima.
Possibile la compensazione dei crediti vs le p.a. con le somme iscritte a ruolo. Nel caso di esposizione debitoria del creditore nei confronti della stessa amministrazione, il credito può essere certificato, e conseguentemente ceduto o oggetto di anticipazione, al netto della compensazione tra debiti e crediti del creditore istante opponibile esclusivamente da parte dell'amministrazione debitrice.
Come procedere se entro la scadenza prevista la p.a. non certifica il credito. Se entro 60 giorni dalla presentazione dell'istanza di certificazione l'Amministrazione debitrice non rilascia la certificazione ne rileva l'inammissibilità del credito, il creditore può presentare istanza di nomina di un commissario ad acta alla competente Ragioneria territoriale dello Stato utilizzando l'apposito allegato 1-bis, disponibile sul sito del Mef. Il direttore della competente Ragioneria territoriale dello Stato, entro il termine di dieci giorni dal ricevimento dell'istanza nomina un commissario ad acta.
Il commissario ad acta provvede al rilascio della certificazione, entro i successivi cinquanta giorni dalla nomina, e ne da' contestuale comunicazione. Nel caso in cui la domanda di certificazione sia stata fatta mediante piattaforma elettronica, anche l'istanza di nomina di un commissario ad acta deve essere fatta mediante la procedura informatica. Il commissario ad acta provvede al rilascio della certificazione in forme telematiche utilizzando il modello generato dal sistema, conforme all'allegato 2-bis entro i successivi cinquanta giorni dalla nomina, e ne dà contestuale comunicazione all'ente debitore (articolo ItaliaOggi Sette del 25.06.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIDecreto sviluppo. Le «determine». Dirigenti: decisioni da pubblicare on-line.
Gli enti locali sono tenuti a pubblicare le determine, cioè le decisioni dei dirigenti, sull'albo pretorio online.
A chiudere l'incertezza sull'esistenza o no dell'obbligo è il decreto legge sviluppo, approvato il 15 giugno dal Consiglio dei ministri.
Il provvedimento, infatti, punta sulla trasparenza nei rapporti economici tra Pa, imprese e cittadini e introduce una disposizione (dal titolo significativo «amministrazione aperta») che prevede la pubblicità obbligatoria su internet delle spese superiori a 1.000 euro: sovvenzioni, contributi, sussidi e compensi per servizi, incarichi e consulenze. La pubblicazione costituirebbe condizione legale di efficacia del titolo legittimante le concessioni e delle attribuzioni, vale a dire compensi per prestazioni, appalti, contributi, sussidi eccetera.
La norma ha ricadute sugli enti locali. In primo luogo, ha l'effetto, implicitamente, di porre fine in via definitiva alla problematica della sussistenza o no dell'obbligo di pubblicare i provvedimenti gestionali, come le determine, che costituiscono, di fatto, il titolo per lo svolgimento di incarichi, prestazioni e forniture nell'ambito dell'ente locale e il titolo per percepire i compensi.
Finora, infatti, vi è stata incertezza sull'obbligo di pubblicare le determine sull'albo pretorio informatico comunale: alcuni enti ritengono che questo obbligo normativo non sussista, non ritenendo di portata generale la sentenza del Consiglio di Stato 1370 del 2006 secondo la quale «la pubblicazione all'albo pretorio del Comune è prescritta dall'articolo 124 del Testo unico 267/2000 per tutte le deliberazioni del comune e della provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipali) ma anche le determinazioni dirigenziali, esprimendo la parola "deliberazione" ab antiquo sia risoluzioni adottate da organi collegiali che da organi monocratici ed essendo l'intento quello di rendere pubblici tutti gli atti degli enti locali di esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell'organo emanante».
In base al decreto sviluppo, quindi, le determine che comportano impegni di spesa e in specifico quelle di liquidazione, vedrebbero al loro interno un ulteriore elemento costitutivo, ossia la necessaria pubblicazione del loro contenuto sul sito web del comune. Di conseguenza, l'ufficio di ragioneria, prima di emettere il mandato, dovrebbe verificare l'esecuzione di questo adempimento per evitare di incorrere in responsabilità (articolo Il Sole 24 Ore del 25.06.2012).

APPALTI SERVIZIServizi pubblici sotto esame. Ridefinizione per attribuire in esclusiva o liberalizzare le gestioni. Concorrenza. Le indicazioni dell'Antitrust sull'attuazione del percorso delineato dalla legge 148/2011.
La verifica per l'attribuzione dei diritti di esclusiva serve per una complessiva ridefinizione del servizio pubblico locale, consentendo anche di rilevare le criticità più significative. Lo ha chiarito l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, che, per voce di Arduino D'Anna, funzionario della Direzione servizi pubblici locali e promozione concorrenza, durante un convegno organizzato il 20 giugno a Bologna, ha fornito alcune indicazioni sul percorso previsto dall'articolo 4 della legge 148/2011: in base al quale, entro il 13 agosto, gli enti territoriali con più di 10mila abitanti devono inviare all'Authority per il parere obbligatorio le delibere con cui devono decidere se liberalizzare o attribuire diritti di esclusiva sulle gestioni.
La legge 148 riguarda i servizi pubblici di rilevanza economica. D'Anna ha evidenziato come la rilevanza economica derivi dalla possibilità del gestore di realizzare ricavi in grado di coprire i costi, a prescindere dalla circostanza che i primi siano frutto di sussidi pubblici. È quindi irrilevante che il servizio possa essere reso alla collettività senza oneri diretti a carico degli utenti, determinando quindi uno spettro molto ampio di servizi qualificabili come a rilevanza economica. Da questi, tuttavia, l'Autorità sembra escludere quelli sociali, per il loro carattere non profit. Viene evidenziato come l'obbligo di servizio pubblico sia direttamente legato all'esigenza di assicurare l'universalità e l'accessibilità dei servizi pubblici e corrisponda a quella parte di servizi che qualsiasi operatore, se dovesse avere a riguardo solo il proprio interesse commerciale, non assumerebbe o assumerebbe solo se adeguatamente compensato.
L'Autorità rileva come nella verifica per l'attribuzione dei diritti di esclusiva sia necessario analizzare il profilo economico connesso. Infatti le compensazioni per gli obblighi del servizio, che gli enti possono prevedere se necessario, possono celare inefficienze del gestore uscente, ma possono anche violare (in caso di eccesso) le norme comunitarie sugli aiuti di stato. In base a questa valutazione, la scelta tra affidamento in esclusiva dell'intero servizio o la sperimentazione di una concorrenza nel mercato su porzioni di questo (con la liberalizzazione) è legata ai possibili benefici delle due alternative sull'ammontare complessivo delle compensazioni e sulle tariffe pagate dall'utenza.
Rispetto al percorso previsto dall'articolo 4 della legge 148/2011, l'Agcm focalizza vari aspetti critici, a partire dalla definizione degli ambiti territoriali ottimali: sul punto l'Antitrust fornisce un input alle Regioni, evidenziando come l'operazione dovrebbe avvenire non su profili amministrativi, ma in modo da ottenere economie di scala e di differenziazione (con peculiarità per ogni settore). Per l'Autorità l'elemento-chiave è individuato nella definizione dei servizi minimi e degli obblighi di servizio pubblico: occorre aggiornare i dati relativi alla domanda di servizio pubblico e arrivare a una nuova decisione politica in merito alla quantità e qualità di questa domanda che si intende soddisfare con l'intervento pubblico, anche per eliminare sovrapposizioni tra servizi.
Una volta ridefinito il servizio pubblico, l'amministrazione dovrebbe elaborare i dati a disposizione per tracciare una stima della redditività reale o potenziale del servizio o di sue singole parti. Questi dati dovrebbero essere quindi ricondotti a un confronto con gli operatori economici (pubblici e privati), anche per far emergere le attività più redditive e quelle più critiche. A fronte dei dati elaborati e dei riscontri del mercato, secondo l'Agcm, l'amministrazione dovrebbe verificare l'esistenza degli eventuali benefici che deriverebbe dal mantenimento della gestione in esclusiva e quindi liberalizzare tutte le attività per le quali questi benefici non ci sono: come le attività risultanti da sovrapposizioni di servizi, a loro volta desumibili dalla pianificazione.
D'Anna ha proposto, interpretando la norma, che l'obbligatorietà della verifica dovrebbe essere esclusa in tutti quei casi in cui la struttura dei mercati coinvolti sia tale da anticipare ragionevolmente l'assoluta impossibilità di sperimentare forme di concorrenza «nel mercato», ossia nei casi di monopolio naturale.
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le indicazioni sulle gare
01 | I LEGAMI
L'Antitrust raccomanda agli enti locali anzitutto di evitare che la procedura concorsuale possa risentire dell'intreccio tra amministrazione appaltante e impresa controllata. Attenzione quindi alle disposizioni contenute nel bando e nel capitolato di gara: soprattutto alla delimitazione del servizio oggetto dell'appalto, alla ripartizione in lotti, ai requisiti richiesti alle imprese e ai criteri di aggiudicazione.
02 | LE ASSOCIAZIONI TEMPORANEE
Nella gara devono essere inserite clausole per evitare che le associazioni temporanee di operatori economici si configurino non come strumenti di partecipazione, ma come soluzioni per formare intese anticoncorrenziali.
03 | I DIPENDENTI
Sulla clausola di tutela del personale del gestore uscente, l'Agcm precisa che, dato l'obiettivo principale del legislatore di favorire la protezione dei lavoratori, tuttavia l'obbligo di rispettare la clausola sociale non impone un determinato modello di contrattazione collettiva. L'Autorità ha anzi evidenziato più volte le distorsioni legate al fatto che un soggetto pubblico affidante imponga un contratto per i profili economici: la previsione riduce la concorrenza, costituendo una barriera all'entrata o innalzando i costi degli operatori già presenti che adottano un contratto di lavoro diverso.
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Obblighi verso i cittadini, compensazioni eque.
LA PRECISAZIONE/ Nei mercati «aperti» la Pa deve permettere a tutti gli imprenditori di settore di operare contemporaneamente.

Sono in fase di completamento le regole per la verifica finalizzata all'attribuzione dei diritti di esclusiva nei servizi pubblici locali. E alcune modifiche sono state introdotte dal Consiglio di Stato. La sezione consultiva per gli atti normativi ha infatti dato parere favorevole, con il documento 2805 dell'11 giugno, allo schema di decreto ministeriale che definisce il percorso dell'istruttoria e dei contenuti della delibera quadro, previsto dall'articolo 4, comma 33-ter, della legge 148/2011, e ha proposto la riformulazione di numerose disposizioni: modifiche destinate a essere recepite. Inoltre, il Consiglio di Stato ha fornito chiarimenti e alcune definizioni essenziali.
In particolare, il Consiglio di Stato ha spiegato che nei mercati non ancora completamente liberalizzati (nei quali, cioè, non possono operare tutti i soggetti interessati), la pubblica amministrazione si limita a rispettare la concorrenza per il mercato: vale a dire che deve scegliere l'imprenditore cui affidare l'erogazione di un determinato servizio mediante procedure a evidenza pubblica, in modo da assicurare che vengano individuati l'operatore più idoneo a effettuare il servizio e gli investimenti alle migliori condizioni possibili.
In un ambito di servizi liberalizzato, invece, deve essere assicurata la concorrenza nel mercato, che consente agli imprenditori del settore di operare contemporaneamente nel mercato rilevante ad armi pari, riuscendo a soddisfare le esigenze della comunità amministrata, con accesso allo stesso mercato libero o, al più, subordinato al rilascio di autorizzazioni vincolate.
Nel parere si chiarisce anche che in situazioni di monopolio naturale (come nel caso di unicità dell'impianto da gestire), la verifica deve essere anticipata rispetto a quella relativa alla possibilità di procedere a una liberalizzazione, per non appesantire inutilmente l'attività degli enti locali.
Gli enti affidanti, inoltre, dovranno porre attenzione particolare nell'analisi delle compensazioni corrisposte per gli obblighi di servizio pubblico, verificando che non siano eccessive e che non vadano a violare, quindi, la normativa comunitaria in materia (Comunicazioni e decisioni della commissione del 20.12.2011), in quanto verrebbero a configurarsi come aiuti di Stato.
Il Consiglio di Stato evidenzia anche l'obbligatorietà della consultazione degli operatori economici quando non sia possibile stimare la redditività del servizio o non emerga con chiarezza la possibilità di liberalizzare il servizio, o singole fasi di esso.
Per evitare elusioni delle finalità principali della nuova disciplina, il Consiglio di Stato chiede che nel decreto ministeriale sia precisato che l'affidamento in esclusiva dei servizi non deve essere esteso o abbinato ad attività che possono essere svolte in regime di concorrenza.
L'importanza della verifica ai fini del riassetto strategico e dell'affidamento di un servizio pubblico locale è dimostrata, peraltro, da alcune esperienze, come quella del Comune di Torino, che con la deliberazione 78 dell'11 giugno ha approvato il quadro per l'attribuzione dei diritti di esclusiva in relazione ai servizi ambientali (gestione del ciclo integrato dei rifiuti) (articolo Il Sole 24 Ore del 25.06.2012 - link a www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIAIl potere del curatore di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta, necessariamente, il dovere di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti [visto] che la curatela fallimentare non subentr[a] negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell’imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione nell’attività.
Come sostenuto da una consolidata giurisprudenza, condivisa da questo Collegio e già richiamata in sede di adozione della misura cautelare, “il potere del curatore di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta, necessariamente, il dovere di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti (CdS V n. 4328/2003) [visto] che la curatela fallimentare non subentr[a] negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell’imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione nell’attività” (Consiglio di Stato, V, 16.06.2009, n. 3885).
Nel caso di specie, la curatela fallimentare ricorrente, oltre a non avere alcuna responsabilità nella produzione dell’inquinamento del sito individuato dal Comune intimato, non è stata nemmeno autorizzata a procedere alla prosecuzione dell’attività.
Infatti, in un diverso contenzioso instaurato davanti a questo Tribunale –pur relativo alla stessa vicenda fattuale– si è appurato che un’impresa (Isotta Fraschini s.r.l.) ha stipulato dei contratti di affitto di ramo d’azienda con il ricorrente Fallimento A.F.L., nei quali è stato espressamente previsto l’impegno dell’affittuaria del ramo d’azienda a procedere al completamento delle operazioni di smaltimento e alla realizzazione, a propria cura e spese, di tutti gli interventi necessari alla bonifica della predetta area; tali impegni, inoltre, sono stati assunti anche nei confronti della Provincia di Como in sede di richiesta della volturazione dell’Autorizzazione Integrata Ambientale dal Fallimento A.F.L. all’impresa affittuaria del ramo d’azienda, cui di conseguenza è stata imposta l’adozione di un cronoprogramma per lo smaltimento dei rifiuti da eseguire in sostituzione del Fallimento ricorrente (cfr. TAR Lombardia, Milano, IV, 06.09.2011, n. 2166) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 29.06.2012 n. 1872 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di richiesta dell'accertamento della compatibilità paesaggistica, le conseguenze dell’eventuale superamento del termine di 180 gg. previsto dall'art. 167, comma 5, del Codice dei Beni Culturali, non sono quelle ritenute dalla parte, vale a dire l'impossibilità di adottarlo e la conseguente illegittimità del provvedimento finale, ma piuttosto il c.d. silenzio-inadempimento, con conseguente ammissibilità di ricorso ex art. 31 del Codice del processo amministrativo, al fine di "..chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere” e di ottenere una pronuncia di merito se e nel caso in cui il provvedimento omesso abbia natura e contenuto vincolato.
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Si è in presenza di una sopraelevazione anche quando l'aumento dell'altezza del fabbricato sia di dimensioni ridotte e la creazione di volume aggiuntivo non sia rilevante.
Poiché nella circolare n. 33 del 26.09.2009 del Ministero per i Beni e le Attività Culturali si chiarisce che per "volumi" deve intendersi qualsiasi manufatto costruito da parti chiuse emergenti dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d'uso del manufatto, ad esclusione dei volumi tecnici, anche la sopraelevazione (abusiva) come sopra declinata non può essere sanata dal punto di vista ambientale.
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Rispetto al sottotetto e al problema del computo del volume, vanno considerati come volumi tecnici (come tali non rilevanti ai fini della volumetria di un immobile) quei volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati al suo interno, mentre non sono tali -e sono quindi computabili ai fini della volumetria consentita- le soffitte, gli stenditori chiusi e quelli «di sgombero» nonché il piano di copertura, impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà una mansarda in quanto dotato di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda.

Come dedotto in sede difensiva dal Comune intimato, le conseguenze dell’eventuale superamento del termine di 180 gg. previsto dall'art. 167, comma 5, del Codice dei Beni Culturali, non sono quelle ritenute dalla parte, vale a dire l'impossibilità di adottarlo e la conseguente illegittimità del provvedimento finale, ma piuttosto il c.d. silenzio-inadempimento, con conseguente ammissibilità di ricorso ex art. 31 del Codice del processo amministrativo, al fine di "..chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere” e di ottenere una pronuncia di merito se e nel caso in cui il provvedimento omesso abbia natura e contenuto vincolato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza n. 156 del 31.01.2012).
La ricorrente tuttavia non ha impugnato il silenzio dell'Autorità preposta ma ha preferito attendere l'adozione di un provvedimento espresso che è intervenuto e che è stato da essa tempestivamente impugnato.
In ogni caso il Collegio rileva che, come dedotto in sede difensiva, dall’amministrazione intimata, il Responsabile del settore gestione del territorio ha motivato le ragioni del ritardo nella conclusione del procedimento, con la nota prot. n. 15165 del 22.07.2011 indirizzata alla ricorrente ed al suo difensore, e che tali ragioni, alle quali si rinvia, appaiono sostanzialmente plausibili e idonee a giustificare il suddetto ritardo del provvedimento.
Il protrarsi del procedimento peraltro non ha, salvo il protrarsi dello stato di soggettiva incertezza, danneggiato la ricorrente sotto alcun profilo giuridicamente rilevante, e in particolare sotto quello economico, avendo il protrarsi dello stato di fatto consentito di mantenere ferme le opere abusivamente realizzate, nonostante il rigetto della domanda cautelare e la possibilità astratta dell’amministrazione di ordinarne d’ufficio la demolizione.
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In merito al primo profilo, la difesa dell’amministrazione correttamente rileva che con la nota prot. n. 15166 del 22.07.2011, avente ad oggetto il preavviso di diniego sull’accertamento di compatibilità paesaggistica, il Responsabile del settore competente ha puntualmente evidenziato i motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza della ricorrente.
Il provvedimento di diniego che vi ha fatto seguito in data 11.10.2011, inoltre, nel prendere atto delle note del 3 e 05.08.2011 a firma del difensore della ricorrente, precisa che le stesse non hanno consentito di superare i motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, per le motivazioni contenute nello stesso provvedimento: e precisamente per la rilevata circostanza che l'opera abusiva non rientra tra le tipologie di cui all'art. 167, comma IV e 181, comma 1-ter, del D.lgs. 42/2004, specificando ulteriormente, nei termini che seguono, le ragioni di tale conclusione:
a) l’intervento si sostanzia in una sopraelevazione, essendo principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui si è in presenza di una sopraelevazione anche quando l'aumento dell'altezza del fabbricato sia di dimensioni ridotte e la creazione di volume aggiuntivo non sia rilevante (Cass,. Civ. Sez. II 22.02.1999, n. 1474; Cass. Pen. Sez. III 15.06.1998 n. 1898); che l’intervento pertanto ha ad oggetto una nuova costruzione con aumento di volume e modifica della sagoma.
b) nella circolare n. 33 del 26.09.2009 del Ministero per i Beni e le Attività Culturali si chiarisce che per "volumi" deve intendersi qualsiasi manufatto costruito da parti chiuse emergenti dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d'uso del manufatto, ad esclusione dei volumi tecnici.
Orbene, al riguardo la parte ricorrente evidenzia, sempre con i motivi aggiunti, in senso dirimente, il rilascio di un precedente parere favorevole da parte della Sovrintendenza in ordine all'assenza di danno ambientale.
Tuttavia tale rilievo, ancorché corretto in fatto, appare inconferente poiché, come si ricava anche dalla nota della Regione Lombardia (doc. n. 13, prodotto in data 18.10.2011), il parere in questione è stato rilasciato ”esclusivamente sotto il profilo della compatibilità ambientale paesaggistica e fatta salva la verifica da parte dell’autorità competente. In ordine all'effettiva ammissibilità dell’istanza". La predetta nota precisa inoltre che "... spetta al Comune verificare ai fini dell'applicazione della sanzione di cui all'art. 181, comma 1-ter e 1-quater, del Codice l'ammissibilità dell'istanza di compatibilità paesaggistica" (cfr. art. 167, comma 5).
E' pacifico quindi che l'art. 167, IV comma, trovi applicazione unicamente "...in relazione ad interventi di minima rilevanza e consistenza non incidenti ovvero non idonei ad incidere sull'integrità del bene ambiente" (Cass. Pen., Sez. III, 25/02/2011 n. 7216).
Nella fattispecie è da escludersi che tale presupposto ricorra.
Questo TAR, infatti, sulla base di un precedente conforme orientamento del Consiglio di Stato, ha già avuto modo di precisare che: "... rispetto al sottotetto e al problema del computo del volume, si richiama l'orientamento del Consiglio di Stato (sez. IV n. 812 del 07.02.2011, seguito da questa Sezione, nella sentenza n. 1105/2011), secondo cui "vanno considerati come volumi tecnici (come tali non rilevanti ai fini della volumetria di un immobile) quei volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati al suo interno, mentre non sono tali -e sono quindi computabili ai fini della volumetria consentita- le soffitte, gli stenditori chiusi e quelli «di sgombero» nonché il piano di copertura, impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà una mansarda in quanto dotato di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda" (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 38/2012).
Nella fattispecie oggetto del ricorso, è altresì da escludere che ricorra un'ipotesi di "...non percettibilità della modificazione dell'aspetto esteriore del bene protetto ..." (come sostiene la ricorrente a pag. 13 dell'atto di motivi aggiunti).
Infatti, dal verbale di sopralluogo in data 26.06.2008 si ricava che, oltre all'incremento dell'altezza del fabbricato ed alla modifica della sagoma, è stata rilevata "la posa di n. 6 finestre tipo velux di dimensioni 70 cm x 120 cm ciascuna", unitamente ad una serie di ulteriori modifiche anche interne, l’ampliamento del varco di accesso (botola), la creazione della scala di accesso al sottotetto, etc. che evidenziano inequivocabilmente la realizzazione di un nuovo piano abitabile" (come già rilevato dal TAR in sede cautelare).
Pertanto e conclusivamente sul punto, il motivo deve ritenersi interamente infondato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.06.2012 n. 1870 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa vetustà dell'opera non esclude il potere di controllo e il potere sanzionatorio del Comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate.
È, difatti, orientamento consolidato di questa Sezione che la vetustà dell'opera non escluda il potere di controllo e il potere sanzionatorio del Comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate (cfr. fra le tante Tar Lombardia, Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.06.2012 n. 1821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, la giurisprudenza è, difatti, concorde nel ritenere sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l’atto possa essere annullato in sede giurisdizionale.
Il collegio prescinde dall'esame delle censure proposte avverso la parte del provvedimento che lamenta la mancanza del certificato di agibilità: la fondatezza del motivo non porterebbe comunque all’annullamento dell’atto.
In presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, la giurisprudenza è, difatti, concorde nel ritenere sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l’atto possa essere annullato in sede giurisdizionale (Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3259) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.06.2012 n. 1821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’amministrazione comunale non è tenuta ad accertare l’assenso di terzi all’attività del richiedente, o l’eventuale danno che qualcuno potrebbe subire dal provvedimento abilitativo, il quale viene emanato solamente sulla scorta della valutazione del titolo formale di disponibilità dell’area edificabile e con salvezza delle ragioni dei terzi.
L’amministrazione -in sede di verifica dei presupposti della dia (o di rilascio del permesso di costruire)- non è tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti e non può entrare nel merito di possibili contestazioni o controversie tra privati .
L’art. 11, ultimo comma, t.u. edilizia —secondo cui «il rilascio del permesso di costruire non comporta limitazione dei diritti dei terzi»— ha sul punto cristallizzato a livello positivo una prassi amministrativa e giurisprudenziale assolutamente pacifica che aveva ricevuto un primo riconoscimento legale già nell’art. 2, comma 37, lett. c), l. n. 662 del 1996 (che ha novellato l’art. 39 l. n. 724 del 1994; successivamente si veda l’art. 32, comma 31, d.l. n. 269 cit. in materia di condono straordinario).

Quanto, poi, alle problematiche legate ai rapporti di vicinato tra i ricorrenti e il controinteressato, è evidente come la loro soluzione dipenda dalla ricostruzione degli accordi intercorsi tra il dante causa dei ricorrenti e il controinteressato medesimo, così come trasfusi nella convenzione stipulata nel 1957, allegata in atti.
Si tratta, quindi, di problematica di natura privatistica di non facile e pronta soluzione, della quale il Comune deve disinteressarsi, fermo restando che il terzo, ove leso nei propri diritti soggettivi, potrà ottenere satisfattiva tutela davanti al giudice civile, non subendo alcun pregiudizio dal rilascio del titolo (cfr., Cons. Stato, V, 02.02.2012 n. 568, secondo cui l’amministrazione comunale non è tenuta ad accertare l’assenso di terzi all’attività del richiedente, o l’eventuale danno che qualcuno potrebbe subire dal provvedimento abilitativo, il quale viene emanato solamente sulla scorta della valutazione del titolo formale di disponibilità dell’area edificabile e con salvezza delle ragioni dei terzi; id. sez. IV, 30.12.2006, n. 8626).
Più in generale, va ribadito come l’amministrazione -in sede di verifica dei presupposti della dia (o di rilascio del permesso di costruire)- non è tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti e non può entrare nel merito di possibili contestazioni o controversie tra privati (cfr. Consiglio di Stato, 08.11.2011 n. 5894, che si sofferma diffusamente a tratteggiare il quadro delle norme e dei principi che presiedono al rilascio dei titoli edilizi, avuto particolare riguardo all’aspetto della legittimazione del richiedente e degli impedimenti di carattere negoziale; nonché, Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2007, n. 1206; TAR Lazio, Roma 18.02.2005 n. 1408).
L’art. 11, ultimo comma, t.u. edilizia —secondo cui «il rilascio del permesso di costruire non comporta limitazione dei diritti dei terzi»— ha sul punto cristallizzato a livello positivo una prassi amministrativa e giurisprudenziale assolutamente pacifica che aveva ricevuto un primo riconoscimento legale già nell’art. 2, comma 37, lett. c), l. n. 662 del 1996 (che ha novellato l’art. 39 l. n. 724 del 1994; successivamente si veda l’art. 32, comma 31, d.l. n. 269 cit. in materia di condono straordinario) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.06.2012 n. 1816 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'esistenza del vincolo va valutata al momento della domanda di condono, a prescindere dall'epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo stesso. La disamina della domanda di condono edilizio non può infatti prescindere dai vincoli esistenti nel momento in cui la stessa viene esaminata, ancorché essi siano stati introdotti in un momento successivo all'edificazione, pena, al contrario, la sostanziale inoperatività del vincolo medesimo, e la compromissione in via definitiva dei sottesi interessi pubblici di valore primario, culturali, ambientali o paesaggistici.
Il vincolo non rappresenta poi un fattore di preclusione assoluta al condono, imponendo invece un apprezzamento concreto di compatibilità delle opere con i valori tutelati, dovendosi accertare che la costruzione edilizia non comprometta irreparabilmente i detti interessi.
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Per talune pronunce giurisprudenziali in caso di vincolo sopravvenuto l'accertamento della compatibilità delle opere con i valori ambientali e paesaggistici deve essere concreto ed approfondito, e nella motivazione dell'atto devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali la conservazione dell'intervento, conseguente al rilascio della sanatoria, sia incompatibile con i valori tutelati.
Il Collegio condivide in punto di diritto i detti principi, che tuttavia non possono essere invocati nel caso di specie.
La giurisprudenza citata dalla ricorrente si riferisce infatti a provvedimenti di diniego fondati su meri richiami all’esistenza di un vincolo sull’area interessata, senza che, come invece avvenuto nella fattispecie per cui è causa, si desse conto della reale consistenza dei manufatti oggetto di richiesta di sanatoria, della specifica situazione dei luoghi nei quali ricadono, nonché della compatibilità delle opere con la realizzazione di possibili interventi sulle aree interessate.
In particolare, le pronunce invocate dalla ricorrente, si riferivano a “manufatti di modesta entità”, adibiti a deposito attrezzi o comunque a fabbricati rurali, laddove nel caso di che trattasi si è in presenza di edifici a vocazione industriale, di ingenti dimensioni, articolati su due piani (magazzino/deposito), o comunque di rilevante altezza (4,50 per il silos) e superficie (9,90 x 7,40 per il silos e 8,50 x 3 per il magazzino). Per quanto concerne poi la collocazione, le opere abusive di che trattasi sono state realizzate in prossimità del greto del fiume, ossia in un’area in cui l’afferenza degli abusi ad un impianto industriale ne rende particolarmente evidente l’incompatibilità con l’ambiente circostante, ciò che ovviamente attenua gli oneri motivazionali a carico dell’Amministrazione.
Anche in questo caso il raffronto con la casistica citata dalla stessa ricorrente conferma in realtà le scelte operate dall’Amministrazione, trattandosi spesso di sentenze che avevano accolto ricorsi avverso dinieghi di condono di fabbricati rurali edificati in zone che, per quanto vincolate, avevano una vocazione agricola, laddove nel caso di specie il contrasto tra la natura industriale delle opere abusive e la prossimità all’alveo del fiume su cui sono state realizzate è certamente più stridente.
Non può pertanto sostenersi che la motivazione, per quanto non particolarmente estesa, sia insufficiente. La Commissione Edilizia ha infatti avuto cura di verificare, oltreché l’inconciliabilità delle opere con la natura dei luoghi e con la loro valenza ambientale, anche la loro incompatibilità con l’utilizzo futuro dell’area di che trattasi, che alla luce delle sua peculiarità, potrà essere adibita a parco urbano comprensoriale. La possibilità di destinare l’area ad un utilizzo futuro incompatibile con il richiesto condono, costituisce così una motivazione ulteriore e distinta dall’incompatibilità delle opere a suo tempo realizzate con il regime urbanistico.
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Nel caso in cui l'espressione del parere e l'adozione del provvedimento sull'istanza di sanatoria siano di competenza della medesima Amministrazione (nella specie, il Comune), è ben infatti possibile che l'esito negativo dell'esame sulla compatibilità con il vincolo consenta all'Amministrazione di adottare uno actu la determinazione negativa sul complesso procedimento di cui al citato art. 32.

Ai fini dello scrutinio delle censure formulate il Collegio deve preliminarmente affrontare il problema del rapporto tra la situazione vincolistica ed urbanistica presente al momento di realizzazione dell’abuso, e quella eventualmente modificata, medio tempore, al momento in cui si presenta la domanda di condono.
L'esistenza del vincolo va valutata al momento della domanda di condono, a prescindere dall'epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo stesso (C.S. Sez. IV 04.05.2012 n. 2576). La disamina della domanda di condono edilizio non può infatti prescindere dai vincoli esistenti nel momento in cui la stessa viene esaminata, ancorché essi siano stati introdotti in un momento successivo all'edificazione, pena, al contrario, la sostanziale inoperatività del vincolo medesimo, e la compromissione in via definitiva dei sottesi interessi pubblici di valore primario, culturali, ambientali o paesaggistici (TAR Piemonte Sez. II 03.02.2012 n. 143).
Il vincolo non rappresenta poi un fattore di preclusione assoluta al condono, imponendo invece un apprezzamento concreto di compatibilità delle opere con i valori tutelati (C.S. Sez. IV 04.05.2012 n. 2576), dovendosi accertare che la costruzione edilizia non comprometta irreparabilmente i detti interessi (TAR Lazio, Roma, Sez. II 17.01.2012 n. 504).
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A supporto delle proprie censure la ricorrente invoca talune pronunce giurisprudenziali, secondo cui in caso di vincolo sopravvenuto, l'accertamento della compatibilità delle opere con i valori ambientali e paesaggistici deve essere concreto ed approfondito, e nella motivazione dell'atto devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali la conservazione dell'intervento, conseguente al rilascio della sanatoria, sia incompatibile con i valori tutelati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, 01.09.2011 n. 7099, TAR Lazio, sez. II-quater, 05.02.2009 n. 1212).
Il Collegio condivide in punto di diritto i detti principi, che tuttavia non possono essere invocati nel caso di specie.
La giurisprudenza citata dalla ricorrente si riferisce infatti a provvedimenti di diniego fondati su meri richiami all’esistenza di un vincolo sull’area interessata, senza che, come invece avvenuto nella fattispecie per cui è causa, si desse conto della reale consistenza dei manufatti oggetto di richiesta di sanatoria, della specifica situazione dei luoghi nei quali ricadono, nonché della compatibilità delle opere con la realizzazione di possibili interventi sulle aree interessate.
In particolare, le pronunce invocate dalla ricorrente, si riferivano a “manufatti di modesta entità”, adibiti a deposito attrezzi (TAR Lazio n. 7099/2011, TAR Lombardia, Brescia Sez. I 12.02.2010 n. 731) o comunque a fabbricati rurali (TAR Lazio n. 1212/2009), laddove nel caso di che trattasi si è in presenza di edifici a vocazione industriale, di ingenti dimensioni, articolati su due piani (magazzino/deposito), o comunque di rilevante altezza (4,50 per il silos) e superficie (9,90 x 7,40 per il silos e 8,50 x 3 per il magazzino). Per quanto concerne poi la collocazione, le opere abusive di che trattasi sono state realizzate in prossimità del greto del fiume, ossia in un’area in cui l’afferenza degli abusi ad un impianto industriale ne rende particolarmente evidente l’incompatibilità con l’ambiente circostante, ciò che ovviamente attenua gli oneri motivazionali a carico dell’Amministrazione.
Anche in questo caso il raffronto con la casistica citata dalla stessa ricorrente conferma in realtà le scelte operate dall’Amministrazione, trattandosi spesso di sentenze che avevano accolto ricorsi avverso dinieghi di condono di fabbricati rurali edificati in zone che, per quanto vincolate, avevano una vocazione agricola, laddove nel caso di specie il contrasto tra la natura industriale delle opere abusive e la prossimità all’alveo del fiume su cui sono state realizzate è certamente più stridente.
Non può pertanto sostenersi che la motivazione, per quanto non particolarmente estesa, sia insufficiente. La Commissione Edilizia ha infatti avuto cura di verificare, oltreché l’inconciliabilità delle opere con la natura dei luoghi e con la loro valenza ambientale, anche la loro incompatibilità con l’utilizzo futuro dell’area di che trattasi, che alla luce delle sua peculiarità, potrà essere adibita a parco urbano comprensoriale. La possibilità di destinare l’area ad un utilizzo futuro incompatibile con il richiesto condono, costituisce così una motivazione ulteriore e distinta dall’incompatibilità delle opere a suo tempo realizzate con il regime urbanistico.
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Come correttamente evidenziato dalla difesa della resistente, nel diniego impugnato, il Sindaco ha espressamente “fatto proprio” il parere della Commissione, emanando così un atto a contenuto plurimo, comprensivo sia del parere negativo della Commissione, quale autorità subdelegata per la gestione del vincolo, sia il consequenziale diniego di condono.
Nel caso in cui l'espressione del parere e l'adozione del provvedimento sull'istanza di sanatoria siano di competenza della medesima Amministrazione (nella specie, il Comune), è ben infatti possibile che l'esito negativo dell'esame sulla compatibilità con il vincolo consenta all'Amministrazione di adottare uno actu la determinazione negativa sul complesso procedimento di cui al citato art. 32 (C.S. Sez. VI 24.02.2011 n. 1156)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.06.2012 n. 1802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn mancanza di un’espressa indicazione di legge, per i consorzi caratterizzati da minore consistenza organizzativa e privi di personalità giuridica, cioè quelli diversi dai consorzi tra cooperative, tra imprese artigiane e dai consorzi stabili (per i quali l’art. 37, comma 7 e 36, comma 5 del D.Lgs. 163/2006 espressamente prevedono che il consorzio deve indicare per quali imprese concorre), non sarebbe ipotizzabile una partecipazione parziale. Essa, infatti, farebbe venire meno il vincolo dell’organizzazione comune e conseguentemente quello della responsabilità solidale.
In senso opposto, un altro orientamento ritiene che anche il consorzio ordinario, come gli altri consorzi, possa partecipare in forma parziale alle gare pubbliche.
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La partecipazione contemporanea alla stessa gara di due imprese appartenenti al consorzio, autonomamente qualificate, costituisce evenienza in sé ammessa sia in base a quanto prevede l'art. 36, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 –che vieta solo la partecipazione simultanea del "consorzio stabile e dei consorziati"– sia in relazione al disposto dell'art. 37, comma 7, che preclude l’ingresso alla selezione alle sole imprese per le quali il Consorzio, ammesso al confronto comparativo, abbia indicato di concorrere, facendo dunque salva la partecipazione delle restanti consorziate.
Quale che sia la natura del consorzio, esso deve dimostrare il possesso dei requisiti generali di tutti i consorziati che vengono individuati come esecutori delle prestazioni scaturenti dal contratto.

In materia di partecipazione alle gare occorre rilevare che, secondo un indirizzo della giurisprudenza, in mancanza di un’espressa indicazione di legge, per i consorzi caratterizzati da minore consistenza organizzativa e privi di personalità giuridica, cioè quelli diversi dai consorzi tra cooperative, tra imprese artigiane e dai consorzi stabili (per i quali l’art. 37, comma 7 e 36, comma 5 del D.Lgs. 163/2006 espressamente prevedono che il consorzio deve indicare per quali imprese concorre), non sarebbe ipotizzabile una partecipazione parziale. Essa, infatti, farebbe venire meno il vincolo dell’organizzazione comune e conseguentemente quello della responsabilità solidale (Cons. Stato, V, 20.01.2004, n. 156; Cons. Stato, V, 28.07.2011, n. 4524; Tar Toscana, 14.02.2011, n. 317).
In senso opposto, un altro orientamento ritiene che anche il consorzio ordinario, come gli altri consorzi, possa partecipare in forma parziale alle gare pubbliche (Cons. Stato, IV, 21.04.2008, n. 1778; Cons. Stato, V, 08.07.2011, n. 4097; Cons. Stato, III, 28.12.2011, n. 6968; V, 17.05.2012, n. 2825).
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In merito la giurisprudenza (TAR Lombardia, Brescia, I, 07.12.2007, n. 1314) ha chiarito che la partecipazione contemporanea alla stessa gara di due imprese appartenenti al consorzio, autonomamente qualificate, costituisce evenienza in sé ammessa sia in base a quanto prevede l'art. 36, comma 5, del D.Lgs. 163/2006 –che vieta solo la partecipazione simultanea del "consorzio stabile e dei consorziati"– sia in relazione al disposto dell'art. 37, comma 7, che preclude l’ingresso alla selezione alle sole imprese per le quali il Consorzio, ammesso al confronto comparativo, abbia indicato di concorrere, facendo dunque salva la partecipazione delle restanti consorziate (cfr. Consiglio di stato, sez. VI – 23/03/2007, n. 1423).
Il terzo motivo del ricorso principale è altrettanto privo di pregio, ove si consideri che, in via generale e del tutto indipendentemente dalla tipologia del consorzio partecipante a una gara (consorzio stabile o consorzio ordinario), la giurisprudenza ha affermato in diverse occasioni che, quale che sia la natura del consorzio, esso deve dimostrare il possesso dei requisiti generali di tutti i consorziati che vengono individuati come esecutori delle prestazioni scaturenti dal contratto (Cons. St., VI, n. 7380 del 2009, IV, n. 1485 del 2008, IV, n. 3765 del 2007, V, n. 4477 del 2005, CGA Reg. Sic., n. 712 del 2007; Cons. Stato, V, 17.05.2012 n. 2825)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.06.2012 n. 1797 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa mancata indicazione delle cautele seguite per la conservazione della documentazione è un rilievo inammissibile in mancanza di precisazione di avvenute alterazioni, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in concreto non si sia verificata l’alterazione della documentazione specie quando l’apertura dei plichi sia avvenuta in seduta pubblica senza osservazioni da parte dei rappresentati delle ditte presenti.
Il secondo motivo deve essere respinto in quanto, quand'anche non si sia adeguatamente verbalizzato il processo di custodia delle buste contenenti le offerte, ciò, tuttavia, è irrilevante in quanto non è stato addotto alcun elemento concreto e specifico atto a far ritenere che possa essersi verificata la sottrazione o la sostituzione dei pieghi, la manomissione delle offerte o un altro fatto rilevante ai fini della regolarità della procedura.
Appare, infatti, condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “la mancata indicazione delle cautele seguite per la conservazione della documentazione è un rilievo inammissibile in mancanza di precisazione di avvenute alterazioni, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in concreto non si sia verificata l’alterazione della documentazione specie quando l’apertura dei plichi sia avvenuta in seduta pubblica senza osservazioni da parte dei rappresentati delle ditte presenti” (Cons. Stato, Sez. V, 11.08.2010, n. 5624; Cons. Stato, Sez. III, 22.11.2011, n. 6146 riferita ad un caso di apertura della busta tecnica in seduta riservata) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.06.2012 n. 1794 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa Scia è materia riservata allo stato. Respinti i ricorsi di quattro regioni.
La Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) va ricondotta al parametro dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, II comma, lettera m) Cost. e, in quanto tale, rientra nella competenza dello Stato.
È quanto ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza 27.06.2012 n. 164 respingendo i ricorsi presentati da Toscana, Liguria, Emilia Romagna, e Regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste.
A distanza di due anni, quindi, dalla modifica dell'articolo 19 della legge 241/1990, con l'introduzione della Scia (immediatamente efficace) in luogo della Dia (ad efficacia differita) il giudice delle leggi ha affermato che la disciplina della Scia attiene ai livelli essenziali delle prestazioni e, quindi, di competenza dello stato. Ciò in quanto tale affidamento in via esclusiva si collega al fondamentale principio di uguaglianza stabilito dall'art. 3 della Costituzione. Ciò comporta, inevitabilmente, ha osservato la Corte, una restrizione dell'autonomia legislativa delle regioni, allo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione.
La Corte ha invece condiviso uno dei motivi di ricorso delle regioni, ovvero che la Scia non poteva considerarsi attinente anche alla tutela della concorrenza, così come affermato dall'art. 49, commi 4-bis e 4-ter, del dl 78/2010. Il riferimento alla «tutela della concorrenza» contenuto nella legge che ha introdotto il nuovo istituto, ha rilevato la Corte, è del tutto inappropriato. Perché detta disciplina ha un ambito applicativo diretto alla generalità dei cittadini e perciò va oltre tale materia. anche se è ben possibile che vi siano casi nei quali quella materia venga in rilievo. Uno dei motivi di ricorso delle regioni riguardava anche la Scia ed il settore dell'edilizia.
A tale proposito, la Corte ha sottolineato che ogni dubbio interpretativo circa l'applicabilità a tale settore è stato superato in forza del fatto che il legislatore è intervenuto successivamente con il dl 70/2011. Ma relativamente a tale aspetto ha precisato che «non può porsi in dubbio che le esigenze di semplificazione e di uniforme trattamento sull'intero territorio nazionale valgano anche per l'edilizia anche se questa, come l'urbanistica, rientra nel governo del territorio», materia appartenente alla competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni» (articolo ItaliaOggi del 28.06.2012 - link a www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il criterio della minore età viene introdotto nell’ordinamento quale elemento preferenziale nel reclutamento nel pubblico impiego, a parità di merito e degli altri titoli (di preferenza indicati nel comma 4 dell’art. 5 D.P.R. n. 487/1994.
Nel ricorso originario è stata evidenziata la violazione dell’art. 5 del D.P.R. n. 487/1994, laddove la più giovane età del sig. Valerio Catalano è stata ritenuta prevalente, rispetto al titolo di preferenza dichiarato dall’ing. Irace nella domanda di partecipazione al concorso di coniugato con figli a carico, titolo questo previsto al n. 18 del comma 4 dell’art. 5 del D.P.R. citato.
Le argomentazioni effettuate in sede di originario ricorso, tutte vertenti su tale tema, sulla vigenza e sugli effetti del disposto di cui al n. 18 del comma 4 posto in relazione al successivo comma 5 dello stesso art. 5, individuano chiaramente la materia del contendere.
Occorre dunque ora esaminare il primo e fondamentale motivo di censura, con il quale in modo articolato l’appellante sostiene che nella sentenza impugnata vi sarebbe stata una erronea applicazione dell’art. 5, commi 4 e 5 del D.P.R. n. 487/1994, in quanto con la innovazione introdotta dalle cc.dd. “leggi Bassanini” (v. art. 3, comma 7, della legge n. 127/1997) il criterio della minore età sarebbe divenuto ragione di preferenza, mentre il criterio del numero dei figli a carico sarebbe applicabile in maniera residuale, quando i candidati a pari merito abbiano la medesima età.
Le citate disposizioni recitano:
- (art. 5, commi 4 e 5, d.p.r. n. 487/1994)
4. Le categorie di cittadini che nei pubblici concorsi hanno preferenza a parità di merito e a parità di titoli sono appresso elencate.
A parità di merito i titoli di preferenza sono:
……
17) coloro che abbiano prestato lodevole servizio a qualunque titolo, per non meno di un anno nell'amministrazione che ha indetto il concorso;
18) i coniugati e i non coniugati con riguardo al numero dei figli a carico;
…......
5. A parità di merito e di titoli la preferenza è determinata:
a) dal numero dei figli a carico, indipendentemente dal fatto che il candidato sia coniugato o meno;
b) dall'aver prestato lodevole servizio nelle amministrazioni pubbliche;
c) dalla maggiore età.

- art. 3, comma 7, della legge n. 127/1997
7. Sono aboliti i titoli preferenziali relativi all'età e restano fermi le altre limitazioni e i requisiti previsti dalle leggi e dai regolamenti per l'ammissione ai concorsi pubblici. Se due o più candidati ottengono, a conclusione delle operazioni di valutazione dei titoli e delle prove di esame, pari punteggio, è preferito il candidato più giovane di età.
Va premesso che diversamente da quanto sostenuto dall’appellante non è in discussione la vigenza e il disposto dell’art. 3, comma 7, della legge n. 127/1997 come modificato dalla legge n. 191/1998, la cui legittimità è stata confermata dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 268/2001.
La Corte Costituzionale ha infatti ritenuto la manifesta infondatezza della q.l.c. dell’art. 3, comma 7, L. n. 127 del 1997, come modificato dall’art. 2, comma 9, L. n. 191 del 1998, censurato, per violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., in quanto verrebbe capovolto, senza che vi soccorra una adeguata giustificazione, un criterio “fondamentale nei concorsi pubblici” quale quello della preferenza, a parità di altri titoli, accordata al candidato in relazione all’età.
La Corte ha ritenuto rientrassero nella discrezionalità del legislatore i requisiti attinenti all’età dei concorrenti e la loro valutabilità, ma non ha con questo escluso la valutazione degli altri titoli posseduti dal candidato nell’ordine stabilito dalla normativa vigente.
Il Consiglio di Stato, poi, nella decisione della Sez. V del 07.11.2009, n. 5234, evocata dalle parti e diversamente considerata, evidenzia che “l’art. 5, comma 5, D.P.R. n. 487/1994, si deve intendere parzialmente abrogato (per incompatibilità sopravvenuta) dall’art. 3, comma 7, L. 127/1997 (c.d. “Bassanini 2”), modif. art. 2, L. n. 191/1998 (c.d. “Bassanini 3”)”.
Conseguentemente il criterio della minore età viene introdotto nell’ordinamento quale elemento preferenziale nel reclutamento nel pubblico impiego, a parità di merito e degli altri titoli (di preferenza indicati nel comma 4 dell’art. 5).
Né il legislatore, né la Corte Costituzionale hanno d’altra parte messo in forse la vigenza del comma 4 dell’art. 5 del D.P.R. 487/1994, che elenca i titoli di preferenza valutabili con precedenza rispetto alla preferenza accordata, in via subordinata dal successivo comma 5.
Tra i titoli di preferenza valutabili al n. 18 del comma 4 sono presi in considerazione il numero dei figli a carico del candidato, indipendentemente di un rapporto di coniugio esistente.
Come correttamente ritenuto dal TAR, sulla base anche della giurisprudenza evocata, l’Amministrazione Provinciale, nell’approvare la graduatoria finale del concorso aveva l’obbligo di valutare i titoli di preferenza di cui al comma 4 dell’art. 5 del D.P.R. 487/1994 e, nel caso di interesse, il titolo previsto al n. 18 del comma 4 e cioè lo stato di soggetto con figli a carico del candidato ing. Giuseppe Irace.
Le fattispecie relative alla minore età e al servizio prestato in amministrazione diversa da quella che ha bandito il concorso, non dovevano invece essere oggetto di considerazione, in quanto previste dal successivo comma 5 dell’art. 4 e quindi solo eventuali (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.06.2012 n. 3733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sussiste la necessità della determinazione e verbalizzazione dei criteri di valutazione delle prove concorsuali in un momento nel quale non può sorgere il sospetto che essi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti.
Comunque, v'è legittimità della determinazione dei predetti criteri anche dopo la loro effettuazione, purché prima della loro concreta valutazione.

Il principio della determinazione dei criteri di valutazione delle prove concorsuali deve essere infatti inquadrato nell'ottica della trasparenza dell'attività amministrativa, che comporta la necessità della determinazione e verbalizzazione di essi criteri in un momento nel quale non può sorgere il sospetto che essi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti, con conseguente legittimità della determinazione dei predetti criteri di valutazione delle prove concorsuali, anche dopo la loro effettuazione, purché prima della loro concreta valutazione (Consiglio Stato, sez. IV, 22.09.2005, n. 4989) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.06.2012, n. 3731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa circolare ministeriale non vincola il giudice.
Le circolari ministeriali non sono vincolanti per il giudice penale, nell'ambito di un processo per evasione fiscale, per quello tributario né tantomeno per gli uffici sottoposti e per il contribuente. Si tratta di atti interni alla pubblica amministrazione.

È questo il chiarimento fornito dalla Corte di Cassazione con la sentenza 25.06.2012 n. 25170.
Lo spunto per ribadire a ampliare un principio già sancito nell'ambito del contenzioso fiscale è stato fornito ai giudici con l'Ermellini da una controversia edilizia. In particolare il ricorso alla Suprema corte è stato presentato in opposizione a un ordine di demolizione di un'abitazione abusiva. L'uomo aveva rivendicato l'interpretazione di alcune norme sul condono edilizio da parte del Ministero.
Sul punto la terza sezione penale ha chiarito che la circolare interpretativa è atto interno alla pubblica amministrazione che si risolve in un mero ausilio interpretativo e non esplica alcun «effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto con l'evidenza del dato normativo». Già le Sezioni unite civili avevano precisato in materia tributaria che la natura di atti meramente interni alla pubblica amministrazione delle circolari interpretative fa si che queste esprimano esclusivamente «un parere non vincolante per il contribuente, per gli uffici, per la stessa autorità che l'ha emanata e per il giudice».
In altri termini, la circolare emanata nella materia tributaria non vincola il contribuente, che resta pienamente libero di non adottare un comportamento a questa uniforme, in piena coerenza con la regola che in un sistema tributario basato essenzialmente sull'auto tassazione, la soluzione delle questioni interpretative è affidata (almeno in una prima fase, quella, appunto, della determinazione dell'imposta da corrispondere) direttamente al contribuente. Di più. La circolare nemmeno vincola gli uffici gerarchicamente sottordinati, ai quali non è vietato di disattenderla (evenienza, questa, che, peraltro, è raro che si verifichi nella pratica), senza che per questo il provvedimento concreto adottato dall'ufficio (atto impositivo, diniego di rimborso ecc.) possa essere ritenuto illegittimo per violazione della circolare. Infatti, se le indicazioni della circolare sono sbagliate, l'atto emanato sarà legittimo perché conforme alla legge (articolo ItaliaOggi del 26.06.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTI: V'è la sussistenza in capo al cessionario dell’onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), del Codice dei contratti (d.lgs. n. 163 del 2006) anche in riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la cedente nell’ultimo triennio (ora nell’ultimo anno), sul fondamentale rilievo che «la responsabilità per fatto di soggetto giuridico terzo a cui soggiace il cessionario trova risposta nel principio ubi commoda, ibi incommoda: il cessionario, come si avvale dei requisiti del cedente sul piano della partecipazione a gare pubbliche, così risente delle conseguenze, sullo stesso piano, delle eventuali responsabilità del cedente».
Né l’impresa cessionaria potrebbe invocare quale esimente il fatto di non conoscere i nominativi degli amministratori della società cedente e, tanto meno, i loro precedenti penali ove gli stessi non risultino dai certificati del casellario giudiziale, poiché «il segnalato inconveniente può esser agevolmente superato dal cessionario attraverso l’adozione di opportune cautele, quali il pretendere dall’impresa che si intenda acquisire l’attestazione circa intervenute condanne o indagini penali già in corso sui rispettivi vertici amministrativi e tecnici per reati che incidano sull’affidabilità morale e professionale, nonché prevedendo penali o garanzie o risoluzione della cessione al verificarsi di tali fatti, suscettibili di risolversi negativamente per tali soggetti entro il successivo triennio (ora entro il successivo anno)».

Sulla questione di principio dedotta con il primo motivo dell’appello incidentale –se l’obbligo di rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38, co. 1, lett. c), debba riferirsi (oltre che pacificamente agli amministratori delle società cessionarie) anche agli amministratori delle società cedenti l’azienda o rami di azienda in favore dell’impresa che partecipa alla gara– si è di recente pronunciata l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 10 del 2012, risolvendo il contrasto interpretativo sorto in giurisprudenza.
La Plenaria ha riconosciuto la sussistenza in capo al cessionario dell’onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), del Codice dei contratti (d.lgs. n. 163 del 2006) anche in riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la cedente nell’ultimo triennio (ora nell’ultimo anno), sul fondamentale rilievo che «la responsabilità per fatto di soggetto giuridico terzo a cui soggiace il cessionario trova risposta nel principio ubi commoda, ibi incommoda: il cessionario, come si avvale dei requisiti del cedente sul piano della partecipazione a gare pubbliche, così risente delle conseguenze, sullo stesso piano, delle eventuali responsabilità del cedente».
Né, ha osservato la Plenaria, l’impresa cessionaria potrebbe invocare quale esimente –come dedotto nel caso di specie dalla difesa di Manutencoop- il fatto di non conoscere i nominativi degli amministratori della società cedente e, tanto meno, i loro precedenti penali ove gli stessi non risultino dai certificati del casellario giudiziale, poiché -si legge nella citata sentenza– «il segnalato inconveniente può esser agevolmente superato dal cessionario attraverso l’adozione di opportune cautele, quali il pretendere dall’impresa che si intenda acquisire l’attestazione circa intervenute condanne o indagini penali già in corso sui rispettivi vertici amministrativi e tecnici per reati che incidano sull’affidabilità morale e professionale, nonché prevedendo penali o garanzie o risoluzione della cessione al verificarsi di tali fatti, suscettibili di risolversi negativamente per tali soggetti entro il successivo triennio (ora entro il successivo anno)» (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 25.06.2012 n. 3718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Ammesso il “vaffa” una tantum al capo. Via libera al 'vaffa' al capufficio una tantum.
Lo sancisce la Cassazione, sottolineando come l'offesa al superiore gerarchico -se resta circoscritta ad un episodio e non dà adito ad altre contrapposizioni nel tempo- non può essere sanzionata con il licenziamento. Togliersi un sassolino col superiore per una volta non "compromette il rapporto fiduciario con l'azienda". In questo modo, la sezione Lavoro ha bocciato il ricorso di un'azienda abruzzese, la Mag., che si opponeva alla reintegra di un dipendente, Fernando S., 'reo' di avere offeso la signora Mirella R., superiore gerarchica, mandandola sostanzialmente 'a quel paese'.
La lite giudiziaria -ricostruisce la sentenza 10426/2012- era scaturita soprattutto dal fatto che l'offesa aveva urtato il capufficio in quanto donna. Ne era seguito il licenziamento disciplinare il 21.10.2005 poi annullato dal Tribunale di Chieti il 18.03.2009 alla luce del fatto che l'offesa era stata episodica. Inutile il ricorso dell'azienda in Cassazione volto a riottenere l'allontanamento del dipendente per la sua condotta "gravemente ingiuriosa e intimidatoria al superiore gerarchico donna deriso e apostrofato".
Piazza Cavour ha respinto il ricorso dell'azienda e ha sottolineato che la motivazione della Corte d'appello dell'Aquila "appare congrua e logicamente coerente e supportata da precisi ed univoci riferimenti alle risultanze processuali che hanno consentito di ridimensionare la gravitò dei fatti e di circoscrivere l'episodio che, sia pure censurabile, non dimostra la volontà" del dipendente "di sottrarsi alla disciplina aziendale e di insubordinarsi, essendo rimasto nei limiti di una intemperanza verbale". Ancorché "stigmatizzabile", ma non meritevole di licenziamento. L'azienda dovrà anche rifondere l'avvocato del dipendente con 2.500 euro (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 22.06.2012 n. 10426 - commento tratto da w link a www.diritto24.ilsole24ore.com).

APPALTI: Nell'interpretazione delle clausole del bando per l'aggiudicazione di un contratto della P.A. deve darsi prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze nell'applicazione.
Inoltre, tutte le disposizioni che in qualche modo regolano i presupposti, lo svolgimento e la conclusione della gara, siano esse contenute nel bando ovvero nella lettera d'invito e nei loro allegati (capitolati, convenzioni e simili), concorrono a formarne la disciplina e ne costituiscono, nel loro insieme, la lex specialis, per cui, in caso di oscurità ed equivocità, un corretto rapporto tra Amministrazione e privato, che sia rispettoso dei principi generali del buon andamento dell'azione amministrativa e di imparzialità e di quello specifico enunciato nell'art. 1337 c.c. (dovere di buona fede delle parti nello svolgimento delle trattative), impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a tutelare l'affidamento degli interessati, interpretandola per ciò che essa espressamente dice, e restando il concorrente dispensato dal ricostruire, attraverso indagini ermeneutiche ed integrative, ulteriori ed inespressi significati.

Innanzitutto, nell'interpretazione delle clausole del bando per l'aggiudicazione di un contratto della P.A. deve darsi prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze nell'applicazione (C.d.S., V, 30.08.2005, n. 4413).
Inoltre, tutte le disposizioni che in qualche modo regolano i presupposti, lo svolgimento e la conclusione della gara, siano esse contenute nel bando ovvero nella lettera d'invito e nei loro allegati (capitolati, convenzioni e simili), concorrono a formarne la disciplina e ne costituiscono, nel loro insieme, la lex specialis, per cui, in caso di oscurità ed equivocità, un corretto rapporto tra Amministrazione e privato, che sia rispettoso dei principi generali del buon andamento dell'azione amministrativa e di imparzialità e di quello specifico enunciato nell'art. 1337 c.c. (dovere di buona fede delle parti nello svolgimento delle trattative), impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a tutelare l'affidamento degli interessati, interpretandola per ciò che essa espressamente dice, e restando il concorrente dispensato dal ricostruire, attraverso indagini ermeneutiche ed integrative, ulteriori ed inespressi significati (C.d.S., V, 01.03.2003, n. 1142) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.06.2012 n. 3687 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di una azione giudiziale, ma ha carattere autonomo rispetto a essa, cosicché il giudice dell’accesso deve accertare solo l’esistenza dei presupposti che legittimano la richiesta di accesso e non anche la necessità di utilizzare gli atti richiesti in un altro giudizio, ad es. dinanzi al giudice civile, fermo restando però che la disciplina sull’accesso non può essere rivolta a tutelare l’interesse a eseguire un controllo generico e generalizzato sull’attività della P.A..
Detto altrimenti, la necessaria sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui è chiesto l’accesso, alla quale fa riferimento l’art. 22/B) della l. n. 241/1990 non significa che l’accesso sia stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio della situazione sottostante. Esso assume invece una valenza autonoma, non dipendente dalla sorte del processo principale eventualmente instaurato e dalla stessa possibilità di instaurazione di tale processo. In questa prospettiva, il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza, sancito dall’art. 22/B) della l. n. 241/1990, non può che essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse.
La domanda di accesso ai documenti amministrativi non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto richiedente, il quale deve specificare il nesso che lega il documento richiesto alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela; detta domanda deve, inoltre, indicare i presupposti di fatto idonei a rendere percettibile l'interesse specifico, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento “de quo”.

In via preliminare e generale, come questa Sezione ha più volte osservato (si vedano le decisioni nn. 942/2011 e 3309/2010, e ivi richiami ulteriori), il diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di una azione giudiziale, ma ha carattere autonomo rispetto a essa, cosicché il giudice dell’accesso deve accertare solo l’esistenza dei presupposti che legittimano la richiesta di accesso e non anche la necessità di utilizzare gli atti richiesti in un altro giudizio, ad es. dinanzi al giudice civile, fermo restando però che la disciplina sull’accesso non può essere rivolta a tutelare l’interesse a eseguire un controllo generico e generalizzato sull’attività della P.A..
Detto altrimenti, la necessaria sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui è chiesto l’accesso, alla quale fa riferimento l’art. 22/B) della l. n. 241/1990 non significa che l’accesso sia stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio della situazione sottostante. Esso assume invece una valenza autonoma, non dipendente dalla sorte del processo principale eventualmente instaurato e dalla stessa possibilità di instaurazione di tale processo. In questa prospettiva, il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza, sancito dall’art. 22/B) della l. n. 241/1990, non può che essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (Cons. St., V, 3309/2010 e ivi rif.).
La giurisprudenza (Cons. St., V, nn. 5226 e 3309 del 2010) ha aggiunto che la domanda di accesso ai documenti amministrativi non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto richiedente, il quale deve specificare il nesso che lega il documento richiesto alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela; detta domanda deve, inoltre, indicare i presupposti di fatto idonei a rendere percettibile l'interesse specifico, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento “de quo” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.06.2012 n. 3683 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tralicci per antenne: se la Soprintendenza dice no, il comune deve convocare la conferenza di servizi.
Con la sentenza 22.06.2012 n. 878, il TAR Veneto, Sez. II, ha esaminato un caso nel quale il dirigente dello sportello unico attività produttive del comune ha negato il permesso di costruire in sanatoria richiesto dalla ricorrente per la realizzazione di un traliccio porta antenne per radiocomunicazioni con contestuale riavvio del procedimento sanzionatorio, a seguito dei provvedimenti con i quali il soprintendente ha espresso il parere vincolante negativo per l'installazione di un traliccio porta antenne per radiocomunicazioni.
Il TAR ha ritenuto illegittimo quanto deciso del comune: "Va rilevato in primo luogo l’esistenza di un vizio di violazione di legge in quanto riferita agli art. 86 e 87 del D.Lgs 01/08/2003 n. 259. Dette norme, nel rilevare come le infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici costituiscano delle opere di urbanizzazione primaria di cui all’art. 16, comma 7, del DPR 380/2001, subordinano il rilascio dell’autorizzazione alla convocazione di una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 87 del D.Lgs 01/08/2003 n. 259 e, ciò, in presenza di un dissenso da parte di un’Amministrazione interessata. Nulla di tutto ciò ha posto in essere il Comune che si è limitato a fare proprio il parere della Soprintendenza e ad emettere il provvedimento di diniego impugnato".
Il TAR afferma, dunque, che la legge speciale n. 259/2003 prevale sulla disciplina generale del vincolo paesaggistico (decreto legislativo 42 del 2004).
In conclusione, di fronte a un diniego da parte della Soprintendenza, bisogna convocare una conferenza di servizi, convocando anche la Soprintendenza, per svolgere approfondimenti istruttori (commento tratto da e link a http://venetoius.myblog.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul rapporto tra ordine di sospensione lavori e ordinanza di demolizione.
Sia l’ordinanza di sospensione sia l’ordinanza di rimozione o demolizione si inseriscono nella medesima sequenza funzionale e procedimentale in quanto atti, tutti, diretti a sanzionare l’esistenza di abusi edilizi ed urbanistici presumibilmente verificati dall’Amministrazione comunale.
Va comunque rilevata l’autonomia di ciascuno di essi in quanto diretti a tutelare differenti interessi. Se infatti l’ordinanza di sospensione dei lavori ha essenzialmente una funzione cautelare ed, in quanto tale diretta, ed evitare il protrarsi degli effetti correlati ad un presunto illecito e abuso, l’ordinanza di riduzione in pristino costituisce l’inevitabile sanzione dell’abuso oramai accertato ed è diretta in quanto tale ad adeguare la situazione di fatto a quella di diritto.

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Quando l’atto finale, pur facendo parte della stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto preparatorio, non ne costituisca conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi anche di terzi soggetti, l’immediata impugnazione dell’atto preparatorio non fa venir meno la necessità dell’impugnazione dell’atto finale”.
In linea generale, nell'ambito del rapporto di presupposizione corrente fra atti inseriti all'interno di un più ampio contesto procedimentale …… occorre distinguere fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante; nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto determina l'automatico travolgimento dell'atto conseguenziale, senza bisogno che quest'ultimo sia stato autonomamente impugnato; mentre in caso di illegittimità ad effetto viziante l'atto consequenziale diviene invalido per vizio di invalidità derivata, ma resta efficace salva apposita ed idonea impugnazione, resistendo all'annullamento dell'atto presupposto".
Ne consegue che l’ordinanza di rimozione, proprio in considerazione della natura giuridica del provvedimento sopra ricordata, non può essere considerata un atto meramente confermativo o esecutivo, ma al contrario un provvedimento che comporta comunque una nuova ed autonoma valutazione degli interessi pubblici sottostanti. Nel caso di specie infatti l’Amministrazione avrebbe potuto far seguire l’ordinanza di sospensione dei lavori, da un diverso provvedimento e, ciò, una volta esaurita l’indispensabile istruttutoria in relazione al presunto abuso contestato.

Il ricorso è fondato e va accolto sulla base dei motivi di seguito precisati.
Si deve rilevare come sul punto risulti determinante la sentenza pronunciata da questo Tribunale n. 522/2012 con la questa si è sancito l’annullamento dell’ordinanza di sospensione dei lavori già intimata dal Comune di Rovigo e con riferimento alla stessa vicenda (e procedimento) di cui è oggetto il presente giudizio.
Il Comune, malgrado la sentenza di annullamento di questo Tribunale, si è determinato nel proseguire il procedimento già instaurato e relativo al presunto venire in essere della violazione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione unica rilasciata dalla Regione Veneto per la realizzazione ed all’esercizio di un impianto di cogenerazione per la produzione di energia termica ed elettrica nel Comune di Rovigo.
E’ necessario rilevare come, sia l’ordinanza di sospensione annullata con la sentenza n. 522/2012 sia, l’ordinanza di rimozione o demolizione di cui si tratta nel presente giudizio, si inseriscono nella medesima sequenza funzionale e procedimentale in quanto atti, tutti, diretti a sanzionare l’esistenza di abusi edilizi ed urbanistici presumibilmente verificati dall’Amministrazione comunale (in questo senso TAR Lazio 14.02.2005 n. 1264). Malgrado l’incidenza degli atti sopra citati nello stesso procedimento amministrativo, va comunque rilevata l’autonomia di ciascuno di essi in quanto diretti a tutelare differenti interessi. Se infatti l’ordinanza di sospensione dei lavori ha essenzialmente una funzione cautelare ed, in quanto tale diretta, ed evitare il protrarsi degli effetti correlati ad un presunto illecito e abuso, l’ordinanza di riduzione in pristino costituisce l’inevitabile sanzione dell’abuso oramai accertato ed è diretta in quanto tale ad adeguare la situazione di fatto a quella di diritto.
Ricordati i caratteri fondamentali dei due provvedimenti di cui si tratta risulta evidente come l’annullamento dell’atto presupposto (e quindi l’ordinanza di sospensione dei lavori) abbia determinato, se non l’effetto caducante, certamente l’invalidità derivata dell’ordinanza di rimozione impugnata con il presente ricorso. Questo Collegio è a conoscenza del dibattito giurisprudenziale che ha riguardato l’individuazione dei presupposti dell’invalidità ad effetto caducante.
Detta diversità di orientamenti è stata ricomposta ad unità con la sentenza del Consiglio di Stato n. 5539 del 23.10.2007 nella parte in cui (e con riferimento alla questione di cui si tratta) ha sancito che…. "al contrario quando l’atto finale, pur facendo parte della stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto preparatorio, non ne costituisca conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi anche di terzi soggetti l’immediata impugnazione dell’atto preparatorio non fa venir meno la necessità dell’impugnazione dell’atto finale”.
Ancora più di recente un’ulteriore pronuncia del Consiglio di Stato (n. 6359/2011 e sebbene in materia dell’evidenza pubblica) ha sancito che… ”In linea generale, nell'ambito del rapporto di presupposizione corrente fra atti inseriti all'interno di un più ampio contesto procedimentale …… occorre distinguere fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante; nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto determina l'automatico travolgimento dell'atto conseguenziale, senza bisogno che quest'ultimo sia stato autonomamente impugnato; mentre in caso di illegittimità ad effetto viziante l'atto consequenziale diviene invalido per vizio di invalidità derivata, ma resta efficace salva apposita ed idonea impugnazione, resistendo all'annullamento dell'atto presupposto" (da ultimo Cons. giust. amm., 15.04.2009, n. 235; Cons. Stato, sez. V, 17.12.2008, n. 6289; sez. V, 28.03.2008, n. 1331; sez. I, 17.01.2007, n. 4915/2006).
Ne consegue che l’ordinanza di rimozione, proprio in considerazione della natura giuridica del provvedimento sopra ricordata, non può essere considerata un atto meramente confermativo o esecutivo, ma al contrario un provvedimento che comporta comunque una nuova ed autonoma valutazione degli interessi pubblici sottostanti. Nel caso di specie infatti l’Amministrazione avrebbe potuto far seguire l’ordinanza di sospensione dei lavori, da un diverso provvedimento e, ciò, una volta esaurita l’indispensabile istruttutoria in relazione al presunto abuso contestato.
Sul punto va pertanto constato il venire in essere di un efficacia invalidante che determina illegittimità dell’atto impugnato e, ciò in considerazione del fatto che il provvedimento impugnato contiene lo stesso percorso logico e motivazionale dell’ordinanza di sospensione dei lavori, espunta dall’ordinamento giuridico con la sentenza di questo Tribunale.
In definitiva è essenziale rilevare che il rapporto di presupposizione fra atto di sospensione dei lavori ed ordinanza di rimozione graduatoria si pone in termini di invalidità viziante e non caducante, atteso che la volontà provvedimentale dell'amministrazione si esprime solo a conclusione dell'intero procedimento concorsuale e, ciò, pur in presenza di un provvedimento che riprende lo stesso percorso logico e motivazionale del provvedimento annullato.
Va in ultimo stigmatizzato il comportamento del Comune che pur in presenza di una pronuncia di annullamento reitera non porta ad esecuzione un provvedimento giurisdizionale, ma reitera un atto con un contenuto analogo a quello annullato.
Deve al contrario rigettarsi la richiesta di parte ricorrente diretta ad ottenere una pronuncia di accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato sull’istanza di revoca in autotutela presentata da E-factory in data 17/04/2012.
Sul punto va, infatti, rilevato, in ossequio ad un principio confermato da una recentissima pronuncia del Consiglio di Stato (03.05.2012 n. 2549) che i provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale e, in relazione ai quali l’Amministrazione non ha alcun obbligo di attivare il procedimento richiesto. Qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 22.06.2012 n. 873 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza minima di 10 metri fra pareti finestrate è prevista dalla norma –assolutamente inderogabile e prevalente sulle eventuali differenti prescrizioni degli strumenti urbanistici– di cui all’art. 9 del DM 1444/1968.
In ordine alle distanze, come risulta dalla tavola planimetrica (doc. 5 del Comune), l’edificio del ricorrente, insistente sul mappale 629, é distante 2,1 metri dal mappale 826, oltre che meno di 10 metri dall’edificio con parete finestrata di cui al mappale 160.
Si tratta di distanze inferiori a quelle di legge; in particolare la distanza minima di 10 metri fra pareti finestrate è prevista dalla norma –assolutamente inderogabile e prevalente sulle eventuali differenti prescrizioni degli strumenti urbanistici– di cui all’art. 9 del DM 1444/1968 (sul carattere inderogabile della norma, applicabile a qualsivoglia intervento edilizio, anche di ristrutturazione, si vedano, fra le tante, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 08.09.2011, n. 2187 e 04.11.2011, n. 2654; TAR Piemonte, sez. I, 17.01.2007, n. 22 e TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 03.07.2008, n. 788).
Il Comune non poteva pertanto avallare un intervento edilizio in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici e della normativa in materia di distanze minime fra edifici (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.06.2012 n. 1721 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATASulla correlazione tra zonizzazione acustica e zonizzazione urbanistica.
La classificazione acustica del territorio comunale –c.d. zonizzazione acustica– avente il proprio fondamento nell’art. 4 e nell’art. 6 della legge quadro sull’inquinamento acustico n. 447/1995, deve tenere conto di quella urbanistica, al fine di evitare illogiche discrasie fra le medesime e di impedire una zonizzazione acustica in palese contrasto con la realtà fattuale della zona.

La classificazione acustica del territorio comunale –c.d. zonizzazione acustica– avente il proprio fondamento nell’art. 4 e nell’art. 6 della legge quadro sull’inquinamento acustico n. 447/1995, deve tenere conto di quella urbanistica, al fine di evitare illogiche discrasie fra le medesime e di impedire una zonizzazione acustica in palese contrasto con la realtà fattuale della zona (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.01.2011, n. 229 e sez. IV, 05.07.2011, n. 1781, con la giurisprudenza ivi richiamata).
Nel caso di specie, la destinazione urbanistica dell’area (cfr. doc. 8 della ricorrente), prevede fasce di rispetto ambientale, stradale e per la presenza del depuratore, oltre che una destinazione per “Attrezzature tecnologiche”.
La porzione immobiliare è priva di insediamenti residenziali, anzi si caratterizza per un insediamento industriale di notevole rilevanza, quale è un impianto di depurazione, circondato dalle vasche di raccolta dei reflui e vicino anche ad importanti nodi stradali (cfr. la documentazione fotografica depositata dalla ricorrente il 22.03.2012).
Lo stesso Comune di Brugherio, del resto, forse consapevole dell’illogicità della propria scelta, ha avviato una revisione della zonizzazione acustica, come risulta dalla corrispondenza intercorsa con la ricorrente (cfr. docc. da 13 a 16 di quest’ultima), ma tale revisione non è mai stata portata a compimento.
Ciò premesso, risulta evidente che la scelta di zonizzazione in classe III (mista residenziale-produttiva), non appare rispettosa della normativa primaria in materia (legge 447/1995), oltre che viziata da eccesso di potere per travisamento, illogicità e difetto di istruttoria.
Per effetto dall’accoglimento del motivo n. 2 del ricorso, la deliberazione impugnata deve essere annullata in parte (laddove, cioè, provvede alla classificazione acustica dell’area della ricorrente), salvo il nuovo esercizio del potere amministrativo, da effettuarsi nel rispetto di quanto risultante dalla presente sentenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.06.2012 n. 1671 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl silenzio serbato integra la violazione di un preciso dovere giuridico sanzionabile in sede giurisdizionale con l'accertamento dell'obbligo dell'Amministrazione di esitare, con provvedimento esplicito, la richiesta del privato, atteso che il rifiuto di provvedere, senza alcuna giustificazione, si risolve in una indubbia limitazione del diritto di difesa del cittadino.
Sotto il profilo normativo, si rileva che l’art. 2 della L. 07.08.1990, n. 241 impone all'Amministrazione l'obbligo di fornire un riscontro esplicito e motivato, riguardo ad ogni istanza proposta dal cittadino; e che, nella specie, il Comune di Fiuggi è, invece, rimasto praticamente inerte in violazione delle norme della citata legge generale sul procedimento amministrativo.

... per l'accertamento del silenzio serbato dall'Amministrazione sulle istanze della società ricorrente in data 11.12.2007 per il rilascio del permesso a costruire inerente alla deliberazione n. 26/2006 relativa ad assegnazione aree piano di edilizia economico-popolare ed approvazione dello schema di convenzione;
...
Quanto al merito, il presente ricorso, proposto avverso detto silenzio, è fondato e va accolto, essendo l’Amministrazione comunale tenuta a pronunciarsi sulle istanze della società ricorrente –reiterate con l’istanza di diffida- di rilascio del permesso di costruire in conformità alla vista delibera consiliare n. 26/2006.
Per giurisprudenza consolidata il silenzio serbato integra la violazione di un preciso dovere giuridico sanzionabile in sede giurisdizionale con l'accertamento dell'obbligo dell'Amministrazione di esitare, con provvedimento esplicito, la richiesta del privato, atteso che il rifiuto di provvedere, senza alcuna giustificazione, si risolve in una indubbia limitazione del diritto di difesa del cittadino (TAR Campania-Napoli, n. 4698 del 26.10.2001; TAR Campania Sez. II Napoli, 12/11/2004 n. 16775; 05/08/2004 n. 11099).
Sotto il profilo normativo si rileva che l’art. 2 della L. 07.08.1990, n. 241 impone all'Amministrazione l'obbligo di fornire un riscontro esplicito e motivato, riguardo ad ogni istanza proposta dal cittadino; e che, nella specie, il Comune di Fiuggi è, invece, rimasto praticamente inerte in violazione delle norme della citata legge generale sul procedimento amministrativo (TAR Lazio-Latina, sentenza 15.06.2012 n. 486 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa precarietà va esclusa tutte le volte in cui il manufatto stesso è destinato a recare un'utilità prolungata e perdurante nel tempo. In questo caso, infatti, esso produce una trasformazione urbanistica perché altera in modo rilevante e duraturo lo stato del territorio, senza che rilevino i materiali impiegati, l'eventuale precarietà strutturale e la mancanza di fondazioni, se tali elementi non si traducano in un uso contingente e limitato nel tempo, con l'effettiva rimozione delle strutture.
La precarietà, infatti, “va esclusa tutte le volte in cui il manufatto stesso è destinato a recare un'utilità prolungata e perdurante nel tempo. In questo caso, infatti, esso produce una trasformazione urbanistica perché altera in modo rilevante e duraturo lo stato del territorio, senza che rilevino i materiali impiegati, l'eventuale precarietà strutturale e la mancanza di fondazioni, se tali elementi non si traducano in un uso contingente e limitato nel tempo, con l'effettiva rimozione delle strutture” (cfr., tra le tante, TAR Lazio–Latina, 01.10.2010, n. 1626)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.06.2012 n. 1660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio di concessione edilizia in deroga ex art. 41 della legge n. 1150/1942 può giustificarsi soltanto in vista della soddisfazione di esigenze straordinarie rispetto agli interessi primari tutelati dalla disciplina urbanistica generale.
In alcune, risalenti, decisioni della giurisprudenza si è delineato un improprio allargamento del campo di applicazione di siffatta disciplina, estesa fino al punto di comprendere i tralicci per gli impianti televisivi o, ancora, gli edifici destinati all’ampliamento di una sede consolare di uno Stato estero e, perfino, un impianto per il tiro a volo.
Nel caso controverso, la realizzazione di uno dei tanti impianti di telefonia, nell’ambito della diffusa rete distribuita sul territorio, non può rivestire importanza tale da giustificare l’eccezionalità della valutazione prevista dalla disposizione censurata.

Legittimo è il denegato rilascio di concessione in deroga ex art. 41 della legge n. 1150/1942, atteso che l’esercizio del relativo potere può giustificarsi soltanto in vista della soddisfazione di esigenze straordinarie rispetto agli interessi primari tutelati dalla disciplina urbanistica generale.
Il Collegio, sul punto, rileva che in alcune, risalenti, decisioni della giurisprudenza si è delineato un improprio allargamento del campo di applicazione di siffatta disciplina, estesa fino al punto di comprendere i tralicci per gli impianti televisivi (cfr., TAR Puglia–Bari, 09.02.1996, n. 29) o, ancora, gli edifici destinati all’ampliamento di una sede consolare di uno Stato estero (cfr., Cons. St., sez. IV, 23.05.1988, n. 434) e, perfino, un impianto per il tiro a volo (cfr., TAR Calabria–Catanzaro, 10.01.1995, n. 3).
Nel caso controverso, la realizzazione di uno dei tanti impianti di telefonia, nell’ambito della diffusa rete distribuita sul territorio, non può rivestire importanza tale da giustificare l’eccezionalità della valutazione prevista dalla disposizione censurata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.06.2012 n. 1660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 5 DPR 447/1998, sussiste l’obbligo del Comune di concludere comunque il procedimento, applicando la disposizione in esame ove ne sussistano i presupposti (contrasto del progetto proposto con lo strumento urbanistico): laddove, perciò, vi sia detto contrasto, il Comune è tenuto a valutare l’istanza e, in esito a siffatta valutazione, a rigettarla motivatamente, ovvero ad indire la Conferenza di Servizi ex art. 5, comma 1, cit..
In presenza dei presupposti previsti dal citato comma 1 (conformità del progetto alla normativa ambientale, sanitaria ed in tema di sicurezza sul lavoro; mancanza di aree con destinazione specifica nello strumento urbanistico), la P.A. è tenuta a pronunciarsi espressamente, con atto formale e motivatamente, sulle ragioni per cui intenda o meno dare corso all’iter di approvazione del progetto: infatti, la discrezionalità della P.A. nell’an e nel quomodo dell’iter approvativo non implica che essa possa sottrarsi, ove ne ricorrano i presupposti, all’obbligo del “clare loqui”, ossia di provvedere esplicitamente e motivatamente sulle ragioni del suo intendimento favorevole o sfavorevole all’interessato.
A fortiori si deve, dunque, affermare che quando sia stata convocata la Conferenza di Servizi e quest’ultima abbia assunto le relative determinazioni, il Comune ha l’obbligo di pronunciarsi sulle stesse, mediante deliberazione del Consiglio Comunale, nel termine di sessanta giorni ex art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998, come del resto si ricava dalla lettera dell’art. 5, comma 2 cit.: in difetto di tale pronuncia si realizza, pertanto, un’ipotesi di silenzio-inadempimento, giustiziabile con il rito ex artt. 31 e 117 del d.lgs. n. 104/2010.

L’art. 5 del d.P.R. n. 447/1998 (regolamento recante norme di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, ampliamento, ristrutturazione e riconversione degli impianti produttivi) prevede al comma 1 che, qualora il progetto presentato sia in contrasto con lo strumento urbanistico o richieda una sua variazione, il responsabile del procedimento rigetta l’istanza; tuttavia, se il progetto sia conforme alle norme in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro, ma lo strumento urbanistico non individui aree destinate all’insediamento di impianti produttivi, ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato, il responsabile del procedimento può, motivatamente (e dandone nel contempo pubblico avviso), convocare una Conferenza di Servizi ex art. 14 della l. n. 241/1990.
A detta Conferenza possono partecipare i soggetti, portatori di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi, ed i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dalla realizzazione dell’impianto industriale. Al comma 2 si prevede poi che, ove l’esito della Conferenza di Servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, la relativa determinazione costituisce proposta di variante, sulla quale –considerate le osservazioni, proposte e opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi della l. n. 1105/1942– si pronuncia definitivamente entro sessanta giorni il Consiglio Comunale, senza che in proposito sia richiesta l’approvazione della Regione (le cui attribuzioni sono fatte salve dall’art. 14, comma 3-bis, della l. n. 241/1990).
La giurisprudenza (cfr. TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 09.12.2008, n. 2325) ha affermato che, ai sensi dell’art. 5 cit., sussiste l’obbligo del Comune di concludere comunque il procedimento, applicando la disposizione in esame ove ne sussistano i presupposti (contrasto del progetto proposto con lo strumento urbanistico): laddove, perciò, vi sia detto contrasto, il Comune è tenuto a valutare l’istanza e, in esito a siffatta valutazione, a rigettarla motivatamente, ovvero ad indire la Conferenza di Servizi ex art. 5, comma 1, cit..
Ancora di recente, si è osservato che, in presenza dei presupposti previsti dal citato comma 1 (conformità del progetto alla normativa ambientale, sanitaria ed in tema di sicurezza sul lavoro; mancanza di aree con destinazione specifica nello strumento urbanistico), la P.A. è tenuta a pronunciarsi espressamente, con atto formale e motivatamente, sulle ragioni per cui intenda o meno dare corso all’iter di approvazione del progetto: infatti, la discrezionalità della P.A. nell’an e nel quomodo dell’iter approvativo non implica che essa possa sottrarsi, ove ne ricorrano i presupposti, all’obbligo del “clare loqui”, ossia di provvedere esplicitamente e motivatamente sulle ragioni del suo intendimento favorevole o sfavorevole all’interessato (v. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 26.10.2011, n. 4942).
A fortiori si deve, dunque, affermare che quando –come nella vicenda ora in esame– sia stata convocata la Conferenza di Servizi e quest’ultima abbia assunto le relative determinazioni, il Comune ha l’obbligo di pronunciarsi sulle stesse, mediante deliberazione del Consiglio Comunale, nel termine di sessanta giorni ex art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998, come del resto si ricava dalla lettera dell’art. 5, comma 2 cit.: in difetto di tale pronuncia si realizza, pertanto, un’ipotesi di silenzio-inadempimento, giustiziabile con il rito ex artt. 31 e 117 del d.lgs. n. 104/2010 (TAR Lazio-Latina, sentenza 12.06.2012 n. 465 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Nomina di due tecnici per la determinazione definitiva dell’indennità di espropriazione: cosa si fa se l'autorità espropriante non provvede?
La risposta alla domanda è fornita dalla sentenza 11.06.2012 n. 802 del TAR Veneto, Sez. II.
Scrive il TAR: "l’articolo 21 del DPR n. 327/2001 dispone, al comma 2, che, se manca l’accordo sulla determinazione dell’indennità di espropriazione, l’autorità espropriante invita il proprietario interessato a comunicare entro i successivi venti giorni se intenda avvalersi del procedimento di determinazione dell’indennità previsto dai commi successivi. In particolare, il comma 3 dispone che, in caso di comunicazione positiva del proprietario, l’autorità espropriante nomina due tecnici, tra cui quello eventualmente già designato dal proprietario e fissa il termine entro il quale va presentata la relazione da cui si evinca la stima del bene, mentre la nomina di un terzo tecnico spetta al Presidente del tribunale civile nella cui circoscrizione si trovi il bene da espropriare.
Nel caso oggetto del presente giudizio, i ricorrenti non hanno condiviso la misura della indennità provvisoria, onde hanno prodotto istanza (in data 08-10-2011) nella quale, indicato il tecnico di propria fiducia, hanno richiesto all’autorità espropriante la nomina di due tecnici, a mente del richiamato articolo 21 del T.U. Espropriazioni. Non avendo avuto riscontro alla loro richiesta, in data 09.02.2012 e 03.02.2012, hanno notificato al Ministero dello Sviluppo Economico e alla Snam s.p.a. diffida stragiudiziale, intimando l’effettuazione dell’adempimento di cui alla citata norma.
Il Ministero dello Sviluppo Economico, peraltro, non ha dato corso al procedimento avviato dai privati, onde si è certamente formato il silenzio-rifiuto censurato nel presente giudizio, considerato che dall’articolo 2 della legge n. 241/199021 e dell’articolo 21 del dpr n. 327/2001 deriva indiscutibilmente l’obbligo per l’autorità espropriante di concludere il procedimento di determinazione definitiva dell’indennità con un provvedimento espresso e motivato.
Va, per l’effetto, dichiarata l’illegittimità del silenzio-rifiuto serbato sulla richiesta del privato ed impartito l’ordine giurisdizionale di conclusione del procedimento per la determinazione definitiva dell’indennità
" (commento tratto da e link a http://venetoius.myblog.it).

EDILIZIA PRIVATA: Centri culturali islamici: in quali zone del PRG possono collocarsi? La questione delle associazioni di promozione sociale.
Nel caso esaminato dalla sentenza 11.06.2012 n. 801 del TAR Veneto, Sez. II, il comune ha diffidato un centro culturale islamico a usare un immobile in modo difforme dalla destinazione d'uso risultante dal certificato di agibilità conseguito per il medesimo immobile (capannone destinato ad attività produttivo-artigianale).
Il TAR ha ritenuto che le disposizioni del PRG non consentano destinazioni d'uso diverse da quelle produttivo-artigianali e ha concluso che le attività destinate al culto e/o ad associazioni culturali o religiose non possono trovare collocazione in questa zona, ma possono essere svolte nelle zone a ciò destinate dal P.R.G., ai sensi dell’art. 30 delle N.T.A.
IL TAR non ha ritenuto applicabile la disposizione dell'art. 32 della legge 383 del 2000 che stabilisce che le attività delle associazioni di promozione sociale sono compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica, in quanto non è stato conseguito il formale riconoscimento come associazione di promozione sociale: "che, invero, ai sensi dell’art. 7 della normativa invocata è prevista l’iscrizione delle associazioni di promozione sociale in appositi registri, su scala nazionale o regionale a seconda del livello di operatività delle associazioni, e ai sensi del successivo art. 8 è prescritto che al fine di usufruire dei benefici di cui alla legge de qua è necessario conseguire l’iscrizione nei suddetti registri, nazionali o regionali; atteso che l’associazione ricorrente non ha fornito alcuna documentazione a tale specifico riguardo, non dimostrando l’iscrizione nel registi di cui alla L. n. 383/2000, diversa essendo la documentazione proveniente dall’Agenzia delle Entrate ai sensi e per gli effetti di cui al D.lgs. n. 460/1997" (commento tratto da e link a http://venetoius.myblog.it).

ENTI LOCALIConsiglio di Stato. Delibera campana. Violazione del patto, l'atto si annulla con l'autotutela.
IL PRINCIPIO/ Il coordinamento della finanza pubblica può giustificare limiti all'azione legislativa e amministrativa regionale.
È legittimo annullare gli atti che hanno determinato una violazione volontaria del patto di stabilità.

È arrivato a questa conclusione il Consiglio di Stato, Sez. V (sentenza 07.06.2012 n. 3361) che conferma la sentenza 17231/2010 del Tar Campania, Napoli, Sezione I, che ha respinto il ricorso di alcuni consiglieri regionali (attuali appellanti) per l'annullamento di delibere di giunta regionale che hanno invalidato, in base all'articolo 14, comma 20, del Dl 78/2010, precedenti delibere e un verbale con cui la passata amministrazione aveva intenzionalmente eluso i vincoli del patto 2009.
L'articolo 14, comma 20 e seguenti del Dl prevede:
- l'annullamento senza indugio, da parte dello stesso organo che li ha emessi, degli atti di giunta o di consiglio regionale che hanno disposto lo sforamento adottati nei dieci mesi antecedenti alle elezioni;
- la revoca di diritto, in seguito agli atti di annullamento, di varie tipologie di incarichi (dirigenziali, a tempo determinato, di consulenza) conferiti all'esterno dalla Regione e dagli enti partecipati in modo maggioritario;
- l'elaborazione di un piano di rientro da parte del presidente della Regione.
Il Consiglio di Stato, negando la legittimazione attiva degli appellanti, ha ribadito che le autonomie concorrono, mediante assoggettamento alle regole del patto, agli obiettivi di finanza pubblica stabiliti in sede europea.
Le motivazioni sostanziali sono di estremo interesse, anche alla luce delle difficoltà della nostra finanza pubblica.
Il Collegio richiama sia il nuovo articolo 97 della Costituzione, integrato con la legge 1/2012, che, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, impegna le Pa ad assicurare l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico, sia la posizione della Corte costituzionale (sentenza 207/2011) che, pronunciandosi proprio sull'articolo 14 del Dl 78/2010, ha ritenuto legittime le regole del patto che pongono vincoli complessivi di spesa e sanzioni volte ad assicurarne il rispetto. Si afferma, di conseguenza, che il coordinamento della finanza pubblica può giustificare anche limiti all'azione legislativa e amministrativa regionale in materie di competenza concorrente e residuale, derivanti da leggi statali finalizzate al riequilibrio dei conti mediante una transitoria limitazione della spesa corrente.
Il contenimento dell'indebitamento della Repubblica, per il quale lo Stato risponde unitariamente in sede comunitaria, può legittimare anche lo strumento sanzionatorio di autotutela obbligatoria previsto dall'articolo 14, comma 20, che non va confuso con annullamento straordinario del Governo ex articolo 2, comma 3, lettera p), della legge 400/1988, dichiarato incostituzionale nei confronti delle Regioni (si veda la sentenza della Corte costituzionale 229/1989).
Nel caso si specie, difatti, sono gli stessi organi regionali a rimuovere gli atti che hanno causato lo sforamento, stante la loro idoneità a mettere in pericolo l'unità economica della Repubblica. Non si può parlare, dunque, neanche di intervento sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni ex articolo 120, comma 2, della Costituzione e articolo 8 della legge 131/2003, ma di strumento di coordinamento della finanza pubblica che rende cogenti per tutti i livelli di governo i vincoli di bilancio, che altrimenti rimarrebbero nella sola discrezionalità degli enti, con gravi rischi per l'unità economica della Repubblica.
Per Palazzo Spada, dunque, l'autotutela obbligatoria prevista dal Dl 78/2010, non è in contrasto con il principio di leale collaborazione fra i livelli di governo, «ma anzi costituisce una sua manifestazione che deve caratterizzare il rapporto di tutti gli enti costituzionali o aventi rilevanza costituzionale e dotati di reciproca autonomia garantita dalla Costituzione» (articolo Il Sole 24 Ore del 25.06.2012 - link a www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disciplina delle distanze minime fra gli edifici tra i quali sono interposte strade destinate al traffico di veicoli è quella di cui all'art. 9, d.m. n. 1444/1968.
La definizione di strada cui questa disposizione fa riferimento, in linea con l’art. 1 del codice della strada, va riferita alle sole aree ad uso pubblico destinate alla circolazione, essendo tali norme finalizzate a disciplinare le fasce di rispetto delle costruzioni ai fini della sicurezza della circolazione.
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L'accertamento in ordine alla natura pubblica di una strada presuppone l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, e che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente, a tal fine, l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta

L'art. 28 delle n.t.a. del piano regolatore comunale disciplina le distanze minime fra gli edifici tra i quali sono interposte strade destinate al traffico di veicoli, riproducendo le prescrizioni di cui all'art. 9, d.m. n. 1444/1968.
La definizione di strada cui queste disposizioni fanno riferimento, in linea con l’art. 1 del codice della strada, va riferita alle sole aree ad uso pubblico destinate alla circolazione, essendo tali norme finalizzate a disciplinare le fasce di rispetto delle costruzioni ai fini della sicurezza della circolazione (si richiamano al riguardo le motivazioni espresse, in una fattispecie analoga, dal Consiglio di Stato, sez. V, 28.06.2011, n. 3868).
Nel caso di specie, l'amministrazione ha invece ritenuto applicabile la normativa in questione per il solo fatto che si tratta di strada con passaggio di veicoli, circostanza meramente fattuale che non coincide con l'uso pubblico della strada.
L'accertamento in ordine alla natura pubblica di una strada presuppone, invero, l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, e che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente, a tal fine, l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta (Cassazione civile, sez. II, 07.04.2006, n. 8204).
Il provvedimento impugnato è quindi affetto dai vizi di difetto di istruttoria e di motivazione. Le ulteriori censure possono essere assorbite.
La domanda di risarcimento dei danni deve essere respinta perché la società ha tempestivamente ottenuto la tutela cautelare richiesta ed anche poiché non è stata offerta, in corso di giudizio, una prova dei danni derivanti del ritardo nella edificazione, mediante l'allegazione di precise circostanze di fatto.
Per le ragioni esposte la domanda di annullamento è fondata e va quindi accolta. Va invece respinta la domanda di risarcimento dei danni (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.06.2012 n. 1612 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione, in epoca successiva all’ingiunzione alla demolizione, di istanza di condono edilizio e/o di accertamento di conformità produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile il ricorso proposto avverso la stessa per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Pertanto, il ricorso giurisdizionale avvero un provvedimento sanzionatorio, proposto anteriormente all'istanza di condono edilizio, deve ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, spostandosi l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento di rigetto.

Costituisce giurisprudenza ormai consolidata, anche di questa Sezione, che la presentazione, in epoca successiva all’ingiunzione alla demolizione, di istanza di condono edilizio e/o di accertamento di conformità “produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento e, quindi, improcedibile il ricorso proposto avverso la stessa per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, provocato da detta istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Pertanto, il ricorso giurisdizionale avvero un provvedimento sanzionatorio, proposto anteriormente all'istanza di condono edilizio, deve ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, spostandosi l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio dall'annullamento del provvedimento già adottato, all'eventuale annullamento del provvedimento di rigetto
” (Consiglio di Stato, sez. VI, 12.11.2008, n. 5846, TAR Lazio, Roma, sez. II, 10.05.2010, n. 10574) (TAR Lazio-Latina, sentenza 07.06.2012 n. 451 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - SEGRETARI COMUNALIMentre alla Giunta Comunale è attribuito il compito di adottare atti di indirizzo che impegnano dirigenti e responsabili degli uffici e dei servizi (nei Comuni privi di qualifica dirigenziale), ai Dirigenti competono, ai sensi del successivo comma 3 dell’art. 107, le modalità per assolvere ai compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi nonché numerose funzioni con rilevanza esterna, essendo titolari non solo della gestione amministrativa, ma anche di quella finanziaria e tecnica, attraverso degli autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo anche e soprattutto nella materia degli appalti pubblici: in tale ottica si spiega l’attribuzione, in capo ai dirigenti degli enti locali, della competenza a presiedere le commissioni di gara e di concorso, delle responsabilità delle procedure di appalto e di concorso, e, di conseguenza, anche della nomina della commissione giudicatrice, mediante disposizioni immediatamente applicabili, senza necessità d'interposizione di apposite fonti secondarie.
Con riferimento ai Comuni di piccole dimensione, nei quali risulta difficile individuare una figura dirigenziale, trova applicazione l’art. 109 D.Lgs. 267/2000, il quale, sebbene sembri lasciare al Sindaco un’ampia discrezionalità nel delegare, con provvedimento motivato, dette funzioni gestionali, ai responsabili degli uffici e dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, non consente, però, neanche in lettura combinata con l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, nel testo modificato dall’art. 29, comma IV, L. 448/2001, che, nei comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti, la possibilità di affidare, mediante espresse disposizioni regolamentari, la responsabilità degli uffici e dei servizi nonché il potere di adottare atti anche di natura tecnica- gestionale, in capo all’intera Giunta, in sede collegiale, ma, eventualmente, soltanto in capo al componente dell’organo esecutivo, uti singulo.
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Nell'attuale assetto normativo, il Segretario Comunale mantiene con il comune un mero rapporto organico e non di servizio, ha istituzionalmente compiti di collaborazione, di assistenza giuridico-amministrativa e di sovrintendenza e di coordinamento del personale dirigenziale (in presenza di determinati presupposti), di consulenza, di verbalizzazione e di ufficiale rogante per tutti i contratti di cui il comune è parte, per cui non può espletare altre specifiche funzioni, come la presidenza di una Commissione di gara o la direzione di un ufficio, in assenza di un'espressa previsione statutaria o regolamentare.

Con il primo motivo, parte ricorrente deduce che la Commissione di Gara sarebbe stata nominata dalla Giunta Comunale, con Delibera n. 17 del 2011, anziché dal competente Responsabile del Settore Urbanistica.
Viene dedotta la violazione degli articoli 84, comma 2°, del D.Lgs. n. 163 del 2006 e dell’art. 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000, in relazione al principio della separazione tra poteri di indirizzo e controllo politico amministrativo, spettanti agli organi di governo, e poteri di gestione ammi-nistrativa finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti, in base al quale spetta ai dirigenti “la responsabilità delle procedure di appalto e di concessione” e, quindi, di qualsiasi provvedimento di natura tecnico gestionale, tra cui rientra sicuramente anche la nomina della commissione di gara .
Si tratta di una norma che generalizza ed estende a tutti i contratti pubblici di lavori, servizi, forniture la disciplina originariamente prevista, quanto agli appalti per lavori pubblici, dall’art. 21 della legge 109/1994, in tema di nomina e costituzione della commissione giudicatrice, allorquando il criterio di aggiudicazione prescelto è quello dell’offerta economica più vantaggiosa.
Per correttezza espositiva, va evidenziato che, con sentenza Corte Cost. n. 401 del 23.11.2007, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 84, commi 2, 3, 8 e 9, D.lgs. n. 163/2006, nella parte in cui vincolava le Regioni all’osservanza di norme in materia di composizione e modalità di nomina dei componenti delle commissioni di gara, anziché disporre che le disposizioni abbiano carattere suppletivo e cedevole rispetto ad una divergente normativa regionale (sia che abbia già diversamente disposto o che disponga per l’avvenire), trattandosi di profili che non rientrano nella materia della tutela della concorrenza, ma nella materia della organizzazione amministrativa, che compete alle Regioni .
Ma di una disposizione legislativa regionale, che abbia disposto sul punto in divergenza rispetto alle previsioni invocate, non vi è traccia nel caso di specie.
I rapporti tra Giunta Comunale ed apparato burocratico trovano disciplina generale nell’art. 107, comma 1, del D.Lgs. n. 267 del 2000, secondo cui agli organi di governo spettano i poteri di indirizzo e di controllo ed ai dirigenti spetta la gestione amministrativa.
Il principio di separazione dei poteri tra organi politici e dirigenti è poi ripreso dal comma 2° del medesimo art. 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000, il quale precisa che spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservano agli organi di governo dell’ente e/o che non rientrano tra le funzioni del segretario o del direttore generale.
Dall’esegesi di queste norme, si evince chiaramente che, mentre alla Giunta Comunale è attribuito il compito di adottare atti di indirizzo che impegnano dirigenti e responsabili degli uffici e dei servizi (nei Comuni privi di qualifica dirigenziale), ai Dirigenti competono, ai sensi del successivo comma 3 dell’art. 107, le modalità per assolvere ai compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi nonché numerose funzioni con rilevanza esterna, essendo titolari non solo della gestione amministrativa, ma anche di quella finanziaria e tecnica, attraverso degli autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo anche e soprattutto nella materia degli appalti pubblici: in tale ottica si spiega l’attribuzione, in capo ai dirigenti degli enti locali, della competenza a presiedere le commissioni di gara e di concorso, delle responsabilità delle procedure di appalto e di concorso, e, di conseguenza, anche della nomina della commissione giudicatrice, mediante disposizioni immediatamente applicabili, senza necessità d'interposizione di apposite fonti secondarie (conf.: Cons. Stato, Sez. V 28.12.2007 n. 6723).
Con riferimento ai Comuni di piccole dimensione, nei quali risulta difficile individuare una figura dirigenziale, trova applicazione l’art. 109 D.Lgs. 267/2000, il quale, sebbene sembri lasciare al Sindaco un’ampia discrezionalità nel delegare, con provvedimento motivato, dette funzioni gestionali, ai responsabili degli uffici e dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, non consente, però, neanche in lettura combinata con l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, nel testo modificato dall’art. 29, comma IV, L. 448/2001, che, nei comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti, la possibilità di affidare, mediante espresse disposizioni regolamentari, la responsabilità degli uffici e dei servizi nonché il potere di adottare atti anche di natura tecnica- gestionale, in capo all’intera Giunta, in sede collegiale, ma, eventualmente, soltanto in capo al componente dell’organo esecutivo, uti singulo.
Nel caso di specie, invece, la nomina della commissione di gara è stata posta in essere dalla Giunta Comunale Comunale, con l’impugnata Deliberazione n. 17 del 19.01.2011.
Ne discende l’accoglimento della presente censura.
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Con il secondo motivo, parte ricorrente deduce che la presidenza della commissione di gara, in violazione degli artt. 107, comma 3, lett. a), D. L.vo 267/2000 e 84, comma 3, D. L.vo 163/2006, non sarebbe stata attribuita al Responsabile del Settore, ma al segretario comunale, peraltro con motivazioni genericamente riferibili ad esigenze di servizio e ad eccessivo carico di lavoro al fine di non pregiudicare il normale funzionamento del servizio (Deliberazione G.C. n. 49/2011).
L’art. 84, comma 3°, del D. Lgs 12.04.2006 n. 163 stabilisce: “La commissione è presieduta da un dirigente della stazione appaltante, nominato dall'organo competente”.
Ed invero, nell'attuale assetto normativo, il Segretario Comunale, mantiene con il comune un mero rapporto organico e non di servizio, ha istituzionalmente compiti di collaborazione, di assistenza giuridico-amministrativa e di sovrintendenza e di coordinamento del personale dirigenziale (in presenza di determinati presupposti), di consulenza, di verbalizzazione e di ufficiale rogante per tutti i contratti di cui il comune è parte, per cui non può espletare altre specifiche funzioni, come la presidenza di una Commissione di gara o la direzione di un ufficio, in assenza di un'espressa previsione statutaria o regolamentare.
Ma, nel caso di specie, non vi è traccia in atti dell’esistenza di siffatta previsione statutaria o regolamentare.
Pertanto, la censura merita adesione
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 06.06.2012 n. 538 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl silenzio che, in base al comma 9 dell’art. 20 dpr 380/2001 (nel testo anteriore al d.l. n. 70/2011), si forma per effetto dell’inutile decorso del termine di conclusione del procedimento sull’istanza di rilascio del permesso di costruire, ha natura di silenzio-inadempimento, ossia di un silenzio che esprime la mera inerzia della P.A. quanto al suo obbligo di concludere, nei termini di legge, il procedimento con un provvedimento espresso.
Avverso detta inerzia è, dunque, possibile esperire il rito speciale, già disciplinato dall’art. 21-bis della l. n. 1034/1971, ed ora dagli artt. 31 e 117 del d.lgs. n. 104/2010. Peraltro, il suddetto art. 31, al comma 2, dispone che l’azione avverso il silenzio può essere proposta finché perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento, fatta salva la riproponibilità (ove ne ricorrano i presupposti) dell’istanza di avvio del procedimento.
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Ove sopraggiungano modifiche normative in un momento in cui la fase costitutiva del procedimento non si è ancora conclusa, di siffatte modifiche la P.A. dovrà tenere conto, in base al principio tempus regit actum.
Con riferimento proprio ad una fattispecie di silenzio-inadempimento, infatti, la giurisprudenza ha chiarito che, sebbene in questo caso la P.A. conservi il potere di provvedere pur dopo lo spirare del termine di conclusione del procedimento, le modifiche normative intervenute prima della formale adozione debbono essere osservate dalla P.A. medesima, in adesione al principio tempus regit actum.
Ed invero, in base al testo dell’art. 20 del d.P.R. n. 380/2001 anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 70/2011 (in vigore al tempo della presentazione della domanda di permesso di costruire da parte dei sigg.ri Dell’Uomo), il responsabile del procedimento ha un termine di 60 giorni dalla presentazione della domanda di rilascio del permesso di costruire per formulare una proposta di provvedimento, su cui il dirigente o il responsabile dell’Ufficio deve provvedere nei successivi 15 giorni, adottando il provvedimento finale.
A tal proposito, va rammentato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Sezione (cfr. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 03.02.2011, n. 89; id., 14.02.2012, n. 117), il silenzio che, in base al comma 9 dell’art. 20 cit. (nel testo, si ripete, anteriore al d.l. n. 70/2011), si forma per effetto dell’inutile decorso del termine di conclusione del procedimento sull’istanza di rilascio del permesso di costruire, ha natura di silenzio-inadempimento, ossia di un silenzio che esprime la mera inerzia della P.A. quanto al suo obbligo di concludere, nei termini di legge, il procedimento con un provvedimento espresso.
Avverso detta inerzia è, dunque, possibile esperire il rito speciale, già disciplinato dall’art. 21-bis della l. n. 1034/1971, ed ora dagli artt. 31 e 117 del d.lgs. n. 104/2010. Peraltro, il suddetto art. 31, al comma 2, dispone che l’azione avverso il silenzio può essere proposta finché perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento, fatta salva la riproponibilità (ove ne ricorrano i presupposti) dell’istanza di avvio del procedimento.
Andando ad applicare la suesposta disciplina alla fattispecie in esame, nella quale l’istanza dei ricorrenti risulta presentata il 05.11.2010, se ne desume l’intervenuta scadenza del termine di conclusione del relativo procedimento in data 19.01.2011: il ricorso, pertanto, avrebbe dovuto essere proposto entro il 19.01.2012, il che non è avvenuto, essendo stato esso notificato per via postale solamente il 03.02.2012 e, quindi, oltre il termine ex art. 31, comma 2, del d.lgs. n. 104 cit., con il corollario della sua tardività.
Vero è che i ricorrenti hanno depositato (cfr. all. 4 al ricorso) la nota del Comune di S. Felice Circeo prot. n. 5795 del 03.03.2011, recante la determinazione d’esame n. 17/11, con la quale il responsabile del Settore Edilizia Privata e Tutela Ambientale del Comune stesso ha espresso parere favorevole al rilascio del permesso di costruire, peraltro subordinandolo ad una serie di condizioni (tra cui, in particolare, la stipula di un atto notarile contenente l’obbligo dei richiedenti di cedere al Comune gratuitamente un’area da adibire a parcheggio pubblico delle dimensioni di mq. 79,45 ed il pagamento degli oneri concessori).
Per quanto appena visto, tale determinazione è intervenuta dopo la formazione del silenzio rifiuto, inteso quale silenzio inadempimento, sulla richiesta dei ricorrenti. Laddove, peraltro, la si voglia considerare quale atto (tardivo) dell’istruttoria procedimentale, essa potrebbe venire assimilata alle richieste di integrazione documentale con le quali, ai sensi dell’art. 20, comma 5, del d.P.R. n. 380/2001, il responsabile del procedimento può interrompere –per una sola volta– il procedimento, il cui termine ricomincia a decorrere ex novo dalla data di ricevimento della documentazione integrativa, oppure come atto di sospensione del decorso del procedimento ex art. 20, comma 4, cit.: quale che sia la soluzione prescelta, resta tuttavia fermo che i ricorrenti hanno provveduto a trasmettere la documentazione integrativa in epoca certamente posteriore all’entrata in vigore del d.l. n. 70/2011 (pubblicato nella G.U. n. 110 del 13.05.2011), come dimostra il fatto che le ricevute di pagamento degli oneri concessori portano la data dell'01.06.2011 (cfr. all. 5/d al ricorso).
Pertanto, l’eventuale nuovo (od ulteriore) decorso del procedimento è avvenuto sotto la vigenza del testo dell’art. 20 del d.P.R. n. 380/2001 introdotto dall’art. 5, comma 2, lett. a), num. 2, del d.l. n. 70/2011 (diventato num. 3 per effetto della legge di conversione, l. n. 106/2011), il quale, tuttavia, non sembra più contemplare la formazione, sulla domanda di permesso di costruire, del cd. silenzio-inadempimento, legittimante l’azione ex artt. 31 e 117 del d.lgs. n. 104/2010. Il nuovo art. 20, nel testo introdotto dal d.l. n. 70/2011, infatti, contempla unicamente le fattispecie del silenzio-assenso (comma 8), nonché, per i casi (come quello ora in esame) di intervento su aree sottoposte a vincolo, del silenzio assenso ovvero, nell’ipotesi di parere negativo dell’autorità tutoria, del silenzio diniego (commi 9 e 10): donde la conclusione dell’inammissibilità del gravame.
Detta conclusione, peraltro, resterebbe ferma anche ove si sostenesse che i nuovi commi 9 e 10 dell’art. 20 cit. abbiano previsto, per il caso di parere negativo dell’autorità tutoria sulla compatibilità dell’intervento con il vincolo, il silenzio inadempimento e non il silenzio diniego, poiché nel caso ora in esame i predetti pareri sembrano, invece, avere tutti contenuto positivo.
A quanto appena esposto occorre aggiungere, per completezza, che la rilevanza della disciplina sopravvenuta ai fini della fattispecie in esame discende dai noti insegnamenti della giurisprudenza e della dottrina, secondo le quali, ove sopraggiungano modifiche normative in un momento in cui la fase costitutiva del procedimento non si è ancora conclusa, di siffatte modifiche la P.A. dovrà tenere conto, in base al principio tempus regit actum.
Con riferimento proprio ad una fattispecie di silenzio-inadempimento, infatti, la giurisprudenza ha chiarito che, sebbene in questo caso la P.A. conservi il potere di provvedere pur dopo lo spirare del termine di conclusione del procedimento, le modifiche normative intervenute prima della formale adozione debbono essere osservate dalla P.A. medesima, in adesione al principio tempus regit actum (cfr. C.d.S., Sez. V, 06.06.1990, n. 480).
Donde, per tal verso, la conferma dell’inammissibilità del gravame, senza che ciò comporti un vulnus di tutela per gli odierni ricorrenti, che potranno, se del caso, proporre l’azione di accertamento dell’avvenuta formazione, nella fattispecie de qua, del silenzio-assenso (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 10.10.2011, n. 1265) (TAR Lazio-Latina, sentenza 06.06.2012 n. 445 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIL'art. 12, l. n. 241 del 1990 -relativo ai provvedimenti attributivi di vantaggi economici- prevede che la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
Questa regola generale, valevole proprio per i procedimenti amministrativi concessivi di finanziamenti, è posta non soltanto a garanzia della "par condicio" tra i possibili destinatari delle sovvenzioni, ma anche a tutela dell'affidamento dei richiedenti i benefici in questione; e che tanto la predeterminazione di detti criteri, quanto la dimostrazione del loro rispetto da parte delle singole Amministrazioni in sede di concessione dei relativi benefici, sono rivolte ad assicurare la trasparenza della azione amministrativa e si atteggiano a principio generale, in forza del quale l'attività di erogazione della pubblica Amministrazione deve in ogni caso rispondere a elementi oggettivi.

L’art. 12 della L. 241/1990 dispone che “La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1
”.
La giurisprudenza costante spiega che “L'art. 12, l. n. 241 del 1990 -relativo ai provvedimenti attributivi di vantaggi economici- prevede che la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi; questa regola generale, valevole proprio per i procedimenti amministrativi concessivi di finanziamenti, è posta non soltanto a garanzia della "par condicio" tra i possibili destinatari delle sovvenzioni, ma anche a tutela dell'affidamento dei richiedenti i benefici in questione; e che tanto la predeterminazione di detti criteri, quanto la dimostrazione del loro rispetto da parte delle singole Amministrazioni in sede di concessione dei relativi benefici, sono rivolte ad assicurare la trasparenza della azione amministrativa e si atteggiano a principio generale, in forza del quale l'attività di erogazione della pubblica Amministrazione deve in ogni caso rispondere a elementi oggettivi” (ex multis TAR Campania-Salerno, sez. I, 18.06.2010 n. 9415; TAR Puglia-Lecce, sez. II, 25.10.2011 n. 1842) (TAR Lazio-Latina, sentenza 05.06.2012 n. 438 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARientra nella giurisdizione del g.o. la domanda con la quale è stata chiesta la condanna di un Comune al risarcimento dei danni subiti in conseguenza del rilascio, da parte dell'ente territoriale, del certificato di destinazione urbanistica erroneamente attestante la qualità edificatoria di un terreno risultato, in realtà, soltanto in minima parte edificabile.
In via preliminare deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario.
Infatti, secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato, tra cui Cassazione civile sez. un., 23.09.2010, n. 20072, cui questo collegio ritiene di aderire, “Rientra nella giurisdizione del g.o. la domanda con la quale è stata chiesta la condanna di un Comune al risarcimento dei danni subiti in conseguenza del rilascio, da parte dell'ente territoriale, del certificato di destinazione urbanistica erroneamente attestante la qualità edificatoria di un terreno risultato, in realtà, soltanto in minima parte edificabile” (TAR Lazio-Latina, sentenza 01.06.2012 n. 422 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reato paesaggistico.
Attività edilizia libera - Riporto di terreno da altro sito - Reato paesaggistico - Fattispecie.
Il semplice riporto di terreno da altro sito (di cui non v’è ragione di dubitare che sia stato effettuato per esigenze della coltivazione) non esige il rilascio di alcun titolo edilizio, necessario solamente quando viene operata la trasformazione del territorio e non allorché non è impressa alcuna diversa destinazione d’uso del terreno.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 265 del 23.04.1998 emessa dal Sindaco del Comune di Taranto, notificata il 16.06.1998, con la quale si è ordinata al Silvestri la remissione in pristino stato dei luoghi entro novanta giorni dalla notifica, mediante la rimozione di quanto abusivamente depositato; di ogni atto antecedente, conseguente e comunque connesso.
...
Il Tribunale osserva che il semplice riporto di terreno da altro sito (di cui non v’è ragione di dubitare che sia stato effettuato per esigenze della coltivazione) non esige il rilascio di alcun titolo edilizio, necessario solamente quando viene operata la trasformazione del territorio e non allorché non è impressa alcuna diversa destinazione d’uso del terreno.
In tal caso, resta escluso che l’attività materiale posta in essere sia assoggettata al regime previsto per gli interventi edilizi, tanto più se si tratta di interventi finalizzati alla conservazione agricola del bene (cfr. TAR Lombardia – Sez. IV, 11.07.2011 n. 1867, per l’ipotesi di spargimento di ghiaia per esigenze connesse all’esercizio dell’agricoltura).
Il ricorso va quindi accolto e, per l’effetto, va annullata l’impugnata ordinanza del Sindaco di Taranto n. 265 del 23/04/1998 (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 09.05.2012 n. 796 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Servizi pubblici locali affidati in appalto o in concessione.
Il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani rientra nella nozione di servizio pubblico locale; vige il divieto di partecipazione alle gare previsto per gli affidatari diretti del servizio stesso.

Come risulta dall’art. 3 del d.lgs. n. 163 del 2006, il servizio pubblico locale non è configurabile solo quando l’Amministrazione adotti un atto di concessione (c.d. rapporto trilaterale, corrispettivo del servizio fissato dal concessionario, su cui grava il rischio di impresa), ma anche quando l’Amministrazione –invece della concessione– ponga in essere un contratto di appalto (rapporto bilaterale, versamento di un importo da parte dell’Amministrazione) sempre che l’attività sia rivolta direttamente all’utenza –e non all’ente appaltante in funzione strumentale all’amministrazione– e l’utenza sia chiamata a pagare un compenso, o tariffa, per la fruizione del servizio.
Costituisce servizio pubblico locale il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani, atteso che lo stesso viene reso direttamente al singolo cittadino, senza intermediazione alcuna dal soggetto che lo eroga, e per il quale l’utente paga una tariffa, obbligatoria per legge, e di importo tale da coprire interamente il costo del servizio (cfr. d.lgs. 03.04.2006 n. 152, art. 238, e prima, art. 49 d.lgs. 05.02.1997, n. 22). Nei confronti di tale servizio pubblico è quindi applicabile il divieto di cui all’art. 23-bis, comma 9, del d.l. 25.06.2008 n. 112 (convertito con modificazioni nella legge 06.08.2008 n. 133, come modificata dall’art. 15, comma, 1 lett. d), del d.l. n. 135 del 2009), il quale impedisce ad un soggetto affidatario senza gara del servizio, di partecipare ad una gara per il servizio stesso.
E’ legittima la esclusione di un consorzio sociale da una gara di appalto per l’affidamento del servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani, che sia motivata con riferimento al fatto che al medesimo consorzio sono stati effettuati, in precedenza, affidamenti in via diretta del medesimo servizio, senza il preventivo esperimento di una procedura di evidenza pubblica; in tal caso, infatti, costituendo la raccolta dei rifiuti solidi urbani un servizio di un servizio pubblico locale di rilevanza economica, anche se attribuito in appalto piuttosto che in concessione, trova applicazione il divieto di partecipazione alle gare di appalto di soggetti che gestiscono servizi pubblici locali ad essi affidati senza il rispetto dei principi dell'evidenza pubblica, espressamente previsto dall’articolo 23-bis, comma 9, del D.L. 25.06.2008 n. 112 (convertito con modificazioni nella L. 06.08.2008 n. 133, come modificata dall’art. 15, comma 1, lett. d, del D.L. n. 135/2009) (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.05.2012 n. 2537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Certificato di agibilità. Diniego con riferimento a violazioni della normativa urbanistica.
E’ da ritenere legittimo, ai sensi artt. 24 e 25 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il diniego di rilascio del certificato agibilità, motivato con riferimento a violazioni della normativa urbanistica o edilizia (1).
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(1) Nella motivazione della sentenza in rassegna si ammette lealmente che esistono in giurisprudenza differenti orientamenti, quanto alla legittimità del diniego di certificato di agibilità per ragioni esclusivamente o prevalentemente urbanistico/edilizie ovvero per pendenza di procedimenti sanzionatori.
Tali differenti orientamenti, secondo la sentenza stessa, riflettono una ambiguità di fondo degli artt. 24 e 25 del d.P.R. 380/2001; mentre infatti l’art. 24 cit. stabilisce che "il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente" (e quindi pare renderlo del tutto indipendente dal rapporto che il manufatto ha con la disciplina urbanistica), tuttavia il successivo art. 26 impone che tra la documentazione presentata vi sia anche una "dichiarazione, sottoscritta dallo stesso richiedente il certificato di agibilità, di conformità dell’opera rispetto al progetto approvato, nonché in ordine alla avvenuta prosciugatura dei muri e della salubrità degli ambienti" (il che può far, invece, ritenere che la mancata conformità di quanto edificato al relativo progetto -e, quindi, anche alle norme che disciplinano l’edificabilità nella zona- sia, di per sé, ostativa al rilascio dell’abitabilità.
La non perfetta coerenza delle due norme ha portato quindi:
a) a decisioni che negano la rilevanza di tali motivazioni (si veda, per tutti: TAR Liguria, Sez. I, n. 1754/2011, secondo cui, "essendo finalizzato –il certificato di agibilità– al controllo di tipo igienico-sanitario ed escludendo qualsiasi riferimento alla conformità dell’edificio al progetto approvato, non assume alcun rilievo sotto il profilo urbanistico-edilizio, onde la pendenza di un procedimento repressivo edilizio di per sé non costituisce idonea motivazione di diniego del certificato");
b) a decisioni che ritengono invece corretto il diniego motivato (prevalentemente o esclusivamente) con riferimento a violazioni urbanistiche; v., ad esempio, TAR Lombardia-Milano n. 332/2010, la quale ha ritenuto che "l’agibilità possa essere negata non solo in caso di mancanza di condizioni igieniche ma anche in caso di contrasto con gli strumenti urbanistici o con il titolo edilizio (DIA o permesso di costruire)", precisando che "a tale conclusione perviene gran parte della giurisprudenza (TAR Lazio, n. 4129/2005, Consiglio di Stato, n. 6174/2008 e n. 1542/2005; TAR Lombardia–Milano, n. 4672/2009), senza contare che questa interpretazione ha anche un supporto normativo nell’art. 25, comma 1, del Testo Unico dell’Edilizia"; dovendo, per l’appunto, la domanda di agibilità deve essere corredata anche da una dichiarazione del richiedente di conformità dell’opera rispetto al progetto approvato, il che "significa che in caso di difformità dell’opera dal progetto edilizio, ma anche evidentemente in caso di assenza di idoneo progetto, l’agibilità dovrà essere negata".
Le sentenza in rassegna ha ritenuto di aderire al questo secondo orientamento.
Ha rilevato in ogni caso che la ricorrente, nella specie, non aveva un apprezzabile interesse a lamentare il mancato rilascio del certificato di agibilità di un manufatto di cui era stata ordinata la demolizione per violazione delle norme urbanistiche. Infatti, se otterrà il titolo a sanatoria, l’istante potrà riproporre la domanda, alla quale il Comune risponderà previa valutazione dei soli requisiti igienico-sanitari dell’edificio
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 30.04.2012 n. 146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Fuori dalla gara la ditta ausiliaria che produce in fotocopia la dichiarazione d’impegno.
La questione principale, nella pronuncia in commento, era stabilire se la mancata sottoscrizione delle dichiarazioni previste dall’art. 49 del decreto legislativo 163 del 2011 possa essere sanzionata con l’esclusione dalla gara. In assenza di una specifica previsione della lex specialis, occorre ricordare, che la violazione di prescrizioni imposte ai partecipanti dalla legge o dal bando non comporta l’esclusione solo nei casi in cui ciò sia stato espressamente previsto dalla stazione appaltante. Infatti, la mancata osservanza di previsioni che non abbiano carattere meramente formale, ma rivestano un particolare rilievo ai fini del rispetto del principio della par condicio o della tutela dell’interesse dell’Amministrazione alla serietà ed alla attendibilità dell’offerta, comporta l’esclusione dalla gara anche in assenza di una corrispondente previsione del bando o della lettera di invito.
Con riguardo alle dichiarazioni relative alla moralità professionale previste dall’art. 38 del D.Lgs. 163 del 2006 parte della giurisprudenza ha ritenuto che, in assenza di una specifica previsione della lex specialis, la loro omissione o incompletezza non possa comportare l’esclusione. Tale principio vale anche per le dichiarazioni dell’impresa ausiliaria nel caso in cui, anche in assenza di una formale attestazione, risulti che, nella sostanza, i suoi amministratori non abbiano riportato condanne penali tali da minarne la moralità professionale. Lo stesso ragionamento, tuttavia, secondo i giudici del Tribunale amministrativo di Milano, non sembra potersi automaticamente applicare anche alle dichiarazioni con cui l’impresa ausiliaria attesti di possedere i requisiti tecnici che sono oggetto di avvalimento, essendovi un evidente interesse della stazione appaltante ad accertare ex ante la sussistenza dei requisiti di qualificazione.
Ma ciò che, sicuramente, deve escludersi, continuano i giudici meneghini, è che possa mancare la sottoscrizione dell’impegno della società ausiliaria di mettere a disposizione dei propri mezzi a favore della società offerente. Si tratta, infatti, di un impegno che deve essere contratto anche nei confronti della stazione appaltante, divenendo un elemento integrativo dell’offerta (senza il quale la prestazione promessa non è giuridicamente e praticamente realizzabile).
Assolvendo la sottoscrizione la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta, essa costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità: la mancanza ne inficia, pertanto, la validità e la ricevibilità senza che sia necessaria, ai fini dell'esclusione, una espressa previsione della legge di gara (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 07.03.2012 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIAi fini dell’adozione di provvedimenti tesi a concedere sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc., le amministrazioni devono attenersi ai criteri ed alle modalità stabilite da predisposto apposito regolamento ai sensi dell’art. 12, l. 07.08.1990 n. 241.
Infatti, tanto la predeterminazione di detti criteri, quanto la dimostrazione del loro rispetto da parte delle singole amministrazioni in sede di concessione dei relativi benefici, sono rivolte ad assicurare la trasparenza della azione amministrativa e si atteggiano a principio generale, in forza del quale l’attività di erogazione della p.a. deve in ogni caso rispondere a referenti oggettivi (e quindi definiti prima della adozione di ogni singolo provvedimento).

E' illegittima la nota con cui l’Amministrazione provinciale, a procedura già avviata, ha introdotto un vero e proprio criterio selettivo per l’attribuzione del finanziamento, atteso che tale criterio avrebbe dovuto essere introdotto prima dell’avvio della procedura medesima.
Ciò trova conforto nella giurisprudenza amministrativa, secondo cui “ai fini dell’adozione di provvedimenti tesi a concedere sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc., le amministrazioni devono attenersi ai criteri ed alle modalità stabilite da predisposto apposito regolamento ai sensi dell’art. 12, l. 07.08.1990 n. 241; infatti, tanto la predeterminazione di detti criteri, quanto la dimostrazione del loro rispetto da parte delle singole amministrazioni in sede di concessione dei relativi benefici, sono rivolte ad assicurare la trasparenza della azione amministrativa e si atteggiano a principio generale, in forza del quale l’attività di erogazione della p.a. deve in ogni caso rispondere a referenti oggettivi (e quindi definiti prima della adozione di ogni singolo provvedimento)” (TAR Molise Campobasso, sez. I, 03.03.2011, n. 95; TAR Campania Salerno, sez. I, 18.06.2010, n. 9415; TAR Campania Salerno, sez. I, 12.04.2010, n. 3590; TAR Molise Campobasso, sez. I, 20.11.2008, n. 934; TAR Lazio Latina, 27.10.2006, n. 1380) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 25.10.2011 n. 1842 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIL’articolo 12 della legge n. 241 del 1990 dispone che la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
E’ evidente che non si può delegare a privati, né tantomeno agli stessi privati potenziali destinatari di tali finanziamenti, la scelta dei criteri e delle procedure per la loro assegnazione.

L’articolo 12 della legge n. 241 del 1990 dispone che la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
E’ evidente che non si può delegare a privati, né tantomeno agli stessi privati potenziali destinatari di tali finanziamenti, la scelta dei criteri e delle procedure per la loro assegnazione.
Anche gli eventuali ruoli meramente (ed effettivamente) tecnici che si decide di affidare ai privati, devono essere assegnati secondo i ricordati principi generali dell’azione amministrativa, quindi occorre dare pubblica evidenza alle ragioni per cui è più opportuno avvalersi della consulenza (e non solo della partecipazione procedimentale) di specifici soggetti; nonché alle ragioni per cui si decide di avvalersi di uno specifico soggetto, invece che di altri (TAR Molise, sentenza 03.03.2011 n. 95 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIL’art. 12 L. 241 del 1990 –relativo ai provvedimenti attributivi di vantaggi economici– prevede che la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
Ebbene, questa regola generale, valevole proprio per i procedimenti amministrativi concessivi di finanziamenti, è posta non soltanto a garanzia della par condicio tra i possibili destinatari delle sovvenzioni, ma anche a tutela dell’affidamento dei richiedenti i benefici in questione.
Ne consegue quindi l’illegittimità del comportamento dell’amministrazione la quale, inizialmente, ha ingenerato nel privato la convinzione di potere contare sui benefici promessi, e, successivamente, con molto ritardo, ha opposto preclusioni ed impedimenti non preventivabili dall’interessata.

Il Consiglio di Stato ha rilevato che l’art. 12 L. 241 del 1990 –relativo ai provvedimenti attributivi di vantaggi economici– prevede che la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
Ebbene, ad avviso del Consiglio di Stato questa regola generale, valevole proprio per i procedimenti amministrativi concessivi di finanziamenti, sarebbe posta non soltanto a garanzia della par condicio tra i possibili destinatari delle sovvenzioni, ma anche a tutela dell’affidamento dei richiedenti i benefici in questione. Ne consegue quindi l’illegittimità del comportamento dell’amministrazione la quale, inizialmente, ha ingenerato nel privato la convinzione di potere contare sui benefici promessi, e, successivamente, con molto ritardo, ha opposto preclusioni ed impedimenti non preventivabili dall’interessata (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 18.06.2010 n. 9415 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIA mente dell’articolo 12 della legge n. 241 del 1990, la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
L’amministrazione, d’altra parte, nella determinazione di tali criteri deve osservare i principi di trasparenza, imparzialità e pubblicità.
Nel caso in esame, invece, è stato violato proprio il principio di imparzialità, atteso che non è stata garantita ampia partecipazione, quantomeno ad una fase di preselezione, ma è stata arbitariamente riservata la partecipazione, con conseguente accesso ai finanziamenti, solo a due associazioni.

A mente dell’articolo 12 della legge n. 241 del 1990, la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
L’amministrazione, d’altra parte, nella determinazione di tali criteri deve osservare i principi di trasparenza, imparzialità e pubblicità (Consiglio Stato, 04.09.2002, n. 4437).
Nel caso in esame, invece, è stato violato proprio il principio di imparzialità, atteso che non è stata garantita ampia partecipazione, quantomeno ad una fase di preselezione, ma è stata arbitariamente riservata la partecipazione, con conseguente accesso ai finanziamenti, solo a due associazioni (TAR Molise, sentenza 20.11.2008 n. 934 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALILe p.a., per la adozione di provvedimenti tesi a concedere sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc., devono attenersi ai criteri ed alle modalità stabilite da predisposto apposito regolamento, ai sensi dell'art. 12 l. 07.08.1990 n. 241.
Infatti, tanto la predeterminazione di detti criteri, quanto la dimostrazione del loro rispetto da parte delle singole amministrazioni in sede di concessione dei relativi benefici, sono rivolte ad assicurare la trasparenza della azione amministrativa e si atteggiano a principio generale, in forza del quale l'attività di erogazione della p.a. deve in ogni caso rispondere a referenti oggettivi (e quindi definiti prima della adozione di ogni singolo provvedimento) nonché pubblici
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In via del tutto preliminare occorre porre in risalto che l’avviso pubblico disciplina i termini e le modalità di presentazione della domanda, l’istruttoria preliminare alla decisione di ammissibilità o meno al contributo, nonché la possibile formazione di una graduatoria.
Si è in presenza quindi di una fattispecie riconducibile all’art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241, nella quale assume rilievo il principio della trasparenza implicante la predisposizione, con norme che vincolano anche l’amministrazione, dei requisiti di partecipazione e di valutazione dell’istanza.
Sul punto la giurisprudenza ha evidenziato che, “Le p.a., per la adozione di provvedimenti tesi a concedere sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc., devono attenersi ai criteri ed alle modalità stabilite da predisposto apposito regolamento, ai sensi dell'art. 12 l. 07.08.1990 n. 241. Infatti, tanto la predeterminazione di detti criteri, quanto la dimostrazione del loro rispetto da parte delle singole amministrazioni in sede di concessione dei relativi benefici, sono rivolte ad assicurare la trasparenza della azione amministrativa e si atteggiano a principio generale, in forza del quale l'attività di erogazione della p.a. deve in ogni caso rispondere a referenti oggettivi (e quindi definiti prima della adozione di ogni singolo provvedimento) nonché pubblici.” (TAR Lombardia Brescia, 28.12.2000, n. 1077) (TAR Lazio-Latina, sentenza 27.10.2006 n. 1380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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