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AGGIORNAMENTO AL 25.06.2012 |
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NOVITA' NEL
SITO |
● Inserito il
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per oo.pp. e/o private di interesse
pubblico) |
● Inserito il nuovo bottone
dossier CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato
versamento) |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
F. Gaboardi,
La disciplina dell’accesso ai documenti
amministrativi. Natura giuridica, limiti e
modalità di esercizio (link a
www.diritto.it). |
APPALTI SERVIZI:
F. Laurendi,
Servizi locali, addio a gare e in house
- Cinque elementi, tra cui le necessità
delle comunità locali, alla base della
verifica necessaria per mettere in
concorrenza i servizi. Lo prevede il
regolamento attuativo del d.l. 138/2011, che
ha avuto l’ok dal Consiglio di Stato (parere
11.06.2012 n. 2805) (link a
www.diritto.it). |
SINDACATI |
APPALTI SERVIZI:
La fondazione di partecipazione
per la gestione dei servizi pubblici locali
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 18.06.2012). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Arriva
il nuovo Decreto Sviluppo? Tante novità per
tecnici, imprese e famiglie.
Dopo tanti rinvii e varie modifiche il
Governo ha approvato il pacchetto di misure
per la crescita e lo sviluppo del paese.
Il nuovo Decreto Sviluppo introduce tante
interessanti novità, tra cui:
● Innalzamento della detrazione per
ristrutturazione (dal 36% al 50%)
● Credito di imposta per le nuove assunzioni
di profili altamente qualificati
● Tariffe minime nelle gare
● Ripristino Iva sull'invenduto
● Semplificazioni per i titoli abilitativi
(SCIA e DIA)
● Sospensione del Sistri
● Finanziamenti green economy
● Possibilità di costituire “Srl
semplificata” anche agli over 35
Ricordiamo che il Decreto non è ancora stato
pubblicato in Gazzetta Ufficiale e quindi
non è ancora in vigore.
La redazione di BibLus-net mette a
disposizione dei propri lettori un documento
con la sintesi delle principali novità del
Decreto e la bozza “definitiva” del
nuovo Decreto Sviluppo
(21.06.2012 - link a www.acca.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Dal
13 agosto obbligo di polizza assicurativa
per tutti i professionisti. Ecco i termini
da conoscere prima di stipulare il contratto.
Dal 13.08.2012 architetti, ingegneri,
geometri, notai, avvocati, commercialisti,
ossia tutti i liberi professionisti dovranno
avere una polizza assicurativa a tutela di
errori professionali.
Lo stabilisce la Legge 148/2011 (di
conversione del Decreto 138/2011) che
prevede:
Þ
l’obbligo di stipulare un’assicurazione
privata per la responsabilità civile, a
partire dal 13.08.2012;
Þ
l’obbligo di indicare al cliente i dati
della polizza assicurativa al momento del
conferimento dell’incarico.
Ma cosa vuol dire franchigia, premio,
massimale, claims made?
In allegato a questo articolo, oltre al
testo coordinato del Decreto 138/2011, la
redazione di BibLus-net propone ai propri
lettori un documento contenente le
definizioni principali legate ad una
polizza, da conoscere assolutamente prima
della stipula
(21.06.2012 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
APPALTI:
G.U. 21.06.2012 n. 143 "Pagamento dei
crediti commerciali connessi a transazioni
commerciali per l’acquisizione di servizi e
forniture, certi, liquidi ed esigibili,
corrispondenti a residui passivi di
bilancio, ai sensi dell’articolo 35, comma
1, lettera b) , del decreto-legge
24.01.2012, n. 1, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27"
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 22.05.2012). |
APPALTI: G.U.
21.06.2012 n. 143 "Modalità di
certificazione del credito, anche in forma
telematica, di somme dovute per
somministrazione, forniture e appalti da
parte delle amministrazioni dello Stato e
degli enti pubblici nazionali"
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 22.05.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 25 del 19.06.2012,
"Attuazione dell’art. 21 della legge
regionale 12.12.2003, n. 26 «Disciplina dei
servizi locali di interesse economico
generale. Norme in materia di gestione dei
rifiuti, di energia, di utilizzo del
sottosuolo e di risorse idriche»,
relativamente alle procedure di bonifica e
ripristino ambientale dei siti inquinati" (regolamento
regionale 15.06.2012 n. 2). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Chi sono i soggetti legittimati al
risarcimento del danno ambientale? (link
a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti pericolosi.
Domanda.
In tema di trasporto non autorizzato di
rifiuti pericolosi è obbligatoria la
confisca del veicolo e di qualunque altro
mezzo utilizzato per il trasporto dei
suddetti rifiuti?
Risposta.
L'articolo 260-ter, comma 4, del decreto
legislativo numero 152, del 3 aprile 2006,
introdotto dall'articolo 36 del decreto
legislativo numero 205, del 2010, prevede
che, nell'ipotesi di trasporto non
autorizzato di rifiuti pericolosi, deve
sempre essere disposta la confisca del
veicolo e di qualunque altro mezzo
utilizzato per il trasporto dei rifiuti, ai
sensi dell'articolo 240, secondo comma, del
codice penale, salvo che gli stessi
appartengano non in modo fittizio a persona
estranea al reato.
La predetta disposizione
entra senz'altro in interscambio con l'altra
disposizione dettata, sempre in materia di
confisca in tema di rifiuti, anche se non
pericolosi, del mezzo di trasporto, ai sensi
dell'articolo 259, comma 2, del
summenzionato decreto legislativo numero
152, del 03.04.2006.
Si ritiene che, in
materia, con il conforto di parte della
dottrina, la soluzione del problema deve
essere trovata nel considerare la
disposizione di cui al citato articolo
260-ter, comma 4, del citato decreto
legislativo numero 152, del 3 aprile 2006,
introdotto dall'articolo 36 del decreto
legislativo numero 205, del 2010, come norma
speciale rispetto a quella portata
dall'articolo 259, comma 2, del
summenzionato decreto legislativo numero 152
del 03.04.2006. Infatti, la prima
presenta elementi di specifica
caratterizzazione rispetto alla seconda.
Infine è da osservare, con buona parte della
dottrina e della giurisprudenza, che
l'istituto della confisca, a cui fa sempre
più ricorso il legislatore, assume, con
maggiore frequenza, una natura
specificatamente sanzionatoria. Essa, cioè,
perde l'originaria caratteristica di essere
fonte di controllo sulla pericolosità della
cosa. Caratteristica questa che dovrebbe
essere propria di una misura di sicurezza
patrimoniale (articolo
ItaliaOggi Sette del 18.06.2012). |
URBANISTICA - VARI:
Area edificabile.
Domanda.
In materia di area fabbricabile, con
l'introduzione dell'Imposta municipale
propria (Imu), è cambiata la normativa?
Risposta.
L'articolo 13, comma 2, del decreto legge
del 06.12.2011, numero 201, convertito
con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, numero 214, prevede che il presupposto
impositivo dell'Imposta municipale propria (Imu)
è costituito dal possesso di qualunque
immobile, ivi comprese le abitazioni
principali e le pertinenze. Detto articolo
richiama l'articolo 2, del decreto
legislativo numero 504, del 1992 e tale
richiamo ha lo scopo di mantenere, anche ai
fini dell'Imposta municipale propria (Imu),
le definizioni che risultavano già
utilizzate ai fini dell'Imposta comunale
sugli immobili (Ici).
Ora, alla luce della suddetta normativa, per
area fabbricabile si deve intendere l'area
utilizzabile a scopo edificatorio in base
agli strumenti urbanistici generali o
attuativi ovvero in base alle possibilità
effettive di edificazione determinate
secondo i criteri previsti agli effetti
dell'indennità di espropriazione per
pubblica utilità.
È bene richiamare, pure, il disposto
dell'articolo 36, comma 2, del decreto legge
04.07.2006, numero 223, convertito, con
modificazioni, dalla legge 04.08.2006,
numero 248. Detto articolo dispone che
un'area è da considerare fabbricabile se
essa è utilizzabile a scopo edificatorio in
base allo strumento urbanistico generale
adottato dal comune, indipendentemente
dall'approvazione della regione e
dall'adozione di strumenti attuativi del
medesimo.
Non sono considerati fabbricabili i terreni
posseduti e condotti dai coltivatori diretti
e dagli imprenditori agricoli professionali,
di cui all'articolo 1 del decreto
legislativo 29.03.2004, numero 99,
iscritti alla previdenza agricola, sui quali
persiste l'utilizzazione agro-silvo-pastorale
mediante l'esercizi di attività dirette alla
coltivazione del fondo, alla silvicoltura,
alla funghicoltura ed all'allevamento di
animali (articolo
ItaliaOggi Sette del 18.06.2012). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Convenzionamento tra enti e limiti/vincoli
in materia di personale.
La Corte dei Conti, sezione regionale
Lombardia, con il
parere 15.06.2012 n.
279 risponde a
quesiti di un Comune con popolazione
superiore ai 5.000 abitanti che intende
stipulare convenzione con altro ente avente
popolazione inferiore al predetto limite (e
tenuto, per legge, all'esercizio condiviso
di attività) per lo svolgimento associato di
servizi tecnici e per la costituzione di una
centrale di committenza.
L'ente istante
chiede se sono superabili i limiti di spesa
complessiva di personale e, nello specifico,
per forme di lavoro flessibile. La Corte,
esaminato il quadro normativo di
riferimento, formula le seguenti
conclusioni:
"... l'ente richiedente, in caso di
convenzione con comuni tenuti alla stipula
di una convenzione 'obbligatoria' ..., è
tenuto alla piena applicazione delle norme
recanti limitazioni alla spesa del
personale, segnatamente: dell'art. 1, comma
557 della L.F. 2007; dell'art. 76, comma 7,
D.L. 112/2008; dell'art. 9, comma 28, del
D.L. n. 78/2010". |
CONSIGLIERI COMUNALI: Corte
dei conti. Più tutela dalla sezione Puglia
per chi opera negli enti locali.
Rimborso delle spese legali per gli
amministratori assolti.
Gli amministratori locali che sono stati
assolti in via definitiva hanno il diritto
di ricevere il rimborso delle spese legali
sostenute in ragione dei loro compiti di
ufficio. Si arriva a questa conclusione
applicando il principio di carattere
generale del nostro ordinamento in base al
quale le spese sostenute dal mandatatario
sono a carico del mandante. Non osta a tale
conclusione il fatto che la Corte di
cassazione abbia escluso l'applicabilità in
via analogica agli amministratori del
diritto al rimborso delle spese legali che
il legislatore ed il contratto collettivo
riconoscono ai dirigenti ed ai dipendenti
delle Pa.
Sono queste le assai innovative conclusioni
contenute nella
sentenza 14.06.2012 n.
787 della Corte dei
conti della Puglia che riapre la possibilità di
riconoscere il rimborso delle spese legali
agli amministratori; possibilità che la
Corte di cassazione ha escluso con la
sentenza n. 12645/2010, indicazione a cui si
è uniformato anche il ministero
dell'Interno. La sentenza è assai
coraggiosa, in quanto corregge un
orientamento che, sulla scorta di
argomentazioni essenzialmente formali, ha
determinato una ingiustificata
penalizzazione degli amministratori.
Le sue motivazioni risultano peraltro assai
convincenti sul terreno delle
argomentazioni, perché richiamano
l'esistenza di un principio di carattere
generale del nostro ordinamento in base al
quale nello svolgimento di un mandato
(formula che si può estendere all'incarico)
non devono essere sopportati oneri
ulteriori. E che l'incarico di
amministratore possa essere equiparato ad un
mandato è innegabile, come anche dimostrato
dalla utilizzazione del termine "mandato
elettorale" o "mandato amministrativo". La
sentenza peraltro sollecita espressamente il
legislatore ad una definizione normativa
della materia, definizione che appare quanto
mai necessaria.
Alla base della pronuncia vi è il richiamo
all'articolo 1720 del codice civile nella
parte in cui dispone che il mandante deve
risarcire i danni che il mandatario ha
subito a causa dell'incarico, principio che
viene assunto come una indicazione di
carattere generale del nostro ordinamento
giuridico.
Posta tale premessa si arriva alla
conclusione per cui «escludere la
fattispecie della rimborsabilità delle spese
legali sostenute dagli amministratori
dall'ambito di applicazione dell'articolo 67
del Dpr n. 268/1987 nella sua
interpretazione estensiva e,
contestualmente, negare quel richiamo
all'analogia legis per sostenere la
rimborsabilità delle spese degli
amministratori comunali, con conseguente
inapplicabilità della disciplina del mandato
alla fattispecie de qua, significherebbe
confinare nell'area del giuridicamente
irrilevante la stessa con conseguenze, in
taluni casi, palesemente in contrasto con
quei principi di giustizia sostanziale che è
dovere del Giudice ricercare per la
disciplina del caso concreto, ove non sia
intervenuto direttamente il legislatore»
(articolo Il Sole 24
Ore del 19.06.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: E'
illegittimo per contrarietà dell'art. 10,
comma 5, del D.lvo n. 163/2006, la
disposizione commissariale n. 2/2012 nella
parte in cui conferisce l'incarico di R.U.P
ad un dipendente con contratto a tempo
determinato in presenza di tecnici di ruolo
dotati di idonea professionalità e nulla
rilevando il carico di lavoro di questi
ultimi.
Venendo ai rilievi di merito mossi in sede
istruttoria, ritiene il Collegio che il
primo di essi, relativo alla circostanza che
il soggetto nominato R.U.P. non sia un
dipendente di ruolo dell’amministrazione
aggiudicatrice, così come previsto dall’art.
10, 5° comma, del D.Lgs. n. 163/2006 (c.d.
Codice dei contratti), non possa
considerarsi superato, non ritenendo
meritevoli di accoglimento le considerazioni
prodotte dall’Amministrazione in sede di
contraddittorio.
Infatti, la suindicata disposizione, così
recita: ”Il responsabile del procedimento
deve possedere titolo di studio e competenza
adeguati in relazione ai compiti per cui è
nominato. Per i lavori e i servizi attinenti
all’ingegneria e all’architettura deve
essere un tecnico. Per le amministrazioni
aggiudicatrici deve essere un dipendente di
ruolo . In caso di accertata carenza di
dipendenti di ruolo in possesso di
professionalità adeguate, le amministrazioni
aggiudicatrici nominano il responsabile del
procedimento tra i propri dipendenti in
servizio” (comma così modificato
dall’art. 2 del D.Lgs. 26.01.2007, n. 6).
Il nuovo regolamento sui contratti pubblici,
approvato con D.P.R. 05.10.2010, n. 207,
all’art. 272, primo comma, ribadisce,
altresì, che il responsabile del
procedimento debba essere nominato dalle
amministrazioni aggiudicatrici fra i propri
dipendenti di ruolo, fatto salvo quanto
previsto dall’art. 10, comma 5, del codice
dei contratti ed, infine, al comma 4,
precisa che “il responsabile del
procedimento è un funzionario, anche di
qualifica non dirigenziale,
dell’amministrazione aggiudicatrice.”
Infine, il requisito dell’appartenenza del
R.U.P. ai ruoli dell’amministrazione
aggiudicatrice, ribadito a chiare lettere
dal dettato normativo e regolamentare, trova
pacifica conferma tanto nelle deliberazioni
dell’AVCP (cfr. deliberazione n. 59 del
27.07.2006; deliberazione n. 24 del
23.02.2011) che nella giurisprudenza
amministrativa (cfr. Cons. St., Sez. V,
06.07.2010).
Non è superfluo osservare, inoltre, che il
successivo comma 7 dell’art. 10 del codice
dei contratti prevede che in caso di carenze
accertate in organico ovvero in assenza di
soggetti in possesso della professionalità
necessaria per lo svolgimento dei compiti di
R.U.P., l’incarico di supporto al R.U.P.
possa essere affidato a soggetti esterni in
possesso di specifiche competenze tecniche
che abbiano stipulato adeguata polizza
assicurativa, con ciò confermando,
indirettamente, la regola che il R.U.P.,
comunque, debba essere un dipendente di
ruolo dell’amministrazione aggiudicatrice.
L’unica eccezione a suddetta regola,
pertanto, risulta introdotta con la modifica
recata dall’art. 2 del D.lgs. 26.01.2007, n.
6 che ha previsto la possibilità di affidare
l’incarico di R.U.P. a dipendenti “in
servizio” (tra i quali rientrano i
lavoratori assunti con contratto a tempo
determinato ma non già i lavoratori titolari
di contratti co.co.co. o co.co.pro.),
solamente in caso di “accertata carenza
di dipendenti di ruolo in possesso di
professionalità adeguate”. La suindicata
disposizione, infatti, si era resa
necessaria per consentire l’affidamento di
lavori anche da parte di enti locali di
piccole dimensioni, nei quali la presenza di
vuoti di organico, ricoperti con contratti a
tempo determinato, non avrebbe consentito il
regolare svolgimento dell’attività degli
enti.
Ritiene il Collegio, tuttavia, che la
circostanza della “accertata carenza”
di dipendenti di ruolo debba essere intesa
quale assenza tra i dipendenti in organico,
di funzionari e/o dirigenti in possesso dei
requisiti tecnici necessari (trattandosi di
lavori) e non già, come interpretato dal
soggetto attuatore – Dirigente generale del
Dipartimento regionale della Protezione
Civile, quale mera indisponibilità di
tecnici per sovraccarico di lavoro.
Nell’articolata memoria depositata nel corso
dell’adunanza ed illustrata verbalmente,
infatti, risulta enfatizzata la circostanza
che l’ufficio provinciale della protezione
civile di Agrigento –territorialmente
competente– avesse in organico, tra i
dipendenti di ruolo, solamente tre ingegneri
ed un architetto, tutti impegnati
–ovviamente- in incarichi di R.U.P.,
Direzione Lavori, addetti alla sicurezza
etc., ovvero con carichi di lavoro
individuali che, a detta del Dirigente
generale, non avrebbero consentito un
ulteriore aggravio.
In disparte la circostanza che risulta
confermata –per tabulas– la presenza
in organico di tecnici dei ruoli
dell’amministrazione, ad avviso del Collegio
non appare ragionevole l’individuazione del
novero dei tecnici di ruolo cui affidare
l’incarico di R.U.P. circoscritta ai soli
dipendenti dell’ufficio provinciale di
Agrigento, ancorché logisticamente più
vicini al luogo dei lavori da eseguirsi: il
soggetto attuatore dei provvedimenti
commissariali, infatti, non risulta
certamente vincolato all’organizzazione
territoriale del proprio ufficio ma può e
deve disporre, nell’ambito dei propri poteri
di organizzazione, delle risorse umane e
strumentali cui è preposto, al precipuo fine
di realizzare gli interventi commissariali
al meglio, anche individuando i soggetti
idonei presso altri uffici periferici e/o
centrali ovvero, in ultima analisi,
richiedendo al Commissario delegato il
distacco di tecnici di ruolo
dell’amministrazione regionale presso il
dipartimento di protezione civile.
In nessun caso, pertanto, può essere
legittimato l’affidamento dell’incarico di
R.U.P. a un dipendente a contratto in
ipotesi di accertata copertura di posti in
organico di tecnici ingegneri e/o architetti
con dipendenti di ruolo, apparendo
irrilevante il (presunto) eccessivo carico
di lavoro.
Lo stesso principio di rotazione degli
incarichi, espressamente richiamato dal
Dirigente generale del Dipartimento generale
della protezione civile quale criterio
ribadito nella determinazione n. 2/2009
dell’AVCP, deve essere, certamente, tenuto
in considerazione nell’ambito della stessa
tipologia di dipendenti ma non è idoneo ad
equiparare, ai fini della nomina a R.U.P., i
dipendenti di ruolo a quelli comunque “in
servizio”.
Priva di pregio, infine, appare al Collegio
l’enfatizzazione, operata dal soggetto
attuatore, della particolare
specializzazione nel campo dell’ingegneria
portuale posseduta dall’ing. Lidia Pane (per
avere quest’ultima collaborato in studi
privati operanti nel settore portuale),
ritenuta essenziale per lo svolgimento
dell’incarico di R.U.P. nel caso in esame.
Ritiene il Collegio, infatti, che tale
requisito possa costituire un quid pluris,
rispetto a quanto richiesto per il corretto
svolgimento dei compiti e delle funzioni che
la legge assegna al R.U.P., idoneo ad
assumere rilevanza solamente nell’ambito di
una valutazione comparativa tra i requisiti
in possesso di due o più ingegneri di ruolo,
non già costituire titolo per escludere la
sussistenza in capo a questi ultimi della
professionalità necessaria per
l’espletamento dell’incarico di R.U.P.
Non è ultroneo sottolineare, infatti, che
l’art. 273 del nuovo regolamento sui
contratti pubblici, il quale elenca le
funzioni ed i compiti del responsabile del
procedimento, consente di ricondurre la
figura del R.U.P. non già a quella di un
tecnico superspecializzato, bensì a quella
di un tecnico (nell’ipotesi di lavori) con
compiti propulsivi e di coordinamento di
tutte le attività necessarie e di tutti i
soggetti coinvolti affinché il processo
realizzativo dell’intervento possa essere
condotto nel rispetto dei tempi e dei costi
preventivati, costituendo l’interfaccia
dell’amministrazione con i privati ed
assumendone la relativa responsabilità,
anche patrimoniale.
Risulta di tutta evidenza, pertanto, che la
ratio della norma che richiede
l’appartenenza del R.U.P. ai ruoli
dell’amministrazione aggiudicatrice trae
fondamento, anche, dalla maggiore garanzia
patrimoniale che il dipendente di ruolo
offre all’amministrazione di appartenenza,
in caso di accertati danni patrimoniali,
rispetto al contrattista a tempo
determinato: nel caso in esame, peraltro,
trattasi di una dipendente c.d. precaria con
contratto scaduto la cui proroga , alla data
dell’adunanza, non risulta ancora confermata
con legge di bilancio.
Il Collegio, tuttavia, tenendo conto che
risulta inficiata da illegittimità solamente
la disposizione contenuta nell’art. 4 del
provvedimento commissariale n. 2
dell’08.02.2012 – relativa alla nomina del
R.U.P., ritenendo superate le osservazioni
relative alla nomina del geometra Diego
Sberna, per il quale risulta allegato il
relativo curriculum, ritiene di
ammettere al visto ed alla conseguente
registrazione la disposizione commissariale
n. 2 in esame, al fine di consentire una
celere prosecuzione degli interventi, con
stralcio dell’art. 4 (Corte dei Conti, Sez.
controllo Sicilia,
parere 04.06.2012 n.
148). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Compensi
senza sforare il Ccnl. Vietato autorizzare
somme aggiuntive con regolamento. La Corte
conti Lombardia ha limitato l'ambito di
erogazione degli incentivi ai progettisti.
Le amministrazioni
locali possono erogare al proprio personale
i compensi previsti da norme legislative
solamente nello stretto ambito fissato dai
contratti collettivi nazionali di lavoro,
senza possibilità di estensione tramite i
propri regolamenti. Inoltre, tali compensi
devono essere compresi nel fondo per la
contrattazione collettiva decentrata
integrativa e non possono superare, salve le
eccezioni ammesse dalla Corte dei conti e
dalla Ragioneria generale dello stato, il
tetto del fondo 2010.
La sezione regionale di controllo della
Corte dei conti della Lombardia, con il
recente
parere
30.05.2012 n. 259 ha limitato
l'ambito di erogazione del compenso pari al
30% della tariffa professionale ai soli casi
di progettazione degli strumenti urbanistici
effettuata direttamente all'interno
dell'ente, escludendo la possibilità di
erogare tali compensi nel caso in cui gli
uffici abbiano svolto una attività di
supporto a soggetti esterni.
Viene in particolare escluso che tale
risultato possa essere raggiunto attraverso
una modifica regolamentare adottata dalle
amministrazioni, anche se l'adozione del
regolamento sia stata preceduta dalla
contrattazione con le organizzazioni
sindacali. In particolare, «l'art. 92,
comma 6, del dlgs n. 163/2006 (testo unico
sugli appalti) non potrebbe costituire
titolo per l'erogazione di speciali compensi
ai dipendenti che svolgono attività
sussidiarie, strumentali o di supporto alla
redazione di atti di pianificazione affidata
a professionisti esterni». Ed ancora,
una tale scelta «contrasterebbe con la
natura eccezionale della norma e con il
principio della rigidità della struttura
retributiva, la cui determinazione è rimessa
alla contrattazione collettiva (nazionale e,
solo nei limiti di questa, decentrata)».
Dal parere si ricava inoltre una ulteriore
conseguenza: questi compensi possono essere
erogati solamente se si rientra nell'ambito
della progettazione di strumenti
urbanistici, oltre che nella realizzazione
di opere pubbliche. Ciò vuol dire che le
amministrazioni non possono estendere
l'ambito di applicazione della possibilità
di erogare questi benefici al di là dei
limiti strettamente fissati dalla
contrattazione collettiva nazionale. Questo
principio deve essere applicato in modo
assai rigido e vincolante a tutte le deroghe
previste dai contratti collettivi nazionali
di lavoro. Per cui, ad esempio, le
amministrazioni locali non possono estendere
la possibilità di riconoscere una quota dei
recuperi di evasione Ici, neppure previa
intesa con le organizzazioni sindacali, ad
altri tributi o, addirittura, al recupero di
entrate extratributarie. Ed ancora, l'Imu
non può essere automaticamente equiparata a
questo fine all'Ici.
L'altra indicazione che si deve trarre è che
le risorse previste da specifiche norme per
la incentivazione del personale e dei
dirigenti devono necessariamente essere
inserite nel fondo per la contrattazione
collettiva decentrata integrativa. In questo
senso vanno le previsioni del dlgs n.
165/2001 sulla contrattualizzazione di tutte
le forme di salario accessorio e le
previsioni dei Ccnl (negli enti locali
l'articolo 15, comma 1, lettera k), del
contratto dello 01.04.1999 e l'articolo 26
del contratto del 23.12.1999 per i
dirigenti).
Il parere ci richiama al rigido rispetto di
tale principio, anche ricordando le sentenze
con cui la Corte dei conti della Puglia ha
più volte stabilito la illegittimità della
erogazione di compensi al personale al di
fuori del fondo ed ha previsto la
maturazione di colpa grave in capo ai
dirigenti che liquidano compensi al
personale al di fuori di essi.
Le indicazioni contenute nella presa di
posizione della sezione di controllo della
Lombardia risultano quanto mai opportune
perché ancora oggi una parte rilevante degli
enti locali eroga questi compensi al di
fuori del fondo.
Erogazione che deve essere definita come
illegittima, in quanto non consente di avere
una trasparenza adeguata, cioè di sapere
quante risorse vengono destinate a questo
titolo e chi ne sono i beneficiari, potendo
semmai disporre misure correttive nella
ripartizione delle altre componenti del
fondo per la contrattazione collettiva
decentrata integrativa
(articolo ItaliaOggi del
22.06.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
NEWS |
INCARICHI PROGETTUALI: Parcelle
più leggere per i tecnici. Spese e oneri
dell'attività fuori dalla liquidazione dei
compensi. Il decreto con i parametri di
riferimento riduce gli onorari dei
professionisti fino al 30%.
Parcelle più leggere
fino al 30% per le prestazioni professionali
di area tecnica. Per lo meno nel calcolo
degli onorari giudiziari. Anche se, a detta
di molti, i nuovi parametri per la
liquidazione dei compensi diventeranno
implicitamente i nuovi riferimenti tariffari
nella contrattazione con i clienti.
Secondo l'atteso decreto che contiene i
criteri per la liquidazione degli onorari
per le professioni regolamentate (si veda
ItaliaOggi di ieri), infatti, sul calcolo
dovuto per esempio a un'opera di
progettazione o direzione lavori, di
verifica o collaudo di un impianto elettrico
scompare qualsiasi rimborso delle spese e
degli oneri sostenuti per svolgere
l'attività. Il che significa una media di
circa il 20-30% in meno dei compensi
professionali dovuti fino ad ora, quando
queste spese venivano calcolate a piè di
lista o su base forfettaria fino a un
massimo del 60% degli onorari. In sostanza
se, per esempio, per una ristrutturazione
edilizia del valore di 100 mila euro il
professionista fino ad ora avrebbe incassato
circa 13 mila euro e a queste, poi, aggiunto
tutti i rimborsi e spese sostenute per
l'attività, ora queste voci saranno
ricomprese nel calcolo totale.
Un passaggio che ha fatto andare su tutte le
furie le diverse rappresentanze delle
professioni tecniche. Basti pensare, spiega
Pasquale Caprio, presidente del dipartimento
competenze e compensi professionale del
Consiglio nazionale degli architetti, «che
secondo le nostre simulazioni effettuate
sulla base di questi parametri il compenso,
per esempio, su una progettazione di un
edificio scolastico, sarà decurtato ancora
di più rispetto al criterio tariffario
risalente a una vecchia legge del 1949 il
cui ultimo aggiornamento risale a oltre 30
anni fa, nel 1987». Ma non solo, perché
il regolamento messo a punto dal ministro
della giustizia, Paola Severino, lascia
anche un margine di discrezionalità nella
mani del giudice che, si legge nell'articolo
36 del testo, «in considerazione della
natura dell'opera, del pregio della
prestazione, dei risultati e dei vantaggi
anche economici, può aumentare o diminuire
il compenso di regola fino al 60%».
Una norma questa che sono in molti a
ritenere addirittura frutto di un svista: «mi
sembra un passaggio incongruo», spiega
il numero degli ingegneri Armando Zambrano,
«perché se c'è una complessità specifica
che nel testo è stata ricompresa in una
determinata forbice di valore, allora non si
capisce questo abbattimento o questa
maggiorazione a cosa serva. Se, poi, si
tratta di considerare l'eventuale urgenza
della prestazione allora la diminuzione non
ha alcun senso».
Dito puntato anche per la scomparsa di
qualsiasi riferimento di un parametro legato
alla prestazione a ora, quella che nei
vecchi tariffari era detta a vacazione: «Il
mio tempo, in sostanza non vale nulla»,
tuona ancora Capria, «perché qualora non
si possa far riferimento ai parametri ma si
debba considerare il fattore tempo, il
professionista non potrà essere pagato».
In tutto questo i professionisti di area
tecnica, dunque, salvano solo un principio:
il regolamento in questione una volta
entrato in vigore diventerà il nuovo punto
di riferimento per le stazioni appaltanti da
utilizzare per le gare di progettazione.
«Un passaggio importante», spiega il
numero uno dei periti industriali Giuseppe
Jogna, «che finalmente porrà fino
all'arbitrio delle amministrazioni pubbliche
nel calcolo degli onorari dovuto all'assenza
di riferimenti per la cancellazione delle
tariffe e soprattutto alla tentazione di
sottostimarne gli importi. D'ora in poi,
quindi, chi determinerà il bando farà
importi compatibili con tali parametri e
soprattutto con la logica del lavoro»
(articolo ItaliaOggi del
23.06.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: DECRETO
CRESCITA/
Ristrutturazioni legate ai bonifici.
Detrazione del 50%: conta il pagamento entro
giugno 2013. Il nuovo beneficio scatterà
dalla pubblicazione del dl in Gazzetta.
Detrazione al 50% sulle ristrutturazioni
edilizie ancorata alla data di pagamento che
deve avvenire necessariamente mediante
bonifico bancario e/o postale,
nell'intervallo tra la data di entrata in
vigore del «dl crescita» e il 30.06.2013.
Con
l'articolo 11, del decreto citato
(si veda ItaliaOggi 16/06/2012), il
legislatore è intervenuto a innalzare le
soglie di detrazione ai fini Irpef delle
ristrutturazioni, in un tempo limitato di
circa un anno, prevedendo una nuova
percentuale di detrazione (50%) e una nuova
soglia (96 mila euro) per ciascuna unità
abitativa.La disposizione, come indicato
nella relazione illustrativa, tende a
favorire le imprese operanti nel comparto
edile, attualmente in forte crisi,
innescando un maggior interesse da parte dei
contribuenti a eseguire interventi di
ristrutturazione edilizia; la
contrapposizione di interessi tra il
committente e il prestatore comporta,
inevitabilmente, un incremento di fatturato
(e di maggiori imposte) per il prestatore e
il contenimento della pressione fiscale a
cura del contribuente (detrazione spendibile
in un decennio che abbatte, fino a
concorrenza, l'Irpef dovuta).
In pratica, dal
momento in cui il decreto in commento entra
in vigore (la pubblicazione è attesa per i
primi giorni della prossima settimana),
nonostante la presenza dell'articolo 16-bis,
dpr n. 917/1986 che prevede la detrazione
del 36% da calcolarsi su un tetto ridotto
pari a 48 mila euro, il committente potrà
ottenere maggiori benefici. Innanzitutto, la
disposizione fissa un criterio di «cassa»
per l'applicazione della nuova detrazione
(50% su 96 mila euro di spesa), facendo
riferimento alle spese «sostenute» dalla
data di entrata in vigore del decreto fino
al 30.06.2013, per gli interventi di
ristrutturazione indicati nel citato art.
16-bis del Tuir (manutenzione, restauro,
risanamento conservativo e quant'altro), a
prescindere dalla categoria catastale
attribuita all'unità abitativa, comprese le
rurali, di cui al comma 3, art. 9, dl n.
557/1993.
Se l'unità immobiliare è cointestata, il
nuovo limite deve essere suddiviso tra i
proprietari, tenendo conto che può
utilizzare il bonus anche solo il
contribuente che detiene l'unità abitativa,
a prescindere dalla proprietà che può essere
di altro soggetto (si parla di promittente
acquirente, di locatario e di comodatario).
Inoltre, il comma 4, del citato art. 16-bis
del Tuir dispone che se gli interventi sono
una mera prosecuzione di interventi iniziati
in anni precedenti, si deve tenere conto, ai
fini del computo della soglia, anche delle
spese sostenute nei medesimi (precedenti)
anni (Agenzia delle entrate, circ. 9/E/2002
§ 7.3 e n. 15/E/2002) mentre il tetto può
essere «sbancato» quando i lavori eseguiti
in un determinato anno consistono in nuovi
interventi di recupero (Agenzia delle
entrate, circ. 9/E/2012 § 7.4), con
riferimento ai contenuti di ogni
concessione, autorizzazione o comunicazione
di inizio lavori.
Di conseguenza, se il
contribuente nel corso del 2012 ha già
iniziato una ristrutturazione, raggiungendo
nel corso del mese di maggio la soglia di 48
mila, dopo l'emanazione del decreto in
commento potrà arrivare sino a 96 mila euro,
detraendo sull'ulteriore quota (48 mila
euro) il 50%, in luogo del 36%. Pertanto, il
limite di spesa, per il medesimo intervento
eseguito nel corso del 2012, passa da 48
mila a 96 mila anche se riferibili alla
stessa concessione o autorizzazione, mentre
il contribuente dovrà solo preoccuparsi,
salvo diverse precisazioni ministeriali, di
eseguire il pagamento (bonifico) in data
successiva all'entrata in vigore del decreto
sviluppo.
Infatti, il beneficiario del
bonus, oltre che ottenere la fattura del
prestatore emessa nel rispetto delle
disposizioni di cui all'art. 6, dpr n.
633/1972 (momento del pagamento o, se in
data anteriore, dell'emissione della fattura
o del pagamento dell'acconto) deve fare
attenzione che i pagamenti siano eseguiti
nell'intervallo tra la data di entrata in
vigore del decreto sviluppo e quella del
30/06/2013. È necessario, inoltre, eseguire
il pagamento mediante bonifico bancario e/o
postale, contenente la causale di pagamento,
nonché il codice fiscale del destinatario
della detrazione e il codice fiscale o la
partita Iva del beneficiario del bonifico
(Agenzia delle entrate, ris. n. 55/E/2012).
La procedura in commento si rende
applicabile, per espressa previsione
legislativa (comma 2, dell'art. 11 dl
sviluppo) anche alle spese destinate al
risparmio energetico (55%) e, pertanto, per
quelle sostenute nel corso dell'anno 2012 si
avranno due distinte entità di detrazione:
sino alla data di entrata in vigore del
decreto, infatti, ai bonifici eseguiti per
il pagamento delle fatture ricevute sino a
tale data, si rende applicabile la
detrazione del 36%, mentre per le spese
sostenute da tale data sino al 30/06/2013 si
renderà applicabile la detrazione del 50%.
Ciò in conseguenza della modifica introdotta
dal decreto in commento che anticipa
l'assorbimento di tali spese tra quelle
indicate nell'art. 16-bis del Tuir, a
decorrere dall'01/01/2012, anziché
dall'01/01/2013
(articolo ItaliaOggi del
22.06.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Pensionati, indennità piena. Metà
somma se il lavoratore non chiede
aspettativa. L'amministratore comunale ha
diritto a percepirla nella misura intera.
Qual è l'esatta
corresponsione dell' indennità di funzione
dovuta ad un amministratore comunale in
quiescenza?
L'art. 82 del decreto legislativo n.
267/2000, al comma 1, prevede il
dimezzamento dell'indennità di funzione per
i lavoratori dipendenti che non abbiano
richiesto di essere collocati in aspettativa
non retribuita.
La ratio di tale disposizione è di
differenziare il trattamento economico tra i
soggetti che si trovano in situazioni
diverse, ossia tra quelli cui la legge
riconosce il diritto di porsi in aspettativa
non retribuita e quelli che non possono
avvalersi di tale facoltà, quali i
lavoratori autonomi, i disoccupati, gli
studenti e, come nel caso di specie, i
pensionati.
Pertanto, l'amministratore comunale avrà
diritto a percepire l'indennità di funzione
nella misura intera
(articolo ItaliaOggi del
22.06.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Incompatibilità.
Sussiste un'ipotesi di incompatibilità di
cui all'art. 63, comma 1, n. 1, a carico di
un consigliere ed assessore di un comune,
che riveste la carica di presidente di una
società sportiva legata all'ente da una
convenzione triennale, dal quale riceve un
contributo per la promozione dell'attività
sportiva, svolta in ambito comunale, che non
supera il 10% del bilancio dell'ente
beneficiario?
L'art. 63, comma 1, n. 1 del decreto
legislativo n. 267/2000 prevede due ipotesi
di incompatibilità con la carica di
consigliere alternative fra loro: l'una
relativa alla posizione dell'amministratore
di un ente soggetto a vigilanza del comune,
in cui vi sia almeno il 20% di
partecipazione da parte dello stesso;
l'altra connessa, invece, alla posizione
dell'amministratore di un ente che riceva
dal comune, in via continuativa, sovvenzioni
facoltative che superino nell'anno il 10%
del totale delle proprie entrate.
Il caso in esame ricade nella seconda delle
ipotesi sopra indicate, dato che la società
sportiva, legata all'ente da una convenzione
triennale, riceve un contributo per la
promozione dell'attività sportiva svolta
nell'ambito comunale; considerato che la
sovvenzione non supera il 10% del bilancio
dell'ente beneficiario, non sembrerebbero
sussistere forme di ingerenza dell'ente
nell'attività del sodalizio, tali da
consentire al comune di concorrere alla
formazione della volontà della società. Una
causa ostativa all'esercizio del mandato
potrebbe, invece, configurarsi in base
all'ipotesi di cui al n. 2 del comma 1 del
citato art. 63, qualora la società avesse
parte, direttamente o indirettamente, in
servizi nell'interesse del comune.
In proposito occorrerebbe accertare se il
consiglio comunale si fosse già espresso
sulla posizione dell'interessato in sede di
convalida degli eletti o, successivamente,
in esito alla procedura prevista dall'art.
69 del Tuel. Se il consiglio non si fosse
pronunciato, la questione dovrebbe essere
posta alla sua attenzione in ottemperanza al
principio generale per cui ogni organo
collegiale delibera circa la regolarità dei
titoli di appartenenza dei propri
componenti.
Pertanto, le eventuali determinazioni
autonomamente assunte dal consiglio comunale
possono formare oggetto di ricorso innanzi
all'autorità giudiziaria
(articolo ItaliaOggi del
22.06.2012). |
APPALTI: Durc a norma con
l'invito.
In caso di irregolarità 15 giorni per
rimediare. L'Inail
ricorda alle proprie sedi che l'avviso è
parte integrante dell'iter.
L'irregolarità contributiva ai fini del Durc
non può essere dichiarata se prima l'impresa
non è stata invitata alla regolarizzazione,
assegnando un termine di 15 giorni. Infatti,
l'invito è parte integrante del procedimento
amministrativo e, come tale, non può essere
omesso senza inficiare la regolarità e la
legittimità del conseguente certificato
unico di regolarità contributivo (Durc)
emesso.
Lo precisa, tra l'altro, l'Inail nella
nota 14.06.2012 n. 3760 di prot..
Durc e regolarità. I chiarimenti dell'Inail
arrivano in seguito a segnalazioni circa il
non corretto operato di alcune sedi
territoriali dell'istituto le quali,
appunto, rilascerebbero l'irregolarità
contributiva senza aver prima invitato
l'impresa alla regolarizzazione.
Quest'ultimo passaggio, invece, come
previsto dalle norme vigenti e come ribadito
dallo stesso istituto (tra l'altro nella
circolare n. 22/2011, si veda ItaliaOggi del
25.03.2011).
Infatti, l'articolo 7, comma
3, del decreto ministeriale 24.10.2007
stabilisce che, nel caso in cui l'impresa,
in sede istruttoria, risulti inadempiente,
gli enti previdenziali prima di emettere il
certificato attestante l'irregolarità hanno
l'obbligo di invitarla a regolarizzare la
posizione contributiva, assegnando un
termine di 15 giorni. In tal caso, l'invito
alla regolarizzazione sospende i termini di
rilascio del Durc.
I chiarimenti. Alla luce della normativa
vigente, precisa l'Inail, tranne le ipotesi
di richiesta di Durc per verifica di
autodichiarazione, l'invito alla
regolarizzazione è un atto dovuto per la
correttezza del procedimento amministrativo
e la successiva legittimità del certificato
emesso. Peraltro, aggiunge l'Inail,
l'eventuale rilascio di un Durc irregolare
ha delle conseguenze rilevanti, soprattutto
nel settore degli appalti, in quanto può
essere anche causa di risoluzione del
contratto e, dunque, è importante che le
sedi territoriali seguano scrupolosamente
l'iter previsto per il suo rilascio (per
evitare, evidentemente, di essere chiamate
direttamente in causa sulla responsabilità
di un'eventuale perdita dell'appalto da
parte dell'impresa).
Ancora, l'Inail
conferma l'opportunità che, in fase di
lavorazione dei Durc, le sedi territoriali
procedano preliminarmente alle eventuali
sistemazioni contabili (quali i giroconto
eccedenze, le sistemazione scarti ecc.) in
modo da mantenere costantemente aggiornata e
monitorata la situazione contributiva delle
aziende e così facilitare le relative
verifiche di regolarità.
Infine, l'Inail
ricorda che, nel caso di Durc richiesto
dalla stazione appaltante o
dall'amministrazione procedente per verifica
dell'autodichiarazione prodotta
dall'impresa, la regolarità deve sussistere
alla data della stessa dichiarazione
sostitutiva (con conseguenze, anche penali,
in ordine alla falsità di quanto auto
dichiarato dalla ditta) e quindi non può
ammettersi la regolarizzazione
(articolo ItaliaOggi del 19.06.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
DECRETO CRESCITA/
Permessi agevolati con le autocertificazioni.
Permessi edilizi più facili. Laddove la
normativa richieda l'acquisizione di atti o
pareri di enti appositi, oppure l'esecuzione
di verifiche preventive, sarà possibile
produrre delle autocertificazioni con
l'ausilio di un professionista e velocizzare
così la procedura. Naturalmente resta salva
la possibilità di operare successivamente la
verifica da parte delle amministrazioni
competenti. Ma tanto nel caso della denuncia
di inizio attività (Dia) tanto in quello
della segnalazione certificata di inizio
attività (Scia) sarà sufficiente, in via
generale, l'asseverazione di tecnici
abilitati che attestino il rispetto di tutti
i requisiti di legge.
È quanto prevede il
pacchetto sviluppo con lo scopo di rimuovere
gli ostacoli burocratici che spesso
rallentano gli interventi edilizi. Lo
snellimento, precisa tuttavia il
provvedimento, non opererà laddove
sull'immobile «sussistano vincoli
ambientali, paesaggistici o culturali»
oppure qualora siano interessati edifici
preposti «alla difesa nazionale, alla
pubblica sicurezza, all'immigrazione,
all'asilo, alla cittadinanza,
all'amministrazione della giustizia o delle
finanze».
In arrivo con il decreto anche il Piano
nazionale per le città. Dedicato sia alla
riqualificazione delle aree urbane, in
particolare quelle più degradate, sia alla
realizzazione di nuove infrastrutture. Sarà
il ministro Corrado Passera a definire con
decreto la cabina di regia del progetto, che
sarà composta da rappresentanti dei vari
ministeri interessati, ma anche, tra gli
altri, dell'Agenzia del demanio, della Cdp,
della Conferenza delle regioni e delle
province autonome e dell'Anci.
Saranno
proprio i comuni a dover mettere a punto
appositi «contratti di valorizzazione
urbana», recanti l'insieme degli interventi
da effettuare nelle aree degradate, i
finanziamenti necessari (sia pubblici sia
privati), i soggetti coinvolti e il cronoprogramma. La cabina di regia
selezionerà le opere da effettuare sulla
base di criteri quali l'immediata
cantierabilità, la capacità di far
convergere fondi pubblici e privati, la
riduzione di fenomeni di tensione abitativa
e l'efficientamento dei trasporti urbani.
Per alimentare il Piano nazionale per le
città viene attivato un apposito fondo di
spesa, che sarà operativo per gli anni dal
2012 al 2017. Complessivamente, gli importi
messi subito a disposizione dal governo
ammontano a 224 milioni di euro. Uno dei
compiti principali della cabina di regia, si
legge nella relazione al pacchetto sviluppo,
sarà quello di «coordinare i diversi
soggetti istituzionali interessati, al fine
di ridurre al massimo possibili impedimenti
che rallentino l'attuazione degli stessi».
Previste pure norme per consentire la
razionalizzazione degli interventi
riguardanti i programmi integrati
disciplinati dall'articolo 18 del dl n.
152/1991, relativi alla costruzione di
alloggi di edilizia sovvenzionata ed
agevolata da concedere in locazione al
personale delle amministrazioni statali
impegnato nella lotta alla criminalità
organizzata (articolo
ItaliaOggi Sette del 18.06.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
DECRETO CRESCITA/ Gli interventi in
materia di costruzioni varate dal Cdm. Iva e
Imu per dare ossigeno alle
imprese. Maxidetrazione sui lavori edili.
Ristrutturare casa conviene di più.
Iva e Imu per aiutare le imprese edili a
uscire dalla crisi. Conferma delle
detrazioni Irpef per ristrutturazioni e
risparmio energetico per alleggerire le
spese delle famiglie e stimolare la domanda.
Sono questi gli interventi in materia di
costruzioni varati dal governo con il
pacchetto sviluppo approvato venerdì (si
veda ItaliaOggi del 16 giugno). Misure che
non si limitano all'ambito fiscale, ma che
includono anche semplificazioni
amministrative in tema di autorizzazioni e
pareri per le attività edilizie.
Senza
dimenticare il Piano nazionale per le città,
finalizzato a riqualificare le aree urbane
(specie quelle maggiormente degradate) e a
sviluppare una sinergia trasparente ed
efficiente tra sistema pubblico e imprese
private.
Iva. Una prima importante boccata d'ossigeno
per le imprese di costruzione arriva dalla
modifica dell'articolo 10, comma 1, numeri
8), 8-bis) e 8-ter) del dpr n. 633/1972. Per
effetto della normativa vigente finora,
infatti, le cessioni di immobili destinati
ad uso abitativo effettuate dalle imprese
dopo cinque anni dalla costruzione restavano
esenti da Iva. Allo stesso modo la maggior
parte delle locazioni effettuate
direttamente dal soggetto edificatore oltre
il predetto termine quinquennale. In tali
ipotesi, gli imprenditori edili non potevano
perciò compensare l'Iva pagata per
l'acquisto di beni e servizi relativi
all'immobile, dovendo semmai restituire
all'erario l'Iva a credito portata
provvisoriamente in detrazione. Con la
modifica introdotta dal pacchetto sviluppo,
invece, l'Iva sarà applicata anche decorsi i
cinque anni, riportando l'imposta a una
condizione di neutralità nei confronti degli
imprenditori edili.
Secondo l'Ance,
ipotizzando una percentuale di immobili
invenduti (o non locati) entro cinque anni
dalla costruzione pari al 6%, le risorse
economiche che potranno essere «liberate», e
quindi reinvestite dalle imprese, ammontano
a circa 840 milioni di euro annui, capaci di
innescare una ricaduta positiva sul sistema
economico di circa 2,8 miliardi, con un
aumento dei livelli occupazionali di 14 mila
unità.
Imu. Un altro salvagente lanciato da palazzo
Chigi a un settore in forte crisi come
quello dell'edilizia è rappresentato
dall'esenzione Imu sugli immobili invenduti.
La norma prevede l'esclusione, per un
periodo non superiore a tre anni
dall'ultimazione dei lavori, dei fabbricati
di nuova costruzione ancora in cerca di un
acquirente. La relazione governativa al
provvedimento stima in circa 35 milioni di
euro all'anno le somme risparmiate dalle
imprese. Risorse che potranno essere
reinvestite nel sistema produttivo, con una
ricaduta complessiva che i calcoli
dell'esecutivo quantificano in circa 100
milioni di euro.
Ristrutturazioni edilizie. Il terzo
intervento del governo va nella direzione di
aiutare sia le famiglie, che potranno
beneficiare di uno sgravio maggiore, sia le
imprese edili, che saranno investite da una
crescente richiesta di interventi di
ristrutturazione. Il pacchetto sviluppo,
infatti, prevede di elevare le detrazioni
Irpef dal 36% al 50%. Aumenta anche il
limite massimo di spesa agevolabile per
ciascuna unità immobiliare, che raddoppia
passando da 48 mila a 96 mila euro.
I costi dovranno essere documentati e
sostenuti nel periodo compreso tra la data
di entrata in vigore del dl e il 30.06.2013. L'agevolazione sarà ripartita in dieci
annualità. Le minori entrate per lo Stato,
determinate dall'incremento delle
detrazioni, «sono parzialmente compensate
dal maggior gettito di imposte che si
determinerebbe grazie all'aumento di entrate
connesse all'aumento del numero di
interventi che si prevede la norma possa
generare per l'Iva e Irpef/Ires/Irap»,
spiega la relazione. L'esecutivo ricorda che
l'introduzione di tale tax expenditure nel
periodo 1998-2006 ha generato un incremento
annuo degli investimenti in ristrutturazioni
stimabile in circa 1.150 milioni di euro.
Riqualificazione energetica. Attraverso una
novella al testo dell'articolo 1, comma 48,
della legge n. 220/2010, viene ammessa anche
nel periodo 01.01.2013-30.06.2013
una detrazione d'imposta per le spese per
interventi di riqualificazione energetica
degli edifici.
La misura dell'aiuto sarà pari al del 50%
dei costi sostenuti. Fino al 31.12.2012, tuttavia, resterà valida la detrazione
Irpef attualmente in vigore e pari al 55%.
Si ricorda che, come già sottolineato dalla
relazione tecnica al dl n. 201/2011, lo
sconto fiscale concesso dallo stato a chi
effettua interventi di risparmio energetico
pesa nel complesso per circa 1,1 miliardi di
euro all'anno (articolo
ItaliaOggi Sette del 18.06.2012). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art.
31 della L. 17.08.1942 n. 1150, come modificato
dalla L. 06.08.1967 n. 765, che consente a “chiunque” di impugnare le concessioni edilizie ritenute
illegittime, deve essere inteso nel senso che -con l’ovvia
esclusione di ogni azione popolare al riguardo- va
riconosciuta una posizione di interesse legittimo in capo al
proprietario di un immobile sito nella zona interessata alla
costruzione o a chi si trovi in una situazione di stabile
collegamento con la zona stessa, senza che, peraltro, debba
essere data dimostrazione della sussistenza di un interesse
qualificato alla tutela giurisdizionale, essendo stato
“ritenuto che abbia interesse a ricorrere il soggetto che faccia valere un interesse
giuridicamente protetto di natura urbanistica, quale è
quello all’osservanza delle prescrizioni regolatrici
dell’edificazione, senza che occorra procedere in concreto
ad alcuna ulteriore indagine al fine di accertare se i
lavori assentiti dall’atto impugnato comportino un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione” e che
“lo svolgimento di un’attività commerciale
in prossimità dell’insediamento (e nel caso
di specie si tratta addirittura delle
svolgimento delle medesima attività
alberghiera) configuri una situazione
giuridica sufficiente a realizzare quello
stabile collegamento con la zona che
legittima il soggetto a promuovere un’azione
giurisdizionale nei confronti della
concessione edilizia rilasciata ad un terzo.
---------------
Secondo la giurisprudenza anteriore al nuovo
testo unico sull’edilizia, il concetto di
ristrutturazione edilizia, come qualificato
dall’art. 31, comma 1, lett. d), della L.
05.08.1978 n. 457, comprende anche la
demolizione seguita dalla fedele
ricostruzione del manufatto, con l’unica
condizione che la riedificazione assicuri la
piena conformità di sagoma, volume e
superficie tra il vecchio e il nuovo
manufatto, con la conseguente possibilità di
pervenire, in tal modo, ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente, purché la diversità sia dovuta
ad interventi comprendenti il ripristino o
la sostituzione di alcuni elementi
costitutivi dell’edificio, l’eliminazione,
la modifica e l’inserimento di nuovi
elementi ed impianti, e non già la
realizzazione di nuovi volumi o una diversa
ubicazione (in quanto, diversamente
opinando, sarebbe sufficiente la
preesistenza di un edificio per definire
ristrutturazione qualsiasi nuova
realizzazione eseguita in luogo o sul luogo
di quella preesistente.
Tali “acquisizioni giurisprudenziali sono
confermate dal D.P.R. 06.06.2001 n. 380, con
cui è stato emanato il T.U. delle
disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia. Infatti, l’art. 3, comma
1, lett. d), del predetto testo qualifica
espressamente “interventi di
ristrutturazione edilizia” quelli volti a
trasformare gli organismi edilizi mediante
un insieme sistematico di opere che possono
portare ad un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal precedente. Tali
interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e
l’inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell’ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia la norma
ricomprende esplicitamente anche quelli
consistenti nella demolizione e
ricostruzione, purché ciò avvenga con la
stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l’adeguamento
alla normativa antisismica. Quindi si
conferma anche nel nuovo testo sull’edilizia
che la demolizione e ricostruzione è
classificabile come ristrutturazione solo a
condizione del mantenimento delle
caratteristiche planovolumetriche
dell’edificio da ricostruire …”.
---------------
La recente
giurisprudenza di questo Consiglio ha
chiarito che la ricostruzione (dopo la
demolizione) di un immobile diverso per
volumi o anche solo per la sagoma (a parità
di volumi) dall’immobile preesistente
comporta la realizzazione di un immobile
nuovo con l’applicazione della disciplina
urbanistica prevista per le nuove
edificazioni e delle conseguenti limitazioni
imposte dalle norme urbanistiche in vigore
al momento del rilascio del titolo
autorizzativi.
Innanzitutto, mediante la decisione di riforma della
sentenza resa in primo grado è stata affermata la
sussistenza dell’interesse di Hotel Svevo ad impugnare i
titoli edilizi rilasciati a Se.Ge.Co., “costituendo punto
di giurisprudenza ormai consolidato quello secondo cui
l’art. 31 della L. 17.08.1942 n. 1150, come modificato
dalla L. 06.08.1967 n. 765, che consente a “chiunque”
di impugnare le concessioni edilizie ritenute
illegittime, deve essere inteso nel senso che -con l’ovvia
esclusione di ogni azione popolare al riguardo- va
riconosciuta una posizione di interesse legittimo in capo al
proprietario di un immobile sito nella zona interessata alla
costruzione o a chi si trovi in una situazione di stabile
collegamento con la zona stessa, senza che, peraltro, debba
essere data dimostrazione della sussistenza di un interesse
qualificato alla tutela giurisdizionale (cfr. Cons. Stato, V
Sez., 13.07.2000, n. 3904), essendo stato
“ritenuto che abbia interesse a ricorrere, come nel caso di
specie, il soggetto che faccia valere un interesse
giuridicamente protetto di natura urbanistica, quale è
quello all’osservanza delle prescrizioni regolatrici
dell’edificazione, senza che occorra procedere in concreto
ad alcuna ulteriore indagine al fine di accertare se i
lavori assentiti dall’atto impugnato comportino un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 15.09.2003 n. 5172)” e che
“lo svolgimento di un’attività
commerciale in prossimità dell’insediamento (e nel caso di
specie si tratta addirittura delle svolgimento delle
medesima attività alberghiera) configuri una situazione
giuridica sufficiente a realizzare quello stabile
collegamento con la zona che legittima il soggetto a
promuovere un’azione giurisdizionale nei confronti della
concessione edilizia rilasciata ad un terzo (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 30.01.2002 n. 313)”.
Passando
quindi alla disamina del merito di causa, questo giudice di
appello ha evidenziato che “il punto nodale è costituito
dalla verifica se, nel caso di specie, si sia in presenza di
una ristrutturazione edilizia ovvero di una nuova
costruzione, come tale soggiacente alle previsioni degli
strumenti urbanistici sopravvenuti, come, nel caso di
specie, l’art. 20 delle N.T.A.” del vigente strumento
edilizio primario del Comune, “che prevede per le zone
agricole(E2) indici assai modesti ed incompatibili con le
previsioni progettuali”, rilevando che “secondo la
giurisprudenza anteriore al nuovo testo unico sull’edilizia,
il concetto di ristrutturazione edilizia, come qualificato
dall’art. 31, comma 1, lett. d), della L. 05.08.1978 n. 457,
comprende anche la demolizione seguita dalla fedele
ricostruzione del manufatto, con l’unica condizione che la
riedificazione assicuri la piena conformità di sagoma,
volume e superficie tra il vecchio e il nuovo manufatto, con
la conseguente possibilità di pervenire, in tal modo, ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente, purché la diversità sia dovuta ad interventi
comprendenti il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la
modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti, e
non già la realizzazione di nuovi volumi o una diversa
ubicazione(in quanto, diversamente opinando, sarebbe
sufficiente la preesistenza di un edificio per definire
ristrutturazione qualsiasi nuova realizzazione eseguita in
luogo o sul luogo di quella preesistente (cfr. Cons. Stato,
Sez. V, 19.02.2004 n. 476; 18.09.2003 n. 5310;
08.08.2003 n. 4593; …)” e che tali “acquisizioni
giurisprudenziali sono confermate dal D.P.R. 06.06.2001
n. 380, con cui è stato emanato il T.U. delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia. Infatti,
l’art. 3, comma 1, lett. d), del predetto testo qualifica
espressamente “interventi di ristrutturazione edilizia”
quelli volti a trasformare gli organismi edilizi mediante
un insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio,
l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia la norma ricomprende
esplicitamente anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione, purché ciò avvenga con la stessa volumetria e
sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica. Quindi si conferma anche nel nuovo testo
sull’edilizia che la demolizione e ricostruzione è
classificabile come ristrutturazione solo a condizione del
mantenimento delle caratteristiche planovolumetriche
dell’edificio da ricostruire …”.
Nella
stessa decisione si legge, quindi, che “per converso, la
lett. e) del medesimo articolo classifica come
“interventi di nuova costruzione” quelli di
trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio non
rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti,
procedendo quindi ad una elencazione(evidentemente non
esaustiva) per tipologie edilizie… . Quanto al regime
giuridico di tali interventi, è da ricordare che il capo II
del medesimo testo unico, dedicato al nuovo “permesso di
costruire” (già concessione
edilizia) individua, con l’art. 10, gli interventi
subordinati al predetto permesso, in tal modo riprendendo le
previgenti disposizioni della L. 28.01.1977 n. 10, art.
1 e della L. 28.02.1985 n. 47, art. 25, comma 4.
Prevede il citato art. 10 che costituiscono interventi di
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono
subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di
nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione
urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia
che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d’uso.
A sua volta, l’art. 22,
comma 3, del medesimo testo unico stabilisce che, in
alternativa al permesso di costruire, possono essere
realizzati, mediante semplice denuncia di inizio di
attività, in primo luogo gli interventi di ristrutturazione
di cui al ricordato art. 10, comma 1, lett. c). Dal combinato
disposto delle riportate disposizioni rimane confermato
quanto già osservato dalla giurisprudenza nel vigore delle
previgente normativa edilizia, cioè che le attività edilizie
consistenti nella demolizione e ricostruzione che non
avvengano nel rispetto della stessa volumetria e sagoma del
manufatto preesistente, sono da qualificare come nuove
costruzioni, assoggettate al permesso di costruire.
La recente
giurisprudenza di questo Consiglio (V Sez., dec. 07.09.2004, n. 5867) ha, altresì, chiarito che la ricostruzione
(dopo la demolizione) di un immobile diverso per volumi o
anche solo per la sagoma (a parità di volumi) dall’immobile
preesistente comporta la realizzazione di un immobile nuovo
con l’applicazione della disciplina urbanistica prevista per
le nuove edificazioni e delle conseguenti limitazioni
imposte dalle norme urbanistiche in vigore al momento del
rilascio del titolo autorizzativi (cfr. V Sez. n. 5867 del
2004 cit.). Ciò che le disposizioni citate non prevedono è
il limite in cui possono essere effettuate le modifiche del
nuovo fabbricato affinché questo sia compatibile con il
criterio di ristrutturazione, senza debordare nella nuova
costruzione diversa dalla precedente e come tale soggetta a
valutazione alla luce degli strumenti urbanistici vigenti al
momento del rilascio del titolo (cfr. dec. V Sez., n. 5867
del 2004). La soluzione della questione riveste una
importanza particolare per la diversa ammissibilità di una
ristrutturazione rispetto ad una nuova edificazione quando
l’intervento riguarda una edificazione già
esistente: infatti, nell’ipotesi di ristrutturazione
edilizia, trattandosi di un interventi su edifici, non
occorre che vi sia la perfetta conformità con il piano
regolatore generale e ciò in ragione del fatto che la
successione nel tempo degli strumenti urbanistici nel tempo
non può interferire sulla legittimità delle opere eseguite
in precedenza e con il diritto del proprietario di eseguire
quelle opere funzionali al mantenimento e alla conservazione
dell’edificio stesso, nonché a renderlo compatibile con le
esigenze eventualmente sopravvenute. … La modifica del
precedente manufatto deve essere tale da non alterare la sua
compatibilità con lo strumento in vigore al momento della
demolizione e che la natura di per sé sfumata del concetto
di compatibilità dovrebbe essere resa più certa dalla
previsione, in sede regionale, dei limiti specifici della
ristrutturazione e ciò in quanto, ove si ricada nell’ipotesi
di nuova edificazione, deve sussistere necessariamente la
conformità con lo strumento urbanistico, con la conseguenza
che l’edificio oggetto dell’intervento dovrebbe essere
adeguato alle prescrizioni vigenti al tempo dell’intervento
medesimo. Nella specie, siffatto limite di compatibilità,
ancorché il progetto prevedesse demolizioni parziali,
risulta travalicato, secondo quanto risulta dal primo ai
seguenti profili:
-
considerazione, a fini volumetrici, di un cd. capannone di
mc. 818,38, la cui presenza non emerge dall’allegato
aerofotogrammetrico con planimetria di zona prodotto da
parte appellante a corredo della perizia giurata dell’ing.
Oronzo Giordano del 29.12.2005 e con presumibile
veridicità coincidente, invece, con la tettoia aperta,
poggiante su cinque piloni isolati in muratura lungo la
strada provinciale per Santeramo e su muratura sul lato
opposto e delimitata, da un lato, da un basso muretto e,
dall’altro, dal terrazzo porticato dell’edificio principale.
La situazione dei luoghi non è contestata sul punto dalla
società resistente, sicché, non essendo la tettoia chiusa su
tutti i suoi lati, essa non appare costituire corpo di
fabbrica e come tale non è in grado di esprimere volumetria.
L’intervento previsto trasforma detta tettoia portandola
alla stessa altezza del preesistente porticato e consentendo
così di potersi collegare, a livello di copertura della
dependance, con il terrazzo –porticato del Molino, con
evidente modifica di sagoma e di volumetria;
- la
demolizione dell’edificio sala motori e la realizzazione di
un collegamento verticale per portatori di handicap, pur se
rientrante fra le scelte tecniche consentite, ai fini della
speciale disciplina in materia, ancorché fosse preesistente
una scala su cui sarebbe stato possibile intervenire
alternativamente, comporta tuttavia un apprezzabile aumento
volumetrico, che rende l’intervento eccedente rispetto ai
criteri che presiedono la mera ristrutturazione;
-la
prevista realizzazione di camere da letto al piano al piano
seminterrato, destinate aduso abitativo, comporta un
incompatibile mutamento di destinazione(esse, peraltro,
prive di luce ed areazione naturali e collocate ad una quota
inferiore a quella prevista dal regolamento edilizio, non
potrebbero comunque avere destinazione abitativa)”.
Pertanto, ad
avviso di questo giudice d’appello, tanto è bastato “a
ritenere che l’intervento previsto per l’ex Mulino Pagano e
autorizzato con il primo provvedimento impugnato,
indipendentemente da ogni altra considerazione contenuta
nell’appello, non possa essere ricondotto ad un intervento
di ristrutturazione edilizia, come previsto dalla normativa
vigente, non essendo state rispettate le caratteristiche
planovolumetriche, di sagoma e di continuità di destinazione
dell’edificio da ristrutturare. Di conseguenza, come nuova
edificazione, l’intervento appare incompatibile con le
prescrizioni urbanistiche vigenti di cui non è contestata la
portata. La circostanza che sul progetto autorizzato si sia
intervenuti con un ulteriore progetto in variante,
autorizzato con il secondo dei provvedimenti impugnati (n.
25 del 2005) che, ad avviso della società resistente,
sanerebbe le eventuali illegittimità registrate
nell’originario progetto, stralciando una serie di
interventi, non è di supporto alla ipotizzata attività
edilizia, in quanto il nuovo provvedimento autorizzativo non
segue alla rinnovazione del provvedimento concessorio, ma si
avvale di atti e procedimenti (concessione edilizia n.
50/2003 e pareri a supporto) la cui efficacia era stata
sospesa dall’ordinanza del TAR della Puglia- Bari, sez. III,
n. 1045 del 2004, confermata in secondo grado dalla
ordinanza n. 993 del 2005 della Sezione, inidonei, pertanto,
a produrre qualsivoglia effetto, in maniera del tutto
identica, salvo che per la transitorietà della misura, a
quanto sarebbe accaduto se l’atto fosse stato
annullato(Cons. Stato, A.P., 01.06.1983 n. 14) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.06.2012 n. 3570 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il potere
di pianificazione del territorio non può,
per se stante, precludere insediamenti
industriali in zone a destinazione agricola
se non in via eccezionale, vale a dire nei
casi in cui si discuta di assetto agricolo
di particolare pregio, consolidato da tempo
remoto e magari accompagnato e favorito da
opere di bonifica, posto che la destinazione
agricola ha -di per sé- lo scopo di impedire
gli insediamenti abitativi residenziali e
non anche di precludere in via radicale
qualsiasi intervento urbanisticamente
rilevante.
In tale frangente è stata reputata legittima
la realizzazione in area destinata dal
vigente strumento urbanistico comunale ad
attività agricola di un deposito temporaneo
di carbone all’interno di un sito più vasto
e già adibito ad attività estrattiva.
---------------
L’area pianificata dal vigente strumento
urbanistico primario come “area agricola”
non deve essere necessariamente destinata ad
attività agricole ma è sufficiente che
soddisfi la vocazione del suolo sottraendolo
a nuove edificazioni va coniugata comunque
con il contenuto di quelle che sono le
concrete decisioni assunte
dall’Amministrazione Comunale in sede di
pianificazione del territorio, laddove
soprattutto qualora essa abbia ivi
espressamente enunciato la tipologia delle
ulteriori attività, rispetto a quelle
strettamente agricole, che possono
insediarsi nelle aree E di cui al D.M.
02.04.1968 n. 1444: e tanto più che è stata
recisamente esclusa dalla stessa
giurisprudenza l’insediabilità in area
agricola di attività comunque comportanti la
realizzazione di opere che in ragione
all’uso cui sono preposte recano
necessariamente caratteristiche strutturali
e tipologiche del tutto inconciliabili con
la destinazione agricola e tanto con
riferimento non solo all’utilizzo concreto
del suolo, ma alla naturale vocazione dei
terreni; ovvero che comunque determinano una
cementificazione della zona agricola (cfr.
in tal senso la stessa sentenza n. 4505 del
2011 che ha affermato l’impossibilità di
realizzare in zona agricola E un impianto di
frantumazione di inerti).
Va evidenziato che questo
stesso giudice d’appello, con decisione n. 4961 dd. 18.09.2007 resa dalla Sezione V proprio con riguardo ad
altra fattispecie attinente ad altro Comune ubicato nel
territorio della Regione Puglia, ha invero già avuto modo di
affermare che il potere di pianificazione del territorio non
può, per se stante, precludere insediamenti industriali in
zone a destinazione agricola se non in via eccezionale, vale
a dire nei casi in cui si discuta di assetto agricolo di
particolare pregio, consolidato da tempo remoto e magari
accompagnato e favorito da opere di bonifica, posto che la
destinazione agricola ha -di per sé- lo scopo di impedire
gli insediamenti abitativi residenziali e non anche di
precludere in via radicale qualsiasi intervento urbanisticamente rilevante.
In tale
frangente è stata reputata legittima la realizzazione in
area destinata dal vigente strumento urbanistico comunale ad
attività agricola di un deposito temporaneo di carbone
all’interno di un sito più vasto e già adibito ad attività
estrattiva.
Tuttavia, va
pure considerato che questo giudice d’appello è pervenuto a
tale conclusione non già forzando con una propria petizione
di principio il dato letterale delle norme tecniche di
attuazione annesse allo strumento urbanistico comunale, ma
interpretandolo anche in correlazione alle risultanze
fattuali in quello specifico contesto processuale, posto
che –come si legge nella decisione stessa– “la
disciplina recata dall'art. 17 delle N.T.A. del Comune di
Statte non risulta tale da precludere l'intervento oggetto
della domanda di permesso di costruire presentata dalla
Italcave. La prescrizione in parola … non impedisce infatti
che un sito già vocato a servizio di attività produttive
(attività estrattiva, giusta legittimi titoli) possa
ospitare al suo interno un deposito temporaneo di carbone.
Ciò, appunto, anche perché non è predicabile, nell’area in
questione, la preesistenza di un incontaminato e pregiato
assetto agricolo ossia quella ipotesi eccezionale che sola
avrebbe potuto lasciare ipotizzare una indiscriminata
limitazione degli interventi di carattere produttivo in zona
agricola. D’altronde, la documentazione in atti dimostra non
soltanto la preesistenza della cava ma anche la presenza
nella più vasta area limitrofa di altre attività produttive”.
Nell’ipotesi
qui in esame, il vigente art. 20 delle N.T.A. del P.R.G. di
Gioia del Colle dispone, per quanto qui segnatamente
interessa, nel senso che le zone agricole E2 “sono
destinate prevalentemente all’esercizio delle attività
boschive ed agricole e di quelle connesse alla predetta
attività. In tali zone sono consentite: a) case di
abitazione, fabbricati rurali quali stalle, porcili,
ricoveri per macchine agricole, serbatoi idrici e simili; b)
costruzioni adibite alla lavorazione dei prodotti delle
attività di queste zone, ed all’esercizio delle necessarie
macchine”.
Ben emerge in
tal senso, quindi, che la volontà del pianificatore deroga
alla vocazione strettamente agricola degli insediamenti
programmabili per tale zona soltanto con espresso e
tassativo riferimento alle “costruzioni adibite alla
lavorazione dei prodotti delle attività di queste zone, ed
all’esercizio delle necessarie macchine”, ossia
contemplando anche ipotesi di insediamento di attività
industriali quale è per certo quella del mulino, ma soltanto
poiché all’evidenza costitutive di un indotto di quella
agricola, ossia proprio in quanto “adibite alla
lavorazione dei prodotti” dell’agricoltura locale.
In tale
contesto, pertanto, la tralatizia e ormai del tutto
consolidata giurisprudenza di questo giudice secondo cui
l’area pianificata dal vigente strumento urbanistico
primario come “area agricola” non deve essere
necessariamente destinata ad attività agricole ma è
sufficiente che soddisfi la vocazione del suolo sottraendolo
a nuove edificazioni (cfr., ad es., tra le più recenti Cons.
Stato, Sez. , 27.07.2011 n. 4505) va coniugata comunque
con il contenuto di quelle che sono le concrete decisioni
assunte dall’Amministrazione Comunale in sede di
pianificazione del territorio, laddove soprattutto qualora
essa abbia ivi espressamente enunciato la tipologia delle
ulteriori attività, rispetto a quelle strettamente agricole,
che possono insediarsi nelle aree E di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444: e tanto più che è stata recisamente esclusa
dalla stessa giurisprudenza l’insediabilità in area agricola
di attività comunque comportanti la realizzazione di opere
che in ragione all’uso cui sono preposte recano
necessariamente caratteristiche strutturali e tipologiche
del tutto inconciliabili con la destinazione agricola e
tanto con riferimento non solo all’utilizzo concreto del
suolo , ma alla naturale vocazione dei terreni; ovvero che
comunque determinano una cementificazione della zona
agricola (cfr. in tal senso la stessa sentenza n. 4505 del
2011 che ha affermato l’impossibilità di realizzare in zona
agricola E un impianto di frantumazione di inerti).
Nel caso in
esame, va quindi tenuto conto della circostanza che la
vigente strumentazione urbanistica primaria del Comune di
Gioia del Colle espressamente contempla la possibilità di
realizzare alberghi in altre zone appositamente a ciò
destinate e che, pertanto, nella zona agricola di cui
trattasi non può essere ragionevolmente assentito
l’insediamento di strutture ricettive ulteriori e diverse da
quelle destinate all’attività agrituristica, notoriamente
complementare a quella agricola: e men che meno può
ricavarsi una deroga a ciò nella predetta circostanza che il
molino costituiva comunque attività industriale e non
agricola e che pertanto ciò ex se legittimerebbe la
prosecuzione nel relativo immobile di un’attività comunque
diversa da quella strettamente agricola, posto che la deroga
accordata dalle N.T.A. del P.R.G. per l’anzidetta attività
industriale era ed è fondata sull’espressa enunciazione di
un criterio di complementarietà rispetto all’uso agricolo
del territorio non applicabile –all’evidenza– per un
insediamento alberghiero ben diverso da quello agrituristico (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.06.2012 n. 3570 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Oneri di urbanizzazione.
Il beneficio
dell’esonero dalla corresponsione del
contributo concessorio afferente ai costi di
costruzione ed urbanizzazione, previsto per
gli immobili nei quali si svolge attività
industriale dall’art. 10, comma 1, della
Legge n. 10/1977, concerne strettamente i
fabbricati complementari ed asserviti alle
esigenze proprie di un impianto industriale
e non già quegli edifici che non sono di per
sé destinati alla produzione di beni
industriali, ovvero quelle opere edilizie
comunque suscettibili di essere utilizzate
al servizio di qualsiasi attività economica.
È, pertanto, da escludere l’applicabilità
del trattamento contributivo di favore a
magazzini per deposito e commercio ove non
siano “collegati ad altro stabile adibito
alla attività produttiva”.
Conclusivamente, il beneficio dell’esonero
dalla corresponsione del contributo così
come previsto dall’art. 10, comma 1, della
Legge n. 10/1977 per gli immobili nei quali
si svolge attività industriale, concerne
solo e soltanto i fabbricati complementari
e/o asserviti alle esigenze proprie di un
impianto industriale o artigianale e non
quegli edifici privi di tale nesso
sostanziale e suscettibili di essere
utilizzati al servizio di qualsiasi attività
economica.
Comunque, grava esclusivamente
sull’interessato l’onere della dimostrazione
dell’esistenza del nesso di complementarietà
delle opere da costruire con le esigenze
proprie di un impianto industriale.
Invero, l’art. 10, comma 1, della Legge n.
10/1977 (ora art. 19 del T.U. dell’edilizia)
dispone espressamente al primo comma che: “Il
permesso di costruire relativo a costruzioni
o impianti destinati ad attività industriali
o artigianali dirette alla trasformazione di
beni ed alla prestazione di servizi comporta
la corresponsione di un contributo pari alla
incidenza delle opere di urbanizzazione (…)”.
La predetta disposizione pone oggettivamente
il problema della corretta individuazione
degli impianti o costruzioni riconducibili
alla attività industriale o artigianale, in
quanto la terminologia utilizzata dal
legislatore richiama espressamente la
prestazione di servizi e non solo la
trasformazione di beni, quest’ultima
tipicamente caratterizzante il settore
produttivo.
Così, potrebbe ipotizzarsi che un’attività
volta esclusivamente ad una prestazione di
servizi a terzi, pur scollegata da
qualsivoglia attività industriale o
artigianale diretta alla trasformazione di
beni, rientri nel trattamento contributivo
di maggior favore previsto dalla richiamata
norma, come prospettato dall’appellante.
Ritiene il Collegio che una siffatta opzione
ermeneutica non sia sostenibile.
La norma, infatti, appare oggettivamente
orientata a distinguere i due trattamenti
contributivi in ragione delle attività
svolte.
Ed in questo senso vengono espressamente
individuate e distinte le attività
industriali o artigianali da quelle
turistiche, commerciali e direzionali.
Ne consegue che l’elemento discriminante tra
i due regimi contributivi è direttamente
incentrato, in principalità, sulla tipologia
di attività economica svolta, da cui non può
comunque prescindersi ai fini
dell’applicazione della norma.
Pertanto, l’applicazione del regime
contributivo di maggior favore deve essere
necessariamente riconosciuta solo in
presenza di un’ attività industriale o
artigianale, ovvero di un’ attività ad essa
comunque collegata da un nesso di stretta
funzionalità o complementarietà.
In questo senso, del resto, si è già
espressa più volte la giurisprudenza della
Sezione, precisando che il beneficio
dell’esonero dalla corresponsione del
contributo concessorio afferente ai costi di
costruzione ed urbanizzazione, previsto per
gli immobili nei quali si svolge attività
industriale dall’art. 10, comma 1, della
Legge n. 10/1977, concerne strettamente i
fabbricati complementari ed asserviti alle
esigenze proprie di un impianto industriale
e non già quegli edifici che non sono di per
sé destinati alla produzione di beni
industriali, ovvero quelle opere edilizie
comunque suscettibili di essere utilizzate
al servizio di qualsiasi attività economica
(cfr. decisioni 21.10.1998, n. 1512;
05.09.1995, n. 1266; 13.07.1994, n. 752).
È, pertanto, da escludere l’applicabilità
del trattamento contributivo di favore a
magazzini per deposito e commercio ove non
siano “collegati ad altro stabile adibito
alla attività produttiva” (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 13.07.1994, n. 752).
Conclusivamente, il beneficio dell’esonero
dalla corresponsione del contributo così
come previsto dall’art. 10, comma 1, della
Legge n. 10/1977 per gli immobili nei quali
si svolge attività industriale, concerne
solo e soltanto i fabbricati complementari
e/o asserviti alle esigenze proprie di un
impianto industriale o artigianale e non
quegli edifici privi di tale nesso
sostanziale e suscettibili di essere
utilizzati al servizio di qualsiasi attività
economica.
Tanto premesso in via di principio, osserva
il Collegio come nel caso di specie
l’immobile considerato non sia affatto
complementare o comunque strettamente
connesso ad uno stabilimento industriale o
artigianale. Invero, l’attività economica
svolta nel deposito per cui è causa,
consistente nell’immagazzinamento,
conservazione, movimentazione e deposito di
merci e materiali a favore di terzi, non
risulta oggettivamente complementare ad un
ciclo produttivo di uno specifico impianto
industriale o artigianale.
Riprova ne è il fatto che l’appellante, non
solo non dimostra minimamente un qualsiasi
collegamento tra il deposito per cui è causa
ed un’attività industriale o artigianale, ma
addirittura riconosce che la società “non
svolge alcuna attività complementare”,
bensì “un'unica attività corrispondente
al suo precipuo ed esclusivo oggetto sociale”
che, come emerge dalla visura depositata in
giudizio, consiste nel deposito,
conservazione, preparazione, movimentazione
fisica, distribuzione e trasporto di merci.
E sul punto, la giurisprudenza della Sezione
ha già avuto modo di precisare che grava
esclusivamente sull’interessato l’onere
della dimostrazione dell’esistenza del nesso
di complementarietà delle opere da costruire
con le esigenze proprie di un impianto
industriale (cfr. decisione n. 1266 del
05.09.1995).
Ne consegue che l’immobile per cui è causa
non può essere soggetto al regime
contributivo agevolato previsto dall’art.
10, comma 1, della L. n. 10/1977, come
correttamente ritenuto dall’Amministrazione
comunale resistente (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.06.2012 n. 3561
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La
monetizzazione delle aree standard (la quale
trova ordinariamente la sua fonte
legittimante nella convenzione urbanistica
che disciplina il piano attuativo) è un
istituto contemplato dall’ordinamento e
applicato nella prassi amministrativa di
tutti i Comuni italiani, anche se
derogatorio rispetto al principio affermato
dall’art. 12 del D.P.R. 380/2001.
Inoltre, la facoltà di richiedere o
accettare il controvalore delle opere di
urbanizzazione rientra nella sfera di
discrezionalità tecnico-amministrativa
dell’Ente, come tale non censurabile se non
per gravi vizi di irrazionalità.
E’ dunque evidente che la monetizzazione
–rispetto alla cessione delle aree– integra
un’eccezione alla regola generale (si veda
sul punto anche l’art. 12 della L.r. 60/1977
per tempo vigente), e come tale deve
poggiare su una solida ragione
giustificatrice nell’ambito del procedimento
urbanistico, mentre viceversa la cessione
non deve essere supportata da una peculiare
motivazione configurando l’ipotesi ordinaria
prevista dal legislatore.
Quanto alla dedotta disparità di
trattamento, si ribadisce che le scelte
urbanistiche sono connotate da ampia
discrezionalità, e sono censurabili soltanto
ove affiorino illogicità abnormi.
La giurisprudenza ha affermato in generale
che la monetizzazione delle aree standard
(la quale trova ordinariamente la sua fonte
legittimante nella convenzione urbanistica
che disciplina il piano attuativo) è un
istituto contemplato dall’ordinamento e
applicato nella prassi amministrativa di
tutti i Comuni italiani, anche se
derogatorio rispetto al principio affermato
dall’art. 12 del D.P.R. 380/2001 (TAR Marche
– 23/06/2011 n. 500). Inoltre è stato
sottolineato che la facoltà di richiedere o
accettare il controvalore delle opere di
urbanizzazione rientra nella sfera di
discrezionalità tecnico-amministrativa
dell’Ente, come tale non censurabile se non
per gravi vizi di irrazionalità (Consiglio
di Stato, sez. IV – 07/02/2011 n. 824).
E’ dunque evidente che la monetizzazione
–rispetto alla cessione delle aree– integra
un’eccezione alla regola generale (si veda
sul punto anche l’art. 12 della L.r. 60/1977
per tempo vigente), e come tale deve
poggiare su una solida ragione
giustificatrice nell’ambito del procedimento
urbanistico, mentre viceversa la cessione
non deve essere supportata da una peculiare
motivazione configurando l’ipotesi ordinaria
prevista dal legislatore. Quanto alla
dedotta disparità di trattamento, si
ribadisce che le scelte urbanistiche sono
connotate da ampia discrezionalità, e sono
censurabili soltanto ove affiorino
illogicità abnormi (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II,
sentenza 19.06.2012 n. 1089 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
SERVIZI:
Il concetto di servizio analogo deve
essere inteso non come identità ma come
similitudine tra le prestazioni, tenendo
conto che l’interesse pubblico sottostante
non è certamente la creazione di una riserva
a favore degli imprenditori già attivi sul
mercato ma al contrario l'apertura alla
concorrenza attraverso l’ammissione alle
gare di tutti gli operatori economici per i
quali si possa raggiungere un giudizio
complessivo di affidabilità.
Peraltro in presenza di un servizio
complesso e delicato –per il quale occorre
sviluppare una capacità organizzativa e di
coordinamento di prestazioni di differente
tipologia– è ragionevole ritenere che la
stazione appaltante abbia inteso rimettere
alla Commissione di gara l'accertamento
della sussistenza della capacità
professionale del soggetto che ha
partecipato alla procedura di selezione: ad
essa era demandata una valutazione
discrezionale dell’esperienza maturata in
attività analoghe (tesa a selezionare tra i
concorrenti coloro che risultano
particolarmente qualificati sotto il profilo
tecnico-finanziario), con l’apprezzamento
dei servizi prestati e la loro comparazione
rispetto a quelli specificamente richiesti.
La decisione conclusiva dell’amministrazione
può sicuramente essere sindacata quando
illogica, abnorme e contraddittoria, ma nel
caso di specie il Collegio non ravvisa tali
condizioni.
Come già affermato da questo Tribunale il
concetto di servizio analogo deve essere
inteso non come identità ma come
similitudine tra le prestazioni, tenendo
conto che l’interesse pubblico sottostante
non è certamente la creazione di una riserva
a favore degli imprenditori già attivi sul
mercato ma al contrario l'apertura alla
concorrenza attraverso l’ammissione alle
gare di tutti gli operatori economici per i
quali si possa raggiungere un giudizio
complessivo di affidabilità (TAR Lombardia
Brescia, sez. I – 12/06/2009 n. 1204; sez.
II – 10/06/2010 n. 2304).
Peraltro in presenza di un servizio
complesso e delicato –per il quale occorre
sviluppare una capacità organizzativa e di
coordinamento di prestazioni di differente
tipologia– è ragionevole ritenere che la
stazione appaltante abbia inteso rimettere
alla Commissione di gara l'accertamento
della sussistenza della capacità
professionale del soggetto che ha
partecipato alla procedura di selezione: ad
essa era demandata una valutazione
discrezionale dell’esperienza maturata in
attività analoghe (tesa a selezionare tra i
concorrenti coloro che risultano
particolarmente qualificati sotto il profilo
tecnico-finanziario), con l’apprezzamento
dei servizi prestati e la loro comparazione
rispetto a quelli specificamente richiesti
(cfr. sentenza sez. II – 31/08/2011 n.
1290). La decisione conclusiva
dell’amministrazione può sicuramente essere
sindacata quando illogica, abnorme e
contraddittoria, ma nel caso di specie il
Collegio non ravvisa tali condizioni
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 19.06.2012 n. 1088 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’avvalimento è un istituto di
applicazione generale, individuato dalla
giurisprudenza comunitaria, codificato
dall’art. 48, commi 3 e 4, della Dir.
31.03.2004 n. 2004/18/CE, e ripreso
nell’art. 49 del D.Lgs. 163/2006. In base ad
esso gli operatori economici utilizzano
requisiti e risorse appartenenti ad altri
imprenditori che agiscono nell’ambito della
stessa area di mercato.
Il comma 1 stabilisce infatti che “Il
concorrente, singolo o consorziato o
raggruppato ai sensi dell’articolo 34, in
relazione ad una specifica gara di lavori,
servizi, forniture può soddisfare la
richiesta relativa al possesso dei requisiti
di carattere economico, finanziario,
tecnico, organizzativo, ovvero di
attestazione della certificazione SOA
avvalendosi dei requisiti di un altro
soggetto o dell’attestazione SOA di altro
soggetto”.
In termini generali l’impresa “ausiliaria”
permette al soggetto che ne sia privo di
concorrere alla gara provando, tramite i
propri, il possesso dei richiesti requisiti:
un’impresa può quindi ricorrere alle
referenze tecniche, organizzative economiche
e finanziarie di un altro soggetto economico
al fine di dimostrare il possesso dei
requisiti necessari per partecipare ad una
selezione pubblica. Il legislatore ha in
definitiva concepito la figura in esame
associandola alla specifica ed individuata
tipologia di attività che costituisce
l’oggetto dell’appalto, per cui nell’ambito
del lavoro, fornitura o servizio da affidare
l’impresa concorrente beneficia della
capacità vantata da altri operatori e colma
il deficit che le impedirebbe di prendere
parte al confronto comparativo.
Nell’ambito del raggruppamento temporaneo la
giurisprudenza ha osservato che la
legislazione vigente fissa in tema di A.T.I.
i requisiti minimi percentuali di capacità
economico-finanziaria e
tecnico-professionale che deve essere
posseduta da ciascun componente, ma la
disciplina non può essere intesa come limite
all’avvalimento, perché così interpretata
essa sarebbe contraria al diritto
comunitario che non pone vincoli
quantitativi né qualitativi, consentendolo
espressamente anche nell’ambito dei
raggruppamenti di imprese. Pertanto la
disciplina nazionale va interpretata non
solo nel senso che anche nell’ambito di
un’A.T.I. è ammesso l’utilizzo dell’avvalimento,
ma anche nel senso che persino la quota
minima di requisiti che ciascun componente
di un’A.T.I. deve possedere (anche quelli
richiesti dalla legge per il singolo
mandante o mandatario) può essere dimostrata
mediante ricorso a tale meccanismo.
In buona sostanza l’art. 49, comma 8, del
Codice dei contratti pubblici (secondo cui
non è consentito, a pena di esclusione, che
partecipino alla gara sia l’impresa
ausiliaria sia l’impresa che si avvale dei
requisiti) va interpretato alla stregua
della normativa comunitaria di riferimento
(artt. 47 e 48 della Direttiva 2004/18/CE,
per i settori ordinari; artt. 53 e 54 della
Direttiva 2004/17/CE, per i settori
speciali) e va inteso nel senso che è
vietata la partecipazione dell’avvalente e
dell’ausiliaria alla medesima gara solo
allorché tali imprese siano in concorrenza
l’una con l’altra, e non quando esse
facciano capo ad un medesimo centro
d’interessi.
Osserva il
Collegio che l’avvalimento è un istituto di
applicazione generale, individuato dalla
giurisprudenza comunitaria (v. Corte di
Giustizia – Sez. V, 02.12.1999 C-176/98
Holst), codificato dall’art. 48, commi 3 e
4, della Dir. 31.03.2004 n. 2004/18/CE, e
ripreso nell’art. 49 del D.Lgs. 163/2006. In
base ad esso gli operatori economici
utilizzano requisiti e risorse appartenenti
ad altri imprenditori che agiscono
nell’ambito della stessa area di mercato.
Il comma 1 stabilisce infatti che “Il
concorrente, singolo o consorziato o
raggruppato ai sensi dell’articolo 34, in
relazione ad una specifica gara di lavori,
servizi, forniture può soddisfare la
richiesta relativa al possesso dei requisiti
di carattere economico, finanziario,
tecnico, organizzativo, ovvero di
attestazione della certificazione SOA
avvalendosi dei requisiti di un altro
soggetto o dell’attestazione SOA di altro
soggetto”.
In termini generali l’impresa “ausiliaria”
permette al soggetto che ne sia privo di
concorrere alla gara provando, tramite i
propri, il possesso dei richiesti requisiti
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V –
03/12/2009 n. 7592; sez. VI – 18/09/2009 n.
5626): un’impresa può quindi ricorrere alle
referenze tecniche, organizzative economiche
e finanziarie di un altro soggetto economico
al fine di dimostrare il possesso dei
requisiti necessari per partecipare ad una
selezione pubblica. Il legislatore ha in
definitiva concepito la figura in esame
associandola alla specifica ed individuata
tipologia di attività che costituisce
l’oggetto dell’appalto, per cui nell’ambito
del lavoro, fornitura o servizio da affidare
l’impresa concorrente beneficia della
capacità vantata da altri operatori e colma
il deficit che le impedirebbe di prendere
parte al confronto comparativo (cfr.
sentenza Sezione 05/05/2010 n. 1675, che non
risulta appellata).
Nell’ambito del raggruppamento temporaneo la
giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato,
sez. VI – 29/12/2010 n. 9577) ha osservato
che la legislazione vigente fissa in tema di
A.T.I. i requisiti minimi percentuali di
capacità economico-finanziaria e
tecnico-professionale che deve essere
posseduta da ciascun componente, ma la
disciplina non può essere intesa come limite
all’avvalimento, perché così interpretata
essa sarebbe contraria al diritto
comunitario che non pone vincoli
quantitativi né qualitativi, consentendolo
espressamente anche nell’ambito dei
raggruppamenti di imprese. Pertanto la
disciplina nazionale va interpretata non
solo nel senso che anche nell’ambito di
un’A.T.I. è ammesso l’utilizzo dell’avvalimento,
ma anche nel senso che persino la quota
minima di requisiti che ciascun componente
di un’A.T.I. deve possedere (anche quelli
richiesti dalla legge per il singolo
mandante o mandatario) può essere dimostrata
mediante ricorso a tale meccanismo.
In buona sostanza l’art. 49, comma 8, del
Codice dei contratti pubblici (secondo cui
non è consentito, a pena di esclusione, che
partecipino alla gara sia l’impresa
ausiliaria sia l’impresa che si avvale dei
requisiti) va interpretato alla stregua
della normativa comunitaria di riferimento
(artt. 47 e 48 della Direttiva 2004/18/CE,
per i settori ordinari; artt. 53 e 54 della
Direttiva 2004/17/CE, per i settori
speciali) e va inteso nel senso che è
vietata la partecipazione dell’avvalente e
dell’ausiliaria alla medesima gara solo
allorché tali imprese siano in concorrenza
l’una con l’altra, e non quando esse
facciano capo ad un medesimo centro
d’interessi (cfr. TAR Puglia Bari, sez. I –
08/02/2010 n. 268 confermata dalla sentenza
del Consiglio di Stato 9577/2010 sopra
citata)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 19.06.2012 n. 1088 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Questa Sezione ha aderito
all’orientamento giurisprudenziale
favorevole –in difetto di esplicite
previsioni escludenti in base alla lex
specialis– ad una valutazione
sostanzialistica della sussistenza delle
cause di esclusione, nella considerazione
che il primo comma dell’art. 38 del D.Lgs
163/2006 ricollega l’esclusione dalla gara
al dato sostanziale del mancato possesso dei
requisiti indicati, mentre il secondo comma
non prevede analoga sanzione per l’ipotesi
della mancata o non perspicua dichiarazione,
da cui discende che solo l’insussistenza, in
concreto, delle cause di esclusione previste
dall’art. 38 citato comporta, “ope legis”,
l’effetto espulsivo.
Quando il partecipante sia in possesso di
tutti i requisiti richiesti e la “lex
specialis” non preveda espressamente la
sanzione dell’esclusione a seguito della
mancata osservanza delle puntuali
prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto
delle dichiarazioni da fornire, l’omissione
non produce alcun pregiudizio agli interessi
presidiati dalla norma, ricorrendo al più
un’ipotesi di “falso innocuo”, come tale non
suscettibile, in carenza di una espressa
previsione legislativa o della legge di
gara, a fondare l’esclusione, le cui ipotesi
sono tassative.
La ratio legis è di escludere dalla
partecipazione alla gara di appalto le
società in cui abbiano commesso gravi reati
i soggetti che nella società abbiano un
significativo ruolo decisionale e
gestionale. Occorre avere riguardo alle
funzioni sostanziali del soggetto, più che
alle qualifiche formali, altrimenti la ratio
legis potrebbe venire agevolmente elusa e
dunque vanificata.
---------------
Con l’entrata in vigore dell’art. 46, comma
1-bis, del Codice dei contratti pubblici,
aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del
D.L. 13/05/2011 conv. in L. 12/07/2011 n.
106, è stato introdotto il principio di
tassatività delle cause di esclusione dalle
gare d’appalto: in base alla novella
legislativa, deve ritenersi illegittima la
mancata ammissione di una ditta da una
procedura selettiva per una circostanza che
non costituisce motivo di esclusione in
virtù di una precisa disposizione di legge
(cfr. TAR Lazio Roma, sez. I – 08/03/2012 n.
2308, che ha censurato l’esclusione di una
ditta che aveva prestato la cauzione
provvisoria mediante polizza fideiussoria
avente come beneficiario un soggetto diverso
dalla stazione appaltante; sul medesimo
presupposto, anche il Consiglio di Stato –
sez. III – 01/02/2012 n. 493 – ha dichiarato
l’illegittimità dell’esclusione dalla gara
di un’impresa che aveva presentato una
cauzione provvisoria di importo inferiore a
quello richiesto per poter concorrere
all’assegnazione di più lotti).
Più precisamente secondo il nuovo testo del
citato art. 46 la stazione appaltante può
escludere le imprese dalla gara di appalto
esclusivamente in caso di:
- mancato adempimento a prescrizioni di
legge previste dal codice degli appalti, dal
regolamento attuativo (DPR n. 207/2010) e da
altre disposizioni legislative vigenti;
- incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta per difetto di
sottoscrizione o di altri elementi
essenziali;
- non integrità del plico contenente
l'offerta o la domanda di partecipazione o
altre irregolarità relative alla chiusura
del plico, tale da far ritenere, secondo le
circostanze concrete, che sia stato violato
il principio di segretezza delle offerte.
Queste cause di esclusione sono tassative ed
ogni altra prescrizione prevista dagli atti
di gara deve considerarsi nulla.
Questa Sezione
(cfr. da ultimo sentenza 23/01/2012 n. 99)
ha aderito all’orientamento
giurisprudenziale favorevole –in difetto di
esplicite previsioni escludenti in base alla
lex specialis– ad una valutazione
sostanzialistica della sussistenza delle
cause di esclusione, nella considerazione
che il primo comma dell’art. 38 del D.Lgs
163/2006 ricollega l’esclusione dalla gara
al dato sostanziale del mancato possesso dei
requisiti indicati, mentre il secondo comma
non prevede analoga sanzione per l’ipotesi
della mancata o non perspicua dichiarazione,
da cui discende che solo l’insussistenza, in
concreto, delle cause di esclusione previste
dall’art. 38 citato comporta, “ope legis”,
l’effetto espulsivo (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V – 24/11/2011 n. 6240).
Quando il partecipante sia in possesso di
tutti i requisiti richiesti e la “lex
specialis” non preveda espressamente la
sanzione dell’esclusione a seguito della
mancata osservanza delle puntuali
prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto
delle dichiarazioni da fornire, l’omissione
non produce alcun pregiudizio agli interessi
presidiati dalla norma, ricorrendo al più
un’ipotesi di “falso innocuo”, come
tale non suscettibile, in carenza di una
espressa previsione legislativa o della
legge di gara, a fondare l’esclusione, le
cui ipotesi sono tassative (TAR Lazio Roma,
sez. III – 31/12/2010 n. 39288; Consiglio di
Stato, sez. V – 24/03/2011 n. 1795, che
richiamano l’art. 45 della direttiva
2004/18/CE).
Il Collegio condivide la tesi espressa dal
Consiglio di Stato nella sentenza n.
523/2007, in cui si legge che: “La ratio
legis è di escludere dalla partecipazione
alla gara di appalto le società in cui
abbiano commesso gravi reati i soggetti che
nella società abbiano un significativo ruolo
decisionale e gestionale. Occorre avere
riguardo alle funzioni sostanziali del
soggetto, più che alle qualifiche formali,
altrimenti la ratio legis potrebbe venire
agevolmente elusa e dunque vanificata.”.
---------------
Il Collegio è dell’opinione che anche sotto
altro profilo non sia possibile accedere
alla tesi di parte ricorrente.
Con l’entrata in vigore dell’art. 46, comma
1-bis, del Codice dei contratti pubblici,
aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del
D.L. 13/05/2011 conv. in L. 12/07/2011 n.
106, è stato introdotto il principio di
tassatività delle cause di esclusione dalle
gare d’appalto: in base alla novella
legislativa, deve ritenersi illegittima la
mancata ammissione di una ditta da una
procedura selettiva per una circostanza che
non costituisce motivo di esclusione in
virtù di una precisa disposizione di legge
(cfr. TAR Lazio Roma, sez. I – 08/03/2012 n.
2308, che ha censurato l’esclusione di una
ditta che aveva prestato la cauzione
provvisoria mediante polizza fideiussoria
avente come beneficiario un soggetto diverso
dalla stazione appaltante; sul medesimo
presupposto, anche il Consiglio di Stato –
sez. III – 01/02/2012 n. 493 – ha dichiarato
l’illegittimità dell’esclusione dalla gara
di un’impresa che aveva presentato una
cauzione provvisoria di importo inferiore a
quello richiesto per poter concorrere
all’assegnazione di più lotti).
Più precisamente secondo il nuovo testo del
citato art. 46 la stazione appaltante può
escludere le imprese dalla gara di appalto
esclusivamente in caso di:
- mancato adempimento a prescrizioni di
legge previste dal codice degli appalti, dal
regolamento attuativo (DPR n. 207/2010) e da
altre disposizioni legislative vigenti;
- incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta per difetto di
sottoscrizione o di altri elementi
essenziali;
- non integrità del plico contenente
l'offerta o la domanda di partecipazione o
altre irregolarità relative alla chiusura
del plico, tale da far ritenere, secondo le
circostanze concrete, che sia stato violato
il principio di segretezza delle offerte.
Queste cause di esclusione sono tassative ed
ogni altra prescrizione prevista dagli atti
di gara deve considerarsi nulla (cd. nullità
testuale - TAR Lazio Roma, sez. I –
15/12/2011 n. 9791).
Come già accennato il bando è stato
pubblicato il 15/07/2011 e pertanto il
principio di tassatività delle cause di
esclusione è applicabile alla fattispecie in
esame. Nel caso di specie l’illegittimità
dell’ammissione si fonderebbe sull’omessa
dichiarazione sostitutiva circa il possesso
dei requisiti di cui all'art. 38 del Codice
dei contratti pubblici ad opera di alcuni
soggetti: si tratta di ipotesi che, di per
sé, non è prescritta quale causa di
esclusione dal medesimo art. 38, comma 2 (a
differenza delle ipotesi del comma 1 che
investe ipotesi concrete in cui sussistono
le cause di esclusione - cfr. TAR Sardegna,
sez. I – 20/02/2012 n. 134).
In definitiva la dichiarazione sostitutiva
attestante l’insussistenza delle cause di
esclusione ex art. 38 –già presentata in
gara da alcuni rappresentanti della Società
ricorrente– può essere positivamente
valutata, salva la possibilità di esigere
ex post un’integrazione riguardante
altri soggetti (procuratori speciali,
responsabile tecnico, etc.)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 19.06.2012 n. 1088 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’integrazione
del bando di gara e della relativa
disciplina può provenire soltanto
dall’organo competente ad indire la gara
medesima e nelle stesse forme, per cui è
illegittima l’integrazione delle clausole
del bando mediante risposte ai chiarimenti
resi ai concorrenti, che possono
esclusivamente precisare e meglio delucidare
le previsioni della lex specialis.
Tuttavia la ratio del principio evocato
risiede essenzialmente nell’esigenza di
tutelare il principio di par condicio tra
concorrenti e di pubblicità, presidiati
dalla certezza delle regole di gara
divulgate per un lasso temporale idoneo.
Il Collegio
conosce l’orientamento secondo il quale
l’integrazione del bando di gara e della
relativa disciplina può provenire soltanto
dall’organo competente ad indire la gara
medesima e nelle stesse forme, per cui è
illegittima l’integrazione delle clausole
del bando mediante risposte ai chiarimenti
resi ai concorrenti, che possono
esclusivamente precisare e meglio delucidare
le previsioni della lex specialis
(cfr. TAR Campania Napoli, sez. I –
24/03/2011 n. 1659).
Tuttavia la ratio del principio
evocato risiede essenzialmente nell’esigenza
di tutelare il principio di par condicio tra
concorrenti e di pubblicità, presidiati
dalla certezza delle regole di gara
divulgate per un lasso temporale idoneo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 19.06.2012 n. 1088 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI:
Rientrano nelle competenze dei
dirigenti anche i provvedimenti che gli
articoli 6 e 7 del D.Lgs. 285/1992
attribuiscono espressamente al Sindaco,
trattandosi di atti che per un verso non
implicano l'esercizio di funzioni di
indirizzo e controllo
politico-amministrativo ma di gestione
ordinaria (nella specie per regolamentare la
circolazione e la sosta nel centro abitato
per ragioni di sicurezza e di ordinato
flusso del traffico) e per altro verso non
rientrano nelle deroghe di cui all'art. 50 e
54 dello stesso D.Lgs. 267/2000.
Il Collegio ritiene che il ricorso sia
fondato in relazione al profilo
dell’incompetenza del Sindaco all’adozione
del provvedimento impugnato.
Come affermato dalla giurisprudenza, da cui
il Collegio non ravvisa ragione di
discostarsi, "rientrano nelle competenze
dei dirigenti anche i provvedimenti che gli
articoli 6 e 7 del D.Lgs. 285/1992
attribuiscono espressamente al Sindaco,
trattandosi di atti che per un verso non
implicano l'esercizio di funzioni di
indirizzo e controllo
politico-amministrativo ma di gestione
ordinaria (nella specie per regolamentare la
circolazione e la sosta nel centro abitato
per ragioni di sicurezza e di ordinato
flusso del traffico) e per altro verso non
rientrano nelle deroghe di cui all'art. 50 e
54 dello stesso D.Lgs. 267/2000" (così
TAR Veneto, Sez. I, 31.05.2002, n. 2462, ma
anche, più recentemente, TAR Lombardia
Milano Sez. I, Sent., 25-05-2011, n. 1317)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 19.06.2012 n. 1087 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In una
zona interessata da vincolo paesaggistico la
formazione del provvedimento tacito di
assenso alla concessione in sanatoria,
previsto dall'art. 35, comma 18, l. n. 47
del 1985, postula indefettibilmente la
previa acquisizione del parere favorevole
dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo sulla compatibilità ambientale della
costruzione senza titolo.
Per cui ne consegue che, se al momento
dell'esame della domanda di sanatoria non
risulta acquisito il (necessario) parere
favorevole sulla conformità dell'intervento
alla disciplina paesaggistica, la formazione
del silenzio-assenso è preclusa.
Costituisce pacifico ius receptum in
giurisprudenza che in una zona interessata
da vincolo paesaggistico la formazione del
provvedimento tacito di assenso alla
concessione in sanatoria, previsto dall'art.
35, comma 18, l. n. 47 del 1985, postula
indefettibilmente la previa acquisizione del
parere favorevole dell'autorità preposta
alla tutela del vincolo sulla compatibilità
ambientale della costruzione senza titolo;
per cui ne consegue che, se al momento
dell'esame della domanda di sanatoria non
risulta acquisito il (necessario) parere
favorevole sulla conformità dell'intervento
alla disciplina paesaggistica, la formazione
del silenzio-assenso è preclusa (cfr. TAR
Liguria, sez. I, 08.06.2009, n. 1289; Cons.
St., sez. VI, 02.11.2007, n. 5669 e sez. IV,
30.06.2005, n. 3542) (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II,
sentenza 19.06.2012 n. 1077 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il giudizio di accertamento
dell’illegittimità del silenzio-rifiuto ex
art. 117 c.p.a. presuppone che in capo
all’amministrazione sussista un obbligo
giuridico di provvedere sull’istanza del
privato (art. 2, comma 1, l. n. 241/1990),
cioè “di esercitare una pubblica funzione
attribuita normativamente alla competenza
dell’organo amministrativo destinatario
della richiesta, mediante avvio di un
procedimento amministrativo volto
all’adozione di un atto tipizzato nella
sfera autoritativa del diritto pubblico”.
In assenza di tale obbligo non è
configurabile la fattispecie del
silenzio-rifiuto, non potendo tale istituto
essere invocato al fine di provocare una
presa di posizione da parte
dell’amministrazione, indipendentemente
dall’esistenza di un dovere di provvedere
derivante dalla legge e, correlativamente,
di una pretesa del privato avente
consistenza giuridica (quanto meno sub
specie di interesse differenziato e
qualificato).
Né vale invocare l’orientamento secondo cui
l’obbligo ex art. 2 l. n. 241/1990
sussisterebbe “in tutte quelle fattispecie
particolari nelle quali ragioni di giustizia
e di equità impongano l’adozione di un
provvedimento e quindi, tutte quelle volte
in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della
parte pubblica, sorga per il privato una
legittima aspettativa a conoscere il
contenuto e le ragioni delle determinazioni
(qualunque esse siano)
dell’Amministrazione”.
Al riguardo è appena il caso di osservare
che il giudizio di accertamento
dell’illegittimità del silenzio-rifiuto ex
art. 117 c.p.a. presuppone che in capo
all’amministrazione sussista un obbligo
giuridico di provvedere sull’istanza del
privato (art. 2, comma 1, l. n. 241/1990),
cioè “di esercitare una pubblica funzione
attribuita normativamente alla competenza
dell’organo amministrativo destinatario
della richiesta, mediante avvio di un
procedimento amministrativo volto
all’adozione di un atto tipizzato nella
sfera autoritativa del diritto pubblico”
(così Cons. Stato, sez. VI, 22.05.2008,
n. 2458).
In assenza di tale obbligo -come accade nel
caso in esame (non comprendendosi da quale
norma il ricorrente lo faccia discendere)-
non è configurabile la fattispecie del
silenzio-rifiuto, non potendo tale istituto
essere invocato al fine di provocare una
presa di posizione da parte
dell’amministrazione, indipendentemente
dall’esistenza di un dovere di provvedere
derivante dalla legge e, correlativamente,
di una pretesa del privato avente
consistenza giuridica (quanto meno sub
specie di interesse differenziato e
qualificato).
Né vale invocare l’orientamento secondo cui
l’obbligo ex art. 2 l. n. 241/1990
sussisterebbe “in tutte quelle fattispecie
particolari nelle quali ragioni di giustizia
e di equità impongano l’adozione di un
provvedimento e quindi, tutte quelle volte
in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della
parte pubblica, sorga per il privato una
legittima aspettativa a conoscere il
contenuto e le ragioni delle determinazioni
(qualunque esse siano) dell’Amministrazione”
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.03.2012,
n. 2468).
La fattispecie corrente si presenta infatti
con profili peculiari, atteso che
l’iniziativa dell’istante è essenzialmente
volta a ottenere una pronuncia del Ministero
in ordine alla sfera di attribuzioni statali
(a suo dire insussistenti), sulla
concessione di cui vanta la titolarità.
Sicché –in disparte la circostanza che
questo tema risulta già devoluto alla
cognizione dell’autorità giudiziaria
ordinaria (almeno stando a quanto dedotto
dallo stesso sig. Alleati) e che la
questione dovrebbe avere soluzione in quella
sede (in altri termini, è nel contenzioso in
essere su un provvedimento lesivo di un
diritto o un interesse del ricorrente che
l’amministrazione ha l’onere di esprimere la
sua posizione sul punto, ovviamente purché
il tema sia in contestazione)– l’istanza
del sig. Alleati pare in realtà assolvere
alla funzione di mera sollecitazione (o
esposizione di fatti) nei confronti di un
ufficio centrale del Ministero, al fine di
evitare (de futuro) pretese azioni ultra vires che fossero eventualmente poste in
essere dagli organi statali deputati al
controllo amministrativo sulle concessioni,
ferma restando la necessità di contestare
specificamente le stesse, di volta in volta,
innanzi alla competente autorità
giudiziaria.
Così ricostruita la vicenda, non pare al
Collegio che sussista un obbligo di
provvedere sull’istanza in argomento, non
concretandosi pertanto un’ipotesi di
silenzio rifiuto impugnabile (in caso di
inerzia della p.a.).
Di qui, l’inammissibilità anche dell’azione
contra silentium (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter,
sentenza 18.06.2012 n. 5552 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle procedure ad evidenza pubblica,
il venir meno dell'aggiudicazione, per la
decisione giurisdizionale o in via di
autotutela, restituisce all'amministrazione
la piena potestà di diritto pubblico di
determinarsi nel modo che ravvisa più
opportuno per la cura del pubblico interesse.
---------------
Il
principio che impone che i membri delle
Commissioni di gara siano provvisti di
specifica e documentata esperienza di
settore rapportata alla peculiarità della
gara da svolgere è principio non solo
immanente nel sistema (v. art. 84, comma 8,
del D.Lgs. n. 163/2006) ma di stretta
derivazione costituzionale, dal momento che
un adeguato livello di professionalità dei
componenti l'organo è l'unica garanzia di un
effettivo rispetto dei valori costituzionali
richiamati dall'art. 97 Cost..
Va altresì sottolineato che le valutazioni
effettuate dall'organo tecnico (che sono
espressione non solo di discrezionalità
amministrativa ma anche e soprattutto di
discrezionalità tecnica) in tanto sono
soggette al sindacato del giudice
amministrativo entro limiti ridottissimi, in
quanto i limiti stessi riflettono non solo i
rapporti fra i poteri che l'ordinamento
assegna all'Amministrazione e quelli propri
del suo giudice, ma anche la competenza
specifica ed esclusiva, che la normativa
riconosce in determinati settori all'organo
tecnico dell'Amministrazione, alla quale non
si contrappone una eguale competenza da
parte del giudicante.
---------------
E’ noto che l'onere di impugnazione
immediata del bando riguarda le sole
clausole che concernono i requisiti
soggettivi di partecipazione dei concorrenti
e non si estende alle clausole relative alle
modalità di valutazione delle offerte, di
svolgimento della gara od attinenti alla
astratta qualificazione dell'oggetto della
prestazione.
In tale caso l'impugnativa va proposta
unitamente agli atti che ne fanno diretta
applicazione, che rendono attuale e concreta
la lesione soggettiva subita
dall'interessato.
--------------
Costituisce principio
generale regolatore delle gare pubbliche
quello che vieta la commistione fra i
criteri soggettivi di qualificazione e
quelli oggettivi afferenti alla valutazione
dell'offerta.
Tale principio trova il suo sostanziale
supporto logico nella necessità di tener
separati i requisiti richiesti per la
partecipazione alla gara da quelli che
attengono all'offerta e, quindi,
all'aggiudicazione.
Come è stato autorevolmente osservato,
tuttavia, non sempre è agevole tenere
separati i due criteri considerati (quello
oggettivo di valutazione dell'offerta e
quello soggettivo relativo alla capacità
tecnica e professionale del concorrente),
poiché i profili di organizzazione
soggettiva possono anche essere idonei a
riflettersi sull'affidabilità e
sull'efficienza dell'offerta e, quindi,
della prestazione.
Ne deriva che quando gli aspetti
organizzativi non sono apprezzati in modo
autonomo, avulso dal contesto dell'offerta,
ma quale elemento idoneo ad incidere sulle
modalità esecutive del servizio specifico e,
quindi, quale parametro afferente alle
caratteristiche oggettive dell'offerta, il
principio non risulta violato.
Poiché,
come già rilevato nell’anzidetta decisione
interlocutoria, la corretta esecuzione della
sentenza di primo grado comporta proprio, in
relazione alla natura dei vizi ivi accolti,
l’indizione di una nuova gara (fermo
peraltro il principio, secondo cui nelle
procedure ad evidenza pubblica, il venir
meno dell'aggiudicazione, per la decisione
giurisdizionale o in via di autotutela,
restituisce all'amministrazione la piena
potestà di diritto pubblico di determinarsi
nel modo che ravvisa più opportuno per la
cura del pubblico interesse: Consiglio
Stato, sez. V, 06.03.2002, n. 1367), le
nuove determinazioni in tal senso assunte
dall’Amministrazione nelle more del giudizio
di appello devono considerarsi allora
adottate appunto per dare esecuzione alla
pronuncia di primo grado, sì che esse, alla
luce anche delle incontestate deduzioni
svolte dall’appellante nell’istanza
risarcitoria successivamente proposta in
pendenza del giudizio di appello, non si
configurano come idonee ad escludere la
persistenza dell’originaria ricorrente alla
declaratoria di illegittimità degli atti
oggetto del giudizio e dell’appellante
soccombente in primo grado alla reviviscenza
degli atti stessi.
Né siffatto ultimo interesse potrebbe in
particolare ritenersi venuto meno per
effetto della mancata impugnazione da parte
della seconda degli atti posti in essere in
esecuzione della sentenza appellata, dal
momento che essi, in caso di accoglimento
dell’appello (comportante la reviviscenza
degli atti relativi alla prima procedura di
gara oggetto del presente giudizio),
verrebbero comunque meno con effetto
retroattivo, perdendo ab initio il loro
fondamento giuridico (ex art. 336 c.p.c.).
---------------
La Sezione preliminarmente osserva in
proposito che il principio che impone che i
membri delle Commissioni di gara siano
provvisti di specifica e documentata
esperienza di settore rapportata alla
peculiarità della gara da svolgere è
principio non solo immanente nel sistema (v. art. 84, comma 8, del D.Lgs. n. 163/2006), ma di stretta derivazione costituzionale,
dal momento che un adeguato livello di
professionalità dei componenti l'organo è
l'unica garanzia di un effettivo rispetto
dei valori costituzionali richiamati
dall'art. 97 Cost. (Cons. St., V, 30.04.2009, n. 2761 ).
Va altresì sottolineato che le valutazioni
effettuate dall'organo tecnico (che sono
espressione non solo di discrezionalità
amministrativa ma, come nella specie, anche
e soprattutto di discrezionalità tecnica)
in tanto sono soggette al sindacato del
giudice amministrativo entro limiti
ridottissimi, in quanto i limiti stessi
riflettono non solo i rapporti fra i poteri
che l'ordinamento assegna
all'Amministrazione e quelli propri del suo
giudice, ma anche la competenza specifica ed
esclusiva, che la normativa riconosce in
determinati settori all'organo tecnico
dell'Amministrazione, alla quale non si
contrappone una eguale competenza da parte
del giudicante.
Ciò posto, tenuto conto dei parametri ai
quali la Commissione di gara doveva nel caso
di specie assegnare il suo giudizio (sistema organizzativo di espletamento
dell’attività, metodologie tecnico operative
e servizi analoghi), nonché del fatto che
nelle procedure svolte col criterio di
selezione dell’offerta economicamente più
vantaggiosa assumono rilevanza di norma
proprio gli elementi qualitativi
dell’offerta la cui valutazione è appunto
affidata alla Commissione giudicatrice che
attribuisce per ciascuno di essi un
punteggio nell’àmbito di un range
determinato (con esclusione dunque di
qualsivoglia carattere di automaticità delle
sue scelte), ritiene il Collegio che i
predetti membri della Commissione, in
relazione ai concreti aspetti sui quali i
medesimi dovevano formulare il loro giudizio
(valutazione –del resto chiaramente in tal
senso risultante ex post dagli stessi
verbali di gara- per almeno due dei
parametri rilevanti, di sofisticati sistemi
informatici, telematici, audio e video,
antintrusione, antieffrazione e di
videosorveglianza), non risultavano dotati,
nella loro dichiarata qualità di dirigenti sanitari ed amministrativi di grandi
strutture a stretto contatto con l’utenza (e nemmeno nella loro dichiarata qualità di
componenti di precedenti commissioni di
gara, il cui ambito di attività non risulta
per vero nemmeno enunciato), di competenze
od esperienze adeguate, tali da porli in
grado di esprimere una adeguata ed
appropriata valutazione delle offerte quanto
agli aspetti sopra indicati.
---------------
E’ noto,
invero, che l'onere di impugnazione
immediata del bando riguarda le sole
clausole che concernono i requisiti
soggettivi di partecipazione dei concorrenti
e non si estende alle clausole relative alle
modalità di valutazione delle offerte, di
svolgimento della gara od attinenti alla
astratta qualificazione dell'oggetto della
prestazione.
In tale caso l'impugnativa va proposta, come
correttamente è stato fatto nel presente
giudizio, unitamente agli atti che ne fanno
diretta applicazione, che rendono attuale e
concreta la lesione soggettiva subita
dall'interessato.
Nel merito, poi, la doglianza dedotta col
ricorso introduttivo, concordemente con
quanto affermato dal Giudice di primo grado,
si rivela fondata.
Osserva in proposito il Collegio che, alla
stregua di una consolidata giurisprudenza (comunitaria e nazionale), costituisce
principio generale regolatore delle gare
pubbliche quello che vieta la commistione
fra i criteri soggettivi di qualificazione
e quelli oggettivi afferenti alla
valutazione dell'offerta.
Tale principio trova il suo sostanziale
supporto logico nella necessità di tener
separati i requisiti richiesti per la
partecipazione alla gara da quelli che
attengono all'offerta e, quindi,
all'aggiudicazione (cfr. Cons. Stato, sez.
V, 14.10.2008, n. 4971).
Come è stato autorevolmente osservato,
tuttavia, non sempre è agevole tenere
separati i due criteri considerati (quello
oggettivo di valutazione dell'offerta e
quello soggettivo relativo alla capacità
tecnica e professionale del concorrente),
poiché i profili di organizzazione
soggettiva possono anche essere idonei a
riflettersi sull'affidabilità e
sull'efficienza dell'offerta e, quindi,
della prestazione.
Ne deriva che quando gli aspetti
organizzativi non sono apprezzati in modo
autonomo, avulso dal contesto dell'offerta,
ma quale elemento idoneo ad incidere sulle
modalità esecutive del servizio specifico e,
quindi, quale parametro afferente alle
caratteristiche oggettive dell'offerta, il
principio non risulta violato (Cons. Stato,
Sez., VI, 15.12.2010, n. 8933).
In proposito giova ricordare che, nel caso
di specie, la pretesa illegittimità della
legge di gara sotto il profilo in
considerazione concerne l’art. 3.1 del
Disciplinare di gara, laddove prevede come
criterio di valutazione qualitativa
dell’offerta i “servizi analoghi espletati
presso enti pubblici ed in particolare
presso strutture ospedaliere” (max punti 10).
Orbene, come esattamente dedotto
dall’appellata, l’utilizzo, ai fini della
valutazione dell’offerta, di siffatto
criterio (previsto dall’art. 42, comma 1,
lett. a), del D.Lgs. n. 163/2006 come
requisito di capacità tecnica del
concorrente) non risponde in concreto alle
specificità della procedura per cui è causa,
poiché il criterio stesso non ha diretto
riferimento con le concrete modalità di
svolgimento della prestazione richiesta, né
offre un parametro afferente alle
caratteristiche oggettive dell’offerta
stessa, nella misura in cui i “servizi
analoghi” non sono stati dalla legge di gara
previsti né “considerati in relazione alla
loro rilevanza nel servizio offerto, bensì
quale caratteristica peculiare e soggettiva
dell’impresa offerente” (così, condivisibilmente, le deduzioni di parte
privata appellata).
Tale elemento di valutazione dell’offerta
non si rivela insomma in grado di connotare
la effettiva qualità dell’offerta medesima (e dunque del servizio da svolgere), privo
com’è di specificazioni, che consentano di
concretamente ricondurre i servizi analoghi
esplicati (per tipologia ed ampiezza delle
strutture da sorvegliare, per flusso di
utenti, per concentrazione di addetti, ecc.)
a quello oggetto di gara e che dunque
forniscano validi indici dei livelli
qualitativi, che l’impresa concorrente può
assicurare nello svolgimento della specifica
prestazione oggetto dell’appalto
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 18.06.2012 n. 3550 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: E'
illegittima l'ordinanza sindacale di
rimozione rifiuti pericolosi abbandonati su
terreno posto che
l'amministrazione non ha provveduto,
attraverso idonea istruttoria in
contraddittorio con le parti, a verificare
l’imputabilità, a titolo di dolo o di colpa,
in capo ai ricorrenti, dell'abbandono dei
rifiuti pericolosi sul sito di proprietà.
La fattispecie normativa configura, infatti,
una sanzione amministrativa di tipo
reintegratorio che richiede, tra gli
elementi costitutivi, quello soggettivo. Si
consideri inoltre che il terreno era
regolarmente recintato e che, quindi, doveva
essere accuratamente accertata anche un
eventuale culpa in vigilando.
... per l'annullamento, previa sospensiva
dell'ordinanza sindacale n. 175 del
15.11.2011, prot. n. 15914, con la quale è
stato ingiunto ai ricorrenti di bonificare
il sito di loro proprietà da rifiuti
pericolosi; della relazione di accertamento
(non conosciuta) prot. n. 1/143-3 del
09.09.2011 della Legione Carabinieri Lazio -
stazione di Anagni;
...
Deducono i ricorrenti violazione e falsa
applicazione dell’art. 192 D.Lgs. 156/2006;
difetto di imputabilità soggettiva;
violazione dei principi di buon andamento ed
imparzialità ex art. 97 Cost.; difetto di
istruttoria e di motivazione; eccesso di
potere.
Le censure trovano fondamento posto che
l'amministrazione non ha provveduto,
attraverso idonea istruttoria in
contraddittorio con le parti, a verificare
l’imputabilità, a titolo di dolo o di colpa,
in capo ai ricorrenti, dell'abbandono dei
rifiuti pericolosi sul sito di proprietà (al
riguardo la giurisprudenza è costante, cfr.
C.d.S. sez. V I. I. I., n. 4073,
26.06.2010).
La fattispecie normativa configura, infatti,
una sanzione amministrativa di tipo
reintegratorio che richiede, tra gli
elementi costitutivi, quello soggettivo. Si
consideri inoltre che il terreno era
regolarmente recintato e che, quindi, doveva
essere accuratamente accertata anche un
eventuale culpa in vigilando
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 18.06.2012 n. 493 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce attività vincolata della p.a.
con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l'ordinanza di
demolizione , costituiscono atti vincolati
per la cui adozione non è necessario l'invio
di comunicazione di avvio del procedimento,
non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto.
La censura è infondata sulla base di un
costante orientamento giurisprudenziale, cui
questo collegio ritiene di aderire, secondo
cui “L'esercizio del potere repressivo
degli abusi edilizi costituisce attività
vincolata della p.a. con la conseguenza che
i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza
di demolizione , costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è
necessario l'invio di comunicazione di avvio
del procedimento, non essendovi spazio per
momenti partecipativi del destinatario
dell'atto” (cfr. C.d.S. sez. IV,
10.08.2011, n. 4764)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 18.06.2012 n. 491 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
divieto di costruzione di opere a meno di 10
metri dalla sponda del fiume, previsto
dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n.
523, ha carattere inderogabile in quanto
diretto al fine di assicurare non solo la
possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali, ma anche e soprattutto il libero
deflusso delle acque scorrenti nei fiumi,
torrenti, canali e scolatoi pubblici, con la
conseguenza che nessuna opera costruita in
violazione di tale divieto può essere
sanata.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 13
del 18.01.2000, con la quale è stata
respinta l’istanza di condono edilizio
presentata in data 10.07.1986, prot. n.
25032, prat. n. 2623.
...
Le censure sono infondate. In particolare,
l'art. 96 R.D. 523/1904 stabilisce che "Sono
lavori ed atti vietati in modo assoluto
sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e
difese i seguenti: ...
f) le piantagioni di alberi e siepi, le
fabbriche, gli scavi e lo smovimento del
terreno a distanza dal piede degli argini e
loro accessori come sopra, minore di quella
stabilita dalle discipline vigenti nelle
diverse località, ed in mancanza di tali
discipline, a distanza minore di metri
quattro per le piantagioni e smovimento del
terreno e di metri dieci per le fabbriche e
per gli scavi".
Poiché, come sostenuto dal ricorrente
stesso, l'immobile, ai fini di mantenere il
rispetto della distanza dal confine della
strada privata, è stato avvicinato oltre i
10 mt. all'alveo del torrente ove vige il
divieto di inedificabilità assoluta ai sensi
della norma sopra citata, il provvedimento
non è sotto questo profilo viziato. Peraltro
il Consiglio di Stato sez. IV, 22.06.2011,
n. 3781 ha precisato che "Il divieto di
costruzione di opere a meno di 10 metri
dalla sponda del fiume, previsto dall'art.
96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha
carattere inderogabile in quanto diretto al
fine di assicurare non solo la possibilità
di sfruttamento delle acque demaniali, ma
anche e soprattutto il libero deflusso delle
acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali
e scolatoi pubblici, con la conseguenza che
nessuna opera costruita in violazione di
tale divieto può essere sanata".
Inoltre, non hanno alcuna incidenza
sull’operatività tout court del
vincolo di inedificabilità assoluta -ex
lege operante-, da un lato una eventuale
valutazione discrezionale dell'incidenza
idraulica delle opere, peraltro non ammessa
dal legislatore, e dall'altro l'eventuale
autorizzazione all'esecuzione di opere
(immobile, muro di contenimento) che
resterebbero comunque illegittime.
Sostiene, poi, il ricorrente che tutti gli
abusi ricadono all'interno della proiezione
delle mura perimetrali esterne del
fabbricato assentito con licenza edilizia
554 del 26.08.1968 e pertanto non hanno
inciso sulla striscia di terreno tra il
fabbricato e il torrente Acquatraversa.
Tuttavia anche questa considerazione è priva
di fondamento in relazione alla persistenza
comunque delle opere in area di
inedificabilità assoluta.
Ne deriva, tra l'altro, che nessun parere
doveva essere richiesto all'amministrazione
provinciale posto che nessuna
discrezionalità la norma concede
all'amministrazione nella valutazione
dell'incidenza idraulica delle opere,
ponendo nella distanza minima di 10 mt. un
limite tassativo vincolante. Trattandosi,
poi, di provvedimento vincolato l’omessa
richiesta di preventivo parere della CEC si
traduce in un vizio formale superabile ai
sensi dell'art. 21-octies L. 241/1990. Il
ricorso è pertanto infondato e va respinto
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 18.06.2012 n. 489 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di una domanda
di sanatoria determina per l’Amministrazione
l’onere di un provvedimento di reiezione (o
di accoglimento) dell’istanza stessa cui
deve far seguito l’eventuale adozione di
ulteriori provvedimenti sanzionatori che il
Comune è tenuto ad emanare con atti a
contenuto vincolato, una volta che si sia
verificato che non sussistono le condizioni
per la sanatoria delle opere abusive.
Questo sta, in particolare, a significare
che dopo la presentazione della domanda di
sanatoria ai sensi dell’art. 36 DPR n.
380/2001 (prima, art. 13 legge n. 47/1985)
le procedure per l’esecuzione di una
sanzione amministrativa (a maggior ragione
la potestà di emanare la sanzione stessa)
deve ritenersi “sospesa” in attesa della
determinazione dell’amministrazione sulla
domanda di sanatoria.
Se così non fosse, potrebbe venir meno,
prima della pronuncia dell’amministrazione,
il substrato naturale (opere abusive)
oggetto di domanda.
In pendenza di domanda di sanatoria, quindi,
il Comune non può procedere ad far eseguire
misure sanzionatorie-ripristinatorie.
La presentazione di una domanda di sanatoria
determina per l’Amministrazione l’onere di
un provvedimento di reiezione (o di
accoglimento) dell’istanza stessa cui deve
far seguito l’eventuale adozione di
ulteriori provvedimenti sanzionatori che il
Comune è tenuto ad emanare con atti a
contenuto vincolato, una volta che si sia
verificato che non sussistono le condizioni
per la sanatoria delle opere abusive (Cons.
Stato, Sez. IV, 12.05.2010 n. 2244; idem,
12.11.2008 n. 5646)..
Questo sta, in particolare, a significare
che dopo la presentazione della domanda di
sanatoria ai sensi dell’art. 36 DPR n. 380/2001
(prima, art. 13 legge n. 47/1985) le procedure
per l’esecuzione di una sanzione
amministrativa (a maggior ragione la
potestà di emanare la sanzione stessa) deve
ritenersi “sospesa” in attesa della
determinazione dell’amministrazione sulla
domanda di sanatoria.
Se così non fosse, potrebbe venir meno,
prima della pronuncia dell’amministrazione,
il substrato naturale (opere abusive)
oggetto di domanda.
In pendenza di domanda di sanatoria, quindi,
il Comune non può procedere ad far eseguire
misure sanzionatorie-ripristinatorie e tale
illegittima circostanza nella specie si è
verificata se è vero che la domanda di
sanatoria è stata inoltrata il 25.03.2010
e risulta definita con provvedimento del 17.05.2010, solo dopo che in data 29.03.2010 si è proceduto all’accertamento di
inottemperanza della pregressa ordinanza di
demolizione e tenuto altresì conto che la
definizione della sanatoria segue e non
precede gli atti comunali (delibera
consiliare del 26.04.2010 e
provvedimento del 12.05.2010) che
dispongono l’acquisizione al patrimonio
comunale dell’immobile de quo.
Al di là del sovvertimento dell’ordine
logico di valutazione della fattispecie
sottoposta all’amministrazione, circostanza
di per sé sufficiente ad inficiare i vari
atti di tipo sanzionatorio assunti a carico
dell’appellante, in ogni caso il
provvedimento di diniego si fonda su
inidonee ragioni giustificative della
reiezione della domanda.
Invero, due sono i motivi di rigetto opposti
dall’Amministrazione comunale:
a) tardività della domanda di sanatoria;
b) abusività delle opere per le quali è
stata già emanato un provvedimento di
demolizione e accertata la inottemperanza al
medesimo ordine.
Quanto al primo argomento, il termine di
presentazione della domanda di sanatoria non
è quello di trenta giorni richiesto
dall’amministrazione con la nota di
avviamento del procedimento, bensì quello di
90 giorni dalla data di notificazione
dell’ordinanza di demolizione, come previsto
dall’art. 36 del DPR n. 320/2001 rispetto al
quale la domanda de qua risulta
tempestivamente prodotta.
Relativamente poi alla ragione sub b) il
rilievo è del tutto inconferente ove si
consideri che l’abusività di un’opera
intesa come realizzazione di un manufatto sine titulo non impedisce la sanabilità
dell’opera stessa in presenza beninteso
delle condizioni di fatto e di diritto
richieste dalla normativa, senza che possa
avere rilevanza l’avvenuta emanazione di
provvedimenti sanzionatori.
Rimane il fatto, allora, che il
provvedimento che ha definito negativamente
la domanda di sanatoria non adduce ragioni
di non conformità urbanistico-edilizia né
fa riferimento alla presenza di altre cause
procedurali o di carattere sostanziale
ostative all’accoglimento dell’istanza e
neppure risultano esperite attività
istruttorie o acquisiti elementi di giudizio
che evidenzino il contrasto di dette opere
con la disciplina pianificatoria ed edilizia
vigente.
Quanto testé esposto comporta la fondata
sussistenza delle doglianze di violazione di
legge ed eccesso di potere dedotte con i
motivi sopra rubricati nei confronti del
provvedimento di diniego di sanatoria con la
conseguenza che siffatti vizi hanno un
effetto caducante sugli altri atti assunti
dal Comune e costituiti dal verbale di
inottemperanza alla demolizione e i
provvedimenti di acquisizione dell’immobile
di che trattasi al patrimonio comunale vuoi
perché queste determinazioni non potevano
essere adottate in assenza di una previa
definizione della domanda di sanatoria vuoi
perché, ad ogni modo, connessi
indissolubilmente ad un atto presupposto (il diniego di sanatoria) rivelatosi
illegittimamente emesso.
Conclusivamente la sentenza impugnata è
errata e va, in tal senso, riformata la
statuizione di inammissibilità da essa
recata, così come fondato si appalesa il
ricorso di prime cure per gli assorbenti
motivi sopra illustrati (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.06.2012 n. 3534 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fermo restando che per l’acquisto del
carattere demaniale, sono prescritti
specifici requisiti,
costituisce strada pubblica quel tratto
viario avente finalità di collegamento, con
funzione di raccordo o sbocco su pubbliche
vie nonché l’essere destinata al transito di
un numero indifferenziato di persone.
In particolare, sotto quest’ultimo aspetto,
un’area privata può ritenersi assoggettata
ad uso pubblico di passaggio quando l’uso
avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di soggetti considerati uti
cives, ossia quali titolari di un pubblico
interesse di carattere generale, e non uti
singuli ossia quali soggetti che si trovano
in una posizione qualificata rispetto al
bene gravato.
Del pari, la giurisprudenza ha avuto cura di
precisare come l’adibizione ad uso pubblico
di un’area possa avvenire mediante la c.d.
dicatio ad patriam, con il comportamento del
proprietario che mette il bene a
disposizione della collettività
indeterminata di cittadini, oppure con l’uso
del bene da parte della collettività
indifferenziata protratto per lunghissimo
tempo, di talché il bene stesso viene ad
assumere caratteristiche analoghe a quelle
di un bene demaniale.
Insomma, perché un’area
possa ritenersi sottoposta ad un uso
pubblico è necessario oltreché l’intrinseca
idoneità del bene, che l’uso avvenga ad
opera di una collettività indeterminata di
persone e per soddisfare un pubblico,
generale interesse.
L’argomento introdotto consente di precisare
come la problematica giuridica oggetto della
presente controversia coinvolge due profili,
quello della proprietà della strada e
quello
dell’utilizzazione della strada stessa, se
all’uso generale della collettività oppure a
quello dei soli abitanti frontisti.
Fermo restando che per l’acquisto del
carattere demaniale, sono prescritti
specifici requisiti (Cons. Stato, Sez. V,
24.05.2007 n. 2618), secondo un
consolidato orientamento giurisprudenziale,
costituisce strada pubblica quel tratto
viario avente finalità di collegamento, con
funzione di raccordo o sbocco su pubbliche
vie (Cass. Civ., Sez. II, 07.04.2000
n. 4345; idem, 28.11.1988 n. 6412)
nonché l’essere destinata al transito di un
numero indifferenziato di persone (Cons.
Stato, Sez. V, 07.12.2010 n. 8624).
In particolare, sotto quest’ultimo aspetto,
un’area privata può ritenersi assoggettata
ad uso pubblico di passaggio quando l’uso
avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di soggetti considerati uti
cives, ossia quali titolari di un pubblico
interesse di carattere generale, e non uti
singuli ossia quali soggetti che si trovano
in una posizione qualificata rispetto al
bene gravato (Cons. Stato, Sez. V, 14.02.2012 n. 728).
Del pari, la giurisprudenza ha avuto cura di
precisare come l’adibizione ad uso pubblico
di un’area possa avvenire mediante la c.d.
dicatio ad patriam, con il comportamento del
proprietario che mette il bene a
disposizione della collettività
indeterminata di cittadini, oppure con l’uso
del bene da parte della collettività
indifferenziata protratto per lunghissimo
tempo, di talché il bene stesso viene ad
assumere caratteristiche analoghe a quelle
di un bene demaniale (Cass. Civ., Sez. II,
21.05.2001 n. 6924; idem, 13.02.2006 n. 3075).
Insomma, la giurisprudenza con gli enunciati
sopra esposti afferma che perché un’area
possa ritenersi sottoposta ad un uso
pubblico è necessario oltreché l’intrinseca
idoneità del bene, che l’uso avvenga ad
opera di una collettività indeterminata di
persone e per soddisfare un pubblico,
generale interesse (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.06.2012 n. 3531 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A fonte di un’autorizzazione commerciale,
diversamente che per i titoli edilizi
modificativi del territorio, la mera vicinitas
vantata dal ricorrente non è idonea a
fondare un titolo di legittimazione in
assenza della dimostrazione di specifici
pregiudizi arrecati alla sfera individuale
dallo svolgimento dell’attività interessata
dall’atto di assenso.
● Rilevato che con la sentenza appellata il Primo Giudice ha dichiarato
l’inammissibilità, per difetto di
legittimazione attiva, del ricorso proposto
dall’odierna appellante avverso il
provvedimento con il quale il Comune di
Portofino aveva autorizzato la controinteressata Emanuela Rosalba Repetto
all’esercizio di attività agrituristica
comprendente la somministrazione di pasti e
bevande.
●
Ritenuto che la sentenza appellata merita
conferma alla stregua delle seguenti
considerazioni:
- l’appellante non è titolare di attività
economiche suscettibili di essere
pregiudicate sul piano concorrenziale
dall’atto di autorizzazione all’apertura di
una nuova attività commerciale in guisa da
consolidare una posizione qualificata e
differenziata e da radicare la
legittimazione attiva;
- a fonte di un’autorizzazione commerciale,
diversamente che per i titoli edilizi
modificativi del territorio, la mera vicinitas vantata dal ricorrente non è
idonea a fondare un titolo di legittimazione
in assenza della dimostrazione di specifici
pregiudizi arrecati alla sfera individuale
dallo svolgimento dell’attività interessata
dall’atto di assenso;
- nel caso in esame, caratterizzato dall’esercizio di un’attività agrituristica a
beneficio di un numero ridotto di utenti per
alcuni giorni della settimana, non è dato
apprezzare il pregiudizio patito dalla parte
ricorrente nella sua qualità di proprietaria
di un fabbricato di civile abitazione
ubicato nella zona, non essendo le prospettazioni offerte nell’atto d’appello
in merito ai pregiudizi derivanti sul piano
del valore economico della proprietà e
dell’integrità ambientale supportate da
adeguata e concreta dimostrazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.06.2012 n. 3471 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il rispetto delle regole
partecipative cristallizzate dalla legge n.
241/1990 e della ratio che le anima, impone
che la comunicazione di avvio del
procedimento venga effettuata in tempo e con
modalità tali da consentire la
partecipazione influente ed efficace dei
soggetti interessati al processo decisionale
destinato a sfociare nella determinazione
finale potenzialmente lesiva.
Ne deriva che il rispetto formale della
disciplina di legge non esclude l’effetto
invalidante sortito da una condotta
amministrativa che, nel suo complesso,
finisca per impedire una partecipazione
utile da parte del soggetto portatore di un
interesse giuridicamente qualificato e
differenziato.
Con riguardo alla censura volta a stigmatizzare la violazione del
principio di partecipazione effettiva e
utile al dispiegarsi del procedimento
amministrativo, il Collegio non reputa
condivisibile l’assunto sostenuto dal Primo
Giudice secondo cui l’amministrazione
avrebbe correttamente rispettato la
disciplina di cui agli artt. 7 e seguenti
della legge n. 241/1990 mentre esulerebbe
dall’alveo della partecipazione obbligatoria
sancita dalla legge la pretesa
dell’appellante di interloquire con la
Commissione Tecnica al fine di fornire il
proprio apporto nel corso dei lavori sfocati
nella relazione posta a fondamento del
provvedimento di revoca.
Osserva, in via preliminare, la Sezione che
il rispetto delle regole partecipative
cristallizzate dalla citata legge n.
241/1990 e della ratio che le anima,
impone che la comunicazione di avvio del
procedimento venga effettuata in tempo e con
modalità tali da consentire la
partecipazione influente ed efficace dei
soggetti interessati al processo decisionale
destinato a sfociare nella determinazione
finale potenzialmente lesiva. Ne deriva che
il rispetto formale della disciplina di
legge non esclude l’effetto invalidante
sortito da una condotta amministrativa che,
nel suo complesso, finisca per impedire una
partecipazione utile da parte del soggetto
portatore di un interesse giuridicamente
qualificato e differenziato (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.06.2012 n. 3470 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Gare,
professionisti da non discriminare. Cds:
il bando deve essere aperto.
È illegittimo l'operato di una stazione
appaltante che, per affidare un incarico di
progettazione e direzione lavori, ha
invitato con procedura negoziata senza bando
di gara soltanto i professionisti operanti
nel territorio comunale.
È quanto ha
affermato il Consiglio di stato, Sez. V, con la recente
sentenza 13.06.2012 n. 3469 che ha preso in
considerazione l'operato di una stazione
appaltante che aveva esperito una procedura
di affidamento per servizi di ingegneria e
architettura (progettazione e direzione
lavori) ai sensi dell'articolo 91 del Codice
dei contratti pubblici che ammette la
procedura negoziata senza bando di gara per
gli incarichi al di sotto dei 100.000 euro
di valore.
La stazione appaltante si era
limitata ad invitare alcuni professionisti
operanti nel territorio comunale e un
raggruppamento di professionisti, poi
risultato aggiudicatario dell'incarico
operante al di fuori dell'area comunale.
I
giudici hanno comunque dichiarato
illegittimo il bando sia perché erano stati
invitati professionisti locali, sia perché
era mancata una vera e propria indagine di
mercato. L'illegittimità è conseguente alla
violazione di principi generali di origine
comunitaria di non discriminazione e parità
di trattamento che determina una barriera
all'accesso al mercato «e non consente,
quindi, limitazioni di accesso al mercato
per ratione loci, ovvero in ragione
dell'ubicazione della sede in un determinato
territorio».
La sentenza chiarisce che la scelta di
limitare la partecipazione ai professionisti
locali, non supportata da un'indagine volta
a verificare le professionalità più
qualificate con riguardo all'oggetto della
proceduta, si è, in definitiva, sostanziata
in una limitazione territoriale aprioristica
in contrasto con i principi comunitari in
tema di tutela della concorrenza, di libertà
di stabilimento e di libera prestazione dei
servizi, volti a garantire l'affermazione di
un mercato comune libero da restrizioni
discriminatorie collegate alla nazionalità o
alla sede formale.
La sentenza non ritiene di legittimare
l'operato della stazione appaltante neanche
in relazione all'avvenuto invito del
raggruppamento operante al di fuori del
territorio comunale (poi risultato
aggiudicatario), elemento inidoneo a
documentare l'avvenuta indagine per
selezionare le migliori esperienze, capacità
economiche e qualifiche
(articolo ItaliaOggi del
21.06.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sulla verbalizzazione delle operazioni concorsuali.
E’ vero che il verbale è un atto che accede
al provvedimento dal quale rimane distinto,
per cui eventuali irregolarità del verbale
non sempre comportano l’illegittimità della
determinazione in esso consacrata.
Peraltro, ad avviso del Collegio, ciò vale
fino a quando il verbale per quanto
irregolare risponde alla sua funzione,
consistente nel dare certezza circa le
operazioni che si attesta siano state
compiute, e circa i modi in cui queste sono
state compiute.
Qualora l’irregolarità del verbale sia tale
da non consentirgli di assolvere tale
naturale funzione il provvedimento è
inficiato dall’impossibilità di ricostruire
la legittimità del procedimento che ha
portato alla sua formazione.
Il principio appena enunciato è applicabile
nel caso di specie.
Deve essere rilevato che la commissione di
concorso ha approvato i verbali che ora
interessano quasi un mese dopo lo
svolgimento delle operazioni ivi attestate.
Un intervallo così lungo è tale da suscitare
dubbi, in ragione della funzione della
verbalizzazione in sé, sull’esattezza della
narrazione dei fatti contenuta nel verbale.
Più in particolare, la redazione e
l’approvazione tempestiva dei verbali sono
necessarie quando con essi l’autorità
procedente deve dar contezza di aver
osservato l’ordine degli atti del
procedimento.
Esigenza di trasparenza e di certezza che
qui non è stata rispettata, in quanto la
verbalizzazione della valutazione delle
prove scritte è stata successiva alla data
in cui erano state aperte le buste
contenenti gli elaborati dei candidati,
valutazione che quella data deve invece
necessariamente precedere per la regola
dell’anonimato, e a quella in cui è stato
reso noto l’elenco degli ammessi alla prova
orale.
Per questi motivi la verbalizzazione non può
intervenire ex post come avvenuto nel
caso di specie (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.06.2012 n. 3465
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’art.
11, comma 2, del decreto legislativo n. 157
del 1995 (poi trasfuso nell’art. 37, comma
2, del decreto legislativo n. 163 del 2006)
-nella parte in cui ha previsto che
l’offerta proveniente da un raggruppamento
d’imprese ‹‹deve specificare le parti del
servizio che saranno eseguite dalle singole
imprese e contenere l’impegno che, in caso
di aggiudicazione della gara, le stesse
imprese si conformeranno alla disciplina
prevista nel presente articolo›- si applica
quando si tratti non solo si tratti di
a.t.i. verticali, ma anche di a.t.i.
orizzontali.
L’ordinanza di rimessione all’Adunanza
Plenaria aveva ravvisato un contrasto di
giurisprudenza.
Per un orientamento, l’art. 11, comma 2, si
sarebbe riferito solo alle a.t.i. verticali
e non anche a quelle orizzontali cfr. Cons.
St., Sez. V, 26.11.2008, n. 5849; Sez. V,
04.05.2009, n. 2783; Sez. V, 28.02.2011, n.
1249),
L’Adunanza Plenaria –sulla base di una
puntuale indicazione di cosa si debba
intendere per a.t.i. verticali od
orizzontali- ha invece aderito
all’orientamento per il quale l’art. 11,
comma 2, non ha distinto tra a.t.i.
orizzontali e verticali, al fine
dell’obbligo di specificare le ‹‹parti››
di servizio eseguite da ciascuna impresa (in
tal senso, Cons. St., Sez. V, 28.08.2009, n.
5098; Sez. V 14.01.2009, n. 98)
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 13.06.2012 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’intensa urbanizzazione di
un’area non riduce i vincoli paesaggistici.
Sotto tale aspetto i giudici di Palazzo
Spada richiamano il consolidato orientamento
secondo cui l’avvenuta edificazione di
un'area o le sue condizioni di degrado non
costituiscono ragione sufficiente per
recedere dall'intento di proteggere i valori
estetici o paesaggistici ad essa legati,
poiché l'imposizione del vincolo costituisce
il presupposto per l'imposizione al
proprietario delle cautele e delle opere
necessarie alla conservazione del bene e per
la cessazione degli usi incompatibili con la
conservazione dell'integrità dello stesso.
Le avvenute modifiche dello stato dei luoghi
non consentono dunque –anche in sede di
esame di istanze di sanatoria- di ritenere
compatibile col vincolo paesistico qualsiasi
costruzione, dovendo l’amministrazione
preposta alla tutela del vincolo valutare se
la presenza dell’immobile in questione sia
compatibile con i valori tutelati e, anzi,
se essa precluda la riqualificazione
dell’area (che costituisce una finalità
primaria perseguita dalle leggi, in coerenza
con il valore primario dei valori tutelati
dall’art. 9 della Costituzione).
Si è osservato al riguardo che la
qualificazione di rilevanza
paesaggistico-ambientale di un sito non è
determinata dal suo grado di inquinamento o
alterazione -perché, allora, in tutti i casi
di degrado ambientale sarebbe preclusa ogni
ulteriore protezione del paesaggio
riconosciuto meritevole di tutela-, con la
conseguenza per cui l’esistenza del relativo
vincolo serve piuttosto anche a prevenire
l’aggravamento della situazione ed a
perseguirne il possibile recupero (Cons.
Stato, VI, 27.04.2010, n. 2377).
Non è stata
accolta, pertanto, in questa circostanza la
tesi secondo cui la Soprintendenza avesse
omesso di valutare il carattere ormai
intensamente urbanizzato dell’area che,
secondo i ricorrenti, rendeva improbabile la
motivazione fondata sul valore paesistico
della stessa (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 11.06.2012 n. 3401 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La seconda posizione in
graduatoria non giustifica l’accesso
generalizzato agli atti di gara.
In relazione a tale circostanza, nella
pronuncia in commento, i giudici del
Consiglio di Stato hanno respinto l’istanza
di accesso al contratto stipulato con
l’aggiudicataria, alla progettazione
esecutiva, agli atti aggiuntivi, alle
perizie di variante, agli atti di
sottomissione, ai verbali di sospensione e
ripresa lavori, ai verbali di collaudo in
corso d’opera, agli stati avanzamento lavori
e agli ordini di servizio, così come a tutti
gli altri atti citati, perché del tutto
carente d’ interesse: né l’istanza, né il
ricorso, né l’atto d’appello, infatti, hanno
evidenziato un interesse tangibile alla
richiesta di ostensione.
La richiesta di accesso, sottolineano i giudici di Palazzo Spada, non può
mai configurarsi quale forma di preventivo e
generalizzato controllo dell'intera
attività, ma deve essere correlato ad uno
specifico interesse anche non funzionalmente
connesso ad una immediata tutela in via
giudiziale, purché concreto ed attuale.
In questa vicenda, l’interesse azionato a
fondamento della richiesta d’accesso,
secondo gli stessi giudici, non è risultato
concreto, poiché non è stata precisata e
specificata la natura: “la circostanza di
essere il secondo graduato nella procedura
di gara per l’affidamento del contratto, non
giustifica certo una richiesta generalizzata
di accesso di tutti gli atti attinenti alla
fase esecutiva, tanto più in questa
circostanza, ove la lite tra l’affidatario e
l’Amministrazione è stata composta
bonariamente” (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 11.06.2012 n. 3398 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Ordinanze contingibili e urgenti (divieto di
utilizzo di locale seminterrato adibito a
luogo di culto).
La giurisprudenza ha
costantemente affermato il principio secondo
cui deve escludersi l'illegittimità del
provvedimento amministrativo, fondato su una
pluralità di autonomi motivi, quando ne
esista almeno uno idoneo a sostenere l'atto
stesso.
---------------
Una volta provato, come è avvenuto
attraverso i sopralluoghi per il
procedimento edilizio e i controlli della
Polizia Locale, che l’immobile (ndr:
magazzino) viene utilizzato quale luogo di
culto, da un numero di persone che, con alta
probabilità, supera sistematicamente le 150
unità, l’adozione di un provvedimento di
inibizione dell’uso dei locali si configura
come atto dovuto, atteso che l’esigenza di
garantire luoghi di ritrovo salubri e sicuri
è ragione sufficiente a giustificare
l’adozione di un provvedimento contingibile
e urgente, volto a prevenire ed eliminare
ogni possibile pericolo imprevedibile che
può nascere da un assembramento di persone
in luoghi chiusi.
Oggetto del presente ricorso è il
provvedimento con cui il Comune di Legnano
ha disposto il divieto di utilizzare il
seminterrato di un immobile, sede di una
associazione culturale, per le riunioni o
gli incontri di preghiera.
Il provvedimento è qualificato come
ordinanza contingibile ed urgente, ex art.
54 TUEL, ed è stato adottato a seguito di
una istruttoria che verte sia sul profilo
sanitario sia su quello della sicurezza.
L’Amministrazione già in precedenza aveva
rilevato la violazione di disposizioni
edilizie e aveva quindi ordinato la
demolizione delle opere, con un
provvedimento mai gravato e divenuto quindi
inoppugnabile.
Due sono quindi i procedimenti, conclusisi
con atti distinti: il procedimento edilizio,
al cui esito si ordina la demolizione delle
opere realizzate senza titolo; il
procedimento de quo, relativo all’uso
dell’immobile, utilizzo che contrasta, non
solo con la destinazione dei locali
(magazzino), ma anche con la disciplina
igienico-sanitaria e con le norme di
prevenzione incendi: stante quindi le
accertate violazioni l’Amministrazione ha
adottato un provvedimento ex art. 54 TUEL,
per la evidente necessità di “tutelare la
pubblica incolumità e sicurezza” di
coloro che occupano l’immobile.
Così qualificato l’atto impugnato, il
Collegio ritiene che i profili di
illegittimità rilevati siano infondati, per
cui si può prescindere dall’esame delle
eccezioni preliminari sollevate dalla difesa
dell’Amministrazione.
Alla base dell’ordine di non utilizzare
l’immobile vi sono gli accertamenti della
Polizia Locale, che in più occasioni (in
particolare il 29.3.2010, 21.5.2010,
6.8.2010 e 3.9.,2010), ha verificato
l’ingresso continuo di persone, anche fino a
400.
Poco rileva la circostanza, contestata da
parte ricorrente, che vi sarebbe un via vai
costante e quindi che non sarebbe provato
l’esatto numero di persone presenti
contestualmente nell’immobile: è infatti un
dato accertato durante tutti i sopralluoghi,
che intorno alle 12.30, più di 100 persone
entrano nell’immobile, vi stanziano fino
alle 15.30 e in questo lasso di tempo
continuano ad entrare altri soggetti.
Questa situazione di fatto ha portato
l’Amministrazione ad adottare l’ordinanza
qui gravata, per la violazione della
normativa igienico-sanitaria e di quella
antincendio.
Va premesso, prima dell’esame dei singoli
motivi, che il provvedimento in esame è un
atto plurimotivazionale ed è quindi
sufficiente la legittimità di un solo motivo
per rendere legittimo il provvedimento. Al
proposito occorre ricordare -perché utile
nell'esame della fattispecie- che la
giurisprudenza ha costantemente affermato il
principio secondo cui deve escludersi
l'illegittimità del provvedimento
amministrativo, fondato su una pluralità di
autonomi motivi, quando ne esista almeno uno
idoneo a sostenere l'atto stesso (Cons.
Stato sez. VI, 19.08.2009, n. 4975;
17.09.2009, n. 5544; 05.07.2010, n. 4243).
Nella prima censura, lamenta parte
ricorrente l’errata applicazione delle
disposizioni del regolamento di igiene, in
quanto l’ASL farebbe riferimento ad una
situazione ancora da accertare.
Il motivo non ha pregio.
Come sopra detto non può essere messo in
dubbio che nel seminterrato stanzino un
certo numero di persone: è quindi corretto
il richiamo alle norme del Regolamento
locale di igiene che per i locali
seminterrati impone una serie di
prescrizioni nel caso di permanenza di
persone, requisiti assenti nel caso di
specie: infatti ai sensi dell’art 3.6.4 la
permanenza nei locali seminterrati è
consentita a condizione che vi siano
adeguate condizioni di altezza, di
superficie e di aereoilluminazione. L’art
3.6.9 detta prescrizioni per le dimensioni
delle scale; l’art 3.8.1. impone poi per i
locali di ritrovo una cubatura pari a 4 mc.
per ogni utente e almeno due servizi per
ogni 200 utilizzatori.
La violazione di queste prescrizioni è stata
accertata non solo dal Comune in sede di
procedimento edilizio, ma anche dall’ASL
nella nota del 27.04.2010, in cui vengono
indicate le condizioni necessarie
nell’ipotesi di uso dell’immobile “come
locali di ritrovo”, circostanza che
l’Autorità sanitaria ritiene debba essere
accertata dall’Amministrazione Comunale.
Pertanto l’Autorità Sanitaria non si è
limitata ad un richiamo generico di norme
regolamentari, come sostenuto da parte
ricorrente, ma ha indicato con precisione le
norme che devono essere rispettate per l’uso
dell’immobile quale luogo di ritrovo,
demandando all’Amministrazione Comunale
l’accertamento di questo profilo.
Il provvedimento richiama anche il parere
dei Vigili del Fuoco del 03.06.2010, dove si
afferma che i locali potrebbero avere i
requisiti di sicurezza e salubrità a
condizione che la capienza non superi le 150
unità, le uscite di sicurezza siano dotate
di adeguata segnaletica e vi sia la
documentazione prevista dal d.lgs. 81/2008.
Ma nello stesso parere si da atto che le vie
di uscita non sono dotate di segnaletica e
che il locale può avere i requisiti di
sicurezza, solo se “la capienza massima
non superi le 150 unità”.
Una volta quindi provato, come è avvenuto
attraverso i sopralluoghi per il
procedimento edilizio e i controlli della
Polizia Locale, che l’immobile viene
utilizzato quale luogo di culto, da un
numero di persone che, con alta probabilità,
supera sistematicamente le 150 unità,
l’adozione di un provvedimento di inibizione
dell’uso dei locali si configura come atto
dovuto, atteso che l’esigenza di garantire
luoghi di ritrovo salubri e sicuri è ragione
sufficiente a giustificare l’adozione di un
provvedimento contingibile e urgente, volto
a prevenire ed eliminare ogni possibile
pericolo imprevedibile che può nascere da un
assembramento di persone in luoghi chiusi.
Per tali ragioni, l’ordinanza resiste alla
prima censura e la motivazione igienico
sanitaria e di sicurezza è sufficiente a
sorreggere il provvedimento (TAR Lombardia-Milano,
Sez. III,
sentenza 08.06.2012 n. 1618 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nel
caso di incorporazione o di fusione
societaria, sussiste in capo alla società
incorporante, o risultante dalla fusione,
l’onere di presentare la dichiarazione
relativa al requisito di cui all’art. 38,
comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006
anche con riferimento agli amministratori ed
ai direttori tecnici che hanno operato
presso la società incorporata o le società
fusesi, nell’ultimo triennio ovvero che sono
cessati dalla relativa carica in detto
periodo (dopo il d.l. n. 70 del 2011:
nell’ultimo anno), fera restando la
possibilità di dimostrare la c.d.
dissociazione.
L’art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006,
sia prima che dopo l’entrata in vigore del
d.l. n. 70 del 2011, impone la presentazione
di una dichiarazione sostitutiva completa, a
pena di esclusione, e tale dichiarazione
sostitutiva deve essere riferita, quanto
all’art. 38, comma 1, lett. c), anche agli
amministratori delle società che partecipano
ad un procedimento di incorporazione o di
fusione, nel limite temporale ivi indicato.
In considerazione dei contrasti
giurisprudenziali riguardanti l’ambito di
applicazione dell’art. 38, comma 1, lett.
c), del decreto legislativo n. 163 del 2006,
i concorrenti -che prima della pubblicazione
della sentenza della Adunanza Plenaria n. 10
del 2012- non abbiano reso la dichiarazione
di cui alla stessa lettera c) relativamente
agli amministratori delle società
partecipanti al procedimento di fusione o
incorporazione - possono essere esclusi
dalle gare solo se il bando abbia
esplicitato tale onere di dichiarazione e la
conseguente causa di esclusione; in caso
contrario, l’esclusione risulta legittima
solo ove vi sia la prova che gli
amministratori per i quali è stata omessa la
dichiarazione hanno pregiudizi penali.
Con la sentenza n. 21 del 2012, l’Adunanza
Plenaria ha risolto le questioni
controverse, riguardanti un caso in cui vi
era stata una fusione di società, applicando
i principi di diritto già espressi dalla
medesima Adunanza con la sentenza n. 10 del
2012, riguardante un caso in cui vi era
stata una cessione di azienda.
Va rimarcato come la stessa Adunanza
Plenaria abbia elaborato i principi di
diritto evidenziati nella massima, così
assolvendo pienamente alla sua funzione
nomofilattica, nell’ambito della giustizia
amministrativa
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 07.06.2012 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Retribuzione
pensionabile.
Le procedure che
consentono il passaggio da un'area inferiore
a quella superiore integrano un vero e
proprio concorso, qualunque sia l'oggetto
delle prove che i candidati sono chiamati a
sostenere, ciò perché in materia di pubblico
impiego il concorso costituisce (di norma)
la regola generale, anche per l'accesso ad
una fascia funzionale superiore, essendo lo
stesso il mezzo maggiormente idoneo ed
imparziale per garantire la scelta dei
soggetti più capaci ed idonei ad assicurare
il buon andamento della P.A..
---------------
Anche la giurisprudenza contabile ha
chiarito che le maggiori retribuzioni
percepite in correlazione con lo svolgimento
in via provvisoria di mansioni superiori,
anche se svolte per un tempo considerevole,
non rientrano nella nozione di "retribuzione
pensionabile". Il compenso corrisposto per
lo svolgimento di mansioni superiori non
configura una retribuzione fissa e
continuativa, ai fini delle disposizioni sul
trattamento pensionistico dei dipendenti
pubblici, e pertanto esso non concorre a
formare la base pensionistica per la
determinazione della quota di pensione da
determinare con il sistema retributivo.
Del resto, nello stesso senso si colloca la
giurisprudenza amministrativa, la quale in
tema di benefici pensionistici (riconosciuti
dalla l. n. 336 del 1970) ha chiarito che la
norma ha puntuale riguardo alla sola
qualifica di effettivo e formale
inquadramento del dipendente, con la
conseguenza che nessun rilievo potrebbe
comunque essere riconosciuto, ai fini del
beneficio di cui alla l. n. 336 citata, allo
svolgimento di mansioni proprie di
qualifiche superiori a quella formalmente
rivestita.
Le doglianze del ricorrente si infrangono
contro il consolidato orientamento
giurisprudenziale, condiviso da questo
Collegio, che -nell'ambito del pubblico
impiego– predica che lo svolgimento di fatto
da parte del dipendente di mansioni
superiori a quelle dovute in base
all'inquadramento è del tutto irrilevante,
sia ai fini economici, sia ai fini della
progressione di carriera, salva l'esistenza
di un'espressa disposizione che disponga
diversamente; né la domanda del dipendente,
tesa ad ottenere la retribuzione superiore a
quella riconosciuta dalla normativa
applicabile, per effetto dello svolgimento
delle mansioni superiori, può fondarsi
sull'art. 36 Cost., in quanto il principio
della corrispondenza della retribuzione dei
lavoratori alla qualità e alla quantità del
lavoro prestato non trova incondizionata
applicazione nel rapporto di pubblico
impiego, concorrendo con altri principi di
pari rilievo costituzionali, quali quelli di
cui agli artt. 97 e 98, ovvero sugli artt.
2126 c.c. (concernente solo l'ipotesi della
retribuibilità del lavoro prestato sulla
base di atto nullo o annullato) e 2041 c.c.
stante, per un verso, la natura sussidiaria
dell'azione di arricchimento senza causa e,
per altro verso, la circostanza che
l'ingiustificato arricchimento postula un
correlativo depauperamento del dipendente,
non riscontrabile e dimostrabile nel caso
del pubblico dipendente che abbia comunque
percepito la retribuzione prevista per la
qualifica rivestita.
Nel caso di specie, non vi è alcuna norma
che riconosca la qualifica superiore, in
quanto anche l’art. 52 d.lgs. 165/2001
consente a date condizioni esclusivamente il
corrispondente trattamento retributivo.
Del resto, nel pubblico impiego il principio
sancito dall'art. 35, comma 1, d.lgs. n. 165
del 2001, secondo il quale per la
costituzione del rapporto di pubblico
impiego devono superarsi procedure
selettive, è applicabile, in via generale,
anche con riferimento all'attribuzione al
dipendente di una qualifica superiore (in
base alle disposizioni contenute nei
contratti collettivi cui rinvia l'art. 40
comma 1, dello stesso d.lgs.), dato che, a
norma del successivo art. 52, comma 1, la
qualifica superiore viene acquisita dal
lavoratore "per effetto dello sviluppo
professionale o di procedure concorsuali o
selettive"; pertanto, si deve ritenere
che le procedure che consentono il passaggio
da un'area inferiore a quella superiore
integrano un vero e proprio concorso,
qualunque sia l'oggetto delle prove che i
candidati sono chiamati a sostenere, ciò
perché in materia di pubblico impiego il
concorso costituisce (di norma) la regola
generale, anche per l'accesso ad una fascia
funzionale superiore, essendo lo stesso il
mezzo maggiormente idoneo ed imparziale per
garantire la scelta dei soggetti più capaci
ed idonei ad assicurare il buon andamento
della P.A. (cfr., TAR Napoli Campania sez.
V, 10.11.2011, n. 5274).
Va poi soggiunto che, anche a voler
intendere la domanda del ricorrente come
tesa ad ottenere solo la corresponsione del
trattamento pensionistico corrispondente
alla 2° qualifica dirigenziale ricoperta, la
stessa è sconfessata dalla constatazione che
le somme corrisposte per lo svolgimento di
mansioni superiori non rientrano nella
nozione di retribuzione pensionabile.
Anche la giurisprudenza contabile ha
chiarito che le maggiori retribuzioni
percepite in correlazione con lo svolgimento
in via provvisoria di mansioni superiori,
anche se svolte per un tempo considerevole,
non rientrano nella nozione di "retribuzione
pensionabile" (cfr., Corte Conti reg.
Sicilia sez. giurisd., 20.12.2011, n. 4168).
Il compenso corrisposto per lo svolgimento
di mansioni superiori non configura una
retribuzione fissa e continuativa, ai fini
delle disposizioni sul trattamento
pensionistico dei dipendenti pubblici, e
pertanto esso non concorre a formare la base
pensionistica per la determinazione della
quota di pensione da determinare con il
sistema retributivo (cfr., Corte Conti sez.
II, 04.10.2010, n. 370).
Del resto, nello stesso senso si colloca la
giurisprudenza amministrativa, la quale in
tema di benefici pensionistici (riconosciuti
dalla l. n. 336 del 1970) ha chiarito che la
norma ha puntuale riguardo alla sola
qualifica di effettivo e formale
inquadramento del dipendente, con la
conseguenza che nessun rilievo potrebbe
comunque essere riconosciuto, ai fini del
beneficio di cui alla l. n. 336 citata, allo
svolgimento di mansioni proprie di
qualifiche superiori a quella formalmente
rivestita (cfr., Consiglio Stato, sez. VI,
05.10.2010, n. 7283).
Ne deriva, pertanto, che il ricorso va
rigettato, in quanto lo svolgimento di
mansioni superiori nel periodo interessato
non consentiva il riconoscimento della
corrispondente qualifica e che, in ogni
caso, anche l’effettiva maggiorata
retribuzione giustificata dallo svolgimento
di compiti corrispondenti ad una qualifica
superiore non incide sul trattamento
pensionistico, non rientrando nella nozione
di retribuzione pensionabile (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 06.06.2012 n. 1601 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Sopraelevazione a prova di sisma.
Modifiche al tetto legittime se resistenti a
eventi tellurici. La Cassazione
sulle opere eseguite all'ultimo piano. Non
basta che l'edificio supporti il
peso.
La sopraelevazione, realizzata dal
proprietario dell'ultimo piano di un
condominio, è legittima non solo se
l'edificio è in grado di sopportare il peso
delle nuove strutture ma anche se sono state
rispettate tutte le speciali prescrizioni
antisismiche previste in relazione alle
caratteristiche del territorio, in modo che
il fabbricato sia idoneo a resistere alle
sollecitazioni di un eventuale evento
tellurico: in caso contrario la nuova
struttura deve essere demolita.
Lo ha chiarito la II Sez. civile
della Suprema corte di cassazione con la
recente
sentenza
30.05.2012 n. 8643.
La vicenda. Nel caso di specie il
proprietario di un appartamento, che
comprendeva i piani primo e terra del
fabbricato, citava in giudizio la
proprietaria dell'altra unità immobiliare,
posta su più piani (dal secondo al quarto),
accusandola di avere eliminato la scala
interna di collegamento tra il primo e il
secondo piano e, soprattutto, di avere
sopraelevato, per renderlo abitabile, il
preesistente sottotetto, eliminando parte
del preesistente tetto comune e realizzando
un terrazzo di uso esclusivo.
Secondo
l'attore le opere eseguite si dovevano
considerare illegittime e, quindi, si
richiedeva il ripristino della precedente
situazione o, in via subordinata, ove fosse
stata ritenuta legittima la sopraelevazione
eseguita, il pagamento dell'indennità di
sopraelevazione prevista dalla legge e, in
ogni caso, il risarcimento dei danni. Il
proprietario dell'appartamento ristrutturato
si difendeva rilevando che le opere
contestate erano state realizzate dai
precedenti proprietari, per cui chiedeva e
otteneva la loro chiamata in giudizio per
essere manlevato da ogni responsabilità.
Questi ultimi, ritenuti i reali esecutori
delle opere sopra dette, venivano condannati
a risarcire i danni, nonché al pagamento
dell'indennità prevista per la
sopraelevazione (ritenuta legittima) a
favore dell'attore.
La Corte di appello, invece, condannava al
pagamento dei danni e dell'indennità sopra
detta l'attuale proprietario dell'immobile,
ritenendo i precedenti proprietari, che
avevano alienato l'immobile nello stato di
fatto in cui si trovava al momento delle
compravendita, esenti da responsabilità. In
ogni caso la stessa Corte ribadiva come il
fabbricato fosse idoneo a fronteggiare il
rischio sismico, come risultava da due
relazioni tecniche secondo le quali nel caso
in esame non si configuravano ampliamenti e
sopraelevazioni tali da comportare
l'adeguamento sismico.
Il proprietario
dell'appartamento, comprensivo dei piani
primo e terra del condominio, si rivolgeva
però alla Cassazione perché considerava la
sopraelevazione non conforme alla normativa
antisismica. Del resto, quest'ultimo
sottolineava come la Corte d'appello avesse
fatto proprie le immotivate e contrastanti
conclusioni cui era giunto il consulente
tecnico incaricato, il quale, pur escludendo
alcun pregiudizio alla statica
dell'immobile, ammetteva che non era ancora
stato rilasciato il certificato di legge,
attestante la perfetta rispondenza
dell'opera eseguita alle norme antisismiche,
da ritenersi propedeutico al rilascio del
certificato di agibilità da parte del
comune.
La decisione. La Suprema corte, condividendo
le precedenti considerazioni, ha ritenuto
illegittima la sopraelevazione per mancanza
della prova (e del certificato richiesto
dalla legge) dell'esecuzione delle opere
necessarie per scongiurare il rischio
sismico.
In particolare i giudici supremi hanno
ricordato che il divieto di sopraelevazione,
per inidoneità delle condizioni statiche
dell'edificio, previsto dalla normativa
condominiale contenuta nel codice civile, va
interpretato non nel senso che la
sopraelevazione è vietata soltanto se le
strutture dell'edificio non consentono di
sopportarne il peso, ma nel senso che il
divieto sussiste anche nel caso in cui le
strutture siano tali che, una volta elevata
la nuova fabbrica, non consentano di
sopportare l'urto di forze in movimento,
quali le sollecitazioni di origine sismica.
In altre parole, il diritto del condomino di
sopraelevare sorge solo nel momento in cui
la stabilità strutturale dell'edificio in
condizioni di quiete lo consenta o, nelle
zone sottoposte a rischio sismico, solo nel
momento in cui la struttura del fabbricato
sia adeguata al grado di sismicità della
zona e, perciò, sia pronta a sopportare la
sopraelevazione.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche, in
ragione delle particolari caratteristiche
del territorio, prescrivano cautele tecniche
da adottarsi nella sopraelevazione degli
edifici, esse sono da considerarsi
integrative del codice civile e la loro
inosservanza determina una presunzione di
pericolosità della sopraelevazione, che può
essere vinta esclusivamente mediante la
prova, il cui onere incombe sull'autore
della nuova fabbrica, che non solo la
sopraelevazione ma anche la struttura
sottostante sia idonea a fronteggiare il
rischio sismico. Se tale prova non viene
fornita, si presume l'instabilità della
costruzione realizzata e, quindi, una
situazione di pericolo permanente, da
rimuovere senza indugio.
---------------
Il proprietario deve corrispondere una
indennità ai condomini.
Il diritto di sopraelevazione, al di fuori
dei casi in cui sia escluso dal titolo o non
sia esercitabile per i limiti obiettivi
collegati alle esigenze di compatibilità
statica o architettonica, si traduce in una
facoltà strettamente collegata alla
proprietà dell'ultimo piano o a quella
esclusiva del lastrico solare. L'esercizio
di detta facoltà con la realizzazione della
sopraelevazione dà luogo all'aggiunta
all'edificio condominiale di un nuovo piano
o porzione di piano in proprietà
individuale, che viene a partecipare al
godimento delle parti comuni e genera,
altresì, l'obbligo del sopraelevante di
corrispondere agli altri condomini la c.d.
indennità di sopraelevazione.
Circa la nozione oggettiva di
sopraelevazione, la Corte di cassazione ha
avuto modo di chiarire che «non costituisce
esercizio del diritto di sopraelevazione la
sostituzione, a opera del proprietario
dell'ultimo piano di un edificio
condominiale, del tetto con una terrazza,
sulla considerazione che la diversa
copertura realizzata, pur non eliminando la
funzione originariamente svolta dal tetto,
vale ad imprimere allo stesso, una
destinazione ad uso esclusivo dell'autore
dell'opera, costituendo alterazione della
cosa comune che viene così sottratta al
godimento collettivo» (Cassazione, sez II,
28/01/2005, n. 1737).
In un caso analogo,
avente a oggetto la trasformazione di parte
del sottotetto in terrazza a livello in uso
esclusivo, la Suprema Corte, invocando
principi già espressi in materia di uso più
intenso delle parti comuni a opera di alcuni
condomini, ha escluso che un condomino possa
trasformare il tetto in terrazzo a uso
esclusivo, essendo in tal modo alterata
l'originaria destinazione della cosa comune
(Cass. civ., sez II, sentenza n. 5753/2007).
Le considerazioni svolte sinora valgono
anche nel caso in cui gli interventi
edificatori si traducano in opere di
recupero di sottotetti all'interno dei quali
siano ricavati uno o più appartamenti.
La titolarità del diritto di
sopraelevazione. Il diritto di
sopraelevazione è strettamente connesso alla
proprietà dell'immobile e il suo esercizio,
da parte del proprietario dell'ultimo piano,
non è soggetto al preventivo consenso
dell'assemblea. Dalla natura reale del
diritto suddetto discende, inoltre, la sua
imprescrittibilità. Dalla formulazione
dell'art. 1127 c.c. deve ritenersi che la
presenza di un proprietario esclusivo del
lastrico solare escluda automaticamente la
sussistenza del diritto di sopraelevazione
in capo al proprietario dell'ultimo piano.
Qualora, invece, il lastrico solare sia di
proprietà comune dei condomini, il diritto
di sopraelevazione spetta al proprietario
dell'ultimo piano che, a seguito della nuova
costruzione, dovrà ricostruire il lastrico
solare comune a un livello superiore.
Qualora l'ultimo piano dell'edificio sia
costituito da soffitte o da sottotetti, la
giurisprudenza ha ritenuto che
l'appartenenza di tali manufatti a soggetto
diverso dal proprietario dell'ultimo piano
faccia in modo che detti manufatti possano
essere considerati piani ai sensi e agli
effetti di cui all'art. 1127 c.c., con la
conseguenza che il diritto alla
sopraelevazione farà capo al proprietario di
tali soffitte o sottotetti. Per contro, la
proprietà comune di detti manufatti sposta
in favore del proprietario dell'ultimo piano
la facoltà di elevare nuovi piani o nuove
fabbriche, fermo restando l'obbligo di
ricostruire a un livello superiore i
manufatti preesistenti alla sopraelevazione
al fine di garantire l'uso comune degli
stessi.
La c.d. indennità di sopraelevazione.
L'indennità in questione è disciplinata dal
comma 4 dell'art. 1127 c.c. e consiste in
una misura compensativa riconosciuta agli
altri condomini, il cui ammontare è pari al
valore attuale dell'area da occuparsi con la
nuova costruzione, diviso per il numero dei
piani, ivi compreso quello da edificare, e
detratto l'importo della quota spettante al
sopraelevante. L'indennizzo non copre per
intero la diminuzione di valore che le unità
immobiliari in proprietà esclusiva subiscono
per effetto della sopraelevazione in
rapporto col valore dell'intero edificio e
ciò in virtù del fatto che, da un lato, non
si tratta di risarcimento da fatto illecito
e che, dall'altro, il diritto di
sopraelevare e, conseguentemente, di
provocare tale diminuzione, sorge
contemporaneamente al condominio e, quindi,
chi acquista una unità immobiliare al di
sotto dell'ultimo piano è a conoscenza del
fatto che il valore della stessa rispetto al
valore dell'intero edificio è suscettibile
di diminuzione (in tal senso Cassazione,
sez. II, n. 12880/2005).
L'obbligo di corresponsione dell'indennità
trova fondamento nella necessità di
compensare gli altri condomini della
riduzione del valore delle quote di loro
pertinenza sull'edificio condominiale,
giacché colui che realizza la
sopraelevazione va ad accrescere a scapito
degli altri condomini la propria quota di
partecipazione alla comunione.
D'altro canto il legislatore, nel
riconoscere il diritto di sopraelevare al
proprietario dell'ultimo piano o al
proprietario esclusivo del lastrico solare,
ha posto poi a carico di questi l'obbligo di
corrispondere un'indennità agli altri
condomini proprio con l'intento di
compensarli della diminuzione patrimoniale
delle loro quote per effetto della
sopraelevazione (articolo
ItaliaOggi Sette del 18.06.2012). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva e
responsabilità dei singoli concorrenti.
Possono essere ascritte a tutti i partecipi
della lottizzazione le condotte poste in
essere anche da terzi che danno corso a
interventi di urbanizzazione realizzati
nell'interesse generale dei lotti, quali la
realizzazione o il potenziamento di strade,
fognature, altri servizi. Qualora, invece,
si tratti di interventi effettuati da terzi
su lotti distinti da quello dell'indagato
deve distinguersi la posizione di coloro che
hanno dato corso alla lottizzazione
(venditore - lottizzatore) e quella di
coloro che hanno successivamente partecipato
come acquirenti di specifici lotti.
Mentre per i primi sussistono profili di
responsabilità che discendono dalle condotte
poste in essere dai singoli acquirenti, così
che la permanenza del reato per il
venditore-lottizzatore cessa solo col
cessare delle ultime condotte altrui o con
il verificarsi di interventi esterni che
incidono sul reato (sequestro preventivo;
intervento dell'ente territoriale
competente), per i secondi, che non hanno
dato causa alla lottizzazione nei termini
fissati dall'art. 41 c.p., occorrerà di
regola guardare alle condotte poste in
essere dal singolo acquirente con
riferimento al proprio lotto (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.05.2012 n.
20671 - tratto da
www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Al
sindaco non serve il placet per la
costituzione in giudizio.
Mani libere al sindaco. L'azione giudiziaria
o l'impugnazione per conto del comune
possono essere ben promosse direttamente dal
primo cittadino senza una delibera ad hoc
della giunta che lo autorizza a procedere.
Con l'elezione diretta, infatti, il capo
dell'amministrazione locale risulta
portatore di un'investitura che proviene
senza mediazione dagli stessi cittadini,
mentre sono gli assessori a trovare nel
sindaco la loro fonte di legittimazione.
Insomma: non c'è bisogno di alcun placet
della giunta affinché l'ente locale stia in
giudizio.
Lo chiarisce il
TAR
Sicilia-Catania, Sez. II, con la
sentenza 28.05.2012 n. 1348
L'autorizzazione alle liti aveva un senso
quando il sindaco era eletto dal Consiglio
comunale e la giunta era comunque
espressione del «parlamentino» locale. Ma da
quasi vent'anni è il primo cittadino, eletto
direttamente dal popolo, che si sceglie la
sua squadra per governare l'amministrazione.
Né bisogna dimenticare le modifiche al
titolo V, parte seconda, della Costituzione
che hanno accentuato il grado di
indipendenza degli enti locali, che ormai
rientrano nella categoria delle «autonomie
territoriali».
Alla giunta sono conferite le
funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di
governo che non sono riservate dalla legge
al Consiglio; ai dirigenti comunali spetta
la guida degli uffici e dei servizi secondo
i criteri e le norme dettati dagli statuti e
dai regolamenti, oltre che tutti i compiti
non compresi espressamente tra le funzioni
di indirizzo.
Niente da fare, nel caso di specie, per il
candidato escluso da un concorso bandito da
un comune del Messinese per la nomina del
responsabile del settore affari generali e
vicesegretario dell'ente locale. L'aspirante
dirigente sostiene che l'atto di opposizione
al ricorso straordinario sarebbe irrituale
perché sottoscritto dal sindaco senza previa
deliberazione della giunta. Ma
quell'opposizione non ha natura processuale
(nonostante un isolato precedente
giurisdizionale di segno contrario).
L'eventuale passaggio dal ricorso
straordinario alla sede giurisdizionale,
infatti, segna anche la modifica del regime
degli atti, che devono qualificarsi come
processuali solo nel momento in cui si è
realizzata definitivamente la trasposizione
dal piano del ricorso straordinario a quello
del ricorso giurisdizionale
(articolo ItaliaOggi del
22.06.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Emissioni moleste e
ripetitività della condotta.
Reati permanenti sono quelli nei quali
l'offesa al bene giuridico tutelato si
protrae nel tempo per effetto della
persistente condotta del soggetto agente: la
condotta illecita deve avere, dunque,
carattere continuativo e ad essa l'agente
può porre fine con condotta volontaria.
Il carattere continuativo delle emissioni
moleste non si identifica con la
ripetitività giornaliera delle stesse,
bastando che esse si protraggano -senza
interruzioni di rilevante entità- per un
lasso apprezzabile di tempo a cagione delta
duratura condotta colpevole del soggetto
agente (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza
24.05.2012 n. 19637 - tratto da
www.lexambiente.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
È necessaria la gara per
l'incarico di studio della vulnerabilità
sismica di un ospedale.
L'incarico di esecuzione di attività di
studio e valutazione della vulnerabilità
sismica di determinati ospedali è
necessariamente assoggettato a procedura di
aggiudicazione di appalto, cui è applicabile
la direttiva 2004/18. L'incarico di
esecuzione di attività di studio e
valutazione della vulnerabilità sismica di
determinati ospedali è necessariamente
assoggettato a procedura di aggiudicazione
di appalto, cui è applicabile la direttiva
2004/18. Dato che, in questa occasione, non
è stata indetta una gara, è stata
riscontrata una violazione della direttiva.
Siccome la normativa nazionale ammette
accordi come quelli tra ASL e Università,
essa è a sua volta contraria alla direttiva.
Ne consegue che, la direttiva 2004/18, in
particolare gli articoli 1, paragrafo 2,
lettere a) e d), 2, 28, nonché l'allegato II,
categorie 8 e 12, deve essere interpretata
nel senso che essa osta ad una disciplina
nazionale che consente la stipulazione di
accordi in forma scritta tra
un'amministrazione aggiudicatrice ed
un'Università di diritto pubblico per lo
studio e la valutazione della vulnerabilità
sismica di strutture ospedaliere da
eseguirsi alla luce delle normative
nazionali in materia di sicurezza delle
strutture ed in particolare degli edifici
strategici, verso un corrispettivo non
superiore ai costi sostenuti per
l'esecuzione della prestazione, ove
l'Università esecutrice possa rivestire la
qualità di operatore economico (commento
tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Avvocato Generale Verica Trstenjak,
conclusioni 23.05.2012 n. C-159/11 -
link a http://eur-lex.europa.eu). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
non assimilabilità dei SIC e delle ZPS alle
aree naturali protette di cui alla l.
394/1991.
Come si è evidenziato in narrativa, la
Regione appellante ha incentrato le proprie
tesi sulla non assimilabilità dei SIC e
delle ZPS alle aree naturali protette di cui
alla l. 394/1991.
In particolare, la Regione ha negato che una
siffatta assimilazione sia stata introdotta
dalla deliberazione del Comitato di cui
all’articolo 3 della legge n. 394 del 1991
adottata in data 02.12.1996.
Ebbene, ad avviso del Collegio l’appello in
epigrafe è meritevole di accoglimento
laddove osserva che la deliberazione da
ultimo richiamata non ha potuto sortire il
richiamato effetto di assimilazione per non
essere stata adottata nelle forme di legge.
Ed infatti, l’articolo 3, comma 4, lettera
c), della legge n. 394, cit. demanda al
Comitato (inter alia) il compito di
approvare l’elenco ufficiale delle aree
naturali protette previo esperimento di un
iter procedurale il quale vede il
coinvolgimento della Commissione per la
tutela delle aree protette (in seguito:
della Conferenza permanente per i rapporti i
fra lo Stato e le regioni e le province
autonome di Trento e Bolzano).
In particolare, l’iter in questione
contempla:
a) l’espletamento di una fase istruttoria
preliminare, svolta da un’apposita
segreteria tecnica;
b) la presentazione di una proposta di
aggiornamento dell’elenco delle aree
naturali protette da parte del competente
Ministero dell’Ambiente (in seguito:
Ministero dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare);
c) l’approvazione della proposta ad opera
del comitato;
d) l’effettivo aggiornamento dell’elenco
delle aree naturali protette.
Ebbene, risulta in atti che nel caso in
esame l’iter dinanzi sinteticamente
descritto non sia stato osservato e che,
conseguentemente, non possa ritenersi che
l’atto del Comitato in data 02.12.1996 possa
tenere il luogo di una modifica dell’elenco
delle aree naturali protette (del resto, il
Comitato in parola non ha mai provveduto ad
aggiornare l’elenco conformemente a quanto
deliberato con l’atto in questione).
Ne consegue che venga meno lo stesso
presupposto logico posto a fondamento della
pronuncia in epigrafe (ossia, la circostanza
per cui la delibera regionale impugnata in
primo grado avrebbe comportato misure di
conservazione delle ZPS nella Regione
Campania di carattere peggiorativo rispetto
a quanto stabilito ai sensi del comma 3
dell’articolo 4 del d.P.R. n. 357 del 1997).
E infatti, l’argomento fatto proprio dai
primi Giudici (il quale si fonda sulla
disposizione secondo cui, laddove una ZPS
ricada all’interno di un’area naturale
protetta, si applicano le misure di tutela
previste per le stesse ZPS) potrebbe essere
condiviso solo laddove fosse valida la sua
premessa maggiore (ossia, il fatto che la
delibera del Comitato del dicembre 1996
abbia determinato l’effettiva assimilazione
fra le ZPS e le aree protette di cui alla
l.n. 394 del 1991).
Tuttavia, una volta caduta –per le ragioni
dinanzi richiamate– la predetta
assimilazione, vengono conseguentemente a
cadere anche le ulteriori ragioni in base
alle quali il TAR ha rilevato
l’illegittimità della più volte richiamata
delibera regionale
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza
18.05.2012 n. 2885
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
cessione di azienda o di un ramo d’azienda,
sebbene comporti una successione a titolo
particolare, implica la trasmissione
all’avente causa dell’intero complesso dei
rapporti attivi e passivi nei quali
l’azienda stessa o il suo ramo si sostanzia,
sicché è configurabile una continuità tra la
precedente e la nuova gestione
imprenditoriale, fermo restando che il
cessionario può comprovare che nel caso
concreto vi è stata una cesura tra la
vecchia e la nuova gestione, tale da
escludere la rilevanza della condotta dei
precedenti amministratori e direttori
tecnici, che prestavano la loro attività nel
complesso aziendale ceduto.
Con riferimento alla normativa vigente prima
delle modifiche disposte dalla l.
12.07.2011, n. 106, ai sensi dell’art. 38,
co. 2, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 il
cessionario di azienda o di un ramo
d’azienda aveva l’onere di presentare la
dichiarazione relativa alla insussistenza di
una sentenza di condanna passata in
giudicato (o di un decreto penale di
condanna irrevocabile, ovvero di una
sentenza di applicazione della pena su
richiesta) per i reati ivi previsti, anche
con riferimento agli amministratori ed ai
direttori tecnici che avevano lavorato
presso la cedente nell’ultimo triennio.
La sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 10 del
2012 ha composto il precedente contrasto di
giurisprudenza, evidenziando –chiarendo le
relative conseguenze- che, nel rispetto dei
principi di tipicità e di tassatività delle
cause di esclusione dalle gare d’appalto,
l’art. 38, co. 1, lett. c), del Codice dei
contratti pubblici è suscettibile di una
interpretazione tale da indurre a ritenere
che le dichiarazioni ivi previste vanno rese
anche con riferimento alle persone degli
amministratori e dei direttori tecnici che
abbiano lavorato presso la cedente, nel caso
di cessione di azienda o di un ramo
d’azienda (nell’ultimo triennio, prima delle
modifiche disposte dalla l.n. 106 del 2011,
che hanno ridotto il rilievo temporale
all’ultimo anno)
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 04.05.2012 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
sede di applicazione dell’art. 38, co. 1,
lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, e anche
per le gare bandite prima dell’entrata in
vigore del d.l. n. 70 del 2011, la
sussistenza di una ‘violazione grave’,
definitivamente accertata, delle
disposizioni in materia previdenziale e
assistenziale non può essere valutata caso
per caso dalla stazione appaltante, poiché
la relativa verifica rientra nell’ambito
delle competenze degli istituti di
previdenza, le cui certificazioni (sul
d.u.r.c.) non possono essere sindacate nel
corso della gara d’appalto.
L’assenza del requisito della regolarità
contributiva, alla data di scadenza del
termine di presentazione dell’offerta,
comporta l’esclusione del concorrente, che
non può avvalersi di una successiva
regolarizzazione della sua posizione.
La sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8 del
2012 ha esaminato l’evoluzione della
normativa e della giurisprudenza in tema di
dichiarazione dei partecipanti alle gare
d’appalto, riguardanti la regolarità dei
pagamenti dei contributi previdenziali e
assistenziali.
Superando le diversità delle normative
precedentemente in vigore, il Codice dei
contratti pubblici del 2006 aveva già
previsto che l’esclusione del partecipante
si ha solo quando vi è una ‘grave
violazione’.
Al riguardo, erano sorte però discussioni
sulla sussistenza o meno del potere della
stazione appaltante di pronunciarsi sulla
gravità della violazione.
La giurisprudenza e l’Autorità di vigilanza
si erano già espresse nel senso della
insussistenza di tale potere, ciò che è
stato poi disposto sul piano normativo dal
d.l. n. 70 del 2011, poi convertito nella l.
n. 106 del 2011.
Quanto alla impossibilità che una
regolarizzazione ‘tardiva’ possa
consentire la partecipazione alla gara,
l’Adunanza Plenaria ha ribadito il
consolidato orientamento in materia del
Consiglio di Stato (cfr. sez. VI,
12.01.2011, n. 104; sez. VI, 05.07.2010, n.
4243)
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 04.05.2012 n. 8 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 18.06.2012 |
ã |
NOVITA' NEL
SITO |
Inserito il
nuovo bottone
dossier ANNULLAMENTO e/o IMPUGNAZIONE P.d.C.. |
Inserito il nuovo bottone
dossier PISCINE. |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Ecco il minisito della Regione Lombardia sul
cosiddetto Piano Casa-bis
(link a www.riqualificazioneurbana.regione.lombardia.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
E. Follieri,
L'elemento soggettivo nella responsabilità
della p.a. per lesione di interessi
legittimi (link a www.ipsoa.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Da pubblico a privato ... con
qualche problema
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 09.06.2012). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sulla possibilità di trasformare
un contratto da tempo parziale a tempo pieno
utilizzando le somme delle cessazioni
intervenute negli anni precedenti o comunque
utilizzare i resti delle cessazioni di
personale negli anni precedenti in aggiunta
a quelli degli anni successivi per poter
procedere a nuove assunzioni ai fini
dell’applicazione delle norme limitative in
tema di assunzioni di personale negli enti
locali
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 06.06.2012 n. 176). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO:
RUP e dipendenti a tempo determinato.
Secondo la Corte dei Conti, sezione di
controllo per la regione siciliana, come da
parere 04.06.2012 n. 148, il disposto dell'art. 10, comma 5, del
d.lgs. 163/2006 ed il relativo regolamento
attuativo approvato con d.p.r. 207/2010
(art. 272), portano a ritenere che:
- le funzioni di RUP possono essere
attribuite solo ai dipendenti di ruolo
dell'ente, di adeguata competenza e
professionalità;
- la circostanza della "accertata carenza"
di dipendenti di ruolo deve essere intesa
quale assenza, tra i dipendenti in organico,
di funzionari e/o dirigenti in possesso dei
requisiti tecnici necessari, e non come mera
indisponibilità per sovraccarico di lavoro (link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Economie fondo risorse decentrate
e art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010.
La Corte dei Conti, sezione regionale
Puglia, con il
parere
15.02.2012 n. 21 risponde al Comune di
Lucera che chiede: "se sia possibile
considerare le risorse di cui all'art. 24,
comma 2, del CCNL del 14.09.2000 a carico
del fondo delle risorse decentrate, non
corrisposte, quale economia di spesa e
conseguentemente la loro soggezione, o meno,
ai parametri introdotti dall'art. 9, commi 1
e 2-bis, del DL 78/2010".
La Corte dà la seguenti risposte:
- "... ai fini del trattamento economico
complessivo dell'anno 2010 che costituisce
per ogni singolo dipendente il tetto di
spesa per il triennio 2011-2013 non deve
essere ricompresa l'indennità di cui
all'art. 24, comma 2, del CCNL del 14.09.2000 in quanto avente natura
variabile essendo legata allo svolgimento di
attività lavorativa in giorno festivo
infrasettimanale"
- "Il Comune di Lucera riferisce che in
applicazione dei principi espressi in una
sentenza della Suprema Corte di Cassazione
(Sez. Lav. n. 8458 dell'08.04.2010) non
viene più erogata al personale turnista
l'indennità prevista dall'art. 24, comma 2,
del CCNL del 2000. La mancata erogazione
dell'indennità in parola determina economie
che possono essere utilizzate per il
finanziamento di altre voci del trattamento
accessorio definite a livello di
contrattazione decentrata"
- "Infatti, come già anticipato l'art. 9,
comma 2-bis, pone un limite all'ammontare
complessivo delle risorse decentrate -che
devono essere ricondotte alla misura
impegnata nell'esercizio 2010- senza
incidere sulla misura delle singole voci del
trattamento accessorio. Conseguentemente,
queste ultime possono subire variazioni in
aumento o in diminuzione in relazione agli
esiti della contrattazione per la
ripartizione annuale del fondo di cui
all'art. 15 del CCNL dell'01.04.1999"
- "E' appena il caso di precisare che
nell'ipotesi in cui l'applicazione del comma
2-bis determini delle economie rispetto
all'importo del fondo per la contrattazione
decentrata quantificato sulla base della
normativa contrattuale vigente, tali
economie, nonostante quanto previsto
dall'art. 17, comma 5, del CCNL dell'01.04.1999,
non potranno essere accantonate per essere
utilizzate a decorrere dal 2014" (tratto da www.publika.it). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Indicazioni applicative sui requisiti di
ordine generale per l’affidamento dei
contratti pubblici (determinazione
16.05.2012 n. 1 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Gare, esclusi solo in
caso di dolo. Prevenzione antimafia: quello
che i concorrenti devono fare. La
determinazione dell'Autorità di vigilanza
sui contratti pubblici sarà pubblicata in
G.U..
Esclusione dalle gare per falsa
dichiarazione fino ad un anno soltanto se
l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici accerta il dolo o la colpa grave
del concorrente. È questo uno dei
chiarimenti forniti con la determinazione
16.05.2012 n. 1 dell'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, di
prossima pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale, che interviene sulla delicata
materia della disciplina delle cause di
esclusione previste dall'articolo 38 del
Codice dei contratti pubblici, dopo le
modifiche del quadro normativo apportate
negli ultimi mesi.
In particolare, fra i diversi chiarimenti
forniti dall'organo di vigilanza presieduto
da Sergio Santoro, merita di essere
segnalato quello relativo all'articolo 38,
comma 1, lettera b del Codice, sulle misure
di prevenzione antimafia; a tale riguardo si
precisa che per «socio di maggioranza»,
in caso di società con meno di quattro soci,
che deve rendere la dichiarazione occorre
fare riferimento al soggetto che detiene il
controllo della società e che se vi sono due
soci al 50% la dichiarazione
sull'inesistenza di misure di prevenzione
deve essere resa da entrambi. I controlli,
su questo aspetto, le stazioni appaltanti
dovranno effettuarli presso il tribunale di
residenza del dichiarante e oggetto della
verifica dovranno essere i «procedimenti
pendenti a seguito di iscrizione della
proposta di applicazione della misura nel
registro del tribunale».
Per quel che concerne la modifica sull'art.
38, comma 1, lettera c (moralità
professionale) l'Autorità chiarisce che, con
riguardo ai soggetti «cessati dalla
carica» (che abbiano commesso reati
incidenti sulla moralità professionale), il
concorrente dimostra la dissociazione da
tali soggetti con atti quali un'azione
risarcitoria, una denuncia penale, ma anche
e soprattutto con l'estromissione dalla
compagine sociale e da tutte le cariche, con
l'assenza di ogni collaborazione, con il
licenziamento e l'avvio di una azione
risarcitoria.
Rispetto all'innovazione della legge 44/2012
sul tema delle irregolarità fiscali
l'Autorità precisa che non si intendono
scaduti ed esigibili i debiti fiscali per i
quali sia stato concordato un piano di
rateazione e il contribuente sia in regola
con i pagamenti, ma a condizione che il
soggetto dimostri di avere beneficiato della
rateazione e sia in regola entro al data di
scadenza della presentazione della domanda
di partecipazione alla gara o di
presentazione dell'offerta.
Infine, rispetto all'esclusione per falsa
dichiarazione (che consegue all'iscrizione
nel casellario disposta dall'Autorità,
quest'ultima precisa che il sistema
giuridico del comma 1-ter dell'articolo 38
del Codice prevede un doppio binario:
l'esclusione dalla gara viene disposta dalla
stazione appaltante per ogni falsa
dichiarazione e l'esclusione da tutte le
gare fino a un anno dalle gare può essere
comminata dall'Autorità dopo un procedimento
in cui sia rilevato il dolo o la colpa grave
del concorrente; la sanzione dell'iscrizione
nel casellario non è quindi mai automatica
ma viene irrogata dopo un accertamento
effettuato dall'Autorità sull'elemento
soggettivo (dolo o colpa grave) (articolo
ItaliaOggi del 13.06.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
QUESITI &
PARERI |
ENTI LOCALI - URBANISTICA - VARI:
Aree fabbricabili assoggettate all'IMU.
Domanda
Quando il Comune attribuisce ad un terreno
la natura di area fabbricabile deve dare
comunicazione al proprietario del terreno?
Risposta
Quando ad un terreno viene attribuita la
natura di area fabbricabile il Comune deve
dare comunicazione al proprietario.
Le aree fabbricabili sono assoggettate
all'IMU, in tal senso il comma 2 dell'art.
13 del D.L. 06-12-2011, n. 201, convertito,
con modificazioni, dall'art. 1 della L.
22-12-2011 n. 214.
In base alle disposizioni contenute
nell'art. 5, comma 5, del D.Lgs. 30-12-1992,
n. 504, la base imponibile delle aree
fabbricabili è data dal valore venale in
comune commercio al 1° Gennaio dell'anno di
imposizione, avendo riguardo: alla zona
territoriale di ubicazione, all'indice di
edificabilità, alla destinazione d'uso
consentita, agli oneri per eventuali lavori
di adattamento del terreno necessari per la
costruzione, ai prezzi medi rilevati sul
mercato dalla vendita di aree aventi
analoghe caratteristiche.
Il contribuente, ai fini della
determinazione della base imponibile in
materia di aree fabbricabili, deve tener
conto degli elementi innanzi visti,
individuati ai fini della quantificazione
del valore dell'area.
Nel caso in cui un terreno diventa area
edificabile occorre che al proprietario
venga data apposita comunicazione. A questo
riguardo l'art. 31, comma 20, della L.
27-12-2002, n. 289, dispone che "I comuni,
quando attribuiscono ad un terreno la natura
di area fabbricabile, ne danno comunicazione
al proprietario a mezzo del servizio postale
con modalità idonee a garantirne l'effettiva
conoscenza da parte del contribuente".
In sostanza, la norma ha il fine di fornire
le garanzie procedimentali poste a tutela
del contribuente assurte a principio
generale dell'ordinamento tributario ad
opera dell'art. 6 della L. 27-07-2000, n.
212, che ha stabilito in maniera
generalizzata l'obbligo di informazione a
carico del Comune, ogni qualvolta ci si
trovi di fronte ad ogni fatto o circostanza
dai quali possa derivare il mancato
riconoscimento di un credito ovvero
l'irrogazione di una sanzione a carico del
soggetto interessato.
In merito agli aspetti operativi, si ritiene
che l'Ente Locale possa disciplinare
autonomamente la procedura adottando lo
schema più confacente alla propria
organizzazione. Bisogna, comunque, tener
presente che, in caso di mancata
comunicazione dell'intervenuta edificabilità
dell'area, si applica l'art. 10, comma 2,
della L. 27.07.2000, n. 212, il quale, a
tutela dell'affidamento e della buona fede
del contribuente, prevede che "non sono
irrogate sanzioni né richiesti interessi
moratori al contribuente, qualora egli si
sia conformato a indicazioni contenute in
atti dell'amministrazione finanziaria,
ancorché successivamente modificate
dall'amministrazione medesima, o qualora il
suo comportamento risulti posto in essere a
seguito di fatti direttamente conseguenti a
ritardi, omissioni od errori
dell'amministrazione stessa" (14.06.2012
- tratto da www.diritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: I
rifiuti da trattamento meccanico dei rifiuti
urbani sono rifiuti urbani o rifiuti
speciali?
(11.06.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nel
decreto penale di condanna si può disporre
la confisca del mezzo utilizzato per il
traffico illecito di rifiuti?
(11.06.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Come
è classificato il reato di deposito
incontrollato di rifiuti?
(11.06.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Cosa
è la “Carta dei Principi per la
Sostenibilità ambientale”?
(11.06.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Tutela
degli habitat.
Domanda.
Vorrei sapere quali sono gli scopi della
direttiva «habitat».
Risposta.
La direttiva 92/43/Ue ha per scopo quello di
conservare la biodiversità negli stati
membri dell'Unione europea. A tal fine essa
definisce un quadro comune per la
conservazione degli habitat, degli animali e
delle piante di interesse comunitario.
La predetta direttiva stabilisce la rete
Natura 2000, che è la più grande rete
ecologica del mondo. Costituiscono detta
rete le zone speciali di conservazione
designate dagli Stati membri alla luce della
suddetta direttiva.
La direttiva 92/43/Ue, summenzionata,
include, pure, le zone di protezione
speciale istituite dalla direttiva
2009/147/Ce (versione codifica della
direttiva 79/409/Ue), cosiddetta direttiva
«uccelli».
La rete Natura 2000 è data, pertanto, da un
complesso di siti caratterizzati dalla
presenza di habitat e specie sia vegetali,
sia animali, di interesse comunitario. Detti
habitat e specie vegetali ed animali sono
indicati negli allegati I e II della
suddetta direttiva. Funzione della rete
Natura 2000 è quella di garantire, in tutte
le sue componenti, la sopravvivenza a lungo
termine della biodiversità presente sul
continente europeo, riconoscendo
l'interdipendenza di elementi biotici,
abiotici e antropici.
La Corte di giustizia delle Comunità
europee, sezione IV, con la sentenza del 09.06.2011 (causa C-383/09) ha dichiarato
la Repubblica francese inadempiente alla
succitata direttiva 92/43/Ue (articolo 12,
numero1, lettera d) per non avere istituito,
dal 2008, un programma di provvedimenti
idonei ad assicurare una rigorosa tutela del
criceto comune (Cricetus cricetus), specie
protetta ed in via di estinzione nella
regione dell'Alsazia.
Il criceto comune (Cricetus cricetus), detto
anche criceto europeo, è l'unica specie tra
quelle dei criceti che vive, in Europa,
ancora allo stato selvaggio. Detta specie
incorre nella minaccia di estinzione a causa
dello sfruttamento a scopo agricolo del suo
territorio, del suo habitat
(articolo ItaliaOggi
Sette dell'11.06.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti
non pericolosi.
Domanda.
Si chiede se possa essere sottoposto a
confisca un mezzo utilizzato per trasporto,
in conto proprio, di rifiuti speciali non
pericolosi da un soggetto non iscritto
all'albo nazionale gestori ambientali.
Risposta.
È da premettere, innanzitutto, che il
legislatore con l'articolo 212 del decreto
legislativo numero 152, del 03.04.2006,
ha istituito, presso il Ministero
dell'ambiente, l'albo nazionale gestori
ambientali. Detto albo succede al precedente
albo nazionale gestori rifiuti e si articola
in un Comitato nazionale ed in sezioni
regionali e provinciali.
Ora, in assenza di iscrizione al predetto
albo nazionale gestori ambientali, il
trasporto di rifiuti speciali non pericolosi
costituisce reato, ai sensi dell'articolo
256, commi 1 e 4 del citato decreto
legislativo numero 152, del 2006. E la Corte
di cassazione, sezione III penale, con la
sentenza del 23.02.2011, numero 6890,
ha affermato che, nella fattispecie, è
legittimo il sequestro del mezzo di
trasporto, quando di esso si abbia la libera
disponibilità e ciò in considerazione del
fatto che esso, per le sue intrinseche
caratteristiche costruttive, è destinato al
trasporto di materiali e inoltre è stato
utilizzato per il trasporti illecito di
rifiuti dal proprietario di impresa
individuale, il quale, svolgendo attività
tesa alla produzione di rifiuti, può
commettere altri reati utilizzando detto
mezzo di trasporto. Per la Suprema corte,
poi, è obbligatoria, in tema di rifiuti,
anche se non pericolosi, la confisca del
mezzo di trasporto, ai sensi dell'articolo
259, del summenzionato decreto legislativo
numero 152, del 03.04.2006.
Scrive la
Corte di cassazione, al riguardo, con
riferimento alla precedente sentenza della
stessa Corte numero 10710, del 2009, sezione III penale, che la confisca, prevista dalla
citata disposizione in materia di rifiuti,
già contemplata dal decreto legislativo
numero 22, del 1997, «è stata imposta dal
legislatore a seguito di una evidente
presunzione di pericolosità del mezzo di
trasporto utilizzato per lo svolgimento
dell'attività illecita e si giustifica non
per la pericolosità intrinseca della cosa,
ma per la funzione generalpreventiva-dissuasiva attribuitale
dal legislatore, con connotati repressivi
propri delle pene accessorie e, pertanto,
può prescindere dalla pericolosità
intrinseca della cosa».
Nel caso, il
legislatore ha escluso ogni discrezionalità
del giudice, stabilendo una presunzione
assoluta iuris de iure di
pericolosità del mezzo di trasporto
(articolo ItaliaOggi
Sette dell'11.06.2012). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: DECRETO
CRESCITA/ L'esecutivo ha allargato la
detrazione per lavori entro il
30/06/2013.
Ristrutturazione con tetto ampio.
Sconto del 50% su spese fino a 96 mila euro.
Ma a tempo.
Detrazione del 50% su un ammontare
raddoppiato delle spese per il recupero del
patrimonio edilizio (da 48 mila a 96 mila
euro), ma a tempo (fino al 30/06/2013).
Questo ciò che emerge dal tenore letterale
dell'articolo 11, dello
schema di decreto
crescita, come approvato dal consiglio dei
ministri (si veda ItaliaOggi dell'08 e 15.06.2012).
Le disposizioni sono da considerare fuori
sistema in quanto, per espressa previsione
normativa, le stesse non modificano i
contenuti dell'articolo 16-bis, dpr 917/1986
(Tuir) che ha messo a regime il bonus del
36% (e dal 2013 quello del 55% che sarà
assorbito dal 36%), ma intervengono in modo
straordinario sulla detrazione, innalzandola
al 50% e fissando un tetto maggiore (96 mila
euro).
Infatti, la conseguenza è che, fatti salvi
altri interventi su tali disposizioni, il
36% non sparirà dall'01.07.2013, ma
tornerà a regime con la soglia delle spese
fissata a 48 mila euro e con la percentuale
di detrazione al 36%, mentre dalla data di
entrata in vigore del decreto legge in
commento fino alla data del 30.06.2013,
il bonus sarà determinato applicando la
percentuale del 50% all'ammontare
raddoppiato e pari a 96 mila delle spese
sostenute per ogni unità immobiliare.
Inoltre, per il semplice fatto che la
detrazione per la riqualificazione
energetica degli edifici, fissata
attualmente nella misura del 55%, a partire
dall'01.01.2013 sarà assorbita da quella
sulla ristrutturazione edilizia, la
percentuale scende a regime al 36% da
calcolarsi su un tetto di spesa di euro 48
mila, con il contemporaneo innalzamento al
50% e su un ammontare di 96 mila a partire
dall'inizio del prossimo anno e sino al 30.06.2013.
La detrazione, inoltre, si rende applicabile
anche alle spese destinate agli interventi
di sostituzione di scaldacqua tradizionali
con scalda acqua a pompa di calore dedicati
alla produzione di acqua calda sanitaria.
In pratica, il contribuente che vorrà
beneficiare della detrazione maggiorata
dovrà velocizzare i tempi per l'ottenimento
delle autorizzazioni, se necessarie e se si
tratta di un nuovo intervento, procedendo
altrettanto celermente a disporre i
bonifici, in modo tale da eseguire i
pagamenti nell'intervallo indicato, compreso
tra la data di emanazione del decreto legge
in commento e il 30.06.2013.
Pertanto, i contribuenti, stante la
soppressione dell'obbligo di preventiva
comunicazione al Centro operativo di Pescara
(Agenzia delle entrate, circolare 19/E/2012
§ 1), dovranno ottenere e tenere a
disposizione, se necessario, il titolo
autorizzativo all'esecuzione dei lavori
(concessione, autorizzazione o comunicazione
inizio lavori), eseguire i lavori nel
rispetto del tetto complessivo di euro 96
mila con acquisizione delle relative fatture
dei prestatori al momento del pagamento
(art. 6, dpr n. 633/1972) nel periodo in cui
vale l'innalzamento del tetto, eseguendo i
relativi bonifici dai quali risultino, in
modo inequivocabile, la causale del
versamento, il codice fiscale del
beneficiario della detrazione e il numero di
partita Iva o il codice fiscale del soggetto
cui il bonifico è destinato (Agenzia delle
entrate, risoluzione n. 55/E/2012).
Sul punto è utile evidenziare, inoltre, che
il comma 3 dell'articolo 11 in commento ha
abrogato il tetto «complessivo» per unità
immobiliare, con la conseguenza che a
decorrere dall'01/01/2012, in presenza di
lavori che proseguono in più periodi
d'imposta sulla medesima unità e fatto salvo
che si tratti di un nuovo intervento, si
potrà replicare il bonus fino alla
concorrenza di 48 mila euro a regime, di cui
all'art. 16-bis del Tuir, per ogni
annualità.
Al contrario e stante il tenore letterale
delle disposizioni in commento, tale
situazione non può essere confermata per
quanto riguarda le spese sostenute (pagate)
nel periodo tra la data di entrata in vigore
del decreto e il 30/06/2013 giacché il
legislatore ha disposto che la detrazione
del 50% spetta «_ fino a un ammontare
complessivo delle stesse non superiore a 96
mila euro per unità immobiliare_»; di
conseguenza, salve diverse precisazioni, si
ritiene che nell'intervallo indicato il
massimo bonus ottenibile è pari a euro 48
mila euro (50% di 96 mila), da spalmare in
dieci annualità (4.800 euro per anno), sia
che l'ammontare sia sostenuto in due
esercizi distinti o tutto in un solo
esercizio.
Si ponga, per esempio, che il contribuente
dopo l'entrata in vigore del decreto e nel
corso del 2012, sostenga 50 mila euro di
spese e ne sostenga altrettante nel corso
del 2013, sino al 30 giugno: con Unico PF
2013, potrà iniziare a dedurre la prima
quota di dieci, pari a euro 2.500 (50.000 x
50% = 25.000 : 10) e con la dichiarazione
dell'anno successivo la prima quota pari a
euro 2.300 (46.000 x 50% = 23.000 : 10), per
un bonus complessivo, a fine del decennio,
pari a euro 48 mila
(articolo ItaliaOggi
del 16.06.2012). |
ENTI LOCALI: ENTI
LOCALI/ In G.U. l'avviso per le
candidature. Revisori, ora si parte.
Domande al Viminale entro il 15/7.
Al via l'elenco dei revisori degli enti
locali. L'avviso per presentare le domande
di inserimento nella lista degli aspiranti
controllori dei bilanci è stato pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale (serie speciale) di
ieri n. 138/2012. E con la pubblicazione in
G.U. parte ufficialmente il timing di 30
giorni per l'invio delle candidature al
ministero dell'interno. Ci sarà dunque tempo
fino al 15 luglio per trasmettere le domande
al dipartimento finanza locale del Viminale.
L'invio dovrà avvenire esclusivamente per
via telematica attraverso una procedura
messa a disposizione degli utenti a tempo di
record già dalla giornata di ieri. Sul sito
www.finanzalocale.interno.it i revisori
troveranno la procedura di iscrizione
cliccando sul link «elenco revisori enti
locali». Qui, utilizzando come
identificativo il proprio indirizzo di posta
elettronica certificata, dopo aver seguito
tutti gli step di registrazione, riceveranno
una password con cui accedere alla propria
domanda.
Sul sito della direzione guidata da
Giancarlo Verde i revisori possono anche
trovare un utile elenco di Faq per fugare i
dubbi più ricorrenti. Tra questi c'è
sicuramente la precisazione, ribadita anche
dal Viminale, che iscriversi all'albo non è
essenziale per le cariche in atto, ma se si
vuole partecipare ai sorteggi per altre
cariche future è necessario iscriversi.
Quanto ai requisiti di formazione, si
precisa che potranno essere inseriti solo
corsi sostenuti nel triennio 2009-2011. Il
ministero ha predisposto un servizio
assistenza attivo dal lunedì al venerdì
dalle ore 8,00 alle ore 16,00. Le
informazioni di natura amministrativa
potranno essere richieste a supporto.revisori@interno.it
(articolo ItaliaOggi
del 16.06.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Permessi di studio doc.
Serve il certificato d'iscrizione
all'università. La dichiarazione sostitutiva
utile solo per i titoli e gli esami
sostenuti.
Un dipendente comunale, per ottenere la
concessione dei permessi studio, deve
produrre obbligatoriamente il certificato di
iscrizione all'università, se il comune
presso cui presta servizio ha ritenuto non
idonea la dichiarazione sostitutiva di tale
certificazione?
L'art. 15 del Ccnl 14/09/2000 prevede una
particolare e dettagliata disciplina del
diritto allo studio.
In particolare, il comma 2 dispone che i
permessi straordinari retribuiti, nella
misura massima di 150 ore annue di cui al
comma 1 del medesimo articolo, sono concessi
per la partecipazione a corsi destinati al
conseguimento di titoli di studio
universitari, post-universitari, di scuole
di istruzione primaria, secondaria e di
qualificazione professionale ecc., e per
sostenere i relativi esami. Il successivo
comma 7 disciplina, altresì, le condizioni
per la concessione dei predetti permessi.
Invero, ai sensi di detto comma i dipendenti
interessati debbono presentare, prima
dell'inizio dei corsi, il certificato di
iscrizione e quello degli esami sostenuti e,
al termine degli stessi, l'attestato di
partecipazione e quello degli esami
sostenuti, anche se con esito negativo. In
mancanza di dette certificazioni, ai sensi
del medesimo comma 7, i permessi già
utilizzati vengono considerati come
aspettative per motivi personali. Dal tenore
letterale della richiamata normativa si
evince che condizione necessaria per essere
ammessi al beneficio dei permessi per studio
è quella di presentare in primis il
certificato di iscrizione.
Conseguentemente, non sembra possibile
produrre la certificazione sostitutiva dello
stesso. Peraltro, il dpr 445/2000, come
modificato da ultimo dalla legge 12/11/2011
n. 183, all'art. 46, nel disciplinare le
ipotesi per le quali è possibile ricorrere
alle dichiarazioni sostitutive delle
certificazioni, prevede alla lettera m)
solamente il titolo di studio e gli esami
sostenuti
(articolo ItaliaOggi
del 15.06.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Modifiche al profilo.
Il personale con il profilo di educatore di
asilo nido, al quale è stato modificato il
profilo professionale in istruttore
amministrativo, ha diritto alla
corresponsione dell'indennità di cui
all'art. 37, comma 1, lett. c), del Ccnl 06/07/1995 e dell'indennità di cui all'art.
31, comma 7, del Ccnl 14/09/2000?
L'art. 52 del dlgs 165/2001 prevede che il
lavoratore deve essere adibito alle mansioni
per le quali è stato assunto o alle mansioni
equivalenti nell'ambito dell'area di
inquadramento. Analoga previsione è
contenuta nell'art. 3 del Ccnl 31/03/1999.
L'assegnazione a nuove mansioni equivalenti,
che secondo l'interpretazione
giurisprudenziale devono salvaguardare la
professionalità del dipendente, non può
comportare una diminuzione del livello di
retribuzione che le mansioni in precedenza
svolte garantivano al lavoratore. In
particolare devono essere mantenuti quei
compensi che sono collegati a particolari
capacità professionali del dipendente, come
avviene nel caso in cui allo stesso vengano
riconosciute determinate indennità
professionali.
Conseguentemente, poiché al personale
educativo degli asili nido il citato art.
37, comma 1, riconosce una indennità
professionale, la stessa può essere
mantenuta anche nel caso di mutamento di
profilo, tenuto conto che il cambiamento di
mansioni è avvenuto, nel caso in esame,
nell'ambito della stessa categoria di
appartenenza.
Non sembra, invece, possibile corrispondere
l'indennità prevista dal richiamato art. 31,
comma 7, del Ccnl 14/09/2000, in quanto
detto compenso non si riconnette alla
professionalità, essendo riferito
espressamente alla durata del calendario
scolastico, e quindi alle modalità temporali
e all'effettivo svolgimento della
prestazione lavorativa presso l'asilo nido
(articolo ItaliaOggi
del 15.06.2012). |
ENTI LOCALI:
Mini-enti, matrimoni senza
strappi.
Fusioni gestionali optional. Accanto a
unioni e convenzioni. Le novità del
prossimo dl sull'associazionismo che darà
anche il via alle città metropolitane.
Unioni facoltative nei comuni fino a
1.000
abitanti e via libera dopo oltre 20 anni di
attesa all'istituzione delle città
metropolitane. La strada verso l'esercizio
associato di tutte le funzioni e i servizi
pubblici tracciata dall'art.16 della manovra
di Ferragosto 2011 (che secondo molti
avrebbe realizzato una fusione di fatto dei
piccoli centri) diventa meno vincolante. La
micro-unione infatti sarà solo un'opzione
per gli enti fino a 1.000 abitanti.
Un'opzione che si affianca alle altre forme
associative previste dal Testo unico enti
locali, ossia la convenzione e l'unione, per
così dire, «tradizionale» nella quale i
comuni si mettono insieme mantenendo la
propria individualità gestionale.
I nuovi
enti dovranno avere almeno 5.000 abitanti
(3.000 nelle zone montane) ma le regioni
potranno stabilire limiti demografici
diversi, anche inferiori. Per i comuni tra
1.000 e 5.000 abitanti l'obbligo di
esercizio delle funzioni in forma associata,
che sarebbe dovuto scattare dal prossimo 30
settembre per almeno due funzioni su sei,
slitterà ancora. Gli enti dovranno svolgerne
insieme tre entro il 01.01.2013 e altre
tre entro il 01.01.2014.
Sono queste le
principali novità del decreto legge
sull'associazionismo comunale che il governo
porterà nei prossimi giorni sul tavolo del
consiglio dei ministri.
L'esecutivo ha preso un impegno preciso con
l'Anci in tal senso (si veda a fianco
l'intervista al presidente Graziano Delrio)
nell'incontro di lunedì a palazzo Chigi.
L'utilizzo della decretazione d'urgenza, del
resto, è imposto dalla necessità di far
presto. Lo slittamento di nove mesi della
marcia forzata verso l'associazionismo
(disposto dal decreto milleproroghe) sta
infatti per esaurirsi a fine settembre e i
piccoli comuni necessitano subito di un
quadro normativo chiaro.
Tale non può essere
certamente considerato quello attuale in cui
le regole del dl 138/2011 si sovrappongono a
quelle (art. 14, commi 25-31) del dl 78/2010
generando confusione. Per questo il governo
Monti ha abbandonato l'idea di disciplinare
la materia all'interno della Carta delle
autonomie ferma da anni al senato e con
scarse chance di approvazione in tempi
brevi.
Le nuove norme sui piccoli comuni
(inserite come emendamenti alla Carta dai
relatori Enzo Bianco e Andrea Pastore) sono
state stralciate assieme a quelle sulle
città metropolitane. Confluiranno tutte nel
decreto legge «di rapidissima emanazione»
che consentirà il varo dei nuovi 10
macro-enti (Bari, Bologna, Firenze, Genova,
Milano, Napoli, Torino, Reggio Calabria,
Roma e Venezia) che porteranno alla
scomparsa delle rispettive province. In
attesa che il decreto prenda forma, le
novità in arrivo non dispiacciono agli
operatori.
«E' una soluzione ragionevole che
supera una situazione di impasse. Viene
stabilita una disciplina delle unioni
uniforme e rispettosa dell'autonomia degli
enti», ha commentato a ItaliaOggi
Maurizio Delfino, esperto di finanza locale
e consulente di molti piccoli comuni
(articolo ItaliaOggi
del 13.06.2012). |
ENTI LOCALI - URBANISTICA - VARI: IMU FACILE/
Le amministrazioni comunali
devono informare il contribuente dei cambi
di destinazione. Aree edificabili, conta il
mercato.
Il pagamento dell'imposta avviene in base al
valore venale.
Le aree edificabili sono soggette al
pagamento dell'Imu in base al loro valore di
mercato. I contribuenti, però, devono essere
informati delle variazioni apportate agli
strumenti urbanistici. Spetta infatti alle
amministrazioni comunali comunicare agli
interessati i cambi di destinazione dei beni
da terreni ad aree edificabili. La mancata
comunicazione impedisce che
l'amministrazione possa applicare sanzioni e
interessi al contribuente per omesso
pagamento del tributo.
Per pagare l'Imu su un'area edificabile
occorre stabilire il suo valore venale in
comune commercio al 1° gennaio dell'anno di
imposizione, vale a dire il suo valore di
mercato. In sede di acconto, entro il 18
giugno, deve essere pagato il 50% del
tributo che va calcolato applicando
l'aliquota del 7,6 per mille. A saldo,
invece, dovrà essere versata l'imposta
dovuta per l'intero anno prendendo a base
l'aliquota deliberata dal comune.
L'articolo 5 del decreto legislativo
504/1992 fissa dei criteri ai quali è
necessario fare riferimento per determinare
la base imponibile. In particolare: zona
territoriale di ubicazione dell'area, indice
di edificabilità, destinazione d'uso
consentita e oneri per eventuali lavori di
adattamento del terreno necessari per la
costruzione. Vanno presi in considerazione,
inoltre, anche i prezzi medi rilevati sul
mercato di aree aventi le stesse
caratteristiche. I valori possono essere
deliberati anche dalla giunta, sulla base di
una perizia redatta dall'ufficio tecnico.
Questi valori sono meramente indicativi.
Come per l'Ici, per la qualificazione delle
aree è necessario fare riferimento al piano
regolatore generale. In base all'articolo 2
del decreto legislativo 504/1992,
disposizione che viene espressamente
richiamata dall'articolo 13 del dl Monti
(201/2011), per area fabbricabile si intende
quella utilizzabile a scopo edificatorio in
base agli strumenti urbanistici generali o
attuativi oppure in base alle possibilità
effettive di edificazione determinate
secondo i criteri previsti agli effetti
delle indennità di espropriazione per
pubblica utilità.
Nelle ipotesi di
edificazione di un fabbricato, la base
imponibile è data dal valore dell'area (non
viene computato il valore del fabbricato in
corso d'opera) dalla data di inizio dei
lavori di costruzione fino a quella di
ultimazione, oppure fino al momento in cui
il fabbricato è comunque utilizzato, se
questo momento è antecedente a quello di
ultimazione. Durante il periodo di effettiva
utilizzazione edificatoria, anche per
demolizione o esecuzione di lavori di
recupero edilizio, il suolo va considerato
area fabbricabile, anche nel caso in cui
questa natura non sia riconosciuta dagli
strumenti urbanistici.
L'Imu è dovuta se l'area è inserita in un
piano regolatore generale adottato dal
consiglio comunale, ma non approvato dalla
regione. L'articolo 36, comma 2 del
decreto-legge legge 223/2006 ha chiarito che
un'area è da considerare fabbricabile se
utilizzabile a scopo edificatorio in base
allo strumento urbanistico deliberato dal
comune, indipendentemente dall'approvazione
della regione e dall'adozione di strumenti
attuativi. Quindi, un'area è edificabile
quando è inserita nel piano regolatore
generale ed è soggetta all'imposta a
prescindere dalla successiva lottizzazione
del suolo.
Naturalmente, se per la caratteristica
dell'edificabilità è sufficiente che essa
risulti da un piano regolatore generale, la
potenzialità di edificazione è maggiore
quando l'area è ricompresa in un piano
particolareggiato e ciò ha effetti nella
determinazione del valore dell'area e della
quantificazione della base imponibile. La
potenzialità del suolo tanto più è attenuata
quanto maggiori sono le incertezze
sull'effettiva possibilità di poterlo
utilizzare a scopo edificatorio.
Nonostante la questione sia dibattuta, sono
soggette al tributo le aree vincolate
destinate a essere espropriate. Anche se i
limiti incidono sul valore del bene. Secondo
la Cassazione (ordinanza 16562/2011), la
qualifica di area fabbricabile non può
ritenersi esclusa se esistono particolari
limiti che condizionano le possibilità di
edificazione del suolo. Anzi, i limiti
imposti a un terreno presuppongono la sua
vocazione edificatoria.
Il contribuente va informato delle
variazioni apportate agli strumenti
urbanistici. In caso contrario, il tributo
sull'area è comunque dovuto, ma non possono
essere chiesti sanzioni e interessi
(articolo ItaliaOggi
del 13.06.2012). |
APPALTI SERVIZI:
Dopo la pioggia di deroghe arriva l'ingorgo.
QUADRO CONFUSO/ Entro fine anno vanno attuate
le dismissioni nei Comuni fino a 50mila
abitanti e l'apertura al mercato ma manca il
regolamento.
L'ultimo piccolo colpo al faticoso processo
di liberalizzazione dei servizi pubblici
locali è arrivato con il decreto sviluppo,
che trasforma in silenzio-assenso il parere
obbligatorio che l'Antitrust dovrebbe dare
sulle delibere-quadro con cui i Comuni
devono indicare i settori in cui non è
possibile il ricorso al mercato.
A bloccare l'intero meccanismo, comunque,
finora è stato l'incrocio fra un calendario
ambizioso e un ritardo cronico
nell'applicazione delle misure previste
dalle varie manovre. Gli enti locali, per
esempio, dovrebbero individuare entro metà
agosto gli ambiti territoriali ottimali in
cui suddividere i servizi a rete (dai
trasporti all'idrico), ma ad oggi manca
ancora il decreto attuativo principale, cioè
quello che dovrebbe dire alle
amministrazioni locali come si fa la
delibera quadro chiamata a individuare quali
servizi affidare al mercato e in quali
mantenere diritti di esclusiva.
Anche ipotizzando che gli enti locali e gli
enti affidanti per i servizi di rete
riescano a rispettare il termine del 13
agosto, e anche nel caso in cui la novità
del silenzio-assenso dovesse essere
approvata, l'adozione della delibera
difficilmente potrà avvenire prima della
fine di novembre.
Da quella data al 31 dicembre, gli enti
locali dovrebbero quindi avviare i percorsi
per i nuovi affidamenti dei servizi pubblici
locali prima gestiti da società in house (se
incoerenti con i parametri comunitari e,
soprattutto, se di valore annuo superiore ai
200mila euro), scegliendo tra la gara a
spettro ampio e la costituzione di società
mista, con individuazione tramite gara del
socio privato a cui affidare anche compiti
operativi.
L'avvio delle procedure richiede un
passaggio in consiglio comunale (per la
definizione del modello organizzativo), ma
costituisce anche il presupposto essenziale
per permettere a una società interamente
partecipata dall'ente locale di prendere
parte alla gara per il servizio sino ad oggi
gestito.
In questa fase è inoltre necessario che sia
dettagliatamente analizzata la situazione
delle reti e delle dotazioni
infrastrutturali, passo essenziale per
avviare le gare.
Sempre entro fine anno, i Comuni fino a
30mila abitanti, poi, devono decidere se
dismettere le loro partecipazioni o
sfruttare una delle deroghe previste per le
aziende che vantano bilanci in utile o
riescono ad aggregarsi. La stessa Corte
segnala che più del 60% delle partecipazioni
sono in mano a Comuni medio-piccoli, a
conferma del l'enormità del processo che
dovrebbe partire.
La possibilità di evitare le dismissioni,
come accennato, è legata allo stato di
salute dei bilanci o alle possibilità di
aggregazione per superare la soglia dei
30mila abitanti serviti. Potrebbero quindi
realizzarsi situazioni nelle quali una
società di un Comune con popolazione
inferiore, ma con bilanci in pareggio
anziché in utile, debba essere assoggettata
alla liquidazione da parte dell'ente socio.
Per il servizio pubblico gestito non vi
sarebbe altra via che quella della gara tra
operatori, essendo inibita al Comune la
possibilità di costituire (almeno da solo)
società.
Ad accrescere ulteriormente il processo c'è
la situazione dei Comuni compresi tra i
30mila e i 50mila abitanti, che devono
ridurre le loro partecipazioni societarie ad
una sola. Il termine entro cui arrivare a
questa condizione, in realtà, secondo il
dato legislativo sarebbe già scaduto (il
31.12.2011), ma alcune interpretazioni di
sezioni regionali della Corte dei conti lo
hanno collegato al termine dell'adempimento
principale (la dismissione per i Comuni di
minori dimensioni), quindi alla fine del
2012 (articolo Il Sole 24 Ore
dell'11.06.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI FORNITURE: Acquisti
della Pa: c'è per tutti l'obbligo di passare
da Consip.
Su spese di Asl, comuni e ministeri cresce
l'utilizzo della centrale statale.
Shopping obbligato allo sportello Consip per
Ministeri, Asl e Comuni. Il decreto sulla
spending review, approvato in prima lettura
il giovedì scorso dal Senato, prova a
«forzare» le abitudini di acquisto di beni e
servizi per migliaia di enti pubblici con
l'obiettivo di tagliare in fretta tempi e
costi.
Tutto ruota intorno alla Consip: la centrale
acquisti del ministero dell'Economia, una
sorta di E-bay della pubblica
amministrazione, diventa l'unica via per gli
acquisti di beni e servizi dei ministeri.
Anche Asl e ospedali non avranno scelta: se
non trovano un bene nelle convenzioni delle
centrali acquisti regionali non possono più
cercarlo sul mercato, ma devono rivolgersi
alla Consip. E infine, tutte le
amministrazioni pubbliche (Comuni compresi)
devono pescare dal catalogo centralizzato
per i loro piccoli acquisti sotto la soglia
comunitaria (130mila per le amministrazioni
statali, 200mila per quelle locali).
Insomma niente più scuse: la spesa della Pa
si sposta in gran parte verso il
«maxisupermercato» Consip, non più con forme
di persuasione volontaria, ma con un obbligo
di legge. Del resto, con il «metodo Consip» (si veda la scheda a lato) il risparmio sui
prezzi ottenibile è in media del 19 per
cento. Un taglio notevole su un mercato
delle forniture pubbliche che nel 2011
valeva 136 miliardi totali, di cui però solo
29 transitati attraverso la Consip (si veda
il Sole 24 ore del 03.05.2012). L'ultima
correzione al decreto (varata con un
emendamento del Pd) va proprio nel senso
indicato dal Governo di allargare il raggio
d'azione della centrale nazionale, passando
in breve dai 29 miliardi ad almeno 39 e
ottenendo così un risparmio stimato di almeno
due miliardi.
Ma quanto tempo ci vorrà prima che il nuovo
meccanismo entri a regime? Gli obblighi
scatteranno dall'entrata in vigore della
legge di conversione del Dl 52, che ora deve
essere confermata dalla Camera. In ogni caso
al massimo entro il 7 luglio, pena la
decadenza di tutto il decreto. Di fatto la
Consip è pronta: sono già 65 le convenzioni
attive che coprono praticamente tutte le
esigenze di forniture. Qualche sforzo in più
potrebbe essere necessario per implementare
i prodotti destinati alla sanità, finora
poco richiesti. Mentre il mercato
elettronico (Mepa) oggi è già esteso a circa
3.500 fornitori per un catalogo di 1,3
milioni di articoli.
È difficile, invece, ipotizzare con le nuove
convenzioni una ulteriore diminuzione del
prezzo unitario dei beni (che già oggi tocca
punte del 70%, sulle stampanti ad esempio,
come documentato dal Sole 24 ore del 7
maggio). Le convenzioni hanno ormai
raggiunto una massa critica sul mercato. In
più già oggi il 50% delle richieste di
acquisto arriva da amministrazioni non
obbligate.
Il vero risparmio sarà per quegli acquirenti
finora poco propensi a rifornirsi da Consip.
Ma il problema saranno i controlli. Certo il
decreto abbassa da 150mila euro a 50mila la
soglia per segnalare gli appalti
all'Autorità di vigilanza e permette
verifiche anche sulle piccole forniture. Ma
il Dl ribadisce anche che la stessa
Authority deve rendere pubbliche le
informazioni sulle amministrazioni
aggiudicatrici, l'operatore economico
aggiudicatario e sulla fornitura. Insomma, i
primi controllori saranno i contribuenti che
quando l'Autorità offrirà le informazioni
potranno finalmente sapere come il proprio
Comune o la propria Asl investe i soldi
pubblici.
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Il perimetro
I SOGGETTI OBBLIGATI
01 | MINISTERI E AMMINISTRAZIONI STATALI
PERIFERICHE (ESCLUSE SCUOLE)
Le amministrazioni statali e le loro
organizzazioni periferiche dovranno
rivolgersi alle convenzioni Consip per ogni
acquisto di beni e servizi, a condizione che
esista una convenzione attiva per quel bene.
Solo se la convenzione è esaurita potranno
acquistare sul libero mercato. Oggi invece
sono solo otto le categorie merceologiche
per le quali la Consip è la strada
obbligata. Vengono individuate con un
decreto annuale, che da domani però, è
cancellato
02 | ASL E OSPEDALI
Oggi sono obbligati in prima battuta a
cercare di approvvigionarsi tramite le
centrali di acquisto regionali e, in
mancanza del prodotto richiesto, possono
bandire una propria gara. Con la nuova
versione del Dl spending review, non
potranno più fare da soli: dovranno, in
seconda battuta, rifornirsi dalla Consip
03 | TUTTE LE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE
STATALI E TERRITORIALI
Per le piccole forniture sotto le soglie
europee dei 200mila euro (per le
amministrazioni statali) o i 133mila euro
(per quelle locali) tutti gli enti pubblici
saranno obbligati a rivolgersi al Mepa
(mercato elettronico della pubblica
amministrazione) o altri mercati elettronici
esistenti in futuro.
GLI STRUMENTI
01 | LE CONVENZIONI
Sono contratti quadro stipulati da Consip
con i quali il fornitore vincitore di una
gara si impegna ad accettare richieste di
beni da parte delle singole amministrazioni,
fino a un tetto fissato dalla convenzione
stessa. Oltre al risparmio di prezzo dovuto
all'acquisto in grandi stock, le
amministrazioni tagliano sui costi e i tempi
di gestione della gara.
02 | MERCATO ELETTRONICO
Il Mepa (mercato elettronico della pubblica
amministrazione) è lo strumento di Consip,
pensato per i piccoli ordinativi, sotto la
soglia comunitaria di 133mila euro (enti
locali) o 200mila euro (Stato). Sulla
piattaforma elettronica
(www.acquistiinretepa.it) è disponibile un
catalogo di 1,3 milioni di articoli. Gli
enti registrati possono consultare i
cataloghi delle offerte ed emettere
direttamente ordini d'acquisto o richieste
d'offerta
03 | ACCORDO QUADRO
Consip conclude accordi quadro a cui le
amministrazioni possono ricorrere per beni e
servizi. Nell'accordo Consip stabilisce
condizioni base (prezzi, qualità, quantità)
dei successivi appalti (specifici) che
saranno aggiudicati dalle singole
amministrazioni durante un dato periodo. I
parametri prezzo-qualità Consip valgono da
benchmarking per le amministrazioni
(articolo Il Sole 24
Ore dell'11.06.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
CONSIGLIERI COMUNALI: Costi della politica, tagli
legittimi.
Le misure non invadono le competenze degli
enti locali. La Corte costituzionale ha
respinto i ricorsi presentati a vario titolo
sulla legge 122/2012.
Sono costituzionalmente legittime le misure
di taglio ai «costi della politica»
contenute nell'articolo 5, commi 1, 4, 5 e
7, del dl 78/2012, convertito in legge
122/2012.
La Corte costituzionale, con la sentenza 14.06.2012 n. 151, con varie formule
respinto i ricorsi presentati da diverse
regioni, che hanno considerato le misure di
risparmio imposte dalla manovra estiva 2010
in vario modo lesive della propria potestà
legislativa e autonomia finanziaria.
La Consulta ha operato individuando i vari
fondamenti che le regole dell'articolo 5 e i
suoi commi impugnati hanno nella
Costituzione, respingendo la tesi difensiva
dell'avvocatura dello stato, secondo la
quale i tagli della manovra estiva 2010
avrebbero giustificato, nella sostanza,
un'invasione di competenza della legge
statale nell'autonomia regionale
giustificata dall'esigenza «di far fronte
con urgenza a una gravissima crisi
finanziaria che mette in pericolo la stessa salus rei publicae», così da derogare alle
regole costituzionali sul riparto delle
competenze legislative tra stato e regioni.
La Corte costituzionale ha respinto
l'assunto: nemmeno necessità finanziarie
possono, ovviamente, scardinare le regole
della Costituzione.
Riduzione dei trattamenti economici degli
organi di governo. L'articolo 5, comma 1,
del dl 78/2010 dispone che, per gli anni dal
2011 al 2013, siano da destinare a uno
specifico Fondo per l'ammortamento dei
titoli di stato gli importi corrispondenti
alle riduzioni di spesa che verranno
deliberate dalle regioni, con riferimento ai
trattamenti economici dei componenti del
consiglio e della giunta regionali, nonché
del presidente.
La Consulta propone un'interpretazione della
norma tale da renderla conforme alla
Costituzione, osservando che essa non
obbliga le regioni a deliberare riduzioni
relative a una specifica voce di spesa,
limitandosi a prevedere, invece, che laddove
autonomamente le regioni operassero il
ridimensionamento degli emolumenti esse
dovrebbero poi versare i risparmi al fondo
previsto dalla norma. In tal modo, pertanto,
non risulta incisa negativamente la potestà
legislativa, né l'autonomia delle regioni.
Riduzione rimborsi elettorali.
Costituzionalmente legittima è anche la
previsione del comma 5 dell'articolo 5 del
dl 78/2010, ai sensi del quale a decorrere
dal primo rinnovo dei consigli regionali
successivo alla data di entrata in vigore
del decreto legge medesimo, «è ridotto del
10% l'importo previsto a titolo di rimborso
delle spese elettorali nell'art. 1, comma 5,
primo periodo, della legge 03.06.1999, n.
157».
In questo caso, chiarisce la sentenza, la
materia ricade nella regolamentazione di cui
all'articolo 122 della Costituzione che
assegna allo stato la potestà di
disciplinare il «sistema» di elezione delle
regioni, nel quale rientra anche l'eventuale
rimborso delle spese sostenute dai partiti
per le campagne elettorali.
Gratuità degli incarichi. I ricorsi avevano
contestato l'articolo 5, comma 5, del
decreto legge, ai sensi del quale i titolari
di cariche elettive, se nominati titolari di
qualsiasi incarico conferito da pubbliche
amministrazioni possono ottenere
esclusivamente il rimborso delle spese
sostenute, mentre eventuali gettoni di
presenza non possono superare l'importo di
30 euro a seduta.
Il principio di gratuità sancito dalla
norma, secondo la Consulta, è
costituzionalmente legittimo perché ha
natura di principio fondamentale di
coordinamento della finanza pubblica, la cui
determinazione spetta allo stato e dal quale
possono legittimamente derivare limitazioni
all'autonomia organizzativa e di spesa delle
Regioni. È un principio la cui ratio sta
nell'evitare il cumulo di incarichi
retribuiti e il perseguimento di risparmi
finanziari.
Amministratori di comunità montane e forme
associative.
Conforme a Costituzione è anche l'articolo
5, comma 7, che vieta emolumenti ad
amministratori di comunità montane e di
unioni di comuni e comunque di forme
associative di enti locali. Anche in questo
caso, la legge statale ha esercitato
correttamente la potestà di disciplinare il
coordinamento della finanza pubblica
(articolo ItaliaOggi
del 15.06.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Atto amministrativo nullo e tutela del
legittimo affidamento.
La
nullità dell’atto, una volta che il decorso
del tempo ne abbia consolidato gli effetti,
non è ostativa a che un legittimo
affidamento, tutelato dall’ordinamento
giuridico, sorga da esso e funga da elemento
con cui raffrontare e bilanciare l’esercizio
del potere amministrativo attributo con
riguardo alla medesima fattispecie.
Naturalmente, ad oggi il termine sufficiente
e necessario perché tale effetto si
verifichi è legislativamente indicato in 180
giorni, mentre, anteriormente all’entrata in
vigore del c.p.a., doveva ritenersi compito
dell’interprete valutare tutte le
circostanze del caso concreto, per stabilire
il tempo utile a legittimare l’affidamento.
Come è da ritenersi oramai acquisito, la
dottrina dell’atto nullo è in larga misura
la scienza degli effetti, per quanto
degradati rispetto all’atto valido, che esso
è comunque in grado di produrre
nell’ordinamento: nell’ambito del diritto
amministrativo, tra tali effetti non può non
annoverarsi il potenziale affidamento
cagionato nei consociati dall’agire della
pubblica amministrazione, quale che sia poi
la legale ripartizione delle competenze tra
i soggetti istituzionali entro cui essa si
fraziona.
In tal senso, laddove la sfera giuridica di
un privato sia stata accresciuta per
l’effetto di un provvedimento dotato dei
requisiti minimi per poter essere ritenuto
esistente, per quanto nullo, la tutela
dell’affidamento maturato in ragione di ciò,
laddove non emerga malafede, costituisce un
principio generale dell’ordinamento
giuridico, “connaturato allo Stato di
diritto” (Corte cost. sent. n. 209 del
2009; id. sentt. nn. 157 del 2007 e 282 del
2006), alla luce del quale va valutata la
legittimità della posteriore azione della
pubblica amministrazione.
Quest’ultima, pertanto, in tali casi non può
limitarsi ad operare come se l’atto
ampliativo non esistesse, ma può, e talvolta
deve, previamente rimuovere le ragioni
dell’affidamento, incidendo, nelle forme
consentite dalla legge, sulla fonte su cui
esso poggia. Solo dopo avere operato in
questo modo, il potere di conformare la
fattispecie alla legge torna a governare
interamente la fattispecie, anche sul piano
della repressione degli abusi.
In linea generale, è a simili meccanismi di
garanzia che si ispira l’esercizio
dell’autotutela decisoria in diritto
amministrativo, secondo quanto oramai
codificato dalla l. n. 241 del 1990.
Su di un piano connesso, il legislatore,
come ha condivisibilmente posto in luce il
Consiglio di Stato, ha nuovamente
esplicitato, per quanto qui interessa, tale
principio, sottoponendo l’azione di nullità
dell’atto amministrativo al termine di
decadenza di 180 giorni (art. 31, comma 4,
c.p.a.). Attribuendo un effetto al decorso
del tempo, pur a fronte di un vizio di
nullità dell’atto, il legislatore ha, in
altri termini, riconosciuto anche in questi
casi diritto di cittadinanza alle esigenze
di certezza dei rapporti giuridici, e quindi
anche di tutela dell’affidamento comunque
ingenerato dall’atto nullo, che sono
implicate dall’agire amministrativo.
Se ne deve dedurre che la nullità dell’atto,
una volta che il decorso del tempo ne abbia
consolidato gli effetti, non è ostativa a
che un legittimo affidamento, tutelato
dall’ordinamento giuridico, sorga da esso e
funga da elemento con cui raffrontare e
bilanciare l’esercizio del potere
amministrativo attributo con riguardo alla
medesima fattispecie. Naturalmente, ad oggi
il termine sufficiente e necessario perché
tale effetto si verifichi è legislativamente
indicato in 180 giorni, mentre,
anteriormente all’entrata in vigore del
c.p.a., doveva ritenersi compito
dell’interprete valutare tutte le
circostanze del caso concreto, per stabilire
il tempo utile a legittimare l’affidamento.
Nel caso di specie, peraltro, l’ordine di
demolizione impugnato è del marzo 2011, e si
colloca dunque a ben tre anni circa di
distanza dal provvedimento di autorizzazione
di cui il Comune ha postulato la nullità;
inoltre, di tale ultimo atto Roma Capitale
era a conoscenza fin da allora, né risulta
che medio tempore sia stata svolta
alcuna attività atta ad incrinare
l’affidamento maturato nella legittimità di
esso in capo alla ricorrente.
Ciò premesso, neppure viene in rilievo,
nella presente controversia, il potere del
giudice di rilevare d’ufficio la nullità
dell’atto amministrativo senza limiti di
tempo, conferito anch’esso dall’art. 31
c.p.a., che, indubbiamente, pone delicati
problemi di coordinamento con la previsione
del termine decadenziale per esperire
l’azione di nullità.
Infatti, al fine di accertare la
illegittimità dell’atto impugnato, è
sufficiente rilevare che Roma Capitale non
avrebbe potuto reprimere direttamente
l’abuso edilizio, assumendo il difetto del
titolo abilitativo, senza assumere in
considerazione l’interesse, tutelato in capo
alla ricorrente, alla conservazione degli
effetti di un atto, in base al quale
quest’ultima ha realizzato in buona fede
l’attività edilizia divenuta oggetto di
contestazione. Né vi possono essere dubbi,
nel caso di specie, in ordine al
convincimento della ricorrente circa la
legittimità del titolo conseguito, se solo
si considera che essa è stata postulata
anche dal Consiglio di Stato, pur con
argomenti ritenuti in ultima analisi non
risolutivi da questo Tribunale.
A fronte di un tale preliminare vizio,
oggetto di denuncia nel primo motivo di
ricorso, il Tribunale non è tenuto a
prendere posizione circa l’ulteriore rilievo
svolto dal Consiglio di Stato, secondo cui
il solo strumento posto a disposizione
dell’amministrazione per superare gli
effetti di un atto nullo, assunto da altra
amministrazione con invasione delle
attribuzioni della prima, consiste nella
proposizione della azione di nullità
prevista dall’art. 31 c.p.a. (TAR Lazio-Roma,
Sez. I-quater,
sentenza 13.06.2012 n. 5360 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di delimitazione del
demanio rispetto alla proprietà privata, la
P.A. non esercita un potere autoritativo costitutivo, ma si
limita ad accertare l'esatto confine
demaniale.
Siffatto accertamento, pur
svolgendosi con le forme del procedimento
amministrativo, ha carattere vincolato, non
comporta la spendita di potere
amministrativo discrezionale ed è inidoneo a
degradare il diritto di proprietà privata in
interesse legittimo, trattandosi, appunto,
di un atto di accertamento e non di un atto
ablatorio, da qualificare come autotutela
privatistica speciale e non come attività
provvedimentale discrezionale.
Pertanto, secondo l'ordinario criterio di
riparto di giurisdizione fondato sulla
distinzione tra diritti soggettivi e
interessi legittimi, le controversie di cui
all'art. 32 cod. nav. rientrano nella
giurisdizione del giudice ordinario.
Il Collegio ritiene di prestare puntuale adesione (non rinvenendosi
ragioni onde discostarsene) al consolidato
orientamento secondo cui in materia di
delimitazione del demanio rispetto alla
proprietà privata, la P.A. non esercita un
potere autoritativo costitutivo, ma si
limita ad accertare l'esatto confine
demaniale.
Siffatto accertamento, pur
svolgendosi con le forme del procedimento
amministrativo, ha carattere vincolato, non
comporta la spendita di potere
amministrativo discrezionale ed è inidoneo a
degradare il diritto di proprietà privata in
interesse legittimo, trattandosi, appunto,
di un atto di accertamento e non di un atto
ablatorio, da qualificare come autotutela
privatistica speciale e non come attività
provvedimentale discrezionale.
Pertanto,
secondo l'ordinario criterio di riparto di
giurisdizione fondato sulla distinzione tra
diritti soggettivi e interessi legittimi, le
controversie di cui all'art. 32 cod. nav.
rientrano nella giurisdizione del giudice
ordinario (Cons. Stato, VI, 25.09.2011, n. 5357; id., VI,
09.11.2001, n.
7975; id., VI, 24.09.2010, n. 7147) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.06.2012 n. 3496 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Le ordinanze contingibili ed urgenti possono essere
adottate dal Sindaco nella veste di
ufficiale di governo solamente quando si
tratti di affrontare situazioni di carattere
eccezionale e impreviste, costituenti
concreta minaccia per la pubblica
incolumità, per le quali sia impossibile
utilizzare i normali mezzi apprestati
dall’ordinamento giuridico: tali requisiti
non ricorrono di conseguenza, quando le
pubbliche amministrazioni possono adottare i
rimedi di carattere ordinario.
Infatti, le ordinanze in questione
presuppongono una situazione di pericolo
effettivo in cui si possono configurare
anche situazioni non tipizzate dalla legge e
ciò giustifica la deviazione dal principio
di tipicità degli atti amministrativi, la
possibilità di deroga rispetto alla
disciplina vigente e la necessità di
motivazione congrua e peculiare, la
configurazione anche residuale, quasi di
chiusura, delle ordinanze contingibili ed
urgenti.
I rimedi di carattere ordinario, al
contrario, sono i provvedimenti tipizzati
atti a fronteggiare le esigenze prevedibili
ed ordinarie e costituiscono l’elemento
“normale” rimesso dalla legge ai poteri
pubblici per gestire usualmente le materie a
questi rimesse.
Caratteristiche preminenti di tali
provvedimenti sono l’atipicità, il potere
derogatorio rispetto agli strumenti
“ordinari”, l’eccezionalità e la gravità del
pericolo presupposto, la generalità degli
interessi cui sono volti e, naturalmente, un
adeguato supporto motivazionale.
In quest’ottica, dunque, dinanzi ad una
situazione di pericolo solo potenziale e
territorialmente del tutto delimitato,
l’Amministrazione, prima di adottare il
provvedimento dovrebbe compiere ogni
accertamento volto a fissare, a
cristallizzare la “gravità” e la
“contingenza” del pericolo stesso.
Ciò rientra nella natura eccezionale e
derogatoria degli atti in analisi, i quali
si pongono nell’ordinamento giuridico come
strumenti di extrema ratio, in quanto tali
utilizzabili esclusivamente al verificarsi
dei presupposti legislativi, e quando i
mezzi ordinari si palesino come
insufficienti ed inadeguati.
L’Amministrazione deve accertare la
sussistenza di una situazione di effettivo
pericolo di danno grave ed imminente per la
incolumità pubblica, non fronteggiabile con
gli ordinari strumenti di amministrazione
attiva, a seguito di approfondita
istruttoria con adeguata motivazione circa
il carattere indispensabile degli interventi
immediati ed indilazionabili imposti a
carico del privati.
Con l’ordinanza oggetto d’impugnazione dinanzi al giudice di prime cure,
l’Amministrazione ha adottato un
provvedimento contingibile ed urgente,
ovvero un provvedimento straordinario,
assunto in casi tassativamente previsti
dalla legge.
Ai sensi dell’art. 54, comma 2, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, le ordinanze contingibili ed urgenti possono essere
adottate dal Sindaco nella veste di
ufficiale di governo solamente quando si
tratti di affrontare situazioni di carattere
eccezionale e impreviste, costituenti
concreta minaccia per la pubblica
incolumità, per le quali sia impossibile
utilizzare i normali mezzi apprestati
dall’ordinamento giuridico: tali requisiti
non ricorrono di conseguenza, quando le
pubbliche amministrazioni possono adottare i
rimedi di carattere ordinario.
Infatti, le ordinanze in questione
presuppongono una situazione di pericolo
effettivo in cui si possono configurare
anche situazioni non tipizzate dalla legge e
ciò giustifica la deviazione dal principio
di tipicità degli atti amministrativi, la
possibilità di deroga rispetto alla
disciplina vigente e la necessità di
motivazione congrua e peculiare, la
configurazione anche residuale, quasi di
chiusura, delle ordinanze contingibili ed
urgenti.
I rimedi di carattere ordinario, al
contrario, sono i provvedimenti tipizzati
atti a fronteggiare le esigenze prevedibili
ed ordinarie e costituiscono l’elemento
“normale” rimesso dalla legge ai poteri
pubblici per gestire usualmente le materie a
questi rimesse (Cons. St., sez IV, 13.07.2011 n. 4262; Cons. St., sez. IV, 24.03.2006 n. 1537).
Caratteristiche preminenti di tali
provvedimenti sono l’atipicità, il potere
derogatorio rispetto agli strumenti
“ordinari”, l’eccezionalità e la gravità del
pericolo presupposto, la generalità degli
interessi cui sono volti e, naturalmente, un
adeguato supporto motivazionale.
In quest’ottica, dunque, dinanzi ad una
situazione di pericolo solo potenziale e
territorialmente del tutto delimitato,
l’Amministrazione, prima di adottare il
provvedimento dovrebbe compiere ogni
accertamento volto a fissare, a
cristallizzare la “gravità” e la
“contingenza” del pericolo stesso.
Ciò rientra nella natura eccezionale e
derogatoria degli atti in analisi, i quali
si pongono nell’ordinamento giuridico come
strumenti di extrema ratio, in quanto tali
utilizzabili esclusivamente al verificarsi
dei presupposti legislativi, e quando i
mezzi ordinari si palesino come
insufficienti ed inadeguati.
L’Amministrazione deve accertare la
sussistenza di una situazione di effettivo
pericolo di danno grave ed imminente per la
incolumità pubblica, non fronteggiabile con
gli ordinari strumenti di amministrazione
attiva, a seguito di approfondita
istruttoria con adeguata motivazione circa
il carattere indispensabile degli interventi
immediati ed indilazionabili imposti a
carico del privati (Cons. St., sez. V 16.02.2010 n. 868): l’accertamento, cioè,
deve fondarsi su prove concrete e non mere
presunzioni (Cons. St., sez. V 11.12.2007 n. 6366).
Nel caso in esame, però, non risulta
desumibile, dai resoconti dei consulenti
incaricati dall’Amministrazione resistente,
alcun elemento di gravità ed imminenza del
pericolo, atteso che, come riportato nella
nota del dott. Tagnin del 15.03.2002,
“non si è in grado di stabilire se il
suddetto inquinamento costituisce o meno un
pericolo per la salute pubblica, o per
l’ambiente naturale o costruito”.
Alla luce di siffatte considerazioni,
l’Amministrazione, a parere di questo
Collegio, avrebbe dovuto esperire attività
di ulteriore indagine integrativa, volta ad
appurare l’effettiva sussistenza dei
summenzionati profili di pericolo: e, solo
in caso di positivo riscontro, avrebbe
potuto procedere all’adozione dell’ordinanza
contingibile ed urgente.
La situazione era inoltre rimediabile
nell’immediato con gli strumenti ordinari, e
in particolare con un ordine di bonifica del
sito inquinato.
Ciò è in linea anche con la tempistica
procedurale degli adempimenti svolti: nel
tempo trascorso dall’accadimento del
sinistro (09.02.2001), all’adozione
dell’ordinanza (30.04.2002), vale a dire
più di un anno, ben avrebbe potuto il Comune
procedere a rilievi più precisi ed
approfonditi.
In definitiva il Comune non ha provveduto in
via di urgenza nell’immediatezza dei fatti,
in una situazione di incertezza e di
rischio, ma a distanza di oltre un anno, in
un’epoca in cui non emergeva più, ove mai vi
fosse stato, un pericolo imminente e
irreparabile, e una situazione di urgenza (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.06.2012 n. 3490 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Le concessioni di lavori pubblici hanno, di
regola, ad oggetto la progettazione
definitiva, la progettazione esecutiva e la
realizzazione di opere pubbliche o di
pubblica utilità, e di lavori ad esse
strutturalmente e direttamente collegati,
nonché la loro gestione funzionale ed
economica (art. 143, primo comma, dlgs
163/2006) e la
controprestazione a favore del
concessionario consiste, di regola,
unicamente nel diritto di gestire
funzionalmente e di sfruttare economicamente
tutti i lavori realizzati.
Da ciò consegue che l’onere di valutare la
convenienza economica dell’operazione ricade
in primo luogo sul concessionario, al quale
spetta accertare se i costi siano
adeguatamente coperti dai ricavi
ragionevolmente prevedibili.
In altri termini, il rapporto di concessione
di lavori pubblici coinvolge una stazione
appaltante ed un imprenditore il quale, in
quanto tale, sopporta il rischio economico
dell’operazione in vista del conseguimento,
necessariamente non garantito, di un utile
patrimoniale adeguato, mentre la stazione
appaltante agisce in vista del conseguimento
di un utile non patrimoniale, consistente
nell’incremento dei servizi a favore della
collettività.
Come in tutte le procedure di evidenza
pubblica anche nella concessione di lavori
pubblici i termini economici del rapporto
devono essere conoscibili da chiunque abbia
interesse all’aggiudicazione, e di regola
non possono essere modificati nel corso del
suo svolgimento in quanto, così facendo,
verrebbe del tutto vanificato lo scopo del
meccanismo concorrenziale di scelta del
contraente.
E’ vero che l’art. 143 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, prevede alcune misure volte a
ripristinare l’equilibrio economico–finanziario del rapporto quando questo non
si sia realizzato in concreto (in
particolare il quarto comma, il quale
prevede che la controprestazione a favore
del concessionario possa essere costituita
anche da un prezzo, e l’ottavo comma, il
quale prevede che la concessione possa avere
una durata superiore a quella massima di
trenta anni), ma si tratta di disposizioni
di cui la stazione appaltante può avvalersi
solo nell’impostare la gara, in modo da
avviare il confronto concorrenziale anche
sulla loro base.
Le stesse norme non consentono invece di
restringere il numero dei candidati
prevedendo clausole tali da ridurre la
convenienza dell’imprenditore, per poi
ripristinare il giusto equilibrio
contrattando esclusivamente con
l’aggiudicatario.
Le concessioni di lavori pubblici hanno, di
regola, ad oggetto la progettazione
definitiva, la progettazione esecutiva e la
realizzazione di opere pubbliche o di
pubblica utilità, e di lavori ad esse
strutturalmente e direttamente collegati,
nonché la loro gestione funzionale ed
economica (art. 143, primo comma) e la
controprestazione a favore del
concessionario consiste, di regola,
unicamente nel diritto di gestire
funzionalmente e di sfruttare economicamente
tutti i lavori realizzati.
Da ciò consegue che l’onere di valutare la
convenienza economica dell’operazione ricade
in primo luogo sul concessionario, al quale
spetta accertare se i costi siano
adeguatamente coperti dai ricavi
ragionevolmente prevedibili.
In altri termini, il rapporto di concessione
di lavori pubblici coinvolge una stazione
appaltante ed un imprenditore il quale, in
quanto tale, sopporta il rischio economico
dell’operazione in vista del conseguimento,
necessariamente non garantito, di un utile
patrimoniale adeguato, mentre la stazione
appaltante agisce in vista del conseguimento
di un utile non patrimoniale, consistente
nell’incremento dei servizi a favore della
collettività.
Come in tutte le procedure di evidenza
pubblica anche nella concessione di lavori
pubblici i termini economici del rapporto
devono essere conoscibili da chiunque abbia
interesse all’aggiudicazione, e di regola
non possono essere modificati nel corso del
suo svolgimento in quanto, così facendo,
verrebbe del tutto vanificato lo scopo del
meccanismo concorrenziale di scelta del
contraente.
E’ vero che l’art. 143 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, prevede alcune misure volte a
ripristinare l’equilibrio economico–finanziario del rapporto quando questo non
si sia realizzato in concreto (in
particolare il quarto comma, il quale
prevede che la controprestazione a favore
del concessionario possa essere costituita
anche da un prezzo, e l’ottavo comma, il
quale prevede che la concessione possa avere
una durata superiore a quella massima di
trenta anni), ma si tratta di disposizioni
di cui la stazione appaltante può avvalersi
solo nell’impostare la gara, in modo da
avviare il confronto concorrenziale anche
sulla loro base.
Le stesse norme non consentono invece di
restringere il numero dei candidati
prevedendo clausole tali da ridurre la
convenienza dell’imprenditore, per poi
ripristinare il giusto equilibrio
contrattando esclusivamente con
l’aggiudicatario.
L’appellante richiama, a sostegno della
propria tesi, l’ultima parte dell’ottavo
comma dell’art. 143, la quale prevede che “i
presupposti e le condizioni di base che
determinano l’equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della
connessa gestione, da richiamare nelle
premesse del contratto, ne costituiscono
parte integrante. Le variazioni apportate
dalla stazione appaltante a detti
presupposti o condizioni di base, nonché le
norme legislative e regolamentari che
stabiliscano nuovi meccanismi tariffari o
nuove condizioni per l’esercizio delle
attività previste nella concessione, quando
determinano una modifica dell’equilibrio del
piano, comportano la sua necessaria
revisione, da attuare mediante
rideterminazione delle nuove condizioni di
equilibrio, anche tramite la proroga del
termine di scadenza delle concessioni. In
mancanza della predetta revisione il
concessionario può recedere dal contratto.
Nel caso in cui le variazioni apportate o le
nuove condizioni introdotte risultino più
favorevoli delle precedenti per il
concessionario, la revisione del piano dovrà
essere effettuata a favore del concedente.
Al fine di assicurare il rientro del
capitale investito e l'equilibrio
economico-finanziario del Piano Economico
Finanziario, per le nuove concessioni di
importo superiore ad un miliardo di euro, la
durata può essere stabilita fino a cinquanta
anni.”
Osserva il Collegio che la norma non è
applicabile nella presente controversia in
quanto volta a disciplinare eventi che si
verificano nel corso del rapporto
concessorio ammettendo la modifica del suo
contenuto, mentre nel caso di specie la
proroga è stata decisa a rapporto esaurito,
quando sarebbe stato necessario indire una
nuova gara, ed ha avuto il contenuto di un
nuovo e distinto contratto, affidato in
difetto di ogni confronto concorrenziale.
Inoltre, i casi nei quali la norma consente
la modifica dei termini del rapporto,
essendo palesemente eccezionali, non
consentono applicazioni estensive, e sono
accomunati dal fatto di avere alla base
circostanze di particolare rilevanza che
sopravvenendo alla stipula del contratto ne
modificano nella sostanza l’attuazione.
Nel caso di specie, invece, presupposto
della proroga è solo la constatazione, “a
posteriori”, di un risultato economico
meno favorevole, per l’imprenditore, di
quello originariamente previsto, per cui non
ricade nell’ambito di applicazione della
disposizione invocata (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.06.2012 n. 3474 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Principio di partecipazione effettiva e
utile al procedimento amministrativo.
Il rispetto delle regole
partecipative cristallizzate dalla citata
legge n. 241/1990 e della ratio che le
anima, impone che la comunicazione di avvio
del procedimento venga effettuata in tempo e
con modalità tali da consentire la
partecipazione influente ed efficace dei
soggetti interessati al processo decisionale
destinato a sfociare nella determinazione
finale potenzialmente lesiva.
Ne deriva che il rispetto formale della
disciplina di legge non esclude l’effetto
invalidante sortito da una condotta
amministrativa che, nel suo complesso,
finisca per impedire una partecipazione
utile da parte del soggetto portatore di un
interesse giuridicamente qualificato e
differenziato.
Con riguardo alla censura volta a
stigmatizzare la violazione del principio di
partecipazione effettiva e utile al
dispiegarsi del procedimento amministrativo,
il Collegio non reputa condivisibile
l’assunto sostenuto dal Primo Giudice
secondo cui l’amministrazione avrebbe
correttamente rispettato la disciplina di
cui agli artt. 7 e seguenti della legge n.
241/1990 mentre esulerebbe dall’alveo della
partecipazione obbligatoria sancita dalla
legge la pretesa dell’appellante di
interloquire con la Commissione Tecnica al
fine di fornire il proprio apporto nel corso
dei lavori sfocati nella relazione posta a
fondamento del provvedimento di revoca.
Osserva, in via preliminare, la Sezione che
il rispetto delle regole partecipative
cristallizzate dalla citata legge n.
241/1990 e della ratio che le anima,
impone che la comunicazione di avvio del
procedimento venga effettuata in tempo e con
modalità tali da consentire la
partecipazione influente ed efficace dei
soggetti interessati al processo decisionale
destinato a sfociare nella determinazione
finale potenzialmente lesiva. Ne deriva che
il rispetto formale della disciplina di
legge non esclude l’effetto invalidante
sortito da una condotta amministrativa che,
nel suo complesso, finisca per impedire una
partecipazione utile da parte del soggetto
portatore di un interesse giuridicamente
qualificato e differenziato (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 13.06.2012 n. 3470 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
E' illegittimo il criterio
seguito da un comune di limitare la
partecipazione alla procedura negoziata per
l'affidamento di un incarico di
progettazione e direzione lavori soltanto ai
professionisti che operano nel territorio
comunale.
Il principio di non discriminazione impone
che tutti i potenziali offerenti siano posti
in condizioni di eguaglianza e non consente,
quindi, limitazioni di accesso al mercato "ratione
loci", ovvero in ragione dell'ubicazione
della sede in un determinato territorio.
Pertanto, nel caso di specie, la scelta del
comune di limitare la partecipazione alla
procedura negoziata, senza previa
pubblicazione del bando, per l'affidamento
di un incarico di progettazione e direzione
lavori per la costruzione di una struttura
polifunzionale d'interesse comprensoriale
destinata ad attività sportive e ricreative,
ai professionisti locali, non supportata da
un'indagine volta a verificare le
professionalità più qualificate con riguardo
all'oggetto della procedura, si è
sostanziata in una limitazione territoriale
aprioristica in contrasto con i principi
comunitari in tema di tutela della
concorrenza, di libertà di stabilimento e di
libera prestazione dei servizi.
La valorizzazione di detto dato territoriale
costituisce, quindi, una barriera di accesso
in contrasto con i principi comunitari volti
a garantire l'affermazione di un mercato
comune libero da restrizioni discriminatorie
collegate alla nazionalità o alla sede
formale (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.06.2012 n. 3469 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI - ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sussiste la legittimazione degli
Ordini ad impugnare gli atti delle procedure
di evidenza pubblica quando l’interesse
fatto valere sia quello all’osservanza di
prescrizioni a garanzia della par condicio
dei partecipanti, nonostante che in fatto
dalla procedura selettiva sia stato
avvantaggiato un singolo professionista.
Non può negarsi che fra gli interessi
istituzionali dell’Ordine vi è anche quello
di assicurare il pieno aspetto della par
condicio nell’esercizio dell’attività
professionale, e quindi non può neanche
negarsi la legittimazione a far valere in
giudizio tale interesse anche nei confronti
di iscritti che si ritiene possano operare
professionalmente in dispregio di tale
principio di parità.
Detta linea argomentativa si sposa con il
rilievo dottrinale secondo cui l’interesse
collettivo non s’identifica nella sommatoria
degli interessi individuali degli associati
ma si compendia nella sintesi degli stessi
in un interesse collettivo qualitativamente
diverso da quelli dei singoli. Ne deriva
l’insussistenza di alcuna incompatibilità,
logica e giuridica, tra lesione
dell’interesse astratto della collettività e
beneficio arrecato all’interesse
individuale.
Non coglie nel segno la prima censura volta
a dedurre il difetto di legittimazione degli
Ordini professionali in ragione del
contrasto sussistente tra gli interessi
degli iscritti invitati alla procedura di
selezione del contraente e gli interessi
degli altri professionisti rappresentati.
Ad avviso della Sezione la ricorrenza di
tale supposto conflitto va verificata in
relazione all’interesse istituzionale
astrattamente perseguito, con la conseguenza
che l’ente esponenziale, chiamato alla
tutela dell’interesse collettivo
inscindibilmente traguardato e non alla
sostituzione processuale dei singoli
portatori degli interessi individuali, è
legittimato a reagire avverso i
provvedimenti lesivi dell’interesse della
collettività senza che assuma rilievo il
vantaggio tratto dagli specifici
professionisti iscritti.
Merita condivisione, al riguardo, la
pronuncia dell’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato n. 10 del 03.06.2011,
che ha riconosciuto la legittimazione dell’Ordine in caso di conflitto tra l’interesse
istituzionale leso dall’atto ed il beneficio
contingente ricavato dai singoli
professionisti.
In questa prospettiva è stata riconosciuta
la legittimazione degli Ordini ad impugnare
gli atti delle procedure di evidenza
pubblica quando l’interesse fatto valere sia
quello all’osservanza di prescrizioni a
garanzia della par condicio dei
partecipanti, nonostante che in fatto dalla
procedura selettiva sia stato avvantaggiato
un singolo professionista.
Ad avviso dell’Adunanza è appunto all’
“interesse istituzionalizzato” che occorre
far riferimento.
Difatti, “non può negarsi che fra gli
interessi istituzionali dell’Ordine vi è
anche quello di assicurare il pieno aspetto
della par condicio nell’esercizio
dell’attività professionale, e quindi non
può neanche negarsi la legittimazione a far
valere in giudizio tale interesse anche nei
confronti di iscritti che si ritiene possano
operare professionalmente in dispregio di
tale principio di parità”.
Detta linea argomentativa si sposa con il
rilievo dottrinale secondo cui l’interesse
collettivo non s’identifica nella sommatoria
degli interessi individuali degli associati
ma si compendia nella sintesi degli stessi
in un interesse collettivo qualitativamente
diverso da quelli dei singoli. Ne deriva
l’insussistenza di alcuna incompatibilità,
logica e giuridica, tra lesione
dell’interesse astratto della collettività e
beneficio arrecato all’interesse
individuale.
Applicando dette coordinate ermeneutiche al
caso di specie si deve concludere nel senso
della legittimazione degli Ordini a reagire
avverso provvedimenti lesivi dell’interesse
istituzionale degli enti esponenziali a
garantire la par condicio, il favor partecipationis
e il superamento di misure limitative della
concorrenza, senza che assumano rilievo, in
senso ostativo, i vantaggi tratti dai
singoli professionisti per effetto
dell’adozione di atti lesivi di detti valori (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.06.2012 n. 3469 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Condannato il dirigente che
consente l’esodo dei dipendenti dopo aver
ricevuto la notizia della morte di una
collega: è interruzione di pubblico
servizio.
A deciderlo è stata la recente sentenza
12.06.2012 n. 22294 della Corte di
Cassazione con cui i giudici di legittimità
hanno confermato la responsabilità del
dirigente di un ufficio pubblico, reo di
aver fatto andare via i dipendenti e di aver
fatto affiggere sulla porta il cartello «chiuso
per lutto».
Così un ufficio pubblico di Palermo,
solitamente molto frequentato, chiude i
battenti e gli utenti si lamentano del
disservizio.
La notizia della morte improvvisa di una
collega sconvolge i dipendenti, e costoro si
recano nell’ufficio del responsabile della
sede e annunciano, in assemblea, di
volersene andare dopo la pausa pranzo.
Il dirigente non riesce a dissuaderli, e a
sua volta si reca a casa propria,
disapprovando comunque il gesto, dopo aver
chiesto alla portineria di affiggere il
cartello.
Non basta ad evitare la condanna, anzi
peggiora le cose: ad avviso dei giudici era
dovere del responsabile chiarire sin dal
principio che l’esodo di massa non sarebbe
stato tollerato e che le eventuali assenze
per ragioni di salute sarebbero state
giustificate solo con la presentazione di un
permesso.
Quindi, mentre i dipendenti sono assolti, il
capo dell’ufficio viene condannato per
interruzione di un pubblico servizio,
aggravata dalla violazione dei doveri
inerenti ad un pubblico servizio (commento
tratto da www.diritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In materia di diritto di accesso
ai dati concernenti persone decedute.
Va, in primo luogo, considerato il quadro
normativo.
In materia di diritto di accesso
ai dati concernenti persone decedute deve
farsi riferimento alle disposizioni
dell’art. 9, comma 3, del codice per la
tutela dei dati personali, che disciplinano
in modo diretto l’esercizio del diritto di
accesso per le informazioni relative a
persone decedute, prevedendo che essi
possono essere esercitati da chi ha un
interesse proprio o agisce a tutela
dell’interessato o per motivi familiari
meritevoli di tutela.
Tale disciplina regola
anche l’accesso alle cartelle cliniche, dal
momento che non può trovare applicazione la
disciplina specificamente prevista in
materia dall’articolo 92 del medesimo
codice, la quale consente l’accesso alle
cartelle cliniche solo a persone diverse
dall’interessato che possono far valere un
diritto della personalità o altro diritto di
pari rango. Se dovesse applicarsi questa
disposizione anche dopo la morte, neppure i
più stretti congiunti potrebbero accedere ai
dati personali del defunto in assenza dei
presupposti richiesti dalla norma, con
conseguenze paradossali e, comunque, del
tutto opposte alle tesi degli appellanti.
Non è neppure utile il richiamo per analogia
all’articolo 82 del medesimo codice, che
regola la diversa situazione della
prestazione del consenso al trattamento dei
dati personali in caso di impossibilità
fisica o giuridica dell’interessato e che
prevede che il consenso possa essere
fornito, in assenza di chi esercita la
potestà legale, da un prossimo congiunto, da
un familiare, da un convivente o, in loro
assenza, dal responsabile della struttura
presso cui dimora l'interessato.
La disciplina dell’articolo 9 del codice
regola, invece, compiutamente ed
esaustivamente la questione del trattamento
dei dati personali delle persone decedute,
in quanto indica chi può esercitare
l’insieme dei diritti previsti dall’art. 7
dello stesso codice, il quale, nel
disciplinare il trattamento dei dati
medesimi, considera non solo le posizioni
soggettive di chi può esercitare il diritto
di accesso, ma anche quello di chi può
opporsi ad esso.
Si può, dunque, concludere su questo punto
condividendo (in parte qua) la tesi
sostenuta dagli appellanti, anche sulla
scorta della richiamata giurisprudenza del
Consiglio di Stato, per la quale sopravvive
una forma di tutela dei dati sensibili –come
altre forme di tutela- anche dopo la morte,
ma nelle forme specifiche e diverse previste
dall’art. 9, che individua puntualmente gli
interessi che possono bilanciare gli
interessi di terzi ad accedere ai dati
personali: la tutela del defunto e ragioni
familiari meritevoli di protezione (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.06.2012 n. 3459 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'art. 83, comma 4, del D.Lgs. 12.04.2006
n. 163, nello stabilire che il bando di
gara, per ciascun criterio di valutazione
prescelto, può prevedere, ove necessario,
sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi, ha
effettuato una scelta che trova
giustificazione nell'esigenza di ridurre gli
apprezzamenti soggettivi della commissione
giudicatrice, garantendo in tale modo
l'imparzialità delle valutazioni nella
essenziale tutela della par condicio tra i
concorrenti, i quali sono tutti messi in
condizione di formulare un'offerta che
consenta di concorrere effettivamente alla
aggiudicazione del contratto in gara.
Quanto alla valutazione delle offerte da
parte della commissione di gara pubblica,
l'attribuzione dei punteggi in forma
soltanto numerica può essere consentita solo
quando il numero delle sottovoci, con i
relativi punteggi, entro i quali ripartire i
parametri di valutazione di cui alle singole
voci, sia sufficientemente analitico da
delimitare il giudizio della commissione
nell'ambito di un minimo e di un massimo,
rendendo così evidente l'iter logico seguito
nel valutare i singoli progetti sotto il
profilo tecnico, in applicazione di puntuali
criteri predeterminati, controllandone la
logicità e la congruità essendo altrimenti
necessaria una puntuale motivazione del
punteggio attribuito.
Se non può dubitarsi dell’ampio potere
discrezionale di cui è titolare una
commissione di gara per l’affidamento di un
appalto pubblico nella valutazione delle
offerte proprio per la scelta del miglior
contraente, non può tuttavia negarsi che, in
omaggio ai principi fondamentali che
regolano l’azione amministrativa, come
predicati dall’articolo 97 della
Costituzione, l’esercizio di tale potere per
non trasmodare in mero arbitrio deve poter
essere sempre sindacabile quantomeno sotto
il profilo della logicità, razionalità e
ragionevolezza: ciò può avvenire,
allorquando difettino obiettivi criteri
predeterminati che possano guidare,
indirizzare e rendere perciò manifestamente
comprensibile il concreto esercizio del
predetto potere discrezionale, solo
attraverso la motivazione della valutazione
effettuata, cioè attraverso la puntuale
indicazione delle ragioni di fatto che hanno
giustificato la determinazione.
Secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, da cui non vi è motivo
per discostarsi, l'art. 83, comma 4, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, nello
stabilire che il bando di gara, per ciascun
criterio di valutazione prescelto, può
prevedere, ove necessario, sub-criteri e
sub-pesi o sub-punteggi, ha effettuato una
scelta che trova giustificazione
nell'esigenza di ridurre gli apprezzamenti
soggettivi della commissione giudicatrice,
garantendo in tale modo l'imparzialità delle
valutazioni nella essenziale tutela della
par condicio tra i concorrenti, i quali sono
tutti messi in condizione di formulare
un'offerta che consenta di concorrere
effettivamente alla aggiudicazione del
contratto in gara (C.d.S., sez. III, 22.03.2011, n. 1749).
E’ stato anche ripetutamente affermato che
quanto alla valutazione delle offerte da
parte della commissione di gara pubblica,
l'attribuzione dei punteggi in forma
soltanto numerica può essere consentita solo
quando il numero delle sottovoci, con i
relativi punteggi, entro i quali ripartire i
parametri di valutazione di cui alle singole
voci, sia sufficientemente analitico da
delimitare il giudizio della commissione
nell'ambito di un minimo e di un massimo,
rendendo così evidente l'iter logico seguito
nel valutare i singoli progetti sotto il
profilo tecnico, in applicazione di puntuali
criteri predeterminati, controllandone la
logicità e la congruità essendo altrimenti
necessaria una puntuale motivazione del
punteggio attribuito (C.d.S., sez. III, 11.03.2011, n. 1583; sez. V, 17.01.2011, n. 222;
03.12.2010, n. 8410; 16.06.2010, n. 3806; 09.04.2010, n.
1999; 29.12.2009, n. 8833; 11.05.2007 n. 2355).
Nel caso di specie, come esattamente
rilevato dai primi giudici, con motivazione
accurata e condivisibile, nella lex
specialis della gara non sono stati tuttavia
individuati, per ogni criterio di
valutazione dell’offerta, eventuali
specifici sub – criteri e sub – pesi, solo
in presenza dei quali la sola attribuzione
del punteggio può costituire idonea
motivazione della valutazione operata dalla
commissione.
Infatti, come già accennato nell’esposizione
in fatto, il bando di gara, al punto 3, dopo
aver stabilito che l’aggiudicazione sarebbe
stata effettuata con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
ai sensi dell’art. 83 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, ha pure individuato i
parametri di valutazione, limitandosi
tuttavia per ognuno di essi [indicati in: 1)
Modalità operative delle prestazioni oggetto
del servizio, punti 50/100 (la capacità
organizzativa, la metodologia e la tecnica
per la gestione dei sinistri: suddivisione,
contenuto e tempistica delle fasi
metodologiche; la tecnica e a tempistica di
esecuzione del servizio di consulenza
globale in materia assicurativa dell’Ente;
sistema di analisi e valutazione dei rischi,
capacità di proporre alternative e soluzioni
variabili con l’obiettivo di conseguire
economie di spese); 2) organizzazione
interna dedicata al Comune di Reggio Emilia
intesa come struttura organizzativa, sede
operativa, personale dedicato, attrezzature
e metodologie informatiche, punti 15/100;
piano di formazione ed aggiornamento del
personale dell’Ente, punti 10/100; 4)
servizi aggiuntivi, punti 25/100] a
prevedere il punteggio massimo attribuibile,
senza alcuna ulteriore specificazione di sub–criteri o di sub–punteggi, ed
attribuendo così alla commissione di gara un
notevolissimo potere discrezionale; tali
parametri di valutazione sono stati
pedissequamente riportati e ribaditi
nell’articolo 8 del capitolato speciale
d’appalto.
In tale situazione, ad avviso della Sezione,
era indispensabile ai fini della legittimità
della valutazione delle offerte presentate
(e dell’attribuzione dei punteggi per i
singoli parametri) la puntuale esternazione
delle ragioni che avevano indotto la
commissione di gara ad attribuire i punteggi
contestati, non solo per permettere, in
astratto, la ricostruzione dell’iter logico–giuridico seguito dalla commissione, ma
soprattutto per consentire l’effettivo
esercizio della tutela giurisdizionale nei
confronti degli atti della pubblica
amministrazione, ai sensi degli artt. 24 e
113 della Costituzione.
Infatti, se non può dubitarsi dell’ampio
potere discrezionale di cui è titolare una
commissione di gara per l’affidamento di un
appalto pubblico nella valutazione delle
offerte proprio per la scelta del miglior
contraente, non può tuttavia negarsi che, in
omaggio ai principi fondamentali che
regolano l’azione amministrativa, come
predicati dall’articolo 97 della
Costituzione, l’esercizio di tale potere per
non trasmodare in mero arbitrio deve poter
essere sempre sindacabile quantomeno sotto
il profilo della logicità, razionalità e
ragionevolezza: ciò può avvenire,
allorquando difettino obiettivi criteri
predeterminati che possano guidare,
indirizzare e rendere perciò manifestamente
comprensibile il concreto esercizio del
predetto potere discrezionale, solo
attraverso la motivazione della valutazione
effettuata, cioè attraverso la puntuale
indicazione delle ragioni di fatto che hanno
giustificato la determinazione (attribuzione
del punteggio) assunta (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.06.2012 n. 3455 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla finalità dell'art. 83 c.4,
del D.Lgs. n.163/06, che stabilisce che il
bando per ciascun criterio di valutazione
prescelto, può prevedere, ove necessario,
sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi.
L'art. 83, c. 4, del D.Lgs. 12.04.2006 n.
163, nello stabilire che il bando di gara,
per ciascun criterio di valutazione
prescelto, può prevedere, ove necessario,
sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi, ha
effettuato una scelta che trova
giustificazione nell'esigenza di ridurre gli
apprezzamenti soggettivi della commissione
giudicatrice, garantendo in tale modo
l'imparzialità delle valutazioni nella
essenziale tutela della par condicio tra i
concorrenti, i quali sono tutti messi in
condizione di formulare un'offerta che
consenta di concorrere effettivamente alla
aggiudicazione del contratto in gara.
Inoltre, quanto alla valutazione delle
offerte da parte della commissione di gara
pubblica, l'attribuzione dei punteggi in
forma soltanto numerica può essere
consentita solo quando il numero delle
sottovoci, con i relativi punteggi, entro i
quali ripartire i parametri di valutazione
di cui alle singole voci, sia
sufficientemente analitico da delimitare il
giudizio della commissione nell'ambito di un
minimo e di un massimo, rendendo così
evidente l'iter logico seguito nel valutare
i singoli progetti sotto il profilo tecnico,
in applicazione di puntuali criteri
predeterminati, controllandone la logicità e
la congruità essendo altrimenti necessaria
una puntuale motivazione del punteggio
attribuito (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.06.2012 n. 3445 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sul cittadino leso da un
provvedimento illegittimo della P.A. non
ricade un particolare onere probatorio:
l'illegittimità dell'atto costituisce un
indice presuntivo della colpa della P.A..
Il privato danneggiato
da un provvedimento illegittimo per
dimostrare la colpa dell’Amministrazione può
limitarsi ad allegare l'illegittimità
dell'atto.
La precisazione proviene dalla V Sez. del
Consiglio di Stato,
sentenza 12.06.2012 n. 3444, laddove
chiarisce che per lo stesso è possibile
avvalersi, al fine della prova dell'elemento
soggettivo, delle regole di comune
esperienza e della presunzione semplice di
cui all'art. 2727 c.c..
Ne deriva che ricade sull'Amministrazione
l’onere di dimostrare, se del caso, che si è
verificato un errore scusabile.
Quest’ultimo è configurabile per i giudici
di legittimità nei seguenti casi:
a) contrasti giurisprudenziali
sull'interpretazione di una norma;
b) formulazione incerta di norme da poco
entrate in vigore;
c) rilevante complessità del fatto;
d) influenza determinante di comportamenti
di altri soggetti;
e) illegittimità derivante da una successiva
dichiarazione di incostituzionalità della
norma applicata.
Nella fattispecie in esame, tuttavia, non è
stata riscontrata la presenza di nessuno dei
predetti fattori esimenti, non avendo la
parte onerata addotto alcuna precisa e
significativa incertezza interpretativa che
potesse giustificare il suo operato dannoso.
Di qui la condanna al risarcimento danni per
la mancata aggiudicazione dell’appalto al
ricorrente (commento tratto da
www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Dipendente videosorvegliato se ha
prestato il consenso.
Non commette reato l'imprenditore che
videosorveglia i dipendenti, dopo avergli
fatto firmare un foglio di autorizzazione.
Ciò anche in assenza di un accordo con le
rappresentanze sindacali.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez.
III penale, che, con la
sentenza
11.06.2012 n. 22611, ha assolto una
imprenditrice di Pisa che aveva fatto
installare due telecamere dietro due
dipendenti, previa sottoscrizione di
un'autorizzazione. Dunque, mentre fino a
qualche tempo fa la giurisprudenza di
legittimità aveva sempre condannato questi
controlli troppo invadenti da parte
dell'azienda chiedendo come requisito
l'accordo con le RSU, ora è sufficiente una
firma del lavoratore.
Sul punto la terza sezione penale ha
spiegato che se è vero che la disposizione
contenuta nell'articolo 4 dello Statuto dei
lavoratoti intende tutelarli contro forme
subdole di controllo della loro attività da
parte del datore e che tale rischio viene
escluso in presenza di un consenso di
organismi di categoria rappresentativi (Rsu
o commissione interna), a maggior ragione,
tale consenso deve essere considerato
validamente prestato quando arriva proprio
da tutti i dipendenti.
Questo modo di pensare non è, del resto,
neppure in contrasto con la enunciazione di
questa S.C. (sez. terza del 2006) - secondo
cui «integrano il reato di cui agli artt.
4 e 38 L. 300/1970 anche gli impianti
audiovisivi non occulti essendo sufficiente
la semplice idoneità del controllo a
distanza dei lavoratori». Ciò perché
anche in tale motivazione si è sottolineato
che ciò vale sempre che avvenga «senza
accordo con le rappresentanze sindacali».
Come a ribadire, cioè, che l'esistenza di un
consenso validamente prestato da parte di
chi sia titolare del bene protetto, esclude
la integrazione dell'illecito.
«A tale stregua, pertanto, l'evocazione
-nella decisione impugnata- del principio
giurisprudenziale appena citato risulta non
pertinente e legittima il convincimento che
il giudice di merito abbia dato della norma
una interpretazione eccessivamente formale e
meccanicistica limitandosi a constatare
l'assenza del consenso delle RSU o di una
commissione interna ed affermando, pertanto,
l'equazione che ciò dava automaticamente
luogo alla infrazione contestata».
In tal modo, però, egli ha ignorato il dato
obiettivo (peraltro di provenienza non
sospetta, visto che sono stati gli stessi
ispettori del lavoro a riportarlo) che
l'odierna ricorrente aveva acquisito il
consenso di tutti i dipendenti
(articolo ItaliaOggi
del 12.06.2012). |
APPALTI:
Qualora la formulazione o il significato di
una clausola inserita nel bando di gara
incida direttamente sulla formulazione
dell'offerta, impedendone la corretta e
consapevole elaborazione, non solo sussiste
la possibilità di contestare l'effetto
lesivo di essa, subito e senza attendere
l'esito della gara, ma non vi è neanche la
necessità di porre a carico di colui che
intenda contestarla un onere di
partecipazione alla relativa procedura. Ciò
in quanto il predetto soggetto pone in
discussione specifiche disposizioni della
lex specialis di gara, che egli
correttamente, se e nella misura in cui
risultino poi viziate, ritiene tali da
impedirgli l'utile presentazione
dell'offerta e, dunque, risultano
sostanzialmente impeditive della sua
partecipazione alla gara.
---------------
La legittimazione al ricorso avverso gli
atti d'una gara ad evidenza pubblica, salvo
puntuali eccezioni, spetta a chi in modo
regolare e legittimo partecipi alla gara
stessa, dato che solo a siffatta qualità si
connette la titolarità, nel procedimento
concorsuale ed in via d'azione, di una
posizione soggettiva sostanziale
differenziata e meritevole di tutela. Quanto
detto non è, tuttavia, conforme alla piena
esplicazione del diritto alla difesa e del
diritto di libertà d'iniziativa economica
privata, nonché del principio di libera
concorrenza, nel caso in cui si subordini la
legittimazione di un dato operatore, leso
sostanzialmente in via immediata da una
clausola che gli preclude la partecipazione
alla gara, alla presentazione d'una domanda
che ne comporterebbe l'esclusione.
È ben noto che
(arg. ex Cons. St., ad. plen., 07.04.2011 n.
4), di regola, la legittimazione al ricorso
avverso gli atti d’una gara ad evidenza
pubblica, salvo puntuali eccezioni, spetta a
chi in modo regolare e legittimo partecipi
alla gara stessa, ché solo a siffatta
qualità si connette la titolarità, nel
procedimento concorsuale ed in via d’azione,
di una posizione soggettiva sostanziale
differenziata e meritevole di tutela.
Poiché la legittimazione al ricorso va
collegata necessariamente ad una situazione
differenziata, in modo certo, per effetto
della partecipazione alla gara, solo tre
sono le varianti a tal regola, ciascuna
delle quali connotata da valori giuridici di
pari rango a quelli testé affermati dalla
giurisprudenza. Tra queste, ai presenti
fini, spicca il caso della legittimazione
dell’operatore economico che si rivolge nei
confronti d’una o più clausole escludenti.
In tal caso, ossia ove la clausola è di
tenore tale da precludere la partecipazione
alla gara, ben si comprende come adempimento
inutile, se non mero formalismo, s’appalesi
la presentazione della domanda di
partecipazione quale prova di legittimazione
dell’operatore, con conseguente
appesantimento della tutela di questi,
obbligato ad aspettare l'esclusione dalla
gara, onde impugnare pure tal provvedimento,
in realtà meramente confermativo della
lesione prodottasi con la clausola stessa
(arg. ex Cons. St., V, 05.10.2011 n. 5454).
Non sfugge d’altronde al Collegio come non
sia conforme alla piena esplicazione del
diritto alla difesa e del diritto di libertà
d’iniziativa economica privata, nonché del
principio di libera concorrenza, subordinare
la legittimazione dell’operatore, leso
sostanzialmente in via immediata da una
clausola che gli preclude la partecipazione
alla gara, la presentazione d’una domanda
che ne comporterebbe l'esclusione (cfr.
Cons. St., V, 20.04.2012 n. 2339). Né il
Collegio è alieno dal considerare,
anzitutto, che onerano l’interessato alla
loro immediata impugnazione soltanto le
clausole che prescrivano in modo inequivoco
requisiti d’ammissione o di partecipazione
alla gara, con riguardo sia a requisiti
soggettivi, sia a situazioni di fatto, la
carenza dei quali determina subito l'effetto
escludente (cfr. Cons. St., VI, 08.07.2010
n. 4437; id., V, 19.09.2011 n. 5323). Per
altro verso, la lesione de qua si verifica
non solo nel caso, per vero alquanto raro,
di clausola discriminatoria, ma pure in
tutti quelli in cui la clausola, pur non
apparendo escludente o quand’anche formulata
in modo positivo, in realtà dissimuli una
fattispecie di (indebita, irrazionale,
sproporzionata, ecc.) restrizione
all’accesso alla gara e, quindi, alla
conseguente tutela.
Avverte nondimeno la giurisprudenza
(arg. ex Cons. St., VI, 18.09.2009 n. 5626)
che, fermo l’onere d’impugnazione avverso le
clausole immediatamente lesive, quest’ultima
è pur sempre subordinata ad un'accurata
analisi della singola fattispecie che metta
in luce, tra gli altri aspetti, pure il
contenuto della clausola sospetta
d’illegittimità, il tipo di vizio dedotto
dalla parte ricorrente e l' interesse
manifestato dall'operatore.
Ebbene, è vero che l’accesso alla tutela (recte,
alle procedure di ricorso in tema di appalti
pubblici), come ben evincesi dall’art. 1, §
3) della dir. n. 66/2007/CE, è consentito
anche solo a fronte del rischio della
lesione, ma ciò serve, e di questo la
giurisprudenza ed il Collegio sono
consapevoli, essenzialmente ad ammettere
l’immediata impugnazione del bando nei casi
discriminatori.
Tra questi ultimi rientrano pure le
situazioni in cui la clausola sia, come nel
caso in esame, escludente non in sé, né per
categorie predefinite di soggetti, ma
secondo la prospettazione di taluni di
questi soggetti che, pur godendo in linea di
principio dei requisiti per l’ammissione
alla gara, non vi possano accedere in
concreto per l’effetto restrittivo che la
clausola determina verso alcune scelte
economiche che essi vorrebbero introdurre
nella procedura di gara. Ma se la clausola è
asserita discriminatoria o restrittiva
secondo l’assunto dell’operatore o, il che è
lo stesso, con riguardo ad un aspetto
peculiare della stessa, non vien meno per
ciò solo la delibazione del concreto
interesse differenziato, ossia sul bisogno
giuridico di partecipazione alla gara in
quello ed in quel solo peculiare modo.
Poiché quest’ultimo è ontologicamente
diverso dal vizio dedotto, ossia dalla
erroneità oggettiva della clausola che si
assume lesiva, affinché il bisogno di tutela
non trasmuti in una censura di diritto
oggettivo o meramente emulativa, occorre
fornire un serio principio di prova da cui
evincasi, con pari rigore argomentativo, che
l’effetto preclusivo dell’ATI “sovrabbondante”
non corrisponda solo ad una generica
difficoltà nell’offerta, ma impedisca la
realizzazione d’un progetto di affare
economico (purpose of business).
Nella specie l’appellata ha allegato,
nel ricorso di primo grado e quale motivo
per chiedere l’esercizio dell’autotutela da
parte della Regione, di «… essere
primaria azienda, con capacità economiche …
e che opera da anni nel settore del lavanolo
ospedaliero…» e di essere «…
fortemente interessata alla gara di che
trattasi…», ritenendo tuttavia preclusa
la possibilità di partecipazione alla gara
dalla clausola escludente le ATI c.d. “sovrabbondanti”.
Come si vede, tal assunto non è che una, per
vero assai generica, affermazione di
dispiacere verso la clausola stessa, non già
un, sia pur succinto, argomento dimostrativo
dell’esistenza o della concreta probabilità
di un progetto di ATI e di offerta
conseguente.
Non ha fornito l’appellata, in primo grado,
alcun serio di principio di prova che, ai
fini d’una ragionevole probabilità d’offerta
competitiva, che quest’ultima potesse
scaturire soltanto da un’ATI “sovrabbondante”
con una o più imprese parimenti qualificate
e diversamente allocate nel territorio, sì
da pervenire ad assetti economici
soddisfacenti.
E tal esigenza di dimostrazione d’un
progetto d’offerta, atto a qualificare
l’interesse vantato quale necessario prius
logico rispetto alla valutazione
dell’eventuale illegittimità della clausola,
s’appalesa ancor più significativa, se si
considera la complessità, oggettiva e
territoriale, del servizio da rendere, che
avrebbe dovuto per vero indurre ogni impresa
a dire la ragione per cui a tal fine sarebbe
dovuta occorrere, tra le possibili opzioni
economiche, un’ATI “sovrabbondante”.
Non a caso, l’appellata s’è posta, come
d’altra parte e per altre e parimenti
significative ragioni hanno fatto altre
imprese comunque interessate alla gara
stessa (come l’interventrice LAVIN s.p.a.),
il problema d’una più approfondita ed
accurata allegazione in ordine all’interesse
ad agire. Queste ultime hanno affermato,
senza indicare per forza il contenuto di
un’offerta vera e propria, di aver
sottoposto al Giudice adito una bozza di
offerta realmente concorrenziale, se del
caso o elaborando documenti provenienti
dalle Aziende sanitarie del Lazio o
dimostrando come dall’eventuale ATI “sovrabbondante”
con una o più imprese allocate od operanti
nella medesima Regione potesse scaturire un
progetto d’offerta efficace ed appetibile.
Solo con la memoria depositata l’11.01.2012,
l’appellata ha indicato, per la prima volta
ed in appello, l’intenzione di costituire
un’ATI con la controllante SERVIZI ITALIA
s.r.l., anch’essa autonomamente
qualificabile alla gara, per proporre
un’offerta in linea di principio efficace e
competitiva. Ma ciò dimostra che tal
allegazione, in disparte la sua sufficienza
in sé, non fu fornita nell’opportuna sede e
che non può esser utilizzata solo qui, in
sede di appello.
Come si vede, non è in discussione
l’erroneità in sé, o meno, della scelta di
non ammettere ATI “sovarabbondanti”
alla gara in questione, né tampoco se una
stazione appaltante abbia, da sola, titolo
legittimo ad assumere regole più o meno
pro-competitive nell’ambito d’una singola
procedura ad evidenza pubblica, ma come
valore assoluto e senza alcun collegamento,
logico e/o giuridico, con l’utilità sperata
dall’esecuzione dell’appalto.
Invero, si può anche ritenere che una scelta
siffatta, ossia la limitazione a priori alle
imprese della facoltà d’un tipo di ATI per
ragioni antitrust, non risponda di per sé
sola ad alcuna reale esigenza sottesa
all’evidenza pubblica, soprattutto se
meramente astratta, non proporzionata al
concreto oggetto dell’appalto e non
suffragata da gravi indizi di intese di
cartello tra le imprese. È, questo, il caso
indicato da Cons. St., VI, 19.06.2009 n.
4145, richiamato da Cons. St., VI,
18.01.2011 n. 351 (ord.za) per provocare la
pronuncia di Ad. plen. n. 4/2011, fermo, al
riguardo, restando anche l’ormai risalente
parere dell’AGCM del 2003 sulle limitazioni
delle ATI “sovrabbondanti” alle gare
ad evidenza pubblica.
Pare tuttavia al Collegio che, a tutto
concedere, la facoltà delle stazioni
appaltanti di non ammettere queste ultime
alle gare, non essendo basata su norme
imperative (arg. ex CGA, 04.07.2011 n. 474)
e non potendo esser statuita in via pretoria
(cfr. Cons. St., VI, 20.02.2008 n. 588),
resta allora soggetta agli ordinari canoni
di proporzionalità e di ragionevolezza, sia
in sé, sia con riguardo ed all’oggetto
dell’appalto ed alla predetta utilità
sperata.
Sicché, assodato che la tutela della
concorrenza nell’evidenza pubblica va
governata all’interno della gara e per il
conseguimento del risultato economico che il
soggetto aggiudicatore si prefigge, non si
può ritenere collusiva un’ATI “sovrabbondante”
per il sol fatto che si presenti ad una gara
pubblica. L’accordo associativo per tali
ATI, come ogni rapporto tra privati, in
realtà è neutro e, come tale, soggiace alle
ordinarie regole sulla liceità e la
meritevolezza della causa e non può dirsi di
per sé contrario al confronto concorrenziale
proprio dell’evidenza pubblica. Insomma,
elidere senz’altro la possibilità di ATI “sovrabbondante”,
in assenza di motivate ragioni direttamente
incidenti sulle esigenze concorrenziali
della gara, soprattutto in gare, come quella
per cui è causa, complesse ed articolate,
potrebbe anche comprimere in modo eccessivo
facoltà dell’imprenditore per ragioni non
basate sull’art. 41 Cost. ed anche non
consentire quelle virtuose aggregazioni
commisurate a tali esigenze reali.
Ma, se tutto questo può giustificare
una censura sulla scelta operata dalla
lex specialis, da esso non si può
direttamente inferire null’altro che
l’immediata impugnabilità della clausola,
non certo la prova sulla differenziazione
dell’interesse del soggetto che l’impugna.
Non basta predicare l’illegittimità, ma
occorre dar contezza che l’interesse
azionato sia non già di mero fatto o, il che
è in pratica lo stesso, basato su una mera
ipotesi di possibile ed eventuale ATI “sovrabbondante”
con terzi. Occorre che l’interesse sia
qualificato dalla dimostrazione d’una seria
chance di offerta spendibile in quella gara
coeteris paribus e senza dover
attendere l’eventuale rinnovazione di essa.
Altrimenti, tal interesse non è diverso da
quello di qualsiasi altro operatore del
settore che non ha inteso partecipare alla
gara stessa per i più diversi motivi e che,
pur tuttavia, spera nella caducazione
dell'intera selezione
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 11.06.2012 n.
3402 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Circolari amministrative.
Le circolari sono atti
diretti agli organi e uffici periferici
ovvero sottordinati e che non hanno di per
sé valore normativo o provvedimentale o
comunque vincolante per i soggetti estranei
all’Amministrazione. Per gli organi e uffici
destinatari delle circolari, queste ultime
sono vincolanti solo se legittime, di talché
è doverosa, da parte degli stessi, la
disapplicazione delle circolari che siano
contra legem.
Ne consegue che le circolari non rivestono
una rilevanza determinante nella genesi dei
provvedimenti che ne fanno applicazione, per
cui i soggetti destinatari di questi ultimi
non hanno alcun onere di impugnare la
circolare, ma possono limitarsi a
contestarne la legittimità al solo scopo di
sostenere che gli atti applicativi sono
illegittimi perché hanno applicato una
circolare illegittima che si sarebbe invece
dovuta disapplicare.
Quanto alle circolari, si rileva che
trattasi di atti "diretti agli organi e
uffici periferici ovvero sottordinati e che
non hanno di per sé valore normativo o
provvedimentale o comunque vincolante per i
soggetti estranei all’Amministrazione. Per
gli organi e uffici destinatari delle
circolari, queste ultime sono vincolanti
solo se legittime, di talché è doverosa, da
parte degli stessi, la disapplicazione delle
circolari che siano contra legem.
Ne consegue che le circolari non rivestono
una rilevanza determinante nella genesi dei
provvedimenti che ne fanno applicazione, per
cui i soggetti destinatari di questi ultimi
non hanno alcun onere di impugnare la
circolare, ma possono limitarsi a
contestarne la legittimità al solo scopo di
sostenere che gli atti applicativi sono
illegittimi perché hanno applicato una
circolare illegittima che si sarebbe invece
dovuta disapplicare (C.d. S., IV,
20.09.1994, n. 720)" (così testualmente
C.d.S.: IV, 16.10.2000, n. 5506) (TAR Lazio-Roma,
Sez. III-bis,
sentenza 08.06.2012 n. 5201 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' corretto e ragionevole il ricorso della
stazione appaltante al potere di
integrazione documentale di cui all'art. 46
Codice degli Appalti nell'ipotesi in cui le
dichiarazioni da rendersi obbligatoriamente
a norma dell'art. 38, comma primo, lett. b)
e c), del medesimo testo di legge da parte
dei soggetti ivi contemplati, siano non già
del tutto mancanti ma, piuttosto, incomplete
e, quindi, suscettibili di essere
completate.
La clausola del disciplinare di gara che
contempla la sanzione dell'esclusione del
concorrente in caso di documentazione
mancante, in omaggio al canone di
proporzionalità che sempre deve guidare
l'azione amministrativa, deve essere
interpretata come riferita alle ipotesi in
cui la documentazione sia del tutto
mancante, ovvero carente ma in una misura
ritenuta essenziale. Una simile
interpretazione è la sola conforme al
principio di tassatività delle cause di
esclusione di cui all'art. 46, comma 1-bis,
codice degli appalti che, a seguito
della novella apportata con il D.L. n. 70
del 2011, recepisce un approccio meno
formalistico al problema delle irregolarità
formali commesse nelle procedure di gara.
Gli
odierni appellanti in via principale, sul
presupposto incontestato che a carico di
detti nominativi non risultino precedenti
penali di alcun tipo, censurano la sentenza
invocando, in generale, l’indirizzo
giurisprudenziale più sostanzialistico che
ricorre alla categoria del “falso innocuo”
per prevenire esclusioni dettate da
inadempimenti meramente formali; e, nel caso
di specie, la clausola del disciplinare di
gara che, a p. 12, stabilisce che “le
stazioni appaltanti, prima di sancire
l’eventuale esclusione dalla gara, si
riservano la facoltà di chiedere ai
concorrenti interessati di completare o
integrare la documentazione prodotta”. Il
tutto per giustificare l’operato della
stazione appaltante che correttamente
avrebbe consentito di integrare la
documentazione incompleta.
Replica la difesa del raggruppamento
guidato da Bellacomba service sottolineando
come lo stesso disciplinare prevedesse
l’obbligo di inserire nella busta A le
dichiarazioni sostitutive a pena di
esclusione, previsione che, laddove
disattesa, anche solo in parte, non
permetterebbe alla stazione appaltante di
esercitare un potere integrativo.
Così riassunte le opposte deduzioni
di parte, osserva il Collegio in punto di
fatto come risulti, dagli atti di gara
prodotti, che le omissioni hanno riguardato
solamente alcuni dei componenti il
raggruppamento e, anche per essi, solamente
alcuni degli amministratori tenuti a
renderle.
Il rilievo non è di secondaria importanza
poiché evidenzia come, nel complesso,
l’omissione documentale sia stata (più che)
parziale, potendo essere derubricata come
una irregolarità procedimentale imputabile
alla parte privata, irregolarità che la
stessa parte ha prontamente sanato
depositando la documentazione integrativa
(v. verbale n. 6 del 07.07.2010).
Se questo è stato lo svolgimento
della vicenda procedimentale, reputa il
Collegio che la stazione appaltante abbia
fatto un uso corretto e ragionevole del
potere di integrazione di cui all’art. 46
del Codice, al cospetto di
(auto)dichiarazioni non già del tutto
mancanti ma, piuttosto, incomplete e,
quindi, suscettibili di essere completate.
In questa prospettiva ed in omaggio
al canone di proporzionalità che sempre deve
guidare l’azione amministrativa, la sanzione
dell’esclusione prevista nel disciplinare di
gara deve essere (interpretata come)
riferita alle ipotesi in cui la
documentazione sia del tutto mancante ovvero
carente (ma) in una misura ritenuta
essenziale.
Una simile interpretazione, che trova del
resto puntuale riscontro nella stessa
clausola di salvezza richiamata dagli
appellanti a p. 12 del disciplinare, è la
sola conforme al principio di tassatività
delle cause di esclusione di cui all’art. 46,
comma 1-bis, del Codice che, a seguito della
novella del 2011, recepisce un approccio
meno formalistico al problema delle
irregolarità formali commesse nelle
procedure di gara, sulla scorta degli
indirizzi giurisprudenziali già richiamati
(cfr., ad esempio, Cons. St., V, n.
7967/2010).
A fronte di una impostazione che
privilegia la massima (o semplicemente
l’utile) partecipazione alla gara non
potrebbe neppure invocarsi, in senso
ostativo, il principio della par condicio
dei concorrenti, dal momento che la stazione
appaltante ha applicato lo stesso metro (di
giudizio) sostanzialistico anche al
raggruppamento guidato da Bellacomba Service
s.a.s., disponendone l’ammissione pur in
presenza di taluni inadempimenti/o
irregolarità oggetto del ricorso
incidentale.
Ne consegue quindi, per le ragioni sin qui
evidenziate, l’infondatezza di questo primo
motivo di esclusione e la legittimità
dell’operato della stazione appaltante in
sede di gara
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 08.06.2012 n.
3393 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittimo il diniego avverso l'istanza di
installazione di n. 3 antenne paraboliche su
di un campanile tenuto conto che:
- l’impianto (con le 3 nuove
antenne paraboliche)
non sembra possa ritenersi di semplice
adeguamento tecnologico del preesistente
impianto di telefonia mobile;
- l’indicato immobile risulta
collocato in un’area sottoposta a vincolo
paesaggistico e che il Comune ha negato, a
seguito di motivato parere, la necessaria
autorizzazione paesaggistica (che era stata
richiesta in forma semplificata);
- la Chiesa di S. Maria
Assunta in Cielo ed il suo campanile devono
ritenersi sottoposti anche al vincolo
storico artistico, ai sensi dell’art. 10 del d.lgs n. 42 del 2004 (Codice dei beni
culturali);
- il Comune ha depositato un atto con il
quale il Parroco della predetta Chiesa ha
diffidato la Ericsson a non installare le
tre nuove parabole in quanto il contratto di
locazione in essere (ed oggetto di disdetta)
consente solo l’installazione dei pannelli
presenti sulle facciate del campanile.
... per la riforma dell'ordinanza cautelare
del TAR per il Lazio, Sezione Staccata di
Latina, Sezione I, n. 92 del 2012, resa tra
le parti, concernente la richiesta di
autorizzazione per adeguamento tecnologico
di una stazione radio per la telefonia
mobile cellulare.
...
-
Considerato che l’impianto (con le 3 nuove
antenne paraboliche) che la Ericsson ha
chiesto di poter installare sul campanile
della Chiesa di S. Maria Assunta in Cielo
non sembra possa ritenersi di semplice
adeguamento tecnologico del preesistente
impianto di telefonia mobile;
-
Considerato che l’indicato immobile risulta
collocato in un’area sottoposta a vincolo
paesaggistico e che il Comune ha negato, a
seguito di motivato parere di un esperto in
materia (arch. Castelluccio), la necessaria
autorizzazione paesaggistica (che era stata
richiesta in forma semplificata);
-
Considerato che, come è stato affermato dal
Comune ed è chiaramente indicato nel
suddetto parere, la Chiesa di S. Maria
Assunta in Cielo ed il suo campanile devono
ritenersi sottoposti anche al vincolo
storico artistico, ai sensi dell’art. 10 del
d.lgs n. 42 del 2004 (Codice dei beni
culturali);
-
Considerato che il Comune ha depositato un
atto con il quale il Parroco della predetta
Chiesa ha diffidato la Ericsson a non
installare le tre nuove parabole in quanto
il contratto di locazione in essere (ed
oggetto di disdetta) consente solo
l’installazione dei pannelli presenti sulle
facciate del campanile (Consiglio di Stato,
Sez. III,
ordinanza 08.06.2012 n. 2232 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Alle procedure concorsuali si può
partecipare su domanda scritta da
presentarsi nei termini perentori indicati
dall’Amministrazione, e la prova
dell’avvenuta domanda deve essere fornita
dal candidato.
Quando l’invio della domanda è avvenuto a
mezzo posta, la prova, in caso di
contestazioni, deve essere fornita con la
specifica documentazione e le ricevute
postali che il candidato è tenuto a
conservare per ogni evenienza. Se la
documentazione è smarrita, il concorrente è
tenuto a ricostituirla. In assenza di ciò, è
pienamente giustificato il provvedimento
dell’Amministrazione che assuma non prodotta
o presentata la domanda stessa.
Nel campo delle procedure concorsuali, il
candidato deve premunirsi contro ogni
eventuale rischio, predisponendo ogni utile
accorgimento idoneo a fornire la prova della
presentazione della domanda, prova che
ovviamente non può essere sostituita da
dichiarazioni fatte in sede giudiziaria.
Non può non richiamarsi, ai fini della
decisione della causa, il pacifico ed ovvio
principio, connaturato all’essenza delle
procedure concorsuali per l’assunzione a
posti di pubblico impiego, per cui a queste
si può partecipare (come appunto nel caso di
specie) su domanda scritta da presentarsi
nei termini perentori indicati
dall’Amministrazione, e la prova
dell’avvenuta domanda deve essere fornita
dal candidato.
Quando l’invio della domanda è avvenuto a
mezzo posta, la prova, in caso di
contestazioni, deve essere fornita con la
specifica documentazione e le ricevute
postali che il candidato è tenuto a
conservare per ogni evenienza (non a caso,
d’altra parte, ai sensi dell’art. 3 del
bando del concorso in questione, la domanda
doveva essere presentata “a mezzo di
raccomandata con avviso di ricevimento”).
Se la documentazione è smarrita, il
concorrente è tenuto a ricostituirla. In
assenza di ciò, è pienamente giustificato il
provvedimento dell’Amministrazione che
assuma non prodotta o presentata la domanda
stessa.
La giurisprudenza ha già avuto modo di
affermare che nel campo delle procedure
concorsuali, il candidato deve premunirsi
contro ogni eventuale rischio, predisponendo
ogni utile accorgimento idoneo a fornire la
prova della presentazione della domanda,
prova che ovviamente non può essere
sostituita da dichiarazioni fatte in sede
giudiziaria (vedi CdS, VI, 31.05.1999, n.
699) (TAR Lazio, Sez. III-quater,
sentenza 07.06.2012 n. 5179 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La lottizzazione abusiva
presuppone opere (c.d. lottizzazione
materiale) o iniziative giuridiche (c.d.
lottizzazione cartolare) che comportano una
trasformazione urbanistica od edilizia dei
terreni in violazione delle prescrizioni
urbanistiche.
Al fine di valutare un'ipotesi di
lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare
necessaria una visione d'insieme dei lavori,
ossia una verifica nel suo complesso
dell'attività edilizia realizzata, atteso
che potrebbero anche ricorrere modifiche
rispetto all'attività assentita idonee a
conferire un diverso assetto al territorio
comunale oggetto di trasformazione
Proprio in quanto sussiste lottizzazione
abusiva in tutti i casi in cui si realizza
un'abusiva interferenza con la
programmazione del territorio, deve
rilevarsi che la
verifica dell'attività edilizia realizzata
nel suo complesso può condurre a riscontrare
un illegittimo mutamento della destinazione
all'uso del territorio autoritativamente
impressa anche nei casi in cui le variazioni
apportate incidano esclusivamente sulla
destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione
dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 che impone
di affermare che integra un'ipotesi di
lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di
opere in concreto idonee a stravolgere
l'assetto del territorio preesistente, a
realizzare un nuovo insediamento abitativo
e, quindi, in ultima analisi, a determinare
sia un concreto ostacolo alla futura
attività di programmazione (che viene posta
di fronte al fatto compiuto), sia un carico
urbanistico che necessita adeguamento degli standards.
Invero, il concetto di
"opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia" dei terreni deve
essere, dunque, interpretato in maniera
"funzionale" alla ratio della norma, il cui
bene giuridico tutelato è costituito dalla
necessità di preservare la potestà
programmatoria attribuita
all'Amministrazione nonché l'effettivo
controllo del territorio da parte del
soggetto titolare della stessa funzione di
pianificazione (cioè il Comune), al fine di
garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio
ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi
e dei correlativi standards compatibile con
le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di
"trasformazione urbanistica ed edilizia" e
non quello di "opera comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende che il
mutamento di destinazione d'uso di edifici
già esistenti può influire sull'assetto
urbanistico dei terreni sui quali essi
insistono e può altresì comportare nuovi
interventi di urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino
trasformazione urbanistica od edilizia" dei
terreni, lo si ribadisce, deve quindi essere
interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma (il cui bene giuridico
tutelato è costituito, come si diceva in
precedenza, dalla necessità di preservare la
potestà pianificatoria attribuita
all'amministrazione nonché l'effettivo
controllo del territorio da parte del
Comune), che tende, lo si diceva, appunto, a
garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio
ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi
e dei correlativi standards compatibili con
le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la
conformità della trasformazione realizzata e
la sua rispondenza o meno alle previsioni
delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle
singole opere in cui si è compendiata la
lottizzazione, eventualmente anche
regolarmente assentite (giacché tale
difformità è specificamente sanzionata dagli
artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì
alla complessiva trasformazione edilizia che
di quelle opere costituisce il frutto,
sicché essa conformità ben può mancare anche
nei casi in cui per le singole opere facenti
parte della lottizzazione sia stato
rilasciato il permesso di costruire.
---------------
Può integrare un'ipotesi di lottizzazione
abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto
idonee a stravolgere l'assetto del
territorio preesistente, a realizzare un
nuovo insediamento abitativo e, quindi, in
ultima analisi, a determinare sia un
concreto ostacolo alla futura attività di
programmazione (che viene posta di fronte al
fatto compiuto) ma anche soltanto un carico
urbanistico che necessita di adeguamento
degli standards e rimarcare che, avuto
riguardo alla tipologia dei reiterati
abusivi intereventi realizzati, ove
unitariamente considerati, questa è
l’evenienza realizzatasi nel caso di specie.
In sostanza: da un modesto immobile di
minima consistenza, attraverso una pluralità
di opere abusive, poste in essere con
sistematicità, ed in spregio anche ai
decreti di sequestro via via emessi
dall’Autorità amministrativa e giudiziaria
(si veda il capo di imputazione sotteso alla
sentenza ex art. 444 cpp, laddove è stato
contestato il delitto di violazione di
sigilli aggravata ex art. 349 cpv cp) si è
realizzato un piccolo albergo munito financo
di piscina.
La giurisprudenza della Corte di cassazione
penale è ormai stabilmente orientata
all’affermazione di detto principio.
Si rammenta in proposito (la fattispecie è
speculare a quella in esame) quanto
ripetutamente sostenuto da questa
giurisprudenza, cioè che: “In materia
edilizia, il reato di lottizzazione abusiva
mediante modifica della destinazione d'uso
da alberghiera a residenziale è
configurabile, nell'ipotesi in cui lo
strumento urbanistico generale consenta
l'utilizzo della zona ai fini residenziali,
in due casi:
a) quando il complesso alberghiero sia stato
edificato alla stregua di previsioni
derogatorie non estensibili ad immobili
residenziali;
b) quando la destinazione d'uso residenziale
comporti un incremento degli "standards"
richiesti per l'edificazione alberghiera e
tali "standars" aggiuntivi non risultino
reperibili ovvero reperiti in concreto.”.
In detta pronuncia, in particolare, si è
condivisibilmente affermato che il problema
della configurabilità del reato di
lottizzazione abusiva -allorquando il bene
suddiviso consista non in un terreno
inedificato, bensì in un immobile già
regolarmente edificato- deve essere
affrontato anche alla stregua della
legislazione urbanistica regionale in
materia di classificazione delle categorie
funzionali della destinazione d'uso e
correlato precipuamente alle previsioni
della pianificazione comunale, alle quali
deve essere raffrontata, in termini di
"compatibilità", la effettuata
trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in
particolare, “può integrare il reato di
lottizzazione abusiva, il mutamento della
destinazione d'uso di un immobile che alteri
il complessivo assetto del territorio messo
a punto attraverso gli strumenti
urbanistici, dovendosi considerare, quanto
alla individuazione di siffatta
"alterazione", che l'organizzazione del
territorio comunale si attua con il
coordinamento delle varie destinazioni
d'uso, in tutte le loro possibili relazioni,
e con l'assegnazione ad ogni singola
destinazione d'uso di determinate qualità e
quantità di servizi.
L'assetto territoriale, pertanto, può essere
alterato anche allorché significativamente
si incida sulle dotazioni degli standards di
zona.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin
da epoca risalente affermato dalla
giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato ha rimarcato, al
riguardo, che "la richiesta di cambio della
destinazione d'uso di un fabbricato, qualora
non inerisca all'ambito delle modificazioni
astrattamente possibili in una determinata
zona urbanistica, ma sia volta a realizzare
un uso del tutto difforme da quelli ammessi,
si pone in insanabile contrasto con lo
strumento urbanistico, posto che, in tal
caso, si tratta non di una mera
modificazione formale destinata a muoversi
tra i possibili usi del territorio
consentiti dal piano, bensì in
un'alternazione idonea ad incidere
significativamente sulla destinazione
funzionale ammessa dal piano regolatore e
tale, quindi, da alterare gli equilibri
prefigurati in quella sede" (nella specie è
stato affermato che legittimamente un Comune
aveva respinto l'istanza per il cambio di
destinazione d'uso di un complesso
immobiliare, relativamente ad uso
esclusivamente residenziale, del tutto
incompatibile con la destinazione di zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso
di un immobile attuato attraverso la
realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga
realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato
e durante la sua esistenza (ipotesi
ricorrente nella vicenda in esame), si
configura in ogni caso un'ipotesi di
ristrutturazione edilizia secondo la
definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del
2001, art. 3, comma 1, lett. d), del in
quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di
entità modesta, porta pur sempre alla
creazione di "un organismo edilizio in tutto
o in parte diverso dal precedente".
L'art. 30 del D.P.R. 380/2001, al comma 1,
dispone che: "si ha lottizzazione abusiva di
terreni a scopo edificatorio quando vengono
iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia dei terreni stessi
in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici vigenti o adottati, o
comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta
autorizzazione; nonché quando tale
trasformazione venga predisposta attraverso
il frazionamento e la vendita, o atti
equivalenti, del terreno in lotti che, per
le loro caratteristiche quali la dimensione
in relazione alla natura del terreno e alla
sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l'ubicazione o la
eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi
riferiti agli acquirenti, denuncino in modo
non equivoco la destinazione a scopo
edificatorio".
Appare evidente che la lottizzazione abusiva
presuppone opere (c.d. lottizzazione
materiale) o iniziative giuridiche (c.d.
lottizzazione cartolare) che comportano una
trasformazione urbanistica od edilizia dei
terreni in violazione delle prescrizioni
urbanistiche.
Al fine di valutare un'ipotesi di
lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare
necessaria una visione d'insieme dei lavori,
ossia una verifica nel suo complesso
dell'attività edilizia realizzata, atteso
che potrebbero anche ricorrere modifiche
rispetto all'attività assentita idonee a
conferire un diverso assetto al territorio
comunale oggetto di trasformazione
Proprio in quanto sussiste lottizzazione
abusiva in tutti i casi in cui si realizza
un'abusiva interferenza con la
programmazione del territorio, deve
rilevarsi, ad avviso del Collegio, che la
verifica dell'attività edilizia realizzata
nel suo complesso può condurre a riscontrare
un illegittimo mutamento della destinazione
all'uso del territorio autoritativamente
impressa anche nei casi in cui le variazioni
apportate incidano esclusivamente sulla
destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione
dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 che impone
di affermare che integra un'ipotesi di
lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di
opere in concreto idonee a stravolgere
l'assetto del territorio preesistente, a
realizzare un nuovo insediamento abitativo
e, quindi, in ultima analisi, a determinare
sia un concreto ostacolo alla futura
attività di programmazione (che viene posta
di fronte al fatto compiuto), sia un carico
urbanistico che necessita adeguamento degli standards. Come già affermato dalla
giurisprudenza di merito il concetto di
"opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia" dei terreni deve
essere, dunque, interpretato in maniera
"funzionale" alla ratio della norma, il cui
bene giuridico tutelato è costituito dalla
necessità di preservare la potestà
programmatoria attribuita
all'Amministrazione nonché l'effettivo
controllo del territorio da parte del
soggetto titolare della stessa funzione di
pianificazione (cioè il Comune), al fine di
garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio
ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi
e dei correlativi standards compatibile con
le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di
"trasformazione urbanistica ed edilizia" e
non quello di "opera comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende, ad avviso del Collegio, che il
mutamento di destinazione d'uso di edifici
già esistenti può influire sull'assetto
urbanistico dei terreni sui quali essi
insistono e può altresì comportare nuovi
interventi di urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino
trasformazione urbanistica od edilizia" dei
terreni, lo si ribadisce, deve quindi essere
interpretato in maniera "funzionale" alla
ratio della norma (il cui bene giuridico
tutelato è costituito, come si diceva in
precedenza, dalla necessità di preservare la
potestà pianificatoria attribuita
all'amministrazione nonché l'effettivo
controllo del territorio da parte del
Comune), che tende, lo si diceva, appunto, a
garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio
ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi
e dei correlativi standards compatibili con
le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la
conformità della trasformazione realizzata e
la sua rispondenza o meno alle previsioni
delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle
singole opere in cui si è compendiata la
lottizzazione, eventualmente anche
regolarmente assentite (giacché tale
difformità è specificamente sanzionata dagli
artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì
alla complessiva trasformazione edilizia che
di quelle opere costituisce il frutto,
sicché essa conformità ben può mancare anche
nei casi in cui per le singole opere facenti
parte della lottizzazione sia stato
rilasciato il permesso di costruire.
Tenuto conto della natura del provvedimento
impugnato in primo grado (ordinanza di
sospensione per lottizzazione abusiva)
cadono quindi tutte le censure fondate sulla
mancata definizione delle domande di condono
dei singoli –e reiterati- abusi realizzati,
in quanto non incidenti sulla riscontrabilità di una condotta
lottizzatoria materiale abusiva.
---------------
Deve per ulteriore conseguenza affermarsi
che può integrare un'ipotesi di
lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di
opere in concreto idonee a stravolgere
l'assetto del territorio preesistente, a
realizzare un nuovo insediamento abitativo
e, quindi, in ultima analisi, a determinare
sia un concreto ostacolo alla futura
attività di programmazione (che viene posta
di fronte al fatto compiuto) ma anche
soltanto un carico urbanistico che necessita
di adeguamento degli standards e rimarcare
che, avuto riguardo alla tipologia dei
reiterati abusivi intereventi realizzati,
ove unitariamente considerati, questa è
l’evenienza realizzatasi nel caso di specie.
In sostanza: da un modesto immobile di
minima consistenza, attraverso una pluralità
di opere abusive, poste in essere con
sistematicità, ed in spregio anche ai
decreti di sequestro via via emessi
dall’Autorità amministrativa e giudiziaria
(si veda il capo di imputazione sotteso alla
sentenza ex art. 444 cpp, laddove è stato
contestato il delitto di violazione di
sigilli aggravata ex art. 349 cpv cp) si è
realizzato un piccolo albergo munito financo
di piscina.
La giurisprudenza della Corte di
cassazione penale è ormai stabilmente
orientata all’affermazione di detto
principio.
Si rammenta in proposito (la fattispecie è
speculare a quella in esame) quanto
ripetutamente sostenuto da questa
giurisprudenza, cioè che: “In materia
edilizia, il reato di lottizzazione abusiva
mediante modifica della destinazione d'uso
da alberghiera a residenziale è
configurabile, nell'ipotesi in cui lo
strumento urbanistico generale consenta
l'utilizzo della zona ai fini residenziali,
in due casi:
a) quando il complesso
alberghiero sia stato edificato alla stregua
di previsioni derogatorie non estensibili ad
immobili residenziali;
b) quando la
destinazione d'uso residenziale comporti un
incremento degli "standards" richiesti per
l'edificazione alberghiera e tali "standars"
aggiuntivi non risultino reperibili ovvero
reperiti in concreto.” (Cassazione penale,
sez. III, 07.03.2008, n. 24096).
In detta pronuncia, in particolare, si è
condivisibilmente affermato che il problema
della configurabilità del reato di
lottizzazione abusiva -allorquando il bene
suddiviso consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile già
regolarmente edificato- deve essere
affrontato anche alla stregua della
legislazione urbanistica regionale in
materia di classificazione delle categorie
funzionali della destinazione d'uso e
correlato precipuamente alle previsioni
della pianificazione comunale, alle quali
deve essere raffrontata, in termini di
"compatibilità", la effettuata
trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in
particolare, “può integrare il reato di
lottizzazione abusiva, il mutamento della
destinazione d'uso di un immobile che alteri
il complessivo assetto del territorio messo
a punto attraverso gli strumenti
urbanistici, dovendosi considerare, quanto
alla individuazione di siffatta
"alterazione", che l'organizzazione del
territorio comunale si attua con il
coordinamento delle varie destinazioni
d'uso, in tutte le loro possibili relazioni,
e con l'assegnazione ad ogni singola
destinazione d'uso di determinate qualità e
quantità di servizi.
L'assetto territoriale, pertanto, può essere
alterato anche allorché significativamente
si incida sulle dotazioni degli standards di
zona.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin
da epoca risalente affermato dalla
giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato (sez. 5^, 03.01.1998, n.
24) ha rimarcato, al riguardo, che "la
richiesta di cambio della destinazione d'uso
di un fabbricato, qualora non inerisca
all'ambito delle modificazioni astrattamente
possibili in una determinata zona
urbanistica, ma sia volta a realizzare un
uso del tutto difforme da quelli ammessi, si
pone in insanabile contrasto con lo
strumento urbanistico, posto che, in tal
caso, si tratta non di una mera
modificazione formale destinata a muoversi
tra i possibili usi del territorio
consentiti dal piano, bensì in
un'alternazione idonea ad incidere
significativamente sulla destinazione
funzionale ammessa dal piano regolatore e
tale, quindi, da alterare gli equilibri
prefigurati in quella sede" (nella specie è
stato affermato che legittimamente un Comune
aveva respinto l'istanza per il cambio di
destinazione d'uso di un complesso
immobiliare, relativamente ad uso
esclusivamente residenziale, del tutto
incompatibile con la destinazione di zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso
di un immobile attuato attraverso la
realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga
realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato
e durante la sua esistenza (ipotesi
ricorrente nella vicenda in esame), si
configura in ogni caso un'ipotesi di
ristrutturazione edilizia secondo la
definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del
2001, art. 3, comma 1, lett. d), del in
quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di
entità modesta, porta pur sempre alla
creazione di "un organismo edilizio in tutto
o in parte diverso dal precedente".
La dedotta circostanza che, a
particolari condizioni, possa conseguirsi la
sanatoria degli immobili abusivamente
edificati -(principio costantemente
affermato dalla Corte di Cassazione:
“In tema di reati edilizi, l'inapplicabilità
della disciplina sul condono edilizio
prevista dall'art. 39 L. 23.12.1994,
n. 724 al reato di lottizzazione abusiva
(art. 18 L. 28.02.1985 n. 47), non
esclude l'applicabilità di tale disciplina
ai singoli manufatti abusivamente eseguiti,
i quali sono suscettibili di condono previa
valutazione globale dell'attività
lottizzatoria secondo il meccanismo previsto
dal combinato disposto degli articoli 29 e
35, comma tredicesimo, L. 28.02.1985,
n. 47.” -Cassazione penale, sez. III, 21.11.2007, n. 9982; e confermato pure
dalla giurisprudenza amministrativa di
merito: si veda TAR Campania Napoli, sez. II, 27.08.2010, n. 17263)- non inficia
la legittimità dell’ordinanza di sospensione
gravata, posto che lo stesso principio non
può precludere all’amministrazione comunale
la ravvisabilità di una fattispecie di
lottizzazione materiale abusiva, né
l’adozione dei provvedimenti ad essa
consequenziali.
Nel caso di specie peraltro, la fattispecie
“unica” racchiude in realtà due condotte
parimenti illegali: la abusiva edificazione
di svariati manufatti (lottizzazione
materiale) e la avvenuta adibizione degli
stessi, unitamente al pregresso ed
originario corpo di fabbrica, ad attività
incompatibile (lottizzazione abusiva mercé
modifica della destinazione d’uso) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.06.2012 n. 3381 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il fatto costitutivo dell'obbligo
giuridico del titolare della concessione
edilizia di versare il contributo previsto è
rappresentato dal rilascio della concessione
medesima ed è a tale momento, quindi, che
occorre aver riguardo per la determinazione
dell'entità del contributo, risultando
irrilevante, a tal fine, la precedente
espressione del parere della commissione
edilizia.
La vicenda contenziosa concerne la determinazione degli oneri concessori
a fronte di un sensibile ritardo
dell’amministrazione nel rilascio della
concessione edilizia.
La domanda di tutela è stata introdotta
molto tempo prima delle note vicende -prima
giurisprudenziali, e poi normative- che
hanno condotto alla risarcibilità degli
interessi legittimi, e sì è concretizzata in
una domanda di annullamento (parziale) e di
condanna dell’amministrazione alla
restituzione di somme indebitamente
corrisposte, in forza del principio –affermato nella domanda– che gli oneri
concessori debbano calcolarsi al momento del
favorevole esame del progetto da parte della
Commissione edilizia e non a quello del
(tardivo) rilascio della concessione, vieppiù ove di rilevi un comportamento
dell’amministrazione scientemente
preordinato a lucrare l’esponenziale
incremento nel tempo degli oneri concessori.
In tali termini inquadrata, il giudice di
prime cure, correttamente, ha respinto la
domanda.
La Sezione ha già avuto modo di chiarire,
alla luce del disposto normativo di cui
all’art. 11 della legge 10/1977, che il fatto
costitutivo dell'obbligo giuridico del
titolare della concessione edilizia di
versare il contributo previsto è
rappresentato dal rilascio della concessione
medesima ed è a tale momento, quindi, che
occorre aver riguardo per la determinazione
dell'entità del contributo, risultando
irrilevante, a tal fine, la precedente
espressione del parere della commissione
edilizia (Cfr. sez. IV, 25/06/2010, n.
4109).
Ciò è di per se sufficiente ad escludere
l’illegittimità dell’azione amministrativa,
finanche ove sia provata la sussistenza di
un colposo ritardo nell’emanazione della
concessione.
Altra cosa è la liceità dell’inerzia
procedimentale che si assume serbata
dall’amministrazione. E’ ben possibile che
episodi di ingiustificata lentezza, di
aggravio procedimentale o di inefficienza
abbiano dilatato oltre modo i tempi di
rilascio della concessione, determinando
l’esponenziale crescita degli oneri gravanti
sull’istante, ma tale comportamento, ove
sussistente, può essere vagliato dal giudice
amministrativo solo a fronte
dell’esperimento di un’azione risarcitoria,
nel rispetto dei termini e delle modalità
che per la sua introduzione l’ordinamento
pretende.
Nel caso di specie, come condivisibilmente
sottolineato dal giudice di prime cure,
un’azione risarcitoria non è stata proposta,
neanche a seguito delle sopravvenienze
normative che ne hanno cristallizzato l’esperibilità.
Né può procedersi alla valutazione dei
profili colposi della condotta della P.A. ai
fini di una eventuale e futura azione
risarcitoria –come pure sollecitato
dall’appellante– poiché si tratterebbe in
ogni caso di un accertamento che esula dalle
domande ritualmente poste nel giudizio, tese
invece a stigmatizzare l’illegittimità della
quantificazione ai fini della ripetizione
dell’indebito (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.06.2012 n. 3379 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sebbene il divieto di
motivazione postuma, costantemente affermato
dalla giurisprudenza amministrativa, meriti
di essere confermato, rappresentando
l'obbligo di motivazione il presidio
essenziale del diritto di difesa, non può
ritenersi che l'amministrazione incorra nel
vizio di difetto di motivazione quando le
ragioni del provvedimento siano chiaramente
intuibili sulla base della parte dispositiva
del provvedimento impugnato.
Né, a ben
vedere, tutte le ipotesi di chiarimenti rese
nel corso del giudizio valgono quale
inammissibili casi di vera e propria
integrazione postuma della motivazione
-nella specie l’integrazione postuma della
motivazione si era risolta nella mera
indicazione di una fonte normativa prima non
esplicitata, consistente nell’esistenza di
una decisione comunitaria a fondamento
dell’operato dell’amministrazione-, fonte
che ben avrebbe dovuto e potuto essere
conosciuto da un operatore professionale
quale la società ricorrente, per cui il
vizio di eccesso di potere è
insussistente.
Evidenzia in proposito il Collegio che il
principio postulante la inammissibilità
della integrazione postuma della motivazione
in giudizio, ha sofferto di qualche
temperamento nella giurisprudenza più
recente di questo Consiglio di Stato, anche
in relazione al sopravvenuto disposto del
comma 2 dell’art. 21-octies legge 15/2005
(ex multis: “sebbene il divieto di
motivazione postuma, costantemente affermato
dalla giurisprudenza amministrativa, meriti
di essere confermato, rappresentando
l'obbligo di motivazione il presidio
essenziale del diritto di difesa, non può
ritenersi che l'amministrazione incorra nel
vizio di difetto di motivazione quando le
ragioni del provvedimento siano chiaramente
intuibili sulla base della parte dispositiva
del provvedimento impugnato.
Né, a ben
vedere, tutte le ipotesi di chiarimenti rese
nel corso del giudizio valgono quale
inammissibili casi di vera e propria
integrazione postuma della motivazione
-nella specie l’integrazione postuma della
motivazione si era risolta nella mera
indicazione di una fonte normativa prima non
esplicitata, consistente nell’esistenza di
una decisione comunitaria a fondamento
dell’operato dell’amministrazione-, fonte
che ben avrebbe dovuto e potuto essere
conosciuto da un operatore professionale
quale la società ricorrente, per cui il
vizio di eccesso di potere è
insussistente” -Consiglio Stato, sez. VI,
03.03.2010, n. 1241-)
Il Collegio condivide tale evoluzione,
che tende ad attenuare le conseguenze del
richiamato principio del divieto di
integrazione postuma dequotando il relativo
vizio tutte le volte in cui la omissione di
motivazione successivamente esternata non
abbia leso il diritto di difesa
dell’interessato, e comunque in fase
infraprocedimentale fossero state
percepibili le ragioni sottese all’emissione
del provvedimento gravato (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.06.2012 n. 3376 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’oblazione non è un semplice
adempimento pecuniario, ma consiste in un
negozio giuridico unilaterale, processuale o
extraprocessuale, produttivo di effetti di
diritto pubblico, nel senso che il relativo
pagamento implica riconoscimento
dell’illecito con conseguente rinuncia irretrattabile alla garanzia giurisdizionale.
Consegue da ciò che la somma pagata non è
ripetibile ed è irrilevante qualunque
riserva fatta a tal fine, essendo semmai
onere dell’interessato quello di far valere
le proprie ragioni di fronte al giudice
amministrativo prima di corrispondere la
somma richiesta.
In altri termini, la riserva di ripetizione,
sebbene contestuale, è una protestatio che
non vale contro il fatto obiettivo del
pagamento della somma richiesta a titolo di
oblazione, con il quale l’interessato si
appropria definitivamente di tutti gli
effetti che a quel fatto l’ordinamento
collega.
Con il primo motivo dell’appello, la parte privata sostiene che la misura
dell’oblazione, dovuta con riguardo alle
opere realizzate in parziale difformità
dall’originaria concessione edilizia,
sarebbe stata erroneamente determinata dal
Comune in applicazione delle aliquote
relative al contributo corrispondente
all’intero fabbricato, anziché sulla sola
parte del fabbricato medesimo ritenuta
difforme.
In disparte la questione di fatto se il
calcolo sia stato sviluppato sulla scorta
dei dati forniti dagli appellanti medesimi
(come sostiene l’Amministrazione e come
ritiene provato la sentenza impugnata), il
Collegio è dell’avviso di aderire
all’orientamento della Corte di Cassazione,
secondo cui l’oblazione non è un semplice
adempimento pecuniario, ma consiste in un
negozio giuridico unilaterale, processuale o
extraprocessuale, produttivo di effetti di
diritto pubblico, nel senso che il relativo
pagamento implica riconoscimento
dell’illecito con conseguente rinuncia
irretrattabile alla garanzia giurisdizionale
(cfr. Cass. civ., Sez. I, 24.04.1979, n.
2319).
Consegue da ciò che la somma pagata non è
ripetibile ed è irrilevante qualunque
riserva fatta a tal fine, essendo semmai
onere dell’interessato quello di far valere
le proprie ragioni di fronte al giudice
amministrativo prima di corrispondere la
somma richiesta (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 05.07.2007, n. 3821).
In altri termini, la riserva di ripetizione,
sebbene contestuale, è una protestatio che
non vale contro il fatto obiettivo del
pagamento della somma richiesta a titolo di
oblazione, con il quale l’interessato si
appropria definitivamente di tutti gli
effetti che a quel fatto l’ordinamento
collega (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.06.2012 n. 3371 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va tenuta ferma la distinzione
tra la fattispecie dell’art. 12 (Opere
eseguite in parziale difformità dalla
concessione) della legge n. 47 del 1985 e
quella del successivo art. 13 (accertamento
di conformità). Non è rilevante la
circostanza che, in un caso come nell’altro,
vengano in questione sanzioni: ciò che conta
sono i diversi piani di finalità e di
effetti su cui le disposizioni in discorso
si collocano.
Nel caso dell’art. 12, viene in gioco una
conseguenza puramente afflittiva
dell’illecito commesso (che peraltro giova
anche al privato, nella misura in cui gli
consente di evitare la radicale demolizione
dell’opera): la sanzione dunque non ha
valenza ripristinatoria dell’assetto
edilizio violato, non integra una
regolarizzazione dell’illecito e, in
particolare, non autorizza il completamento
delle opere.
Invece, il procedimento di sanatoria delle
opere realizzate –in tutto o in parte– in
difetto di preventivo titolo idoneo ha
l’obiettivo di recuperare in pieno ex post
l’intervento edilizio eseguito
illegittimamente, tanto è vero che
(diversamente da quanto è previsto per la
sanzione “pura” ex art. 12) implica la
preventiva valutazione di conformità alla
disciplina urbanistica in atto e a ogni
altra forma di tutela del territorio.
Le procedure che vengono in gioco, in
esecuzione dell’art. 12 e dell’art. 13 della
legge più volte citata, sono perciò del
tutto separate e distinte. Non vi è dunque
alcuna ragione perché l’esito di una di
esse, cronologicamente successiva, possa in
qualche modo ridondare su quello di un
diverso procedimento, ormai definitivamente
conclusosi.
Il secondo motivo dell’appello lamenta,
in sostanza, una duplicazione di procedure
sanzionatorie: il vizio del provvedimento di
concessione in sanatoria, non rilevato dalla
sentenza, consisterebbe nella mancata
previsione della restituzione di quanto già
versato a titolo di sanzione amministrativa.
Neppure questo motivo ha pregio.
A questo proposito, va tenuta ferma la
distinzione –ripetutamente delineata dalla
giurisprudenza– tra la fattispecie
dell’art. 12 della legge n. 47 del 1985 e
quella del successivo art. 13 (cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 06.05.1992, n. 390; Id.,
Sez. IV, 12.03.2009, n. 1474). Non è
rilevante la circostanza che, in un caso
come nell’altro, vengano in questione
sanzioni: ciò che conta sono i diversi piani
di finalità e di effetti su cui le
disposizioni in discorso si collocano.
Nel caso dell’art. 12, viene in gioco una
conseguenza puramente afflittiva
dell’illecito commesso (che peraltro giova
anche al privato, nella misura in cui gli
consente di evitare la radicale demolizione
dell’opera): la sanzione dunque non ha
valenza ripristinatoria dell’assetto
edilizio violato (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
05.09.2011, n. 4982), non integra una
regolarizzazione dell’illecito e, in
particolare, non autorizza il completamento
delle opere (cfr. Cass. pen., Sez. III, 25.02.2004, n. 13978).
Invece, il procedimento di sanatoria delle
opere realizzate –in tutto o in parte– in
difetto di preventivo titolo idoneo ha
l’obiettivo di recuperare in pieno ex post
l’intervento edilizio eseguito
illegittimamente, tanto è vero che
(diversamente da quanto è previsto per la
sanzione “pura” ex art. 12) implica la
preventiva valutazione di conformità alla
disciplina urbanistica in atto e a ogni
altra forma di tutela del territorio (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, 19.03.2008, n.
1184).
Le procedure che vengono in gioco, in
esecuzione dell’art. 12 e dell’art. 13 della
legge più volte citata, sono perciò del
tutto separate e distinte. Non vi è dunque
alcuna ragione perché l’esito di una di
esse, cronologicamente successiva, possa in
qualche modo ridondare su quello di un
diverso procedimento, ormai definitivamente
conclusosi (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.06.2012 n. 3371 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La legittimità della reiterazione
dei vincoli espropriativi scaduti non può
prescindere dal positivo riscontro di una
duplice condizione: si è pertanto affermato,
per un verso, che “l’accantonamento delle
somme necessarie per il pagamento
dell’indennità di espropriazione è
condizione di legittimità del provvedimento
di reiterazione dei vincoli scaduti ai sensi
dell’art. 2 l. n. 1187 del 1968. sebbene
puntualmente motivato e giustificato da un
evidente interesse pubblico”.
La
reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti
(oggi rientrante nella previsione di cui
all'art. 9 d.P.R. 08.06.2001 n. 327) non
può disporsi senza svolgere una specifica
indagine concreta relativa alle singole aree
finalizzata a modulare e considerare le
differenti esigenze, pubbliche e private, in
quanto l'amministrazione nel reiterare i
vincoli scaduti è tenuta ad accertare che
l'interesse pubblico sia ancora attuale e
non possa essere soddisfatto con soluzioni
alternative e deve indicare le concrete
iniziative assunte o di prossima attuazione
per soddisfarlo, nonché disporre
l'accantonamento delle somme necessarie per
il pagamento dell'indennità di
espropriazione.
L'obbligo di motivazione
in materia di reiterazione dei vincoli
urbanistici scaduti sussiste anche quando la
reiterazione del vincolo sia disposta in
occasione dell'adozione di variante generale
al p.r.g..
---------------
Circa l'insussistenza di un siffatto obbligo
di motivazione laddove la reiterazione dei
vincoli di inedificabilità sia inserita
all'interno di una variante c.d. "generale"
non puntuale e specifica, basta osservare
che quello che conta è il tipo
determinazione adottata (reiterazione di
vicolo scaduto), e non l'ambito territoriale
più o meno ampio oggetto della complessiva
disciplina in cui si inserisce, anche, la
determinazione reiterativa. La gravosità e
la operatività sostanzialmente espropriativa
incidente in tal modo su singoli proprietari
non sono attenuate o mutate dalla natura
generale della variante reiterativa, per cui
nessun riflesso tale natura esplica
sull'esigenza di motivazione.
Sarebbe sin troppo eludibile la salvaguardia
consistente nella motivazione, che è poi, in
effetti, null'altro che l'ostensione di una
riflessione che deve essere ponderata e
razionale circa il regime specifico delle
aree vincolate, sorretta da un'effettiva
ricognizione delle esigenze e delle reali
caratteristiche del substrato urbanistico da
disciplinare, se la sola "generalità" della
variante o, comunque, dello strumento
urbanistico, potesse riassorbirla, in
omaggio ad un formalismo legato ad un
aspetto (la estensione del territorio
comunale regolato) non idoneo a influire
sulla capacità lesiva ed espropriativa della
reiterazione.
L'obbligo di motivazione in sede di variante
generale, quando investa le reiterazioni
"vincolistiche" non risulta, invece,
snaturare la funzione programmatoria dello
strumento urbanistico, poiché la specificità
e globalità delle giustificazioni
legittimamente adducibili per sostenere il
complesso delle sue previsioni, non tali
cioè da dover indicare la "ratio variandi"
di ogni singola precedente previsione
appaiono compatibili con l'ostensione
specifica ed esauriente relativa a singole
aree su cui incidano i vincoli scaduti e
reiterati. La specificità di motivazione è,
infatti, in tale ipotesi, connessa alla
peculiarità della fattispecie, ove con la
quale non viene esercitata la normale
potestà programmatoria, (il cui peso è
insito nel regime della proprietà e, quindi,
nella configurazione ordinaria del relativo
diritto), ma si incide sul contenuto
naturale costituzionalmente garantito di
quest'ultimo, ancorché appunto «in occasione
dell'esercizio di un potere programmatorio
che "coesiste", però, con un'ulteriore
determinazione di natura espropriativa.
Certamente il "modus" della motivazione non
può non risentire del carattere generale
della variante adottata e, quindi, non può
non riflettere il probabile fenomeno
dell'interdipendenza delle situazioni
fattuali e degli obiettivi considerati
nell'adottare la variante medesima.
Le implicazioni concrete di un quadro
composto e più ampio, e cioè il modo in cui
le scelte e le esigenze di assetto del
territorio, nella sua più vasta
articolazione, impongono sulla disciplina di
una singola area in esso collocata, vanno
esplicitate si da evidenziare la coerenza e
l'opportunità della soluzione adottata in
relazione al quadro territoriale oggetto di
programmazione.
Non basta a tal fine enunziare la necessità
di apportare "modifiche ed integrazioni"
alle previsioni del previdente strumento
urbanistico nel senso di modificare
"zonizzazioni" per coordinare organicamente
certe destinazioni a servizi (con la
connessa innovazione alla normativa tecnica
di attuazione), né basta enunciare la
generica necessità di colmare il vuoto di
disciplina dovuto alla decadenza di
pregressi vincoli a carattere espropriativi.
La enunciazione in sé del vuoto di
disciplina e delle esigenze pubblicistiche
surriferite può solo costituire una premessa
ma non l'intero svolgimento motivazionale
della reiterazione, come giustamente ha
rilevato il giudice di prime cure.
Per conferire alla valutazione di
imposizione di vincoli scaduti ed alla
conseguente motivazione un grado di
concretezza sufficiente occorre che si
proceda secondo uno schema logico "minimo"
composto essenzialmente:
a) dalla ricognizione del perdurante bisogno
di realizzare un certo assetto urbanistico
di interesse della collettività e della
portata, dimensione e priorità di tale
interesse in relazione alla situazione
attuale ed alle risorse disponibili;
b) dall'accertamento che la realizzazione di
tale assetto possa implicare il
coinvolgimento necessario ed attuale
dell'are di proprietà privata già oggetto di
vincolo;
c) dalla dimostrazione che eventuali
soluzioni alternative siano impraticabili o
eccessivamente onerose in base a criteri
oggettivi di comparazione che tengano, però,
anche conto del necessario bilanciamento tra
costo dell'intervento pubblico e sacrificio
imposto al privato: ciò in guisa che la
minimizzazione di quest'ultimo può rendere
praticabili anche soluzioni in sé più
"costose", entro limiti di ragionevolezza
obiettiva emergenti dalla considerazione
della priorità e delle dimensioni
dell'intervento nonché delle risorse
disponibili.
Rammenta il Collegio, al fine di far precedere il più puntuale
esame delle doglianze da alcune
considerazioni generali di natura
riepilogativa, che l’art. 2, l. 19.11.1968 n. 1187 che consentiva la reiterazione
dei vincoli scaduti così disponeva: “Le
indicazioni di piano regolatore generale,
nella parte in cui incidono su beni
determinati ed assoggettano i beni stessi a
vincoli preordinati all'espropriazione od a
vincoli che comportino l'inedificabilità,
perdono ogni efficacia qualora entro cinque
anni dalla data di approvazione del piano
regolatore generale non siano stati
approvati i relativi piani particolareggiati
od autorizzati i piani di lottizzazione
convenzionati.
L'efficacia dei vincoli
predetti non può essere protratta oltre il
termine di attuazione dei piani
particolareggiati e di lottizzazione.
Per i piani regolatori generali approvati
prima della data di entrata in vigore della
presente legge, il termine di cinque anni di
cui al precedente comma decorre dalla
predetta data”.
Si evidenzia in proposito che per lungo
tempo la tradizionale opzione ermeneutica
della giurisprudenza amministrativa è stata
stabilmente orientata nell’affermare che la
motivazione sottesa alla reiterazione
potesse anche consistere in generiche
considerazioni omnicomprensive dell’intero
territorio comunale, soprattutto allorché
(come nel caso in esame) venissero reiterati
i vincoli afferenti l’intero territorio
comunale. Si è pertanto affermato, in
passato, che:
► ”in sede di reiterazione dei vincoli scaduti
per decorrenza del quinquennio, nel caso in
cui l'amministrazione intenda procedere alla
reiterazione totale dei vincoli, la
documentazione dell'esistenza dei problemi
di ordine generale che incidono in senso
negativo sulle condizioni di vita
dell'intera cittadinanza, non risolti o
addirittura "medio tempore" aggravatisi, è
sufficiente a legittimare la suddetta
reiterazione totale, senza bisogno di una
rinnovata indagine condotta sulle singole
aree, onde accertare la persistente
necessità di disporre di esse, al fine di
soddisfare quelle esigenze, in quanto il
giudizio in ordine all'attualità dei bisogni
reca in sé quello sulla persistente
attualità ed idoneità delle soluzioni a suo
tempo prefigurate per soddisfarli.
Viceversa, nel caso in cui il procedimento reiterativo del vincolo abbia un oggetto
circoscritto, l'amministrazione è tenuta a
supportarlo con una specifica ed esauriente
motivazione, in quanto, avendo essa omesso
di attivare con tempestività il procedimento
ablatorio, potrebbe aver ingenerato nel
privato proprietario il convincimento che
non sussista più un effettivo e concreto
interesse pubblico da tutelare”
Consiglio Stato, sez. IV, 12.03.1996,
n. 305).
► Più di recente, tuttavia, anche a seguito
del decisivo impulso fornito dalla
giurisprudenza della Corte Costituzionale
(si rimarca in proposito che la Corte
Costituzionale con la sentenza n. 179 del
1999, ha affermato il principio secondo cui
la reiterazione dei vincoli di piano
regolatore a contenuto espropriativo scaduti
deve essere accompagnata dalla previsione di
un indennizzo) si è assistito ad una decisa
correzione di rotta che ha indotto la
giurisprudenza ad affermare che la
legittimità della reiterazione non poteva
prescindere dal positivo riscontro di una
duplice condizione: si è pertanto affermato,
per un verso, che “l’accantonamento delle
somme necessarie per il pagamento
dell’indennità di espropriazione è
condizione di legittimità del provvedimento
di reiterazione dei vincoli scaduti ai sensi
dell’art. 2 l. n. 1187 del 1968. sebbene
puntualmente motivato e giustificato da un
evidente interesse pubblico” (Consiglio
Stato, sez. IV, 28.07.2005 , n. 4019).
► Sotto altro profilo, si è evidenziato che la
reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti
(oggi rientrante nella previsione di cui
all'art. 9 d.P.R. 08.06.2001 n. 327) non
può disporsi senza svolgere una specifica
indagine concreta relativa alle singole aree
finalizzata a modulare e considerare le
differenti esigenze, pubbliche e private, in
quanto l'amministrazione nel reiterare i
vincoli scaduti è tenuta ad accertare che
l'interesse pubblico sia ancora attuale e
non possa essere soddisfatto con soluzioni
alternative e deve indicare le concrete
iniziative assunte o di prossima attuazione
per soddisfarlo, nonché disporre
l'accantonamento delle somme necessarie per
il pagamento dell'indennità di
espropriazione.
Si è rilevato, in
particolare, che: “l'obbligo di motivazione
in materia di reiterazione dei vincoli
urbanistici scaduti sussiste anche quando la
reiterazione del vincolo sia disposta in
occasione dell'adozione di variante generale
al p.r.g.“ (Consiglio Stato, sez. IV, 15.05.2000, n. 2706).
► Appare significativo riportare un breve
stralcio della motivazione della decisione
in ultimo citata, laddove si è affermato che
“Circa l'insussistenza di un siffatto
obbligo di motivazione laddove la
reiterazione dei vincoli di inedificabilità
sia inserita all'interno di una variante
c.d. "generale" non puntuale e specifica,
basta osservare che quello che conta è il
tipo determinazione adottata (reiterazione
di vicolo scaduto), e non l'ambito
territoriale più o meno ampio oggetto della
complessiva disciplina in cui si inserisce,
anche, la determinazione reiterativa. La
gravosità e la operatività sostanzialmente
espropriativa incidente in tal modo su
singoli proprietari non sono attenuate o
mutate dalla natura generale della variante
reiterativa, per cui nessun riflesso tale
natura esplica sull'esigenza di motivazione.
Sarebbe sin troppo eludibile la salvaguardia
consistente nella motivazione, che è poi, in
effetti, null'altro che l'ostensione di una
riflessione che deve essere ponderata e
razionale circa il regime specifico delle
aree vincolate, sorretta da un'effettiva
ricognizione delle esigenze e delle reali
caratteristiche del substrato urbanistico da
disciplinare, se la sola "generalità" della
variante o, comunque, dello strumento
urbanistico, potesse riassorbirla, in
omaggio ad un formalismo legato ad un
aspetto (la estensione del territorio
comunale regolato) non idoneo a influire
sulla capacità lesiva ed espropriativa della
reiterazione.
L'obbligo di motivazione in sede di variante
generale, quando investa le reiterazioni
"vincolistiche" non risulta, invece,
snaturare la funzione programmatoria dello
strumento urbanistico, poiché la specificità
e globalità delle giustificazioni
legittimamente adducibili per sostenere il
complesso delle sue previsioni, non tali
cioè da dover indicare la "ratio variandi"
di ogni singola precedente previsione
appaiono compatibili con l'ostensione
specifica ed esauriente relativa a singole
aree su cui incidano i vincoli scaduti e
reiterati. La specificità di motivazione è,
infatti, in tale ipotesi, connessa alla
peculiarità della fattispecie, ove con la
quale non viene esercitata la normale
potestà programmatoria, (il cui peso è
insito nel regime della proprietà e, quindi,
nella configurazione ordinaria del relativo
diritto), ma si incide sul contenuto
naturale costituzionalmente garantito di
quest'ultimo, ancorché appunto «in occasione
dell'esercizio di un potere programmatorio
che "coesiste", però, con un'ulteriore
determinazione di natura espropriativa.
Certamente il "modus" della motivazione non
può non risentire del carattere generale
della variante adottata e, quindi, non può
non riflettere il probabile fenomeno
dell'interdipendenza delle situazioni
fattuali e degli obiettivi considerati
nell'adottare la variante medesima.
Le implicazioni concrete di un quadro
composto e più ampio, e cioè il modo in cui
le scelte e le esigenze di assetto del
territorio, nella sua più vasta
articolazione, impongono sulla disciplina di
una singola area in esso collocata, vanno
esplicitate si da evidenziare la coerenza e
l'opportunità della soluzione adottata in
relazione al quadro territoriale oggetto di
programmazione.
Non basta a tal fine enunziare la necessità
di apportare "modifiche ed integrazioni"
alle previsioni del previdente strumento
urbanistico nel senso di modificare
"zonizzazioni" per coordinare organicamente
certe destinazioni a servizi (con la
connessa innovazione alla normativa tecnica
di attuazione), né basta enunciare la
generica necessità di colmare il vuoto di
disciplina dovuto alla decadenza di
pregressi vincoli a carattere espropriativi.
La enunciazione in sé del vuoto di
disciplina e delle esigenze pubblicistiche
surriferite può solo costituire una premessa
ma non l'intero svolgimento motivazionale
della reiterazione, come giustamente ha
rilevato il giudice di prime cure.
Per conferire alla valutazione di
imposizione di vincoli scaduti ed alla
conseguente motivazione un grado di
concretezza sufficiente occorre che si
proceda secondo uno schema logico "minimo"
composto essenzialmente:
a) dalla ricognizione del perdurante bisogno
di realizzare un certo assetto urbanistico
di interesse della collettività e della
portata, dimensione e priorità di tale
interesse in relazione alla situazione
attuale ed alle risorse disponibili;
b) dall'accertamento che la realizzazione di
tale assetto possa implicare il
coinvolgimento necessario ed attuale
dell'are di proprietà privata già oggetto di
vincolo;
c) dalla dimostrazione che eventuali
soluzioni alternative siano impraticabili o
eccessivamente onerose in base a criteri
oggettivi di comparazione che tengano, però,
anche conto del necessario bilanciamento tra
costo dell'intervento pubblico e sacrificio
imposto al privato: ciò in guisa che la
minimizzazione di quest'ultimo può rendere
praticabili anche soluzioni in sé più
"costose", entro limiti di ragionevolezza
obiettiva emergenti dalla considerazione
della priorità e delle dimensioni
dell'intervento nonché delle risorse
disponibili.” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.06.2012 n. 3365 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sono devolute al giudice
ordinario, in funzione di giudice del
lavoro, tutte le controversie relative ai
rapporti di lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni incluse le
controversie concernenti il conferimento e
la revoca degli incarichi dirigenziali, come
nella specie.
La revoca che si riferisce a
gravi motivi ovvero a violazione di legge o
dei principi di buon andamento o di
imparzialità, di cui all'art. 3-bis, comma
6, d.lgs. 30.12.1992, n. 502, in quanto essa
è equiparabile a fatti di inadempimento e,
quindi, attiene alla risoluzione del
rapporto di lavoro privato, è rimessa alla
cognizione della giurisdizione del giudice
ordinario.
---------------
In merito al conferimento di incarichi di
lavoro a soggetti esterni alla P.A., pur non
sussistendo la cd. “riserva residuale” di
giurisdizione del giudice amministrativo, la
quale si riferisce soltanto al reclutamento
basato su prove di concorso caratterizzato
da un fase di individuazione degli aspiranti
muniti di generici titoli di ammissione e di
una successiva fase di svolgimento di prove
e di confronto delle capacità volta ad
operare la selezione e presidiata da
discrezionalità anche amministrativa della
pubblica amministrazione, non si condivide
l’assunto secondo cui non vi sarebbe spazio
per la giurisdizione del G.A.
Infatti, in tutti i casi in cui la scelta
del soggetto incaricato si basi su profili
di discrezionalità (massima nella specie,
ove sono implicate anche ragioni di
carattere politico, che richiedono ancora di
più il rispetto dei rigorosi parametri
dell’imparzialità e del buon andamento di
cui all’art. 97 della Cost.), l’atto di
nomina non può che essere esercizio di
potere discrezionale amministrativo e non
può assolutamente ritenersi atto datoriale
di tipo privatistico attinente
all’organizzazione degli uffici, poiché tale
qualificazione metterebbe pericolosamente
sullo sfondo, in contrasto con il precetto
richiamato dell’art. 97 della Cost., la
necessità di rispettare, nella scelta, le
regole che circoscrivono l’agire
discrezionale (e, quindi, la funzione
amministrativa) della P.A. e che, per
contro, non possono caratterizzare il potere
privatistico del datore di lavoro.
... per la riforma della sentenza del TAR
CAMPANIA-NAPOLI: SEZIONE V n. 17360/2010,
resa tra le parti, concernente REVOCA
INCARICO DI DIRETTORE GENERALE.
...
Il Collegio non può che adeguarsi, infatti,
da un lato al chiaro disposto dell’art. 63,
comma 1, d.lgs. 30.03.2001, n. 165,
secondo il quale sono devolute al giudice
ordinario, in funzione di giudice del
lavoro, tutte le controversie relative ai
rapporti di lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni incluse le
controversie concernenti il conferimento e
la revoca degli incarichi dirigenziali, come
nella specie.
Dall’altro, risulta univoca, in tal senso,
la giurisprudenza della Corte di Cassazione
secondo cui la revoca che si riferisce a
gravi motivi ovvero a violazione di legge o
dei principi di buon andamento o di
imparzialità, di cui all'art. 3-bis, comma
6, d.lgs. 30.12.1992, n. 502, in
quanto essa è equiparabile a fatti di
inadempimento e, quindi, attiene alla
risoluzione del rapporto di lavoro privato,
è rimessa alla cognizione della
giurisdizione del giudice ordinario (cfr.
Cass., Sez. Un. 26.01.2011, n. 1767;
conforme: Cass., Sez. Un., 28.07.2004,
n. 14177; in senso sostanzialmente conforme:
Cass., Sez. Un., 24.02.1999, n. 100).
E’ pur vero che, nella specie, l’incarico
non trova la sua fonte in un contratto di
diritto privato, ma in un atto
amministrativo discrezionale a monte,
rispetto al quale il contratto privato a
valle si limita a regolare il rapporto,
senza incidere sulla sua fase genetica.
In merito al conferimento di incarichi di
lavoro a soggetti esterni alla P.A., pur non
sussistendo la cd. “riserva residuale” di
giurisdizione del giudice amministrativo, la
quale si riferisce soltanto al reclutamento
basato su prove di concorso caratterizzato
da un fase di individuazione degli aspiranti
muniti di generici titoli di ammissione e di
una successiva fase di svolgimento di prove
e di confronto delle capacità volta ad
operare la selezione e presidiata da
discrezionalità anche amministrativa della
pubblica amministrazione, non si condivide
l’assunto secondo cui non vi sarebbe spazio
per la giurisdizione del G.A.
Infatti, in tutti i casi in cui la scelta
del soggetto incaricato si basi su profili
di discrezionalità (massima nella specie,
ove sono implicate anche ragioni di
carattere politico, che richiedono ancora di
più il rispetto dei rigorosi parametri
dell’imparzialità e del buon andamento di
cui all’art. 97 della Cost.), l’atto di
nomina non può che essere esercizio di
potere discrezionale amministrativo e non
può assolutamente ritenersi atto datoriale
di tipo privatistico attinente
all’organizzazione degli uffici, poiché tale
qualificazione metterebbe pericolosamente
sullo sfondo, in contrasto con il precetto
richiamato dell’art. 97 della Cost., la
necessità di rispettare, nella scelta, le
regole che circoscrivono l’agire
discrezionale (e, quindi, la funzione
amministrativa) della P.A. e che, per
contro, non possono caratterizzare il potere
privatistico del datore di lavoro.
Tuttavia, l’impugnazione proposta si
sostanzia in una contestazione incentrata
unicamente sulla risoluzione di un rapporto
per inadempimento (o sul suo equivalente,
concernente la mancata conferma, come ha
asserito la Corte di Cassazione, per effetto
dell’applicazione della norma di cui
all'art. 3-bis, comma 6, d.lgs. 30.12.1992, n. 502), non implicando la soluzione
di questioni attinenti al rapporto di
diritto pubblico a monte ed incidendo,
dunque, non sull’atto amministrativo
attributivo dell’incarico, bensì unicamente
sul rapporto di diritto privato (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.06.2012 n. 3352 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sussiste l'onere di presentare la
dichiarazione ex art. 38, c. 1, lett. c),
d.lgs. n. 163/2006, anche con riferimento
agli amministratori ed ai direttori tecnici
della società incorporata, nel caso di
incorporazione o fusione societaria nel
triennio.
In caso di incorporazione o fusione
societaria sussiste in capo alla società
incorporante, o risultante dalla fusione,
l'onere di presentare la dichiarazione
relativa al requisito di cui all'art. 38,
comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006 anche
con riferimento agli amministratori ed ai
direttori tecnici che hanno operato presso
la società incorporata o le società fusesi
nell'ultimo triennio ovvero che sono cessati
dalla relativa carica in detto periodo (dopo
il d.l. n. 70 del 2011: nell'ultimo anno).
Resta ferma la possibilità di dimostrare la
c.d. dissociazione.
L'art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006,
sia prima che dopo l'entrata in vigore del
d.l. n. 70 del 2011, impone la presentazione
di una dichiarazione sostitutiva completa, a
pena di esclusione, e tale dichiarazione
sostitutiva deve essere riferita, quanto
all'art. 38, comma 1, lett. c), anche agli
amministratori delle società che partecipano
ad un procedimento di incorporazione o di
fusione, nel limite temporale ivi indicato;
Nel contesto di oscillazioni della
giurisprudenza e di conseguente incertezza
delle stazioni appaltanti, fino alla
plenaria n. 10/2012 e alla plenaria odierna,
i concorrenti che omettono la dichiarazione
di cui all'art. 38, comma 1, lett. c),
d.lgs. n. 163/2006, relativamente agli
amministratori delle società partecipanti al
procedimento di fusione o incorporazione,
possono essere esclusi dalle gare -in
relazione alle dichiarazioni rese ai sensi
dell'art. 38, comma 1, lett. c), fino alla
data di pubblicazione della presente
decisione- solo se il bando espliciti tale
onere di dichiarazione e la conseguente
causa di esclusione; in caso contrario,
l'esclusione può essere disposta solo ove vi
sia la prova che gli amministratori per i
quali è stata omessa la dichiarazione hanno
pregiudizi penali (Consiglio di Stato,
Adunanza Plenaria,
sentenza 07.06.2012 n. 21 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Lo speciale diritto di accesso
agli atti riconosciuto al consigliere
comunale può essere esteso anche agli atti
della società controllata dal comune.
Peraltro tale diritto può essere pienamente
affermato solo dopo aver superato
l’ulteriore nodo dell’assoggettabilità della
società intimata all’obbligo di consentire
l’accesso ai propri atti, al pari di quanto
è imposto ai soggetti pubblici.
A tale proposito la giurisprudenza è
costante ed uniforme nel ritenere che anche
nei confronti di soggetti con personalità
giuridica di diritto privato sussista
l’obbligo di garantire il diritto d’accesso,
a prescindere dalla loro qualificazione
quale organismo di diritto pubblico, qualora
si tratti di soggetti gestori di servizio
pubblico.
Nel merito, invece, occorre prendere le
mosse dall’accertamento della possibilità di
qualificare l’istanza come legittimamente
proveniente dal ricorrente nell’esercizio
delle sue funzioni di consigliere comunale e
non anche quale comune cittadino. A tale
proposito soccorre il testo del secondo
comma dell’art. 43 del d. lgs. 267/2000, il
quale recita: “I consiglieri comunali e
provinciali hanno diritto di ottenere dagli
uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato. Essi
sono tenuti al segreto nei casi
specificamente determinati dalla legge”.
Dato il tenore letterale della norma, la
stessa non parrebbe direttamente riferirsi
anche alle società partecipate dal Comune
che, però, si ritengono, laddove, come nel
caso di specie, si tratti di soggetti a
totale partecipazione pubblica,
riconducibili, in via analogica, alla
categoria degli “enti dipendenti”.
Si ritiene, pertanto, che lo speciale
diritto di accesso agli atti riconosciuto al
consigliere comunale possa essere esteso
anche agli atti della società controllata in
questione.
Peraltro tale diritto può essere pienamente
affermato solo dopo aver superato
l’ulteriore nodo dell’assoggettabilità della
società intimata all’obbligo di consentire
l’accesso ai propri atti, al pari di quanto
è imposto ai soggetti pubblici. A tale
proposito la giurisprudenza è costante ed
uniforme (cfr., da ultimo, Cons. Stato, VI,
27.12.2011, n. 6835) nel ritenere che anche
nei confronti di soggetti con personalità
giuridica di diritto privato sussista
l’obbligo di garantire il diritto d’accesso,
a prescindere dalla loro qualificazione
quale organismo di diritto pubblico, qualora
si tratti di soggetti gestori di servizio
pubblico (sul punto, da ultimo, TAR
Lombardia Brescia Sez. II, 10.02.2012, n.
222, Cons. Stato, VI, 19.04.2011, n. 2434,
Cons. Stato, V, 23.09.2010, n. 7083).
Nel caso di specie la società risulta essere
stata costituita per “la gestione dei
servizi pubblici rivolti alla promozione
dello sviluppo economico e civile di
Montichiari” e, quindi, per il
soddisfacimento di interessi generali di
carattere non industriale o commerciale.
L’assoggettabilità alla disciplina
dell’accesso della stessa è, quindi,
determinata dal fatto che la società Centro
Fiere s.p.a. svolge servizi di rilevanza
pubblica (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 05.06.2012 n. 1003 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
legittimazione al ricorso è correlata alla
titolarità della situazione giuridica
soggettiva per la cui tutela è esercitata
l’azione giurisdizionale.
Nelle controversie concernenti l’affidamento
di contratti pubblici e di concessioni, la
legittimazione al ricorso spetta ai soggetti
legittimamente partecipanti alla procedura
competitiva indetta per l’affidamento.
L’ordinamento giuridico interno, in coerenza
con i principi affermati in sede
comunitaria, ammette tre fattispecie,
in presenza delle quali, in deroga rispetto
al principio appena enunciato, si riconosce
la legittimazione a ricorrere anche al non
partecipante in gara e precisamente:
● si ammette la legittimazione ad impugnare
il bando di una procedura ad evidenza
pubblica, a prescindere dalla partecipazione
alla stessa, al ricorrente che intenda
contestare in radice la scelta di indire la
gara. La legittimazione, in una simile
ipotesi, va riconosciuta al ricorrente che
sia titolare di una situazione
sufficientemente differenziata e
qualificata, derivantegli dalla titolarità
di rapporti giuridici incompatibili con
l’oggetto della gara.
● è legittimato a ricorrere avverso
l’affidamento diretto o senza gara
l’operatore economico del settore che aspiri
al conseguimento del contratto. In tal caso,
le esigenze di tutela del confronto
concorrenziale pretermesso giustificano la
legittimazione ampia, fermo restando il
vaglio giurisdizionale in ordine alla
sussistenza, in concreto, di una situazione
sufficientemente differenziata.
● si riconosce, infine, la legittimazione
all’impugnazione del bando di gara che
contenga clausole escludenti, in ragione
dell’immediata lesività dell’illegittima
previsione di determinati requisiti di
qualificazione.
La legittimazione al ricorso è correlata
alla titolarità della situazione giuridica
soggettiva per la cui tutela è esercitata
l’azione giurisdizionale.
Nelle controversie concernenti l’affidamento
di contratti pubblici e di concessioni, la
legittimazione al ricorso spetta ai soggetti
legittimamente partecipanti alla procedura
competitiva indetta per l’affidamento.
L’ordinamento giuridico interno, in coerenza
con i principi affermati in sede
comunitaria, ammette tre fattispecie,
in presenza delle quali, in deroga rispetto
al principio appena enunciato, si riconosce
la legittimazione a ricorrere anche al non
partecipante in gara.
In particolare, si ammette la legittimazione
ad impugnare il bando di una procedura ad
evidenza pubblica, a prescindere dalla
partecipazione alla stessa, al ricorrente
che intenda contestare in radice la scelta
di indire la gara. La legittimazione, in una
simile ipotesi, va riconosciuta al
ricorrente che sia titolare di una
situazione sufficientemente differenziata e
qualificata, derivantegli dalla titolarità
di rapporti giuridici incompatibili con
l’oggetto della gara.
Altresì, è legittimato a ricorrere avverso
l’affidamento diretto o senza gara
l’operatore economico del settore che aspiri
al conseguimento del contratto. In tal caso,
le esigenze di tutela del confronto
concorrenziale pretermesso giustificano la
legittimazione ampia, fermo restando il
vaglio giurisdizionale in ordine alla
sussistenza, in concreto, di una situazione
sufficientemente differenziata.
Si riconosce, infine, la legittimazione
all’impugnazione del bando di gara che
contenga clausole escludenti, in ragione
dell’immediata lesività dell’illegittima
previsione di determinati requisiti di
qualificazione
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 04.06.2012 n. 1128
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sull'obbligatorietà del rispetto
di determinati criteri di aggiudicazione per
l'affidamento del servizio di distribuzione
del gas - D.M. n. 226 del 12.11.2011 sui
criteri di aggiudicazione.
---------------
L'affidamento del servizio di distribuzione
del gas può avvenire anche con procedura
negoziata.
L'art. 14 del d.lvo 164/2000 ha introdotto
il principio per cui l'affidamento del
servizio di distribuzione del gas può
avvenire solo tramite gara da aggiudicarsi "sulla
base delle migliori condizioni economiche e
di prestazione del servizio, del livello di
qualità e sicurezza, dei piani di
investimento per lo sviluppo ed il
potenziamento della rete e degli impianti,
per il loro innovo e manutenzione, nonché
dei contenuti di innovazione tecnologica e
gestionale presentati dalla imprese
concorrenti", e con la precisazione che
tali elementi avrebbero dovuto far parte del
contratto di servizio.
Tale principio é stato confermato, ed é
stato anzi rafforzato, dall'art. 46-bis del
D.L. 159/2007, conv. nella L. 222 del 2007,
il quale ha stabilito che "al fine di
garantire al settore della distribuzione del
gas naturale maggiore concorrenza e livelli
minimi di qualità dei servizi essenziali"
con decreto ministeriale sarebbero stati
individuati "i criteri di gara e di
valutazione dell'offerta per l'affidamento
del servizio di distribuzione del gas
previsto dall'art. 14, c. 1, del d.lvo n.
164/2000, tenendo conto in maniera adeguata,
oltre che delle condizioni economiche
offerte, e in particolare di quelle a
vantaggio dei consumatori, degli standard
qualitativi e di sicurezza del servizio, dei
piani di investimento e di sviluppo delle
reti e degli impianti".
Se dunque il legislatore ha ritenuto
opportuno regolamentare i criteri di
aggiudicazione per l'affidamento del
servizio di distribuzione del gas é perché
il rispetto di determinati criteri di
aggiudicazione é stato ritenuto
imprescindibile.
Con decreto ministeriale n. 226 del
12.11.2011 i criteri di aggiudicazione del
servizio di distribuzione del gas sono stati
esplicitati e sono stati ricondotti a tre
grandi categorie, e cioè: le condizioni
economiche, i criteri di sicurezza e di
qualità ed infine i piani di sviluppo degli
impianti.
Il regolamento prevede, in particolare, la
possibilità di attribuire non più di 28
punti per le condizioni economiche, non più
di 22 punti per i criteri di sicurezza,
oltre a 5 punti per il criterio della
qualità; ed infine non più di 45 punti per
il piano degli investimenti, da presentarsi
obbligatoriamente. Tanto dimostra quanto
fosse già immanente nel sistema del D.L.
159/2007 la necessità della presentazione
del piano degli investimenti e di attribuire
ad esso un valore significativo.
---------------
Il termine "gara" non si riferisce
solo alle procedure ad evidenza pubblica "aperte",
ma anche a quelle ristrette. L'art. 46-bis
del D.L. 159/2007, contempla, infatti, al
c.4, l'ipotesi in cui l'affidamento del
servizio di distribuzione del gas abbia
luogo con procedura negoziata, laddove
stabilisce che "Gli enti locali che, per
l'affidamento del servizio di distribuzione
di gas naturale, alla data di entrata in
vigore del presente decreto, in caso di
procedura aperta, abbiano pubblicato i bandi
di gara, o, in caso di procedura di gara
ristretta, abbiano inviato anche le lettere
di invito, ….possono procedere
all'affidamento del servizio di
distribuzione di gas naturale secondo le
procedure applicabili alla data di indizione
della relativa gara……".
Del resto non appare ragionevole che il
legislatore abbia consentito a derogare ai
criteri di aggiudicazione indicati dall'art.
14 del D. L.vo 164/2000 e poi dall'art.
46-bis del D.L. 159/2007 in presenza di una
procedura ristretta, dal momento che tali
criteri sono funzionali a garantire i
livelli minimi di qualità del servizio. In
altre parole, le procedure di affidamento
del servizio di distribuzione del gas
seguono ormai, per quanto riguarda i criteri
di aggiudicazione, le disposizioni di cui
alle norme sopra citate, che non possono
ritenersi derogabili in alcun caso, allo
stesso modo in cui non si può derogare al
principio per cui tali servizi possono
essere affidati solo con gara, e non più
tramite concessione.
Ciò significa che, nel settore di che
trattasi, nel passaggio dalla gara pubblica
alla procedura ristretta i criteri di
aggiudicazione possono certamente essere
modificati in funzione di rendere
l'aggiudicazione del servizio più attraente,
tuttavia rispettando il principio per cui
non si può prescindere ai fini della scelta
del contraente da una adeguata
valorizzazione della offerta tecnica (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 01.06.2012 n. 633 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale delle opere
abusive, prevista dall’art. 7, comma 3, L.
28.02.1985, n. 47 -ora art. 31, comma 3,
D.P.R. 380/2001- è atto dovuto senza alcun
contenuto discrezionale, ed è subordinato
unicamente all’accertamento della
inottemperanza ed al decorso del termine di
legge (novanta giorni) fissato per la
demolizione ed il ripristino dello stato dei
luoghi.
In tal senso, infatti, dispone il comma 3
dell'art. 31 d.P.R. 06.06.2001 n. 380, dalla
cui formulazione letterale risulta evidente
che l'effetto ablatorio si verifica "ope
legis" all'inutile scadenza del termine
fissato per ottemperare all'ingiunzione di
demolire.
Trattandosi nella sostanza di atto
vincolato, trova di conseguenza applicazione
quanto previsto dall’art. 21-octies, comma
2, della legge n. 241 del 1990.
---------------
L’acquisizione gratuita al patrimonio
comunale delle opere abusive è atto dovuto
ed è sufficientemente motivato con
l’affermazione dell’abusività e
dell’accertata inottemperanza all’ordine di
demolizione, essendo in re ipsa l’interesse
pubblico all’adozione della misura, senza
obbligo di alcuna specifica argomentazione
in ordine all’acquisizione dell'area
necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quella abusiva, essendo soltanto
necessario che in detto atto siano
esattamente individuate ed elencate le opere
e le relative pertinenze urbanistiche”.
L’acquisizione gratuita al patrimonio
comunale degli immobili abusivi e della
relativa area di sedime costituisce effetto
automatico della mancata ottemperanza
all'ordine di demolizione. Il provvedimento
con il quale viene disposta l'acquisizione
gratuita –costituendo titolo per
l'immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari– può
essere adottato senza la specifica
indicazione dell’ulteriore area necessaria …
oggetto di acquisizione, potendosi procedere
a tale individuazione anche con un
successivo e separato atto.
Come affermato dalla giurisprudenza “l’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale delle opere
abusive, prevista dall’art. 7, comma 3, L.
28.02.1985, n. 47 -ora art. 31, comma 3,
D.P.R. 380/2001- è atto dovuto senza alcun
contenuto discrezionale, ed è subordinato
unicamente all’accertamento della
inottemperanza ed al decorso del termine di
legge (novanta giorni) fissato per la
demolizione ed il ripristino dello stato dei
luoghi" (cfr. Cons. Stato, sez. V,
18.12.2002, n. 7030; 02.01.2000, n. 341;
23.01.1991, n. 66).
In tal senso, infatti, dispone il comma 3
dell'art. 31 d.P.R. 06.06.2001 n. 380, dalla
cui formulazione letterale risulta evidente
che l'effetto ablatorio si verifica "ope
legis" all'inutile scadenza del termine
fissato per ottemperare all'ingiunzione di
demolire (così TAR Campania Napoli, sez. IV,
24.05.2010, n. 8345).
Trattandosi nella sostanza di atto
vincolato, trova di conseguenza applicazione
quanto previsto dall’art. 21-octies, comma
2, della legge n. 241 del 1990.
---------------
Quanto al
motivo sub b), con il quale si lamenta la
mancata individuazione delle prescrizioni
urbanistiche in base alle quali realizzare
opere analoghe a quelle abusive, ritiene il
collegio di aderire a quella giurisprudenza
secondo cui “l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale delle opere abusive è
atto dovuto ed è sufficientemente motivato
con l’affermazione dell’abusività e
dell’accertata inottemperanza all’ordine di
demolizione, essendo in re ipsa l’interesse
pubblico all’adozione della misura, senza
obbligo di alcuna specifica argomentazione
in ordine all’acquisizione dell'area
necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quella abusiva, essendo soltanto
necessario che in detto atto siano
esattamente individuate ed elencate le opere
e le relative pertinenze urbanistiche”
(TAR Campania Napoli sez. II, 04.11.2011, n.
5136).
In ordine poi alla dedotta mancata esatta
specificazione dell’area di sedime, osserva
il collegio che trattasi di censura nella
sostanza introdotta soltanto con note di
udienza depositate in data 05.05.2012, come
tale inammissibile.
E ciò a tacere del fatto che, secondo la
giurisprudenza anche di questa sezione, “l’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale degli
immobili abusivi e della relativa area di
sedime costituisce effetto automatico della
mancata ottemperanza all'ordine di
demolizione. Il provvedimento con il quale
viene disposta l'acquisizione gratuita
–costituendo titolo per l'immissione in
possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari– può essere adottato senza la
specifica indicazione dell’ulteriore area
necessaria … oggetto di acquisizione,
potendosi procedere a tale individuazione
anche con un successivo e separato atto”
(così TAR Lazio Roma, sez. I, 07.03.2011, n.
2031; TAR Campania Napoli, sez. VII,
03.11.2010, n. 22291)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 30.05.2012 n. 2565 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
decadenza dei vincoli urbanistici
espropriativi o che, comunque, privano la
proprietà del suo valore economico,
lasciando il terreno privo di
regolamentazione, comporta l’obbligo per il
Comune di “reintegrare” la disciplina
urbanistica dell’area interessata dal
vincolo decaduto con una nuova
pianificazione, ancorché non sollecitata da
privato, posto che tale obbligo risponde
all’interesse pubblico generale e
prioritario al razionale e ordinato assetto
del territorio.
Il proprietario dell’area interessata può
comunque presentare un’istanza, volta a
ottenere l’attribuzione di una nuova
destinazione urbanistica, e la P.A. è tenuta
a esaminarla, anche nel caso in cui la
richiesta medesima non sia suscettibile di
accoglimento, con l’obbligo di motivare
congruamente tale decisione.
L’obbligo di provvedere alla
rideterminazione urbanistica di un’area, in
relazione alla quale sono decaduti i vincoli
espropriativi precedentemente in vigore, non
comporta quindi che essa riceva una
destinazione urbanistica edificatoria o nel
senso voluto dal privato, essendo in ogni
caso rimessa al potere discrezionale
dell’Amministrazione comunale la verifica e
la scelta della destinazione che, in
coerenza con la più generale disciplina
urbanistica del territorio, risulti più
idonea e più adeguata in relazione
all’interesse pubblico al corretto e
armonico utilizzo del territorio, potendo
anche ammettersi la reiterazione degli
stessi vincoli scaduti, sebbene nei limiti
di una congrua e specifica motivazione sulla
perdurante attualità della previsione,
comparata con gli interessi privati.
La decadenza dei vincoli urbanistici
espropriativi o che, comunque, privano la
proprietà del suo valore economico,
lasciando il terreno privo di
regolamentazione, comporta l’obbligo per il
Comune di “reintegrare” la disciplina
urbanistica dell’area interessata dal
vincolo decaduto con una nuova
pianificazione, ancorché non sollecitata da
privato, posto che tale obbligo risponde
all’interesse pubblico generale e
prioritario al razionale e ordinato assetto
del territorio (TAR Puglia, Lecce, sez. III,
27.07.2011, n. 1456; Consiglio Stato, sez.
V, 28.12.2007, n. 6741).
Il proprietario dell’area interessata può
comunque presentare un’istanza, volta a
ottenere l’attribuzione di una nuova
destinazione urbanistica, e la P.A. è tenuta
a esaminarla, anche nel caso in cui la
richiesta medesima non sia suscettibile di
accoglimento, con l’obbligo di motivare
congruamente tale decisione (Consiglio
Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7493; TAR
Sicilia, Palermo, sez. II, 09.09.2010, n.
10032 e sez. III, 07.05.2010, n. 6465; TAR
Puglia, Lecce, sez. I, 20.07.2010, n. 1781).
L’obbligo di provvedere alla
rideterminazione urbanistica di un’area, in
relazione alla quale sono decaduti i vincoli
espropriativi precedentemente in vigore, non
comporta quindi che essa riceva una
destinazione urbanistica edificatoria o nel
senso voluto dal privato, essendo in ogni
caso rimessa al potere discrezionale
dell’Amministrazione comunale la verifica e
la scelta della destinazione che, in
coerenza con la più generale disciplina
urbanistica del territorio, risulti più
idonea e più adeguata in relazione
all’interesse pubblico al corretto e
armonico utilizzo del territorio, potendo
anche ammettersi la reiterazione degli
stessi vincoli scaduti, sebbene nei limiti
di una congrua e specifica motivazione sulla
perdurante attualità della previsione,
comparata con gli interessi privati
(Consiglio Stato, sez. IV, 21.04.2010, n.
2262; TAR Sicilia, Catania, sez. I,
12.04.2010, n. 1084) (TAR Sardegna,
Cagliari, sez. II, 07.03.2012, n. 248) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 30.05.2012 n. 951 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: 1)
ai piani di lottizzazione, disciplinati
dall’art. 28, l. 17.08.1942 n. 1150, in
assenza di una specifica disposizione che
regoli il termine massimo di validità, si
applica in via analogica il termine massimo
di 10 anni dettato per i piani
particolareggiati dall’art. 16 della stessa
legge, termine entro il quale devono essere
realizzate tutte le opere di urbanizzazione
primaria previste dal piano di
lottizzazione, in adempimento dell’obbligo
assunto dal lottizzante con la stipulazione
della convenzione di lottizzazione;
2) il termine massimo di 10 anni di validità
del piano di lottizzazione, non è
suscettibile di deroga, decorre dalla data
di completamento del complesso procedimento
di formazione del piano attuativo;
3) decorso il termine di validità decennale
divengono inefficaci per la parte inattuata.
Il Comune può poi disciplinare la parte di
piano che non ha avuto attuazione mediante
un nuovo piano e dovrà, quindi, agire nel
rispetto delle procedure previste dalla
legge per l’approvazione dei piani
attuativi;
4) il termine decennale di efficacia,
previsto per i piani particolareggiati
dall’art. 16 l. 17.08.1942 n. 1150, ma
applicabile anche ai piani di lottizzazione,
si applica solo alle disposizioni di
contenuto espropriativo e non anche alle
prescrizioni urbanistiche di piano che
rimangono pienamente operanti e vincolanti
senza limiti di tempo fino all’eventuale
approvazione di un nuovo piano attuativo.
Decorso tale periodo, deve essere dichiarata
l’inefficacia della parte non attuata, salvi
gli allineamenti e le prescrizioni di zona
nel rispetto sia dell’interesse pubblico per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione
che dell’edificazione dei lotti.
Infondata è, pure, l’ulteriore censura
relativa alla decadenza del Piano di
Lottizzazione per mancata ultimazione delle
opere di urbanizzazione ai sensi e per gli
effetti dell’art. 28, comma 9, della l. n.
1150/1942.
Si premette che la fattispecie normata
dall’articolo del quale si lamenta la
violazione non trova riscontro nel caso
all’esame, posto che non si dibatte delle
conseguenze dell’inutile decorso del termine
decennale per esecuzione delle opere di
urbanizzazione poste a carico del
proprietario a seguito di stipula della
convenzione di lottizzazione, qui, per
stessa ammissione di parte ricorrente,
assente.
Trovano, invece, applicazione al caso, in
via analogica, gli artt. 16, “Approvazione
dei piani particolareggiati” e 17, “Validità
dei piani particolareggiati” della legge
urbanistica, l. 17.08.1942, n. 1150, che,
rispettivamente, stabiliscono: “Con
decreto di approvazione … sono fissati il
tempo, non maggiore di dieci anni, entro il
quale il piano particolareggiato dovrà
essere attuato …”; e “decorso il
termine stabilito per la esecuzione del
piano particolareggiato questo diventa
inefficace per la parte in cui non abbia
avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l’obbligo di osservare
nella costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti gli
allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso”.
Secondo giurisprudenza consolidata, infatti:
1) ai piani di lottizzazione, disciplinati
dall’art. 28, l. 17.08.1942 n. 1150, in
assenza di una specifica disposizione che
regoli il termine massimo di validità, si
applica in via analogica il termine massimo
di dieci anni dettato per i piani
particolareggiati dall’art. 16 della stessa
legge, termine entro il quale devono essere
realizzate tutte le opere di urbanizzazione
primaria previste dal piano di
lottizzazione, in adempimento dell’obbligo
assunto dal lottizzante con la stipulazione
della convenzione di lottizzazione (TAR
Sardegna, Cagliari, sez. II, 04.07.2007, n.
1488);
2) il termine massimo di dieci anni di
validità del piano di lottizzazione, non è
suscettibile di deroga, decorre dalla data
di completamento del complesso procedimento
di formazione del piano attuativo (TAR
Sardegna, Cagliari, sez. II, 31.03.2011, n.
294; TAR Toscana, Firenze, sez. I,
24.06.2009, n. 1091);
3) decorso il termine di validità decennale
divengono inefficaci per la parte inattuata.
Il Comune può poi disciplinare la parte di
piano che non ha avuto attuazione mediante
un nuovo piano e dovrà, quindi, agire nel
rispetto delle procedure previste dalla
legge per l’approvazione dei piani attuativi
(Consiglio di Stato, sez. IV, 06.04.2012, n.
2045, TAR Lombardia, Milano, sez. II,
25.07.2011, n. 1979);
4) il termine decennale di efficacia,
previsto per i piani particolareggiati
dall’art. 16 l. 17.08.1942 n. 1150, ma
applicabile anche ai piani di lottizzazione,
si applica solo alle disposizioni di
contenuto espropriativo e non anche alle
prescrizioni urbanistiche di piano che
rimangono pienamente operanti e vincolanti
senza limiti di tempo fino all’eventuale
approvazione di un nuovo piano attuativo
(Consiglio Stato, sez. IV, 28.07.2005, n.
4018).
Decorso tale periodo, deve essere dichiarata
l’inefficacia della parte non attuata, salvi
gli allineamenti e le prescrizioni di zona
nel rispetto sia dell’interesse pubblico per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione
che dell’edificazione dei lotti (TAR
Calabria, Catanzaro, sez. II, 19.01.2005, n.
39) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 30.05.2012 n. 951 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: il
rilascio della concessione edilizia può non
essere preceduto dall’approvazione del piano
di lottizzazione soltanto quando la zona sia
quasi interamente urbanizzata o la sua
edificazione sia completa.
Nelle situazioni intermedie la lottizzazione
è necessaria perché svolge una funzione di
raccordo con il precedente aggregato
abitativo e di potenziamento delle opere di
urbanizzazione. Quest’ultima deve essere
programmata per zone e non avvenire in
occasione dell’edificazione dei singoli
lotti, sicché l’impegno del richiedente a
realizzare opere di urbanizzazione primaria
e secondaria non può sostituire, il piano in
questione.
Il principio secondo cui va esclusa la
necessità di strumenti attuativi per il
rilascio di concessioni in zone già
urbanizzate è applicabile solo nei casi nei
quali la situazione di fatto, in presenza di
una pressoché completa edificazione della
zona, sia addirittura incompatibile con un
piano attuativo (ad es. il lotto residuale e
intercluso in area completamente
urbanizzata, non presente nel caso di
specie, visto che, complessivamente,
fronteggia almeno tre sedi stradali), ma non
anche all’ipotesi in cui per effetto di
un’edificazione disomogenea ci si trovi di
fronte ad una situazione che esige un
intervento idoneo a restituire efficienza
all’abitato, riordinando e talora definendo
“ex novo” un disegno urbanistico di
completamento della zona, ad esempio debba
essere completato il sistema della viabilità
secondaria nella zona o quando debba essere
integrata l’urbanizzazione esistente
garantendo il rispetto degli standards
minimi per spazi e servizi pubblici e le
condizioni per l’armonico collegamento con
le zone contigue, già asservite
all’edificazione.
Ciò è tanto vero che la lottizzazione può
rendersi necessaria anche con riguardo a
edifici singoli, tanto che per escluderne la
necessità deve essere comunque comprovata
una situazione di pressoché completa
edificazione della zona, tale da rendere del
tutto superfluo un piano attuativo.
Come sostenuto dalla giurisprudenza
consolidata, il rilascio della concessione
edilizia può non essere preceduto
dall’approvazione del piano di lottizzazione
soltanto quando la zona sia quasi
interamente urbanizzata o la sua
edificazione sia completa. Nelle situazioni
intermedie, come nel caso in esame, la
lottizzazione è necessaria perché svolge una
funzione di raccordo con il precedente
aggregato abitativo e di potenziamento delle
opere di urbanizzazione. Quest’ultima deve
essere programmata per zone e non avvenire
in occasione dell’edificazione dei singoli
lotti, sicché l’impegno del richiedente a
realizzare opere di urbanizzazione primaria
e secondaria non può sostituire, il piano in
questione (TAR Valle d’Aosta, Aosta, sez. I,
16.06.2011, n. 43, TAR Campania, Napoli,
sez. VIII, 05.05.2011, n. 2485; TAR Trentino
Alto Adige, Trento, sez. I, 12.01.2011, n.
2).
Il principio secondo cui va esclusa la
necessità di strumenti attuativi per il
rilascio di concessioni in zone già
urbanizzate è applicabile solo nei casi nei
quali la situazione di fatto, in presenza di
una pressoché completa edificazione della
zona, sia addirittura incompatibile con un
piano attuativo (ad es. il lotto residuale e
intercluso in area completamente
urbanizzata, non presente nel caso di
specie, visto che, complessivamente,
fronteggia almeno tre sedi stradali), ma non
anche all’ipotesi in cui per effetto di
un’edificazione disomogenea ci si trovi di
fronte ad una situazione che esige un
intervento idoneo a restituire efficienza
all’abitato, riordinando e talora definendo
“ex novo” un disegno urbanistico di
completamento della zona, ad esempio debba
essere completato il sistema della viabilità
secondaria nella zona o quando debba essere
integrata l’urbanizzazione esistente
garantendo il rispetto degli standards
minimi per spazi e servizi pubblici e le
condizioni per l’armonico collegamento con
le zone contigue, già asservite
all’edificazione (TAR Sicilia, Catania, sez.
I, 13.02.2012, n. 386).
Ciò è tanto vero che la lottizzazione può
rendersi necessaria anche con riguardo a
edifici singoli, tanto che per escluderne la
necessità deve essere comunque comprovata
una situazione di pressoché completa
edificazione della zona, tale da rendere del
tutto superfluo un piano attuativo (TAR
Sardegna, Cagliari, sez. II, 07.03.2012, n.
248) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 30.05.2012 n. 951 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'emanazione di un
provvedimento di demolizione di un'opera
edilizia abusiva, l’amministrazione non è
tenuta ad accertare e dimostrare l'epoca in
cui la stessa è stata realizzata, essendo
sufficiente l'accertamento della permanenza
dell'opera abusiva nel momento in cui il
provvedimento è adottato, mentre la
determinazione di una data diversa da quella
della sua commissione, rispetto alla
contestazione dell'amministrazione, può
essere conseguente solo ad una specifica
produzione di elementi probatori da parte
degli interessati, idonei a superare la
presunzione per la quale l'abuso è stato
realizzato in data prossima
all'accertamento.
I poteri sanzionatori in materia edilizia
possono essere adottati anche a distanza di
anni dalla realizzazione dell'abuso e non
necessitano di particolare motivazione in
ordine all'attualità dell'interesse pubblico
in quanto gli abusi edilizi sono illeciti a
carattere permanente.
I poteri repressivi dell’Amministrazione in
materia urbanistica non si estinguono per
decadenza o prescrizione, con la conseguenza
che i relativi provvedimenti possono essere
emanati in qualsiasi tempo in quanto il
potere sanzionatorio del Comune non incontra
nella materia in questione limiti temporali.
Certo non sfugge al Collegio l'esistenza di
un orientamento giurisprudenziale secondo
cui, ove sia quando sia decorso un notevole
lasso di tempo dalla commissione dell'abuso
edilizio, l'Amministrazione sarebbe tenuta a
motivare circa la sussistenza dell'interesse
pubblico alla eliminazione dell'opera
realizzata o addirittura sulle ragioni che
hanno indotto l'Ente a rimanere per tanto
tempo inerte, ma tale orientamento si
ritiene possa trovare applicazione solo in
circostanze assai limitate.
L'evoluzione normativa in materia
urbanistica è, infatti, contrassegnata
dall’emanazione di norme severe per la
repressione degli abusi edilizi, ma anche
dalla possibilità di sanare gli abusi
commessi attraverso l'istituto del cd.
condono edilizio i cui termini sono stati
più volte riaperti.
La possibilità riconosciuta ai privati di
far rientrare le opere abusive edificate fra
quelle assentite (in sanatoria) deve far
ritenere che l'Amministrazione quando
disponga la demolizione di opere abusive che
si assumono di non recente realizzazione, ma
mai denunciate neanche con la richiesta di
condono, come nel caso di specie, non abbia
il dovere di diffondersi in motivazioni
particolari.
Del resto, ove si ritenesse che la sanzione
demolitoria non costituisse un atto dovuto
anche per le opere di non recente
realizzazione, verrebbe vulnerata la stessa
efficacia del condono quale stimolo rivolto
ai privati a denunciare gli abusi commessi
al fine di sottrarsi alle conseguenze di
legge.
Secondo un ormai consolidato principio, ai
fini dell'emanazione di un provvedimento di
demolizione di un'opera edilizia abusiva,
l’amministrazione non è tenuta ad accertare
e dimostrare l'epoca in cui la stessa è
stata realizzata, essendo sufficiente
l'accertamento della permanenza dell'opera
abusiva nel momento in cui il provvedimento
è adottato, mentre la determinazione di una
data diversa da quella della sua
commissione, rispetto alla contestazione
dell'amministrazione, può essere conseguente
solo ad una specifica produzione di elementi
probatori da parte degli interessati, idonei
a superare la presunzione per la quale
l'abuso è stato realizzato in data prossima
all'accertamento (fra le tante: TAR
Campania, Napoli, sez. IV n. 4703 del
26.10.2001, TAR, Trentino Alto Adige–Bolzano
n. 283 del 09.11.2001).
Per giurisprudenza oramai costante, inoltre,
i poteri sanzionatori in materia edilizia
possono essere adottati anche a distanza di
anni dalla realizzazione dell'abuso e non
necessitano di particolare motivazione in
ordine all'attualità dell'interesse pubblico
in quanto gli abusi edilizi sono illeciti a
carattere permanente (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. V, 06.09.1999 n. 1015, TAR
Campania, Napoli, sez. IV n. 1909 del
01.03.2003, TAR Lazio, sez. II n. 5630 del
25.06.2003).
In proposito si è altresì precisato che i
poteri repressivi dell’Amministrazione in
materia urbanistica non si estinguono per
decadenza o prescrizione, con la conseguenza
che i relativi provvedimenti possono essere
emanati in qualsiasi tempo in quanto il
potere sanzionatorio del Comune non incontra
nella materia in questione limiti temporali
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2045
del 02.05.2005).
Certo non sfugge al Collegio l'esistenza di
un orientamento giurisprudenziale secondo
cui, ove sia quando sia decorso un notevole
lasso di tempo dalla commissione dell'abuso
edilizio, l'Amministrazione sarebbe tenuta a
motivare circa la sussistenza dell'interesse
pubblico alla eliminazione dell'opera
realizzata o addirittura sulle ragioni che
hanno indotto l'Ente a rimanere per tanto
tempo inerte, ma tale orientamento si
ritiene possa trovare applicazione solo in
circostanze assai limitate.
L'evoluzione normativa in materia
urbanistica è, infatti, contrassegnata
dall’emanazione di norme severe per la
repressione degli abusi edilizi, ma anche
dalla possibilità di sanare gli abusi
commessi attraverso l'istituto del cd.
condono edilizio i cui termini sono stati
più volte riaperti.
La possibilità riconosciuta ai privati di
far rientrare le opere abusive edificate fra
quelle assentite (in sanatoria) deve far
ritenere che l'Amministrazione quando
disponga la demolizione di opere abusive che
si assumono di non recente realizzazione, ma
mai denunciate neanche con la richiesta di
condono, come nel caso di specie, non abbia
il dovere di diffondersi in motivazioni
particolari.
Del resto, ove si ritenesse che la sanzione
demolitoria non costituisse un atto dovuto
anche per le opere di non recente
realizzazione, verrebbe vulnerata la stessa
efficacia del condono quale stimolo rivolto
ai privati a denunciare gli abusi commessi
al fine di sottrarsi alle conseguenze di
legge (in termini TAR Campania, Napoli, sez.
IV, 12.10.2005, 19867; idem, 26.10.2001, n.
4703) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 28.05.2012 n. 2490 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A norma del d.P.R. 380/2001,
sussiste a carico del proprietario
dell'immobile una presunzione di
responsabilità per gli abusi edilizi
accertati, sicché l'interessato può
sottrarsi a tale responsabilità solo
dimostrando la sua estraneità all'abuso
commesso.
L'ordinanza di demolizione di una
costruzione abusiva può legittimamente
essere emanata nei confronti del
proprietario attuale, anche se non
responsabile dell'abuso, in considerazione
del fatto che l'abuso edilizio costituisce
un illecito permanente e che l'adozione
dell'ordinanza, di carattere ripristinatorio,
non richiede l'accertamento del dolo o della
colpa del soggetto interessato.
Non convince nemmeno l’ulteriore profilo di
censura con il quale l’istante sostiene che
l'abuso sarebbe stato commesso da un
soggetto diverso rispetto alla ricorrente,
che viceversa sarebbe stata indicata nella
ordinanza di demolizione come “committente”
delle opere.
In proposito è sufficiente osservare che il
provvedimento impugnato individua la
ricorrente anche come proprietaria
dell’immobile in questione e che la
giurisprudenza amministrativa (cfr. fra le
tante, TAR Campania–Napoli, sez. IV,
04.02.2003, n. 614; TAR Lazio Roma, sez. II,
17.05.2005, n. 3852) è ormai costante
nell'affermare che, a norma del d.P.R.
380/2001, sussiste a carico del proprietario
dell'immobile una presunzione di
responsabilità per gli abusi edilizi
accertati, sicché l'interessato può
sottrarsi a tale responsabilità solo
dimostrando la sua estraneità all'abuso
commesso.
Venendo alla vicenda in esame la ricorrente
non ha soddisfatto tale onere probatorio,
essendosi limitata ad sostenere la propria
estraneità alla realizzazione delle opere,
senza tuttavia produrre in proposito alcun
elemento di riscontro.
Peraltro, secondo un ulteriore condivisibile
orientamento giurisprudenziale, l'ordinanza
di demolizione di una costruzione abusiva
può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario attuale, anche se
non responsabile dell'abuso, in
considerazione del fatto che l'abuso
edilizio costituisce un illecito permanente
e che l'adozione dell'ordinanza, di
carattere ripristinatorio, non richiede
l'accertamento del dolo o della colpa del
soggetto interessato (cfr. TAR Lazio Latina,
06.08.2009, n. 780) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 28.05.2012 n. 2490 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
certificato di destinazione urbanistica
rientra nella categoria degli atti di
certificazione, redatti da pubblico
ufficiale, aventi carattere dichiarativo o
certificativo del contenuto di atti pubblici
preesistenti e non può essere sussunto nella
categoria del "documento amministrativo",
così come definito dall'art. 22 lett. "d"
della l. n. 241/1990 e s.m.i., in materia di
accesso agli atti ("ogni rappresentazione
grafica, fotocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie
del contenuto di atti, anche interni o non
relativi ad uno specifico procedimento,
detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica
o privatistica della loro disciplina
sostanziale"), costituendo l'esercizio di
una funzione dichiarativa o certificativa
sulla base degli atti di strumentazione
urbanistica.
Ne consegue che, il rilascio dei certificati
di destinazione urbanistica non può avvenire
nelle forme del diritto di accesso, ma
secondo le specifiche fonti normative,
legislative e regolamentari, che
precipuamente riguardano tali tipi di atti
amministrativi.
Quanto al certificato di destinazione
urbanistica, possono condividersi le
controdeduzioni formulate
dall’amministrazione resistente, tenuto
conto che il predetto atto rientra nella
categoria degli atti di certificazione,
redatti da pubblico ufficiale, aventi
carattere dichiarativo o certificativo del
contenuto di atti pubblici preesistenti e
non può essere sussunto nella categoria del
"documento amministrativo", così come
definito dall'art. 22 lett. "d" della l. n.
241/1990 e s.m.i., in materia di accesso
agli atti ("ogni rappresentazione
grafica, fotocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie
del contenuto di atti, anche interni o non
relativi ad uno specifico procedimento,
detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica
o privatistica della loro disciplina
sostanziale"), costituendo l'esercizio
di una funzione dichiarativa o certificativa
sulla base degli atti di strumentazione
urbanistica (cfr. in tal senso TAR Puglia
Lecce, sez. II, 17.09.2009, n. 2121).
Ne consegue che, il rilascio dei certificati
di destinazione urbanistica non può avvenire
nelle forme del diritto di accesso, ma
secondo le specifiche fonti normative,
legislative e regolamentari, che
precipuamente riguardano tali tipi di atti
amministrativi
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 24.05.2012 n. 1317 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nelle
ipotesi di condono edilizio regolato
dall'art. 35 della legge 47/1985, la
mancanza dei documenti richiesti dalla legge
non impedisce il perfezionamento del
silenzio assenso fino al momento in cui gli
stessi vengano prodotti, potendo
eventualmente residuare in capo al Comune un
potere di autotutela, e che, il decorso del
termine perentorio di trentasei mesi dalla
data di presentazione della domanda di
sanatoria edilizia è circostanza sufficiente
per consentire all'interessato di eccepire
la prescrizione a richieste tardive
dell'Amministrazione di conguaglio delle
somme autodeterminate e versate
dall'interessato stesso a titolo di
oblazione per la sanatoria di edifici
abusivamente realizzati e ciò anche nel caso
in cui la domanda di sanatoria presentata
sia priva di una serie di documenti.
Il predetto orientamento va, tuttavia,
rimeditato alla luce dell’indirizzo
giurisprudenziale seguito dalla
giurisprudenza maggioritaria (e dal giudice
di appello), in base al quale il decorso dei
termini fissati dal diciottesimo comma
dell'articolo 35 della legge 28.02.1985, n.
47 (24 mesi per la formazione del
silenzio-accoglimento sulla istanza di
condono edilizio e trentasei mesi per la
prescrizione dell'eventuale diritto al
conguaglio delle somme dovute) presuppone in
ogni caso la completezza della domanda di
sanatoria.
La giurisprudenza afferma, infatti, che il
silenzio-assenso di cui all’art. 35 della
legge n. 47 del 1985 sulle domande di
sanatoria degli abusi edilizi richiede per
la sua formazione, quale presupposto
essenziale, oltre al completo pagamento
delle somme dovute a titolo di oblazione,
che siano stati integralmente assolti
dall’interessato gli oneri di documentazione
(che si risolvono evidentemente nella
sussistenza del requisito sostanziale),
relativi al tempo di ultimazione dei lavori,
all’ubicazione, alla consistenza delle opere
e ad ogni altro elemento rilevante affinché
possano essere utilmente esercitati i poteri
di verifica dell’Amministrazione comunale,
differenziandosi il tacito accoglimento
della domanda di condono dalla decisione
esplicita solo per l’aspetto formale;
giurisprudenza consolidata ritiene, inoltre,
che l’omessa presentazione della
documentazione prescritta per la domanda di
condono impedisce anche il decorso del
termine di 36 mesi per la prescrizione di
eventuali somme a conguaglio della oblazione
versata, per cui il richiamato termine di
trentasei mesi decorre solo dall’avvenuto
adempimento dell’integrazione documentale.
Di conseguenza, il dies a quo per il computo
della prescrizione del diritto al conguaglio
dell’oblazione dovuta in caso di condono
edilizio, non coincide con la presentazione
dell’istanza, sfornita della documentazione
prescritta per la domanda di condono, ma
decorre dal momento in cui la stessa viene
corredata dalla documentazione necessaria ai
fini della corretta e definitiva
determinazione dell’entità della oblazione,
fermo restando che -al fine di evitare che
l’amministrazione possa impedire
l’estinzione del proprio diritto di credito
invocando pretestuose omissioni documentali-
la rilevanza della documentazione richiesta,
e delle conseguenti integrazioni
istruttorie, vada verificata in relazione
all’effettiva necessità della sua
acquisizione e non si risolva in richieste
inutili o pretestuose.
Il Collegio non ignora che questa Sezione ha
quasi costantemente affermato che nelle
ipotesi di condono edilizio regolato
dall'art. 35 della legge 47/1985, la
mancanza dei documenti richiesti dalla legge
non impedisce il perfezionamento del
silenzio assenso fino al momento in cui gli
stessi vengano prodotti, potendo
eventualmente residuare in capo al Comune un
potere di autotutela, e che, il decorso del
termine perentorio di trentasei mesi dalla
data di presentazione della domanda di
sanatoria edilizia è circostanza sufficiente
per consentire all'interessato di eccepire
la prescrizione a richieste tardive
dell'Amministrazione di conguaglio delle
somme autodeterminate e versate
dall'interessato stesso a titolo di
oblazione per la sanatoria di edifici
abusivamente realizzati e ciò anche nel caso
in cui la domanda di sanatoria presentata
sia priva di una serie di documenti (cfr.
sentenze nn. 557/2011, 134/2010, 760/2009,
1987/2007; contra n. 1156/2011).
Il predetto orientamento va, tuttavia,
rimeditato alla luce dell’indirizzo
giurisprudenziale seguito dalla
giurisprudenza maggioritaria (e dal giudice
di appello), in base al quale il decorso dei
termini fissati dal diciottesimo comma
dell'articolo 35 della legge 28.02.1985, n.
47 (ventiquattro mesi per la formazione del
silenzio-accoglimento sulla istanza di
condono edilizio e trentasei mesi per la
prescrizione dell'eventuale diritto al
conguaglio delle somme dovute) presuppone in
ogni caso la completezza della domanda di
sanatoria.
La giurisprudenza afferma, infatti, che il
silenzio-assenso di cui all’art. 35 della
legge n. 47 del 1985 sulle domande di
sanatoria degli abusi edilizi richiede per
la sua formazione, quale presupposto
essenziale, oltre al completo pagamento
delle somme dovute a titolo di oblazione,
che siano stati integralmente assolti
dall’interessato gli oneri di documentazione
(che si risolvono evidentemente nella
sussistenza del requisito sostanziale),
relativi al tempo di ultimazione dei lavori,
all’ubicazione, alla consistenza delle opere
e ad ogni altro elemento rilevante affinché
possano essere utilmente esercitati i poteri
di verifica dell’Amministrazione comunale,
differenziandosi il tacito accoglimento
della domanda di condono dalla decisione
esplicita solo per l’aspetto formale (C.G.A.,
12.03.2012, n. 288 e 28.04.2011, n. 320;
Cons. St., IV, 03.06.2010, n. 4174 e
23.07.2009 n. 4671: tuttavia recentemente di
segno contrario, cfr. Cons. Stato, V,
12.03.2012 n. 1364); giurisprudenza
consolidata ritiene, inoltre, che l’omessa
presentazione della documentazione
prescritta per la domanda di condono
impedisce anche il decorso del termine di 36
mesi per la prescrizione di eventuali somme
a conguaglio della oblazione versata (cfr.
Cons. Stato, V, 12.09.2011, n. 5091; sez. IV,
16.02.2011, n. 1012; C.G.A. 19.04.2002 n.
199; TAR Campania–Napoli, VIII, 09.02.2012,
n. 695; TAR Campania-Salerno, II, 03.06.2010
n. 8224; TAR Sicilia, Palermo, III,
29.09.2006, n. 1996), per cui il richiamato
termine di trentasei mesi decorre solo
dall’avvenuto adempimento dell’integrazione
documentale.
Di conseguenza, il dies a quo per il
computo della prescrizione del diritto al
conguaglio dell’oblazione dovuta in caso di
condono edilizio, non coincide con la
presentazione dell’istanza, sfornita della
documentazione prescritta per la domanda di
condono, ma decorre dal momento in cui la
stessa viene corredata dalla documentazione
necessaria ai fini della corretta e
definitiva determinazione dell’entità della
oblazione, fermo restando che -al fine di
evitare che l’amministrazione possa impedire
l’estinzione del proprio diritto di credito
invocando pretestuose omissioni documentali-
la rilevanza della documentazione richiesta,
e delle conseguenti integrazioni
istruttorie, vada verificata in relazione
all’effettiva necessità della sua
acquisizione e non si risolva in richieste
inutili o pretestuose
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 24.05.2012 n. 1316 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Offerta tecnica, mancanza del documento d'identità
senza esclusione.
A seguito dell'entrata in vigore dell'art.
46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006, che ha
introdotto il principio della tassatività
delle cause di esclusione dalle gare di
appalto, deve ritenersi illegittima
l'esclusione di una ditta da una gara di
appalto, che sia stata disposta in ragione
dell'omessa allegazione, nella busta
contenente l'offerta tecnica, della
fotocopia del documento di identità del
relativo sottoscrittore.
La sentenza in esame rilegge la controversa
tematica della mancata allegazione di copia
del documento di identità del sottoscrittore
dell’offerta tecnica, alla luce del
principio di tassatività delle cause di
esclusione oggidì portato dall’art. 46,
comma 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006.
Segnatamente, la ricorrente ha impugnato il
provvedimento con cui il Comune aveva
disposto la propria esclusione da una gara
di appalto indetta per l’affidamento dei
servizi di pulizia degli uffici comunali,
sulla scorta della motivazione per cui la
medesima, in sede di presentazione
dell’offerta tecnica, non aveva prodotto
copia del documento di identità del relativo
sottoscrittore.
Ha lamentato, nello specifico, la violazione
dell’art. 46 cit., in ragione della
circostanza per cui la stessa disposizione
non contempla, fra le ipotesi di esclusione
ivi elencate, quella oggetto del gravato
atto.
Il ricorso è stato accolto.
Il Collegio di Milano, in via preliminare,
ha rammentato che l’istituto in parola, in
virtù della menzionata norma, introdotta dal
D.L. n. 70/2011 (con vigore dal 14.05.2011),
prevede che la stazione appaltante può
disporre l’esclusione di una ditta
partecipante a una procedura di gara per
l’affidamento di un appalto, esclusivamente
nelle ipotesi ivi contemplate.
In particolare, le stazioni appaltanti
possono inserire nei propri atti di gara
solo due tipologie di clausole escludenti:
a) clausole che riproducono obblighi
previsti dal Codice dei contratti pubblici o
da altre disposizioni normative;
b) clausole che non riproducono obblighi
previsti dal Codice dei contratti o da altre
fonti normative, ma funzionali a evitare
incertezze sul contenuto o sulla provenienza
dell’offerta, ad assicurane la completezza
contenutistica, ovvero a tutelarne la
segretezza.
Pertanto, quanto alla vicenda al suo
scrutinio, il TAR di Milano ha precisato
come l’obbligo di inserire la copia della
carta d’identità del firmatario nella busta
contenente l’offerta tecnica non fosse
ascrivibile a una delle due categorie sopra
illustrate.
In primo luogo, attuando un vero e proprio
revirement, ha osservato che nessuna
disposizione normativa impone di allegare la
carta d’identità agli atti aventi natura di
proposta contrattuale, quali sono le offerte
tecniche ed economiche proposte dai
concorrenti che partecipano alle gare
pubbliche (ex multis, TAR Lombardia,
Brescia, Sez. II, 26.03.2012, n. 530).
Difatti, detto obbligo, ai sensi dell’art.
38, comma 3, D.P.R. n. 445/2000, è previsto
solo per le dichiarazioni sostitutive
dell’atto di notorietà e per le istanze
rivolte all’amministrazione; non a caso, la
disposizione sancisce che: "Le istanze e le
dichiarazioni sostitutive di atto di
notorietà da produrre agli organi della
pubblica amministrazione o ai gestori o
esercenti di pubblici servizi sono
sottoscritte dall'interessato (…) e
presentate unitamente a copia fotostatica
non autenticata di un documento di identità
del sottoscrittore".
In secondo luogo, non ha ritenuto –in fatto- che la mancata introduzione della copia
della carta d’identità del firmatario nella
busta contenente l’offerta tecnica avesse
determinato incertezza assoluta sulla
provenienza dell’offerta stessa, atteso che
la busta dell’offerta tecnica era contenuta
in un’unica busta contenente, a sua volta,
l’istanza di partecipazione alla gara
corredata, in virtù dell’art. 38 cit., della
copia del documento identificativo del
firmatario.
Ha precisato, così, che la funzione di
garanzia della certezza sulla provenienza
dell’offerta è assicurata solo da questa
formalità, per cui ogni altra prescrizione
in tal senso si rivela inutile e, di
conseguenza, contraria alle disposizioni di
cui al citato art. 46, comma 1-bis, D.Lgs.
n. 163/2006.
Alla stregua di tanto, la clausola contenuta
negli atti di gara sancente la prescrizione
avversata è stata considerata nulla, con
conseguente declaratoria di illegittimità
dell’esclusione della ricorrente (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 23.05.2012 n. 1397 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il diritto ad ottenere il risarcimento del
danno nasce da una riconosciuta
responsabilità della pubblica
amministrazione per inosservanza di obblighi
procedimentali incombenti sulla stessa.
Dai principi di efficienza, economicità,
imparzialità, correttezza dell’azione
amministrativa derivano per
l’amministrazione regole ed obblighi che, se
violati senza alcuna giustificazione o senza
aver di mira il perseguimento di un
interesse pubblico superiore, comportano una
responsabilità per l’amministrazione stessa.
Ciò avviene anche per l’ipotesi di
violazione delle regole poste a tutela della
partecipazione procedimentale ovvero delle
norme che impongono la conclusione nei
termini di legge dei procedimenti
amministrativi.
La tutela risarcitoria degli interessi
legittimi è recente acquisizione e nel tempo
la relativa responsabilità
dell’amministrazione è stata qualificata in
diversi modi: responsabilità contrattuale
derivante dal c.d. contatto sociale,
precontrattuale, aquiliana e infine anche
modello di responsabilità speciale.
Attualmente queste differenze e nozioni
hanno perso di interesse poiché il
Legislatore con l’approvazione del Codice
del Processo amministrativo, in linea con la
giurisprudenza prevalente, ha qualificato la
responsabilità della pubblica
amministrazione, derivante dalla lesione di
interessi legittimi, in termini di
responsabilità aquiliana, i cui elementi
costitutivi sono quelli dell’illecito
civile.
Nell’ambito della responsabilità civile va
inquadrato anche il risarcimento del c.d.
danno da ritardo (quale ipotesi atipica di
illecito civile) e cioè il danno che il
cittadino lamenta per il ritardo con cui
l’amministrazione emana il provvedimento
favorevole ovvero negativo ma legittimo o,
ancora, il danno che si verifica nel caso in
cui l’amministrazione non si pronuncia
affatto.
Nell’ultimo decennio la problematica
inerente la risarcibilità del danno
derivante dalla lesione dell’interesse alla
conclusione del procedimento nel termine di
legge ha assunto grande importanza ed in
particolare la giurisprudenza si è
confrontata sulla possibilità di considerare
quale fonte di responsabilità
dell’amministrazione anche il mero ritardo
nell’adottare il provvedimento, slegato cioè
da ogni valutazione sulla spettanza del bene
della vita.
Questo dibattito si considera oramai in
parte superato poiché la violazione
dell’obbligo di concludere con un
provvedimento espresso il procedimento
amministrativo avviato ad istanza di parte,
(dunque di una posizione di interesse
legittimo pretensivo), trova espressa
tutela, anche risarcitoria.
Alla luce del dettato normativo di cui alla
legge 69/2009, che ha modificato la
disciplina di cui all’articolo 2 –bis della
legge 241/1990, infatti, “Le pubbliche
amministrazioni e i soggetti di cui
all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in
conseguenza dell’inosservanza dolosa o
colposa del termine di conclusione del
procedimento”.
La giurisprudenza prevalente riconosce
oramai al ritardo amministrativo una
autonoma risarcibilità, a prescindere dalla
fondatezza della pretesa sottostante
all’istanza formulata all’amministrazione
(fatta eccezione per quelle palesemente
infondate o meramente pretestuose). Il tempo
è considerato un bene della vita per il
cittadino e da esso deriva il suo diritto ad
ottenere una risposta alla sua istanza in
tempi certi e definiti.
La giurisprudenza ha riconosciuto che il
ritardo nella conclusione di un qualunque
procedimento è sempre un costo, dal momento
che il fattore tempo costituisce una
essenziale variabile nella predisposizione e
nell'attuazione di piani finanziari relativi
a qualsiasi intervento, condizionandone la
relativa convenienza economica. In questa
prospettiva, ogni incertezza sui tempi di
realizzazione di un investimento si traduce
nell'aumento del c.d. "rischio
amministrativo" e, quindi, spetta il
risarcimento del danno da ritardo a
condizione, ovviamente, che tale danno
sussista e venga provato e sia escluso che
vi sia stato il concorso del fatto colposo
del creditore ex art. 1227 c.c..
La circostanza per cui l’ordinamento dà
rilevanza diretta al tempo, a prescindere
dalla fondatezza dell’istanza del privato,
non significa che l’inutile decorso del
tempo viene risarcito sempre e comunque,
appunto per il suo solo trascorrere.
L’articolo 2 –bis della legge 241/1990, con
l’utilizzo di locuzioni quali “danno
ingiusto” e inosservanza “dolosa o colposa”
del termine, che richiamano l’articolo 2043
c.c., richiede, infatti, che il danno da
ritardo risarcibile vada comunque ricondotto
agli elementi costitutivi di cui alla
disciplina dell’illecito civile.
Il “ritardo risarcibile”, quindi, deve
innanzitutto “produrre” un danno considerato
ingiusto, e cioè, come pure è stato
affermato in dottrina, sostanziare ”la
lesione di un interesse giuridicamente
protetto nella vita di relazione”. Il danno
non iure, deve, poi, conseguire
all’inosservanza dolosa o colposa dei
termini a provvedere.
Per aversi risarcibilità del ritardo
amministrativo, quindi, è necessario,
secondo quanto disposto dal Legislatore che
si verifichino i due aspetti del danno
ingiusto e cioè il danno evento e il danno
conseguenza: la lesione illegittima della
sfera giuridica e le conseguenze
pregiudizievoli che dalla lesione possono
derivare.
La lesione dell’interesse legittimo teso ad
ottenere che il procedimento si concluda nel
termine di legge o ad ottenere un
provvedimento espresso è condizione
necessaria ma non sufficiente per accedere
alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c.
perché occorre che “risulti leso, per
effetto dell’attività illegittima (e
colpevole) della pubblica amministrazione
l’interesse al bene della vita al quale
l’interesse legittimo si correla e che detto
interesse risulti meritevole di tutela alla
luce dell’ordinamento positivo”.
E’ stato più di recente anche affermato che
“l'ingiustizia e la sussistenza stessa del
danno non possono, in linea di principio,
presumersi iuris tantum in meccanica ed
esclusiva relazione al ritardo nell'adozione
del provvedimento amministrativo, ma il
danneggiato deve provare tutti gli elementi
costitutivi della relativa domanda, ossia
oltre al danno, l'elemento soggettivo del
dolo o della colpa e il nesso di causalità
tra danno ed evento. Pertanto,
l'accertamento della responsabilità della
P.A. per il tardivo esercizio della funzione
amministrativa non può ricollegarsi, quale
effetto automatico, alla mera constatazione
della violazione dei termini del
procedimento, Si richiede un quid pluris,
ossia che l'inosservanza dei termini
procedimentali sia imputabile a colpa o dolo
dell'Amministrazione medesima e che il danno
sia conseguenza diretta ed immediata del
ritardo dell'Amministrazione".
Il risarcimento del danno da ritardo,
dunque, presuppone, al pari di ogni
pregiudizio di cui si rivendichi il ristoro
in sede aquiliana, che la lesione del bene
della vita “tempo”, integrante danno-evento,
sia seguita dalla produzione di conseguenze
pregiudizievoli nella sfera patrimoniale e
non, ossia il c.d. danno conseguenza, di cui
compete al soggetto che agisce in giudizio
fornire adeguata dimostrazione sul duplice
versante dell’an e del quantum.
Il danno risarcibile, in una prospettiva
ermeneutica fedele alle coordinate della
Cassazione che escludono la funzione
sanzionatoria del sistema della
responsabilità aquiliana e che richiedono la
dimostrazione di un pregiudizio conseguito,
ex art. 1223 c.c., alla lesione
dell’interesse giuridicamente tutelato, non
è il "tempo perso" in sé ma la conseguenza
dannosa che la lesione del bene tempo abbia
sortito nella sfera del danneggiato.
Nel rapporto “procedimentale” con la P.A. i
beni della vita da tutelare sono quindi due:
da una parte l’interesse ad ottenere una
delibazione tempestiva della propria istanza
e dall’altra quello che si intende
conseguire con il favorevole provvedimento
richiesto. In caso di inerzia tenuta
dall’amministrazione rispetto all’istanza
del cittadino, questi può adire il giudice
amministrativo sia per chiedere che venga
condannata l’amministrazione a pronunciarsi
ricorrendo al rito sul silenzio sia per
chiedere direttamente il risarcimento del
danno che assume gli sia derivato
dall’inerzia stessa.
---------------
Con riferimento alla fattispecie del danno
da ritardo, in merito al comportamento
corretto e diligente del creditore, è stato
anche affermato che il diritto al
risarcimento del danno derivante dal ritardo
con il quale l'Amministrazione ha provveduto
spetta solo ove i soggetti interessati
abbiano reagito all'inerzia impugnando il
silenzio-rifiuto; solo in caso di
persistente inerzia a seguito di questa
procedura può infatti configurarsi la
lesione al bene della vita, risarcibile,
alla stregua dei canoni di correttezza e
buona fede, nello svolgimento del rapporto
qualificato e differenziato tra soggetto
pubblico e privato.
Per quanto concerne il merito del ricorso
proposto, la ricorrente chiede che le venga
risarcito il danno derivante dalla mancata
esecuzione della sentenza n. 75/2009 con la
quale sono stati annullati gli atti a suo
tempo impugnati che sospendevano a tempo
indeterminato il procedimento di rilascio
della concessione demaniale richiesta.
Con il presente ricorso la ricorrente
chiede, quindi, che le venga risarcito il
danno da perdita di chance, che si sostanzia
in particolare nella perdita della
possibilità di un risultato favorevole che
la ricorrente ritiene “presente nel suo
patrimonio” e che ha comportato
l’impossibilità di ottenere e gestire il
porto turistico così come progettato.
Secondo la difesa della ricorrente sugli
Enti intimati incombe una responsabilità da
“contatto sociale e procedimentale”,
il che, secondo l’allegata relazione tecnica
di parte, comporta il risarcimento delle
ingenti spese sostenute e del danno da
perdita dei canoni di ormeggio e gestione
che avrebbe potuto ricavare dai potenziali
ormeggianti i posti barca.
Preliminarmente, prima di valutare la
fondatezza della domanda risarcitoria
proposta, occorre richiamare in questa sede
alcuni fondamentali principi in tema di
risarcimento del danno derivante da lesione
di interessi legittimi ed in particolare di
risarcimento del danno da ritardo
nell’attività amministrativa, mai lamentato
per tale espressamente in questa sede, ma
che è nella sostanza alla base della
controversia de qua.
Il diritto ad ottenere il risarcimento del
danno nasce da una riconosciuta
responsabilità della pubblica
amministrazione per inosservanza di obblighi
procedimentali incombenti sulla stessa.
Dai principi di efficienza, economicità,
imparzialità, correttezza dell’azione
amministrativa derivano per
l’amministrazione regole ed obblighi che, se
violati senza alcuna giustificazione o senza
aver di mira il perseguimento di un
interesse pubblico superiore, comportano una
responsabilità per l’amministrazione stessa.
Ciò avviene anche per l’ipotesi di
violazione delle regole poste a tutela della
partecipazione procedimentale ovvero delle
norme che impongono la conclusione nei
termini di legge dei procedimenti
amministrativi.
La tutela risarcitoria degli interessi
legittimi è recente acquisizione e nel tempo
la relativa responsabilità
dell’amministrazione è stata qualificata in
diversi modi: responsabilità contrattuale
derivante dal c.d. contatto sociale,
precontrattuale, aquiliana e infine anche
modello di responsabilità speciale.
Attualmente queste differenze e nozioni
hanno perso di interesse poiché il
Legislatore con l’approvazione del Codice
del Processo amministrativo, in linea con la
giurisprudenza prevalente, ha qualificato la
responsabilità della pubblica
amministrazione, derivante dalla lesione di
interessi legittimi, in termini di
responsabilità aquiliana, i cui elementi
costitutivi sono quelli dell’illecito
civile.
Nell’ambito della responsabilità civile va
inquadrato anche il risarcimento del c.d.
danno da ritardo (quale ipotesi atipica di
illecito civile) e cioè il danno che il
cittadino lamenta per il ritardo con cui
l’amministrazione emana il provvedimento
favorevole ovvero negativo ma legittimo o,
ancora, il danno che si verifica nel caso in
cui l’amministrazione non si pronuncia
affatto.
Nell’ultimo decennio la problematica
inerente la risarcibilità del danno
derivante dalla lesione dell’interesse alla
conclusione del procedimento nel termine di
legge ha assunto grande importanza ed in
particolare la giurisprudenza si è
confrontata sulla possibilità di considerare
quale fonte di responsabilità
dell’amministrazione anche il mero ritardo
nell’adottare il provvedimento, slegato cioè
da ogni valutazione sulla spettanza del bene
della vita (Consiglio di Stato, ad.
Plenaria n. 7/2005).
Questo dibattito si considera oramai in
parte superato poiché la violazione
dell’obbligo di concludere con un
provvedimento espresso il procedimento
amministrativo avviato ad istanza di parte,
(dunque di una posizione di interesse
legittimo pretensivo), trova espressa
tutela, anche risarcitoria.
Alla luce del dettato normativo di cui alla
legge 69/2009, che ha modificato la
disciplina di cui all’articolo 2 –bis della
legge 241/1990, infatti, “Le pubbliche
amministrazioni e i soggetti di cui
all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in
conseguenza dell’inosservanza dolosa o
colposa del termine di conclusione del
procedimento”.
La giurisprudenza prevalente riconosce
oramai al ritardo amministrativo una
autonoma risarcibilità, a prescindere dalla
fondatezza della pretesa sottostante
all’istanza formulata all’amministrazione
(fatta eccezione per quelle palesemente
infondate o meramente pretestuose). Il tempo
è considerato un bene della vita per il
cittadino e da esso deriva il suo diritto ad
ottenere una risposta alla sua istanza in
tempi certi e definiti.
La giurisprudenza ha riconosciuto che il
ritardo nella conclusione di un qualunque
procedimento è sempre un costo, dal momento
che il fattore tempo costituisce una
essenziale variabile nella predisposizione e
nell'attuazione di piani finanziari relativi
a qualsiasi intervento, condizionandone la
relativa convenienza economica. In questa
prospettiva, ogni incertezza sui tempi di
realizzazione di un investimento si traduce
nell'aumento del c.d. "rischio
amministrativo" e, quindi, spetta il
risarcimento del danno da ritardo a
condizione, ovviamente, che tale danno
sussista e venga provato e sia escluso che
vi sia stato il concorso del fatto colposo
del creditore ex art. 1227 c.c. (Cons. giust.
amm. Sicilia sez. giurisd., n. 684 del 24.10.2011).
La circostanza per cui l’ordinamento dà
rilevanza diretta al tempo, a prescindere
dalla fondatezza dell’istanza del privato,
non significa che l’inutile decorso del
tempo viene risarcito sempre e comunque,
appunto per il suo solo trascorrere.
L’articolo 2 –bis della legge 241/1990, con
l’utilizzo di locuzioni quali “danno
ingiusto” e inosservanza “dolosa o colposa”
del termine, che richiamano l’articolo 2043
c.c., richiede, infatti, che il danno da
ritardo risarcibile vada comunque ricondotto
agli elementi costitutivi di cui alla
disciplina dell’illecito civile.
Il “ritardo risarcibile”, quindi, deve
innanzitutto “produrre” un danno considerato
ingiusto, e cioè, come pure è stato
affermato in dottrina, sostanziare ”la
lesione di un interesse giuridicamente
protetto nella vita di relazione”. Il danno
non iure, deve, poi, conseguire
all’inosservanza dolosa o colposa dei
termini a provvedere.
Per aversi risarcibilità del ritardo
amministrativo, quindi, è necessario,
secondo quanto disposto dal Legislatore che
si verifichino i due aspetti del danno
ingiusto e cioè il danno evento e il danno
conseguenza: la lesione illegittima della
sfera giuridica e le conseguenze
pregiudizievoli che dalla lesione possono
derivare.
La lesione dell’interesse legittimo teso ad
ottenere che il procedimento si concluda nel
termine di legge o ad ottenere un
provvedimento espresso è condizione
necessaria ma non sufficiente per accedere
alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c.
perché occorre che “risulti leso, per
effetto dell’attività illegittima (e
colpevole) della pubblica amministrazione
l’interesse al bene della vita al quale
l’interesse legittimo si correla e che detto
interesse risulti meritevole di tutela alla
luce dell’ordinamento positivo” (cfr. Corte
di Cassazione, SS.UU., n. 500/1999).
E’ stato più di recente anche affermato che
“l'ingiustizia e la sussistenza stessa del
danno non possono, in linea di principio,
presumersi iuris tantum in meccanica ed
esclusiva relazione al ritardo nell'adozione
del provvedimento amministrativo, ma il
danneggiato deve provare tutti gli elementi
costitutivi della relativa domanda, ossia
oltre al danno, l'elemento soggettivo del
dolo o della colpa e il nesso di causalità
tra danno ed evento. Pertanto,
l'accertamento della responsabilità della
P.A. per il tardivo esercizio della funzione
amministrativa non può ricollegarsi, quale
effetto automatico, alla mera constatazione
della violazione dei termini del
procedimento, Si richiede un quid pluris,
ossia che l'inosservanza dei termini
procedimentali sia imputabile a colpa o dolo
dell'Amministrazione medesima e che il danno
sia conseguenza diretta ed immediata del
ritardo dell'Amministrazione" (cfr. TAR
Campania–Napoli - sez. VIII, n. 4942 del
26.10.2011).
Il risarcimento del danno da ritardo,
dunque, presuppone, al pari di ogni
pregiudizio di cui si rivendichi il ristoro
in sede aquiliana, che la lesione del bene
della vita “tempo”, integrante danno-evento,
sia seguita dalla produzione di conseguenze
pregiudizievoli nella sfera patrimoniale e
non, ossia il c.d. danno conseguenza, di cui
compete al soggetto che agisce in giudizio
fornire adeguata dimostrazione sul duplice
versante dell’an e del quantum.
Il danno risarcibile, in una prospettiva
ermeneutica fedele alle coordinate della
Cassazione che escludono la funzione
sanzionatoria del sistema della
responsabilità aquiliana e che richiedono la
dimostrazione di un pregiudizio conseguito,
ex art. 1223 c.c., alla lesione
dell’interesse giuridicamente tutelato, non
è il "tempo perso" in sé ma la conseguenza
dannosa che la lesione del bene tempo abbia
sortito nella sfera del danneggiato.
Nel rapporto “procedimentale” con la P.A. i
beni della vita da tutelare sono quindi due:
da una parte l’interesse ad ottenere una
delibazione tempestiva della propria istanza
e dall’altra quello che si intende
conseguire con il favorevole provvedimento
richiesto. In caso di inerzia tenuta
dall’amministrazione rispetto all’istanza
del cittadino, questi può adire il giudice
amministrativo sia per chiedere che venga
condannata l’amministrazione a pronunciarsi
ricorrendo al rito sul silenzio sia per
chiedere direttamente il risarcimento del
danno che assume gli sia derivato
dall’inerzia stessa.
La mancata attivazione del rito sul
silenzio, tuttavia, come si dirà a breve,
può rilevare ai fini dell’articolo 1227 c.c.
(cfr. art. 30 c.p.a.) in ordine
all’accertamento della spettanza del
risarcimento nonché alla quantificazione del
danno risarcibile.
Nel caso in cui manca una pronuncia
dell’amministrazione, seppure tardiva,
positiva o negativa, per il giudice
amministrativo che deve decidere sulla
domanda risarcitoria, si pone
preliminarmente il problema di andare a
valutare la spettanza o meno del bene della
vita e, conseguentemente, quello dell’entità
del danno lamentato.
Il giudizio prognostico sulla spettanza del
bene della vita diventa operazione sempre
più complessa e delicata a seconda che si
tratti di attività amministrativa vincolata
ovvero discrezionale. Mentre nel primo caso
per il giudice amministrativo è più agevole
sindacare dall’esterno la possibilità di
ottenere un provvedimento favorevole e
quindi valutare l’effettività del danno
lamentato, in caso di attività discrezionale
detto sindacato necessita di una maggiore
cautela per evitare una ingerenza del
giudice nel campo del merito amministrativo.
In quest’ultimo caso il risarcimento del
danno deve, infatti, essere parametrato alla
chance di ottenere il provvedimento
favorevole e quindi il giudice andrà a
valutare gli elementi che in base ad una
semplice ed evidente presunzione, con una
mera operazione probabilistica, avrebbero
condotto all’assunzione di un provvedimento
favorevole se l’Amministrazione avesse
rispettato il termine o se si fosse,
comunque, determinata, evitando, quindi, di
sconfinare in considerazioni di opportunità.
La considerazione che il tempo nel nostro
ordinamento, sia un bene della vita,
risarcibile ex se, trova un temperamento
nella disciplina generale introdotta dal
codice del processo amministrativo in tema
di azione risarcitoria.
L’articolo 30, al secondo comma prevede che
“Può essere chiesta la condanna al
risarcimento del danno ingiusto derivante
dall’illegittimo esercizio dell’attività
amministrativa o dal mancato esercizio di
quella obbligatoria...”.
Anche questa norma richiama la formula
aquiliana del danno ingiusto e si riferisce
espressamente sia all’attività
provvedimentale illegittima che alle ipotesi
di inerzia procedimentale.
La norma introdotta con la legge 69/2009
risulta quindi, temperata dal comma 3
dell’articolo 30 del c.p.a. con il quale si
prevede che “Nel determinare il risarcimento
il giudice valuta tutte le circostanze di
fatto e il comportamento complessivo delle
parti e, comunque, esclude il risarcimento
dei danni che si sarebbero potuti evitare
usando l’ordinaria diligenza, anche
attraverso l’esperimento degli strumenti di
tutela previsti”.
Tale norma assume valore di canone
interpretativo del principio stabilito dal
secondo comma dell’articolo 1227 c.c.. secondo
cui “Il risarcimento non è dovuto per i
danni che il creditore avrebbe potuto
evitare usando l'ordinaria diligenza” e cioè
non è risarcibile il danno che il creditore
non avrebbe subito se si fosse comportato in
maniera collaborativa, comportamento cui è
tenuto secondo correttezza.
A tal proposito va richiamato in questa sede
quanto affermato dal Supremo Consesso della
Giustizia amministrativa con la decisione
dell’Adunanza Plenaria n. 3/2011 secondo la
quale il comma 3 dell’articolo 30 c.p.a.
(applicabile come detto anche in ipotesi di
azione di risarcimento derivante da ritardo
provvedimentale) “pur non evocando in modo
esplicito il disposto dell’art. 1227, comma
2, del codice civile, afferma che l'omessa
attivazione degli strumenti di tutela
previsti costituisce, nel quadro del
comportamento complessivo delle parti, dato
valutabile, alla stregua del canone di buona
fede e del principio di solidarietà, ai fini
dell’esclusione o della mitigazione del
danno evitabile con l’ordinaria diligenza.
…..
Operando una ricognizione dei principi
civilistici in tema di causalità giuridica e
di principio di auto-responsabilità, il
codice del processo amministrativo sancisce
la regola secondo cui la tenuta, da parte
del danneggiato, di una condotta, attiva od
omissiva, contraria al principio di buona
fede ed al parametro della diligenza, che
consenta la produzione di danni che
altrimenti sarebbero stati evitati secondo
il canone della causalità civile imperniato
sulla probabilità relativa recide, in tutto
o in parte, il nesso casuale che, ai sensi
dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta
antigiuridica alle conseguenze dannose
risarcibili. …..La giurisprudenza più
recente, …… ha adottato un’interpretazione
estensiva ed evolutiva del comma 2 dell'art.
1227, secondo cui il creditore è gravato non
soltanto da un obbligo negativo (astenersi
dall'aggravare il danno), ma anche da un
obbligo positivo (tenere quelle condotte,
anche positive, esigibili, utili e
possibili, rivolte a evitare o ridurre il
danno)…l’obbligo di cooperazione di cui al
comma 2 dell’art. 1227 ha fondamento proprio
nel canone di buona fede ex art. 1175 c.c.
e, quindi, nel principio costituzionale di
solidarietà, si deve concludere che anche le
scelte processuali di tipo omissivo possono
costituire in astratto comportamenti
apprezzabili ai fini della esclusione o
della mitigazione del danno laddove si
appuri, alla stregua del giudizio di
causalità ipotetica di cui si è detto, che
le condotte attive trascurate non avrebbero
implicato un sacrificio significativo ed
avrebbero verosimilmente inciso, in senso
preclusivo o limitativo, sul perimetro del
danno.
Si deve allora preferire al tradizionale
indirizzo che esclude, per definizione, la
sindacabilità delle condotte processuali ai
sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., un
più duttile criterio interpretativo che, in
coerenza con le clausole generali in materia
di correttezza, buona fede e solidarietà di
cui la norma in esame è espressione,
consenta la valutazione della condotta
complessiva, anche processuale, del
creditore, con riguardo alle specificità del
caso concreto”. (Cfr Consiglio di Stato, ad.
Plenaria n. 3 del 23.03.2011 cit.).
Proprio con riferimento alla fattispecie del
danno da ritardo, in merito al comportamento
corretto e diligente del creditore, è stato
anche affermato che il diritto al
risarcimento del danno derivante dal ritardo
con il quale l'Amministrazione ha provveduto
spetta solo ove i soggetti interessati
abbiano reagito all'inerzia impugnando il
silenzio-rifiuto; solo in caso di
persistente inerzia a seguito di questa
procedura può infatti configurarsi la
lesione al bene della vita, risarcibile,
alla stregua dei canoni di correttezza e
buona fede, nello svolgimento del rapporto
qualificato e differenziato tra soggetto
pubblico e privato (TAR Lombardia Milano,
sez. IV, 18.10.2010, n. 6989, sez. I,
12.01.2011, n. 35 ).
Invero, ciò che si risarcisce non è una
aspettativa all'agere legittimo
dell'Amministrazione, bensì il mancato
conseguimento del bene della vita cui si
ambiva al momento della proposizione
dell'istanza.
La norma codicistica di cui all’art. 2043
c.c., infatti, subordina il risarcimento
alla produzione di un danno ingiusto
causalmente generato da una condotta
illecita, nel caso di specie da individuarsi
nell’asserito ritardo, imputabile
all'Amministrazione a titolo di dolo o colpa
(cfr. in proposito TAR Lazio Roma, sez.
I, 22.09.2010, n. 32382, sez. II, 05.01.2011
n. 28) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza
14.05.2012 n. 450 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi interni, sono un'offerta al
pubblico. Obbligo di adempiere secondo i principi
contrattuali.
Il concorso interno è assimilabile ad
un'offerta al pubblico che impegna il datore
ad adempiere all'offerta secondo correttezza
e buona fede.
L’art. 97, comma 3, della Costituzione prevede
che agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni si accede mediante concorso,
salvo i casi stabiliti dalla legge. I
concorsi non si esauriscono nella forma del
concorso pubblico.
Sia la legislazione statale che quella
regionale hanno più volte fatto ricorso alla
deroga contenuta all’art. 97 Cost. per dare
vita a forme di selezione sganciate dalla
regola generale. Tra questa rientra senza
dubbio la prassi dei concorsi interni.
Queste forme di selezione sono largamente
utilizzate per consentire non l’accesso di
nuovo personale nella pubblica
amministrazione, quanto piuttosto la
progressione in carriera di coloro che già
di essa sono dipendenti.
La giurisprudenza di legittimità (ex multis
Cass. civ. n. 14478/2009) qualifica il bando
per il concorso interno quale offerta al
pubblico.
Più precisamente, qualora venga pubblicato
un bando che contenga tutti gli elementi
essenziali (numero dei posti disponibili,
qualifica, modalità del concorso, criteri di
valutazione dei titoli, ecc.), prevedendo,
altresì, il riconoscimento del diritto del
vincitore del concorso di ricoprire la
posizione di lavoro disponibile e la data a
decorrere dalla quale è destinata ad operare
giuridicamente l'attribuzione della nuova
posizione, sono rinvenibili in un siffatto
comportamento gli estremi dell'offerta al
pubblico.
Il bando impegna il datore di lavoro
pubblico non solo al rispetto della norma
con la quale esso stesso ha delimitato la
propria discrezionalità, ma anche ad
adempiere l'obbligazione secondo correttezza
e buona fede.
Il superamento del concorso,
indipendentemente dalla successiva nomina,
consolida nel patrimonio dell'interessato
l'acquisizione di una situazione giuridica
individuale, non disconoscibile alla stregua
della natura del bando, né espropriabile (in
virtù dell'art. 2077, comma 2 c.c.) per
effetto di diversa successiva disposizione
generale volta, come nella specie, a
posticipare la decorrenza giuridica ed
economica dell'inquadramento. In questo
contesto si inserisce la decisione in
commento.
Nel caso di specie una dipendente
dell’Università adiva il Tribunale di
Pordenone al fine di vedersi inquadrata
nell’area funzionale superiore.
Ciò visto il superamento della procedura di
selezione interna.
Più precisamente la dipendente lamentava lo
spostamento in avanti dell’inquadramento
nella posizione superiore violando i criteri
del bando nonché i principi di correttezza e
buona fede. Si costituiva il Ministero
chiedendo il rigetto delle pretese della
ricorrente.
Il Tribunale di Pordenone, in linea con la
giurisprudenza di legittimità, accerta che
l’Università non ha rispettato i termini del
bando.
Per tale ragione il Giudice condanna il
convenuto Ministero al rispetto del bando e
quindi ad inquadrare la dipendente in base
ai criteri previsti dallo stesso
(commento tratto da www.ipsoa.it - TRIBUNALE
di Pordenone, sentenza 16.04.2012 n. 46). |
URBANISTICA:
Piano regolatore generale. Distinzione tra
vincoli conformativi non indennizzabili e
vincoli urbanistici soggetti alla scadenza
quinquennale.
La destinazione di "area a verde pubblico -
verde urbano" costituisce vincolo
conformativo, avente validità a tempo
indeterminato.
Alla stregua dei principi espressi dalla
Corte costituzionale, con la sentenza 20.05.1999, n. 179, deve ritenersi che i
vincoli urbanistici non indennizzabili, che
sfuggono alla previsione dell'art. 2 della
legge 19.11.1968, n. 1187, sono quelli
che riguardano intere categorie di beni,
quelli di tipo conformativo e i vincoli
paesistici, mentre i vincoli urbanistici
soggetti alla scadenza quinquennale, che
devono invece essere indennizzati, sono:
a)
quelli preordinati all'espropriazione ovvero
aventi carattere sostanzialmente
espropriativo, in quanto implicanti uno
svuotamento incisivo della proprietà, se non
discrezionalmente delimitati nel tempo dal
legislatore statale o regionale, attraverso
l'imposizione a titolo particolare su beni
determinati di condizioni di inedificabilità
assoluta;
b) quelli che superano la durata
non irragionevole e non arbitraria ove non
si compia l'esproprio o non si avvii la
procedura attuativa preordinata a tale
esproprio con l'approvazione dei piani
urbanistici esecutivi;
c) quelli che
superano quantitativamente la normale
tollerabilità, secondo una concezione della
proprietà regolata dalla legge nell'ambito
dell'art. 42 Cost..
La destinazione di "area a verde pubblico -
verde urbano" costituisce espressione della
potestà conformativa del pianificatore,
avente validità a tempo indeterminato (nella
specie le N.T.A. del Comune -si trattava
del Comune di Bari- prevedevano che su tali
aree potevano essere ubicate attrezzature
per lo svago, chioschi, bar, teatri
all'aperto, impianti sportivi per
allenamento e spettacolo, e simili, nonché
biblioteche e giochi per bambini, e
consentivano, altresì, la costruzione di
edifici ed impianti previa approvazione di
piano particolareggiato o di progetto planovolumetrico; di conseguenza, secondo la
sentenza in rassegna, essendo consentita,
anche ad iniziativa del proprietario, la
realizzazione di opere e strutture intese
all'effettivo godimento del verde, era da
escludere, ex se, la configurabilità di uno
svuotamento incisivo del contenuto del
diritto di proprietà, permanendo comunque la
utilizzabilità dell'area rispetto alla sua
destinazione naturale, con la conseguenza
che non era ravvisabile alcun vincolo
preordinato all'espropriazione ovvero
comportante inedificabilità, né era
configurabile un obbligo di nuova
tipizzazione) (Cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
25.05.2005, n. 2718) (massima tratta da www.regione.piemonte.it
-
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.04.2012 n. 2116 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ordinanze contingibili ed urgenti. Poteri
dei Sindaci a seguito della sentenza della
Corte cost. n. 115 del 2011.
A seguito della sentenza della Corte
Costituzionale 07.04.2011, n. 115, che ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del
2000, nella parte in cui comprende la
locuzione "anche", prima delle parole "contingibili
ed urgenti", i poteri di ordinanza dei
Sindaci debbono intendersi limitati ai soli
casi contingibili ed urgenti, violandosi in
caso contrario la riserva di legge relativa,
di cui all’art. 23 Cost. e configurandosi
altrimenti detto potere alla stregua di una
"delega in bianco".
E’ illegittima, per mancanza dei presupposti
di legge, una ordinanza contingibile ed
urgente emessa dal Sindaco di un Comune ai
sensi dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n.
267 del 2000 e del decreto del Ministro
dell’interno 05.08.2008, con la quale si
vieta in via permanente su tutto il
territorio comunale "la fermata ai pedoni e
a tutti i veicoli, propedeutica al contatto
con soggetti dediti alla prostituzione",
atteso che tale ordinanza:
a) manca del
requisito della "temporaneità", proprio
delle ordinanze contingibili ed urgenti, le
quali pur sempre costituiscono l’espressione
di un potere derogatorio esercitato dai
Sindaci sotto la vigilanza del Ministro
dell’interno attraverso i Prefetti;
b) si
riverbera illegittimamente sulla libertà dei
cittadini; quest'ultima, infatti, è
suscettibile –secondo la Corte
Costituzionale (v. la sent. n. 115 del 2011)– "di essere incisa solo dalle
determinazioni di un atto legislativo,
direttamente o indirettamente riconducibile
al Parlamento, espressivo della sovranità
popolare" (1).
---------------
(1) Nel parere in rassegna si ricorda che la
Corte Costituzionale con la citata sentenza
n. 115 del 2011 ha precisato che il decreto
del Ministro dell’interno 5 agosto 2008,
nella parte in cui fornisce la definizione
di incolumità pubblica e di sicurezza
urbana, entrambi beni pubblici da tutelare,
assolve alle funzioni di indirizzare
l’azione del sindaco, come previsto
dall’art. 54, comma 4-bis, regolando i
rapporti tra autorità centrali (ministro) e
periferiche (sindaci), ma "non può
soddisfare la riserva di legge, in quanto si
tratta di atto non idoneo a circoscrivere la
discrezionalità amministrativa nei rapporti
con i cittadini".
In altri termini, nel momento in cui l’art.
54, comma 4, T.U.E.L. autorizza i sindaci ad
emanare atti non sottoposti a scadenza, non
giustificati dal principio salus publica
suprema lex e finalizzati alla prevenzione e
all’eliminazione di gravi (e non meglio
precisate) minacce alla sicurezza urbana, si
realizza una indebita invasione dei primi
cittadini nel campo della legislazione
primaria.
Conseguentemente, secondo il parere in
rassegna, la parziale caducazione dell’art.
54, comma 4, del Testo unico degli enti
locali, disposta dalla Corte costituzionale,
dispiega i suoi effetti anche sulla
ordinanza oggetto del parere, rendendola
inefficace per mancanza dei presupposti di
legge (massima tratta da
www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 12.04.2012 n. 1796
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI:
Potere per i Comuni di sopprimere organismi
non indispensabili. Impossibilità di
esercitare tale potere con riferimento alle
autorizzazioni paesaggistiche.
Illegittimità di una delibera di
soppressione della Commissione edilizia
integrata e di una autorizzazione
paesaggistica rilasciata senza il parere di
tale Commissione.
L’art. 96 del D.Lgs. n. 267/2000, nel
richiedere agli organi rappresentativi dei
Comuni di individuare "i comitati, le
commissioni, i consigli ed ogni altro organo
collegiale con funzioni amministrative,
ritenuti indispensabili per la realizzazione
dei fini istituzionali dell’amministrazione
o dell’ente", con soppressione degli
organismi non identificati come
indispensabili e attribuzione delle relative
funzioni all’ufficio, con "preminente
competenza nella materia", non poteva
conferire ai medesimi Comuni, a pena di
incostituzionalità della norma (con
riferimento al riparto di competenze fra
Stato ed Enti locali, di cui agli articoli
117 e seguenti della Costituzione), il
potere di effettuare scelte che, nei termini
appena indicati, implicassero il
trasferimento ad un ufficio comunale della
competenza ad emettere autorizzazione
paesaggistica, trattandosi di competenza
dello Stato, da esercitare in concorso con
la Regione interessata o ad essa delegata,
per ragioni di tutela rilevanti per l’intera
collettività e, dunque, non affidabili a
valutazioni effettuate in ambito
strettamente locale (1).
---------------
E’ illegittima la delibera con la quale
l’Unione di due Comuni ha soppresso la
Commissione Edilizia Integrata con due
esperti in materia di bellezze naturali e di
tutela dell’ambiente, in base all’art. 4,
comma 11, del D.P.R. n. 380/2001, nonché la
successiva autorizzazione paesaggistica di
cui all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999
(oggi art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004)
rilasciata in assenza di parere di detta
Commissione, nel caso in cui le funzioni
statali in materia di rilascio delle
autorizzazioni paesaggistiche siano state
trasferite dallo Stato ai Comuni, con la
previsione del parere della C.E.I.
In tal
caso, infatti, l’organo così costituito
(C.E.I.) non può al pari della Commissione
Edilizia (C.E., esclusivamente comunale)
essere ritenuto "non indispensabile" ai
sensi e per gli effetti dell’art. 96 D.Lgs.
267/2000, potendo quest’ultima norma
riferirsi all’organo comunale previsto
dall’art. 4, comma 2, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (quale organo, il cui carattere
facoltativo era previsto dalla stessa
normativa), ma non anche al diverso
organismo (C.E.I.) direttamente istituito da
una legge regionale e portatore di
competenze già delegate dallo Stato alla
Regione e che solo l’autorità delegante (o
sub-delegante) avrebbe potuto sopprimere
avocando a sé le relative funzioni, con atto
normativo primario o sub-primario (2).
---------------
(1) Cons. Stato, sez. VI, 25.05.1996, n.
717; Cons. Stato, sez. Atti norm., 13.01.2003, n. 4804; cfr. anche, per il
principio, Corte Cost., 25.07.2011, n.
244.
(2) Ha aggiunto la sentenza in rassegna che,
in assenza di qualsiasi legittimazione del
Comune ad incidere sulle competenze in
questione –ed esulando pertanto la C.E.I.
dal novero degli organi collegiali, di cui
il Comune potesse essere legittimamente
chiamato a valutare il carattere
indispensabile o meno– correttamente la
Soprintendenza aveva rilevato l’assenza del
parere obbligatorio di un organo, che non
poteva ritenersi soppresso ed aveva
conseguentemente ritenuta illegittima
l’autorizzazione paesaggistica rilasciata
dal Comune (massima tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza
05.04.2012 n. 2013 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Piani urbanistici: anche l'abrogazione è
soggetta a VAS.
Con
sentenza 22.03.2012 n. C-567/10 la Sez.
IV della Corte di Giustizia UE ha fissato il
duplice principio secondo cui:
1. La nozione di piani e
programmi «previsti da disposizioni
legislative, regolamentari o
amministrative», di cui all’articolo 2,
lettera a), della direttiva 2001/42/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del
27.06.2001, concernente la valutazione degli
effetti di determinati piani e programmi
sull’ambiente, deve essere interpretata nel
senso che essa riguarda anche i piani
regolatori particolareggiati, come quello
oggetto della normativa nazionale belga di
cui trattasi nel procedimento principale.
2. L’articolo 2, lettera a), della direttiva
2001/42 deve essere interpretato nel senso
che una procedura di abrogazione totale o
parziale di un piano regolatore, come quella
di cui agli articoli 58-63 del code
bruxellois de l’aménagement du territoire,
quale modificato dalla legge regionale del
14.05.2009, rientra in linea di principio
nell’ambito di applicazione di detta
direttiva, sicché è soggetta alle norme
relative alla valutazione ambientale
previste da quest’ultima.
Chiamata a pronunciarsi i un procedimento
avente ad oggetto una domanda di pronuncia
pregiudiziale proposta, ai sensi
dell’articolo 267 TFUE, dalla Cour
constitutionnelle (Belgio) con decisione del
25.11.2010, la quarta sezione della Corte di
Giustizia UE ha ribadito che gli obbiettivi
esplicitati dalla direttiva 2001/42 all'art.
1 impongono di ritenere che, sebbene
l’articolo 2, lettera a), della direttiva
2001/42 riguardi formalmente soltanto
l’adozione e la modifica di piani di assetto
del territorio, detta direttiva, al fine di
conservare il suo effetto utile, deve essere
interpretata nel senso che si applica
altresì all’abrogazione di tali piani.
Nel caso di specie, afferma la Corte, "l’abrogazione
di un piano regolatore particolareggiato
muterebbe il contesto in cui vengono
rilasciate le licenze urbanistiche e
potrebbe modificare l’ambito delle
autorizzazioni rilasciate per i progetti
futuri".
Né sarebbe conforme alla finalità e
all’effetto utile della direttiva 2001/42
escludere dall’ambito di applicazione della
direttiva "un atto di abrogazione, la cui
adozione, benché facoltativa, abbia avuto
luogo", vero che i «piani e programmi» di
cui all’articolo 2, lettera a), della
direttiva in parola "sono in via generale
quelli previsti dalle disposizioni
legislative o regolamentari nazionali e non
soltanto quelli che devono essere
obbligatoriamente adottati in forza di tali
disposizioni".
Pertanto, pur constatando che l’articolo 2,
lettera a), della direttiva 2001/42 non
riguarda l’abrogazione dei piani, la Corte
ha ritenuto che dalla suddetta direttiva "emerga,
tuttavia, che una valutazione ambientale
deve essere realizzata non soltanto per gli
atti nazionali che determinano le norme di
pianificazione territoriale, ma anche per
quelli che definiscono il quadro in cui
l’attuazione di progetti potrà essere
autorizzata in futuro. Pertanto, un atto del
governo della Regione che si inserisca in un
complesso di piani di assetto del territorio
dovrebbe essere sottoposto a tale procedura
anche quando abbia ad oggetto unicamente
l’abrogazione dei piani" (link a
http://studiospallino.blogspot.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.06.2012 |
ã |
FANNO BUSINESS
SULLE NOSTRE SPALLE !! |
Ricordate di quel sito
web free
che, spudoratamente e contra legem,
copiava/incollava "fedelmente" molte delle
nostre news, frutto della personale elaborazione di
chi opera in redazione, spacciando i contenuti
informativi come propri anziché citare la fonte ??
Ebbene, lo scorso 5 giugno abbiamo inoltrato, al
gestore del suddetto sito, una mail dal seguente
tenore: |
Buongiorno,
lo scorso 15.12.2011 sul nostro sito denunciavamo
pubblicamente l’esistenza di un sito web free
(senza nominarlo) nel quale, spudoratamente e
contra legem, sono copiate/incollate "fedelmente"
molte delle nostre news, frutto della personale
elaborazione di chi opera in redazione, spacciando i
contenuti informativi come propri anziché citare la
fonte e cioè:
http://www.ptpl.altervista.org/ con eventuale
link (dedicato) di rimando al Portale medesimo.
Non solo: sono state addirittura riprodotti i titoli
di molti nostri "dossier" con, ovviamente
all'interno, allocate le news di pertinenza di cui
sopra.
Subito dopo la nostra pubblica denuncia, si è
constatata l’interruzione di tale comportamento
scorretto.
Tuttavia, ad inizio di gennaio 2012 si è altrettanto
constatato che il medesimo sito free e
divenuto a pagamento (http://www....) e la pagina
dedicata agli enti locali (http://www....) è
pressoché totalmente formata ed aggiornata
(tempestivamente dopo ogni nostro aggiornamento) da
news pubblicate sul nostro sito
http://www.ptpl.altervista.org/.
Orbene, restando qui impregiudicata l’eventuale
questione giuridico-legale, Vi si chiede se sia
etico, o meno, far business attingendo
bellamente dalla fatica altrui ...
Nell’attesa, si porgono distinti saluti.
LA SEGRETERIA PTPL
|
Ora, stiamo a vedere cosa faranno ...
11.06.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI:
OGGETTO: Instaurazione rapporti di lavoro
a tempo determinato e articolo 9, comma 28,
del d.l. 78/2010 (parere
28.05.2012 n. 21202 di prot.).
---------------
Parere DFP su art. 9, comma 28, d.l. 78/2010.
Il Dipartimento della funzione pubblica, con parere
28.05.2012 n. 21202 di prot.,
fornisce chiarimenti ad ANCI sulle modalità
di calcolo del limite di spesa di cui
all'articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010,
convertito in legge 122/2010, in particolare
sugli effetti delle deroghe previste per
l'anno 2012 ed a partire dal 2013.
In sintesi, il dipartimento è dell'avviso
che il conteggio della spesa dell'anno 2009
-in assenza di un'esplicita previsione del
legislatore- va operato in termini
cumulativi e, quindi, comprensivo (nella
base di calcolo) di tutte le fattispecie di
lavoro flessibile richiamate dalla norma,
senza distinzione di settori di riferimento
(in deroga o non in deroga) (commento tratto da www.publika.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
LAVORI PUBBLICI:
R. Gavasci,
Nuovi profili normativi e giurisprudenziali
in tema di affidamento in house
(07.06.2012 - link a www.diritto.it). |
APPALTI:
L. Bellagamba,
La comunicazione del Ministero del Lavoro e
delle Politiche Sociali sulla «non
autocertificabilità» del DURC. La correzione
interpretativa della successiva
comunicazione dell’INAIL, d'intesa con il
Ministero stesso. La piena
autocertificabilità del DURC anche per
l’ipotesi di cui al D.Lgs. 81/2008, art. 90,
comma 9, lett. c). La circolare INPS
27.03.2012, n. 47. La legge di conversione
del terzo decreto “Monti”. La circolare del
Ministero per la pubblica amministrazione e
la semplificazione, n. 6/2012. La circolare
del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali, n. 12/2012 (aggiornamento
all'01.06.2012)
(07.06.2012 - link a www.linobellagamba.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
R. Staiano,
Il cartellino marcatempo ha natura di atto
pubblico (Cass. pen., n. 19299/2012) - Il
foglio di presenza degli impiegati pubblici
ha natura di atto pubblico
(06.06.2012 - link a www.diritto.it). |
LAVORI PUBBLICI:
L. Bellagamba,
La certificazione di qualità nelle more del
rilascio del documento e il non convincente
parere dell’Autorità
(04.06.2012 - link a www.linobellagamba.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Ulteriore proroga del regime
transitorio per le categorie SOA variate
(ANCE di Bergamo,
circolare 08.06.2012 n. 158). |
APPALTI:
Oggetto: DURC – acquisizione d’ufficio e
tempi di richiesta per le Amministrazioni
pubbliche, richiesta da parte dei privati,
non autocertificabilità e soggetti deputati
al rilascio
(ANCE di Bergamo,
circolare 08.06.2012 n. 157). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Nuove disposizioni per le
emissioni in atmosfera di stabilimenti
esistenti
(ANCE di Bergamo,
circolare 08.06.2012 n. 153). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: “Linee Guida regionali per
l’autorizzazione degli impianti per la
produzione di energia elettrica da Fonti
Energetiche Rinnovabili (FER) mediante
recepimento della normativa nazionale in
materia": documento esplicativo riassuntivo
(ANCE di Bergamo,
circolare 08.06.2012 n. 152). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti di protezione dalle scariche
atmosferiche e impianti di messa a terra. La
guida tecnico-operativa dell’INAIL
sull’applicazione del DPR 462/2001.
Il D.P.R. 462/2001 disciplina le procedure
relative a installazioni e la messa in
esercizio degli impianti elettrici di messa
a terra e degli impianti di protezione
contro le scariche atmosferiche.
I datori di lavoro, entro 30 giorni dalla
messa in esercizio dell’impianto, devono
inviare la dichiarazione di conformità
contenente le verifiche effettuate
sull’impianto, all’INAIL che provvederà ad
effettuare il controllo a campione della
prima verifica.
L’INAIL ha pubblicato recentemente la “Guida
tecnica alla prima verifica degli impianti
di protezione dalle scariche atmosferiche e
impianti di messa a terra”, relativa ai
luoghi di lavoro in cui sia presente almeno
un lavoratore.
La guida definisce:
● l’ambito di applicazione, ovvero i luoghi
di lavoro con l’individuazione della figura
di un “lavoratore”
● i campi di applicazione (impianti di messa
a terra, impianti di protezione dalle
scariche atmosferiche, impianti di messa a
terra installati in luoghi con pericolo di
esplosione)
● i campi di esclusione
● i compiti dell’INAIL
● le modalità di trasmissione della
dichiarazione di conformità
● i sistemi di campionatura
● le procedure di verifica e sicurezza
● l’elenco degli uffici INAIL a cui inviare
le dichiarazioni
● la modulistica da inviare all’INAIL (07.06.2012
- link a www.acca.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
E’ arrivato Imus 6.00, il software
universale per il calcolo dell’imposta
direttamente via internet.
E’ arrivata la nuova versione di Imus,
l’applicazione di BibLus-net per il calcolo
dell’Imposta Municipale.
La versione 6.00 di Imus, che funziona
direttamente via internet, consente di
calcolare l’importo dell’imposta per le
diverse tipologie di immobili e categorie
catastali. E’ possibile scegliere il numero
di rate, inserire le varie pertinenze e
impostare millesimi e mesi di possesso.
Il tutto in maniera semplice e veloce.
Alla fine della procedura viene anche
generato un facsimile di modello F24 da
utilizzare per il pagamento dell’IMU.
Ma non è tutto!
Imus, grazie alla nuova tecnologia HTML5, è
universale!
Può essere utilizzato, infatti, sia su
piattaforma Desktop (Windows e Macintosh)
che su piattaforma mobile (ad esempio iPhone,
iPad, Windows Phone, Android, BlackBerry) (07.06.2012
- link a www.acca.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 07.06.2012 n. 131 "Disposizioni
urgenti in materia di qualificazione delle
imprese e di garanzia globale di esecuzione" (D.L.
06.06.2012 n. 73).
---------------
Un primo commento al riguardo:
D.L. N. 73/2012 - ANCORA UN RINVIO DEL
PERIODO TRANSITORIO PER LA QUALIFICAZIONE
PREVISTO DAL REGOLAMENTO SUI CONTRATTI
PUBBLICI (link a
www.ancebrescia.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 23 del
07.06.2012, "L.r. 18.04.2012, n. 7
«Misure per la crescita, lo sviluppo e
l’occupazione», pubblicata sul BURL n. 16,
supplemento, del 20.04.2012" (avviso
di rettifica). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 23 del
07.06.2012, "Testo
coordinato della l.r. 02.02.2010 n. 5 «Norme
in materia di valutazione di impatto
ambientale»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 23 del
04.06.2012, "Realizzazione degli
interventi di bonifica ai sensi dell’art.
250 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152 -
programmazione economico-finanziaria
2012/2014" (deliberazione
G.R. 23.05.2012 n. 3510). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del
04.06.2012, "Linee guida per la
disciplina del procedimento per il rilascio
della certificazione di avvenuta bonifica,
messa in sicurezza operativa e messa in
sicurezza permanente dei siti contaminati"
(deliberazione
G.R. 23.05.2012 n. 3509). |
VARI: G.U.
31.05.2012 n. 126 "Modifiche al decreto
legislativo 01.08.2003, n. 259, recante
codice delle comunicazioni elettroniche in
attuazione delle direttive 2009/140/CE, in
materia di reti e servizi di comunicazione
elettronica, e 2009/136/CE in materia di
trattamento dei dati personali e tutela
della vita privata" (D.Lgs.
28.05.2012 n. 70). |
VARI: G.U.
31.05.2012 n. 126 "Modifiche al decreto
legislativo 30.06.2003, n. 196, recante
codice in materia di protezione dei dati
personali in attuazione delle direttive
2009/136/CE, in materia di trattamento dei
dati personali e tutela della vita privata
nel settore delle comunicazioni
elettroniche, e 2009/140/CE in materia di
reti e servizi di comunicazione elettronica
e del regolamento (CE) n. 2006/2004 sulla
cooperazione tra le autorità nazionali
responsabili dell’esecuzione della normativa
a tutela dei consumatori" (D.Lgs.
28.05.2012 n. 69). |
CORTE DEI
CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
L’art. 92, comma 6 del Codice dei
contratti, in quanto norma eccezionale, non
consente di riconoscere specifici incentivi
al personale che fornisce variamente
supporto alla redazione del piano, rimesso
ad un professionista esterno; il comune non
può, con regolamento comunale, istituire
specifici compensi al di fuori di quanto
previsto dalla stessa disposizione, in
quanto ciò contrasterebbe con la natura
eccezionale della norma e con il principio
della rigidità della struttura retributiva,
la cui determinazione è rimessa alla
contrattazione collettiva (nazionale e, solo
nei limiti di questa, decentrata).
---------------
Il sindaco del comune di Baranzate (MI)
menzionato in epigrafe ha formulato alla
Sezione una richiesta di parere concernente
il regime giuridico degli speciali compensi
riconoscibili ai dipendenti ai sensi
dell’art. 92, comma 6, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei
contratti pubblici), per la realizzazione
interna di atti di pianificazione, comunque
denominati.
La norma richiamata, come è noto, riguarda
la possibilità di riconoscere un incentivo
pari al trenta per cento della tariffa
professionale di regola riconosciuta a
professionisti esterni, ai dipendenti delle
stazioni appaltanti i quali redigano
internamente l’atto di pianificazione.
Specifica altresì la richiamata disposizione
che l’emolumento va ripartito «con le
modalità e i criteri» previsti da un
regolamento, analogo a quello che disciplina
la ripartizione interna di compensi per la
progettazione di opere pubbliche, di cui al
comma 5.
Il sindaco,
dopo avere precisato che l’incarico per la
redazione dell’atto di pianificazione è
stato affidato già ad un professionista
esterno, pone segnatamente
tre quesiti:
i)
se l’art. 92, comma 6, sia estensibile ai
dipendenti che fanno parte del c.d. “Ufficio
di piano”, per gli “specifici compiti
e funzioni” assolti;
ii)
laddove la norma non fornisca la base
giuridica per il riconoscimento
dell’incentivo di cui sopra, se il comune
possa estendere l’ambito operativo della
disposizione del Codice dei contratti
tramite la propria potestà regolamentare, “alterando”
o “adeguando” la ratio della
disposizione di legge e conferire specifici
compensi ai propri dipendenti, per lo
svolgimento di «specifici compiti e
funzioni […] in qualità di componenti del
c.d. Ufficio di
Piano», anche nel caso di conferimento
all’esterno dell’incarico;
iii)
infine, nel caso in cui il comune abbia già
adottato regolamento, e tale regolamento
fosse illegittimo, se l’erogazione
costituisca un illecito oppure
l’applicazione del regolamento costituisca
una causa giustificativa, in quanto il
regolamento è comunque fonte di un dovere
per gli amministratori.
...
Pertanto, con riferimento ai quesiti oggetto
del parere, sulla base selle suesposte
considerazioni, si deve concludere:
i) che l’art. 92, comma 6.
del Codice dei contratti, in quanto norma
eccezionale, non consente di riconoscere
specifici incentivi al personale che
fornisce variamente supporto alla redazione
del piano, rimesso ad un professionista
esterno;
ii) che il comune non può,
con regolamento comunale, istituire
specifici compensi al di fuori di quanto
previsto dalla stessa disposizione, in
quanto ciò contrasterebbe con la natura
eccezionale della norma e con il principio
della rigidità della struttura retributiva,
la cui determinazione è rimessa alla
contrattazione collettiva (nazionale e, solo
nei limiti di questa, decentrata)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Il privato esecutore, a seconda
che le opere da realizzare a favore del
Comune, a fronte della cessione in piena
proprietà di immobili precedentemente
concessi in diritto di superficie e
destinati ad insediamenti produttivi, siano
di importo superiore o inferiore alla soglia
comunitaria dovrà rispettare:
- le norme della Parte II titolo I, nonché
quelle della parte I, IV e V (cfr. art. 32,
comma 1, lett. g, nonché le eccezioni
previste dal comma 2 del medesimo articolo)
per le opere di importo superiore alla
soglia comunitaria prevista in tema di
lavori (dal 01/01/2012, € 5.000.000, come
imposto dal Regolamento CE n. 1251/2011)
- la disciplina prevista degli art. 121,
comma 1, e, in particolare, la procedura
dell’art. 57, comma 6 (con invito rivolto ad
almeno cinque soggetti se sussistono in tale
numero aspiranti idonei) del medesimo
Codice, in caso di lavori sotto soglia
comunitaria (cfr. art. 122, comma 8).
Relativamente a tale ultima ipotesi, va
evidenziato che l’articolo 45 del d.l. n.
201/2011, convertito nella legge n.
214/2011, ha modificato l’articolo 16 del
DPR n. 380/2001 con l’inserimento di un
comma 2-bis a mente del quale “nell'ambito
degli strumenti attuativi e degli atti
equivalenti comunque denominati nonché degli
interventi in diretta attuazione dello
strumento urbanistico generale, l'esecuzione
diretta delle opere di urbanizzazione
primaria di cui al comma 7, di importo
inferiore alla soglia di cui all'articolo
28, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali
all'intervento di trasformazione urbanistica
del territorio, è a carico del titolare del
permesso di costruire e non trova
applicazione il decreto legislativo
12.04.2006, n. 163".
---------------
Il Sindaco del Comune di Vedano Olona (VA),
con nota del 24.04.2012, ha formulato alla
Sezione una richiesta di parere
in merito alla possibilità di
prevedere a titolo di corrispettivo per la
cessione del diritto di proprietà di aree,
già concesse in diritto di superficie, la
realizzazione di opere da trasferire al
Comune.
In particolare il sindaco precisa che Il
Comune di Vedano Olona, dopo essersi dotato
del Piano per Insediamenti Produttivi, ai
sensi dell'art. 27 della legge 22.10.1971 n.
865, ha dato attuazione alla realizzazione
degli interventi assegnando le aree
ricomprese nei vari lotti del piano, sia in
diritto di superficie sia in piena
proprietà.
Considerato che la legge 23.12.1996 n. 662,
all'art. 3 comma 64, ha riconosciuto ai
Comuni la possibilità di cedere in proprietà
le aree già concesse in diritto di
superficie, chiede un parere
in ordine alla possibilità di
prevedere, a titolo di corrispettivo di tale
cessione (nel rispetto di criteri e modalità
di valutazione di tale corrispettivo
indicati allo stesso comma 64, come
sostituito dall'art. 11, comma 1, della
legge 12.12.2002 n. 273), la realizzazione
di opere da trasferire al Comune.
...
Appare opportuno richiamare il dettato
normativo in tema di Piani per insediamenti
produttivi (c.d. PIP), in particolare il
procedimento che il Comune deve seguire a
tal fine e le facoltà concesse al medesimo.
L’art. 27 della legge n. 865/1971 (Programmi
e coordinamento dell'edilizia residenziale
pubblica; norme sulla espropriazione per
pubblica utilità e modifiche ed integrazioni
alle leggi 17.08.1942 n. 1150, 18.04.1962 n.
167, 29.09.1964 n. 847) prevede che “i
comuni dotati di piano regolatore generale o
di programma di fabbricazione approvati
possono formare, previa autorizzazione della
Regione, un piano delle aree da destinare a
insediamenti produttivi”. Le aree da
comprendere in questo piano sono delimitate,
nell'ambito delle zone destinate a
insediamenti produttivi dai piani regolatori
generali o dai programmi di fabbricazione,
con deliberazione del consiglio comunale,
approvata con decreto del Presidente della
giunta regionale.
Il piano ha efficacia per dieci anni dalla
data del decreto di approvazione ed ha
valore di piano particolareggiato
d'esecuzione ai sensi della legge 17 agosto
1942, n. 1150.
L’art. 27 specifica che “le aree comprese
nel piano approvato a norma del presente
articolo sono espropriate dai comuni o loro
consorzi secondo quanto previsto dalla
presente legge in materia di espropriazione
per pubblica utilità.”, ma soprattutto,
ai fini che interessano per la risposta al
comune istante, che “il comune utilizza
le aree espropriate per la realizzazione di
impianti produttivi di carattere
industriale, artigianale, commerciale e
turistico mediante la cessione in proprietà
o la concessione del diritto di superficie
sulle aree medesime”.
In quest’ultimo caso, la concessione del
diritto di superficie ad enti pubblici (per
la realizzazione di impianti e servizi
pubblici, occorrenti nella zona delimitata
dal piano) è a tempo indeterminato, mentre
negli altri casi (in sostanza a
soggetti/imprese private) ha una durata non
inferiore a sessanta e non superiore a
novantanove anni.
La norma precisa, infine, che “contestualmente
all'atto di concessione, o all'atto di
cessione della proprietà dell'area, tra il
comune da una parte e il concessionario o
l'acquirente dall'altra, viene stipulata una
convenzione per atto pubblico con la quale
vengono disciplinati gli oneri posti a
carico del concessionario o dell'acquirente
e le sanzioni per la loro inosservanza”.
Il dato normativo non prevede la necessaria
corresponsione, da parte del privato
assegnatario dell’area, di un corrispettivo
in denaro, ma la sottoposizione ad oneri,
funzionali alla realizzazione degli
obiettivi posti dal Piano per gli
insediamenti produttivi.
Il privato è in sostanza beneficiario delle
aree, ma in virtù di un provvedimento di
concessione finalizzato alla realizzazione
di superiori interessi di carattere generale
per la comunità comunale. Il provvedimento
li attribuisce diritti sulle aree
interessate (di superficie o piena
proprietà), ma anche dei relativi connessi “oneri”,
con la previsione di “sanzioni per la
loro inosservanza”.
Come per altri strumenti di edilizia
complessa o negoziata (si rimanda all’art.
35 della stessa legge n. 865/1971 per i
Piani di edilizia economica e popolare, c.d.
PEEP; ai Piani di riqualificazione urbana di
cui alla legge n. 493/1993; ai Piani
integrati di interventi di cui alla legge n.
179/2002, etc.), l’obbligazione che assume
il concessionario non è necessariamente
limitata al pagamento di una somma di
denaro, ma eventualmente (se in tal senso
depongono gli accordi con il Comune), alla
realizzazione di opere di urbanizzazione o
altre opere pubbliche funzionali alla
realizzazione del piano (nello specifico,
per insediamenti produttivi).
In tal modo il Comune consegue gli obiettivi
posti in sede di programmazione/piano (nel
caso di specie approvato dalla Regione)
trasferendo sui privati concessionari gli
oneri dei costi di realizzazione (esplicita
necessità in tal senso si ritrova nell’art.
35 della legge n. 865/1971 sui PEEP, oltre
che in generale nell’art. 16, comma 3, del
D.L. 22.12.1981, n. 786, convertito in legge
26.02.1982, n. 51, cfr. anche il parere
Piemonte n. 117/2011/PAR), sia quelli di
eventuale esproprio/acquisizione delle aree,
sia quelli necessari a rendere le aree
medesime funzionali agli scopi produttivi
perseguiti.
Il successivo art. 3, comma 64, della legge
n. 662/1996 aggiunge, all’interno di questo
quadro generale, un ulteriore tassello,
permettendo ai comuni che, in precedenza,
avevano optato per la concessione ai privati
del diritto di superficie sulle aree
destinate a insediamenti produttivi di
attribuirne il pieno diritto di proprietà.
Questa norma, nella versione novellata
dall’art. 11 della legge n. 273/2002,
prevede infatti che “i comuni possono
cedere in proprietà le aree già concesse in
diritto di superficie nell'ambito dei piani
delle aree destinate a insediamenti
produttivi di cui all'articolo 27 della
legge 22.10.1971, n. 865. Il corrispettivo
delle aree cedute in proprietà è determinato
con delibera del consiglio comunale, in
misura non inferiore alla differenza tra il
valore delle aree da cedere direttamente in
diritto di proprietà e quello delle aree da
cedere in diritto di superficie, valutati al
momento della trasformazione di cui al
presente comma. La proprietà delle suddette
aree non può essere ceduta a terzi nei
cinque anni successivi all'acquisto”
(nel testo storico si limitava a prevedere
che “gli enti locali territoriali possono
cedere in proprietà le aree già concesse in
diritto di superficie, destinate ad
insediamenti produttivi”, cfr. parere
Veneto n. 113/2010).
In tal modo il legislatore permette al
privato investitore di conseguire la
certezza del diritto attribuito, favorendo
altri successivi investimenti da parte del
medesimo, attività scoraggiata nel caso in
cui, a fronte della scadenza del termine di
attribuzione del diritto di superficie,
l’immobile realizzato (nello specifico,
finalizzato a impianto produttivo) rischia
di rientrare nel patrimonio del Comune
proprietario del suolo (secondo l’ordinaria
regola prevista dal Codice civile).
Alla motivazione di cui sopra si aggiunge
quella propria di altri provvedimenti di
dismissione (e privatizzazione) deliberati
nel corso degli anni ’90, tesi
all’incremento delle entrate per gli enti
pubblici attraverso la vendita di asset
immobiliari e azionari (cfr. in merito la
delibera della Sezione Puglia n.
2/2009/PAR).
La scelta legislativa è analoga a quella
effettuata in ambiti similari, come i Piani
di edilizia economica e popolare (c.d.
PEEP), per i quali l’art. 31, commi 45 e ss,
della legge n. 448/198 ha previsto che le
aree concesse in diritto di superficie per
la realizzazione degli interventi previsti
dall’art. 35 della legge n. 865/1971
(modificato dall’art. 3, comma 63, della
legge n. 662/1996), possano essere concesse
in piena proprietà ai privati richiedenti.
La facoltà di trasformazione del diritto di
superficie in piena proprietà, prevista
dall’art. 3, comma 64, della legge n.
662/1996, di cui si discute nel presente
parere, si innesta pertanto sull’impianto
legislativo esistente, disciplinante i “Piani
per gli insediamenti produttivi”
previsti dall’art. 27 della legge n.
865/1971.
Di conseguenza la scelta, da parte del
comune, di attribuire la piena proprietà
degli immobili precedentemente concessi in
diritto di superficie, dovrebbe trovare
fondamento nelle similari, rinnovate,
motivazioni che hanno condotto
all’approvazione e realizzazione del Piano,
funzionalizzando la cessione della proprietà
del suolo, sede di impianti produttivi, alla
realizzazione di interessi generali
finalizzati allo sviluppo produttivo
complessivo del territorio.
All’interno di tale quadro, sulla base dei
presupporti di fatto e degli obiettivi da
esplicitare nella motivazione della delibera
di Consiglio, il Comune potrebbe optare, in
luogo di un corrispettivo in denaro, per una
differente forma di attribuzione
patrimoniale.
Naturalmente devono essere rispettati i
limiti legislativi imposti dal combinato
disposto degli artt. 27 legge n. 865/1971 e
3, comma 64, legge n. 662/1996, oltre che
quelli desumibili dall’ordinamento giuridico
generale.
Per quanto riguarda i primi, vanno
innanzitutto osservati il procedimento e i
criteri di valutazione che il legislatore
prevede per la cessione dell’area (“il
corrispettivo delle aree cedute in proprietà
è determinato con delibera del consiglio
comunale, in misura non inferiore alla
differenza tra il valore delle aree da
cedere direttamente in diritto di proprietà
e quello delle aree da cedere in diritto di
superficie, valutati al momento della
trasformazione di cui al presente comma”),
adempimenti che il Comune, nell’istanza di
parere, si impegna a rispettare.
Con la precisazione che il valore che il
privato deve corrispondere è stabilito dal
legislatore solo nel minimo, in un ammontare
che, previa motivazione, può essere
aumentato dal Comune in funzione delle
specifiche esigenze da perseguire e del
contesto produttivo in cui l’operazione di
cessione si inserisce.
Circa la natura della suddetta entrata,
appare opportuno sottolineare che si tratta
di introito derivante da alienazione di beni
patrimoniali (il diritto di proprietà sul
suolo cui accede la costruzione/impianto
produttivo), da allocare nel Titolo IV delle
Entrate e, come tale, necessariamente
destinato a spesa in conto capitale (salve
le eccezioni normativamente e tassativamente
previste, come per esempio l’art. 2, comma
8, della legge n. 244/2007, ovvero gli artt.
193, commi 2 e 3, del TUEL, cioè le ipotesi
in cui occorra provvedere al mantenimento
degli equilibri di bilancio, cfr. Sezione
Piemonte n. 117/2011/PAR).
L’altro limite, esplicitato dalla norma base
(art. 27 della legge n. 865/1971), consiste
nella finalizzazione dell’entrata alla
realizzazione degli scopi perseguiti con il
Piano, tanto che il privato si obbliga,
stipulando apposita convenzione, a
determinati oneri (pagamento corrispettivo
in denaro ovvero alla realizzazione di opere
strumentali o altro) necessariamente
presidiati da sanzioni in caso di
inosservanza (causa rischio mancato
conseguimento degli obiettivi perseguiti).
In tale ottica, appare possibile che il
Comune, previa adeguata motivazione,
permetta al privato di liberarsi
dall’erogazione del corrispettivo per la
cessione di aree in proprietà imponendogli
l’obbligo di realizzare opere pubbliche
funzionali al mantenimento degli obiettivi
posti dal PIP.
Trattasi, necessariamente, di opere
d’investimento. Posto infatti che, come
detto, l’entrata che il comune consegue è
imputata in conto capitale, analoga
destinazione deve avere la spesa che il
privato sostiene in sostituzione
dell’obbligo di pagamento della somma di
denaro.
In via residuale, sempre previa adeguata
motivazione, il comune potrebbe decidere di
far effettuare al privato altre opere
pubbliche, stipulando analoga convenzione e
prevedendo similari sanzioni in caso di
inadempienza. Si pensi al caso in cui l’area
destinata al PIP non abbia, allo stato,
bisogno di lavori di
adeguamento/ristrutturazione (in tale
direzione si rinvia alle motivazioni del
parere reso dalla Sezione Piemonte n.
117/2011/PAR, riferito alla similare
fattispecie prevista dall’art. 31 della
legge n. 448/2011 per la cessione in
proprietà delle aree destinate all’edilizia
economica e popolare). In questo caso,
infatti, il privato realizzerebbe
direttamente l’opera pubblica in
sostituzione del Comune, utilizzando le
somme che avrebbe dovuto versare per la
trasformazione del diritto di superficie in
diritto di proprietà.
Il problema successivo che si pone attiene,
tuttavia, alle modalità di realizzazione di
tali opere da parte del privato.
Infatti, nella similare fattispecie delle
opere a scomputo degli oneri di
urbanizzazione (art. 16 DPR n. 380/2001), il
legislatore, dopo l’intervento della
giurisprudenza comunitaria (Corte di
Giustizia con la sentenza 12.07.2001
C399/1998, "Scala 2001"), ha imposto
al privato esecutore il rispetto delle
procedure di evidenza pubblica (cfr. artt.
32 e 122 comma 8 del d.lgs. n. 163/2006).
Analoga interpretazione è stata adottata
dall’Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici in altri casi di sostituzione del
privato all’amministrazione nell’ambito di
programmi di edilizia complessa o negoziata
(cfr. Determinazioni n. 4 del 03/04/2008 e
n. 7 del 16/07/2009).
La regolamentazione dell'istituto delle “opere
di urbanizzazione a scomputo” risale
alla normativa in materia urbanistica,
secondo la quale la realizzazione di tali
opere condiziona il rilascio del permesso di
costruire (cfr. art. 31 della legge
1150/1942, art. 8 legge n. 765/1967, art. 6
legge n. 10/1977). Le pregresse disposizioni
sono state poi trasfuse nell'articolo 16 del
Testo unico sull'edilizia DPR n. 380/2001
che, ai commi 7,7-Bis e 8, stabilisce la
suddivisione in oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria, prevedendo che il
rilascio del permesso di costruire comporta
per il privato "la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza degli
oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione".
Il legislatore ha previsto poi, nel comma 2
del citato art. 16, la possibilità di
scomputare la quota del contributo relativa
agli oneri di urbanizzazione, nel caso in
cui il titolare del permesso di costruire, o
l’attuatore del piano, si obblighi a
realizzarle direttamente. Tra l'operatore
privato e l'amministrazione viene stipulata
una convenzione che accede al permesso di
costruire nella quale vengono regolate le
opere da realizzare, i tempi, le modalità
della loro esecuzione, la loro valutazione
economica e le garanzie dell'adempimento,
imprimendo così una connotazione negoziale
al rapporto tra pubblica amministrazione e
privato.
La ratio dell'istituto va individuata
nella possibilità offerta
all'amministrazione locale di dotarsi di
opere di urbanizzazione senza assumere
direttamente i rischi legati alla loro
realizzazione.
Su tale assetto normativo è intervenuta la
citata pronuncia della Corte Europea "Scala
2001" che ha affermato le direttive
europee in tema di appalti ostano “ad una
normativa nazionale in materia urbanistica
che, al di fuori delle procedure previste da
tale direttiva, consenta al titolare di una
concessione edilizia o di un piano di
lottizzazione approvato la realizzazione
diretta di un'opera di urbanizzazione a
scomputo totale o parziale del contributo
dovuto per il rilascio della concessione,
nel caso in cui il valore di tale opera
eguagli o superi la soglia fissata dalla
direttiva di cui trattasi". La Corte di
Giustizia ha precisato che “la
realizzazione diretta di un'opera di
urbanizzazione secondo le condizioni e le
modalità previste dalla normativa italiana
in materia urbanistica costituisce un
appalto pubblico di lavori”. In
sostanza, la Corte ha sostenuto che tali
opere sono da ritenere pubbliche sin
dall’origine (anche se eseguite su proprietà
privata e se formalmente tali prima del
passaggio al patrimonio pubblico) e che la
realizzazione delle medesime in luogo del
pagamento del contributo conferma tale
natura.
Con l'approvazione del Codice dei contratti
il quadro normativo si è evoluto nella
direzione di un più esteso assoggettamento
delle opere a scomputo alle procedure di
evidenza pubblica.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, con la citata determinazione n. 4
del 2008 ha poi esteso la portata
dell'articolo 32, comma 2, lettera g), del
d.lgs. 163/2006 a tutti i piani urbanistici
e accordi convenzionali, comunque
denominati, stipulati tra privati e
amministrazioni (cosiddetti "accordi
complessi", compresi gli accordi di
programma) che prevedano l'esecuzione di
opere destinate a confluire nel patrimonio
pubblico.
Infatti, il giudice europeo, nella sentenza
“Scala” del 2001, ha affermato che la
realizzazione delle opere di urbanizzazione
è da ricondurre al genus “appalto
pubblico di lavori” sulla base della
ricorrenza di una serie di elementi:
- la qualità di amministrazione
aggiudicatrice dell’ente procedente;
- la riconducibilità delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria alla
categoria delle opere pubbliche in senso
stretto, stante la loro idoneità funzionale
a soddisfare le esigenze della collettività
ed il pieno controllo dell’amministrazione
competente sulla realizzazione delle opere
medesime (a nulla rilevando che l’opera sia
inizialmente privata, in quanto le opere di
urbanizzazione hanno per propria natura una
intrinseca finalità pubblica);
- la natura contrattuale del rapporto fra
l’amministrazione e il privato lottizzante,
posto che la convenzione di lottizzazione,
sottoscritta dalle parti, stabilisce diritti
ed obblighi delle parti, ivi compresa
l’esatta individuazione delle opere che il
privato è tenuto a realizzare;
- la natura onerosa di tale contratto,
considerando che l’amministrazione comunale,
accettando la realizzazione diretta delle
opere di urbanizzazione, rinuncia a
pretendere il pagamento dell’importo dovuto
a titolo di contributo e che, pertanto, il
titolare della concessione edilizia o del
piano di lottizzazione, attraverso la
realizzazione diretta, estingue un debito di
pari valore, secondo lo schema civilistico
dell’obbligazione alternativa.
Poiché si tratta, quindi, di appalti
pubblici di lavori, la Corte di giustizia ha
ritenuto applicabile agli stessi l’obbligo
di esperire procedure ad evidenza pubblica
secondo la normativa comunitaria.
Alla luce di tale arresto comunitario,
l’Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici ha valutato, nella determinazione
n. 4/2008, se i principi enucleati nella
descritta pronuncia possano eccedere
l’ambito preso in esame e trovare
applicazione nei confronti di altre forme di
negoziazione tra pubblica amministrazione e
privato.
In particolare, occorre stabilire se, anche
per altre fattispecie, ricorrano gli
elementi che hanno indotto la Corte di
Giustizia ad ascrivere all’appalto pubblico
di lavori la realizzazione delle opere di
urbanizzazione a scomputo.
Pertanto se anche in altre ipotesi di
programmi di edilizia complessa o negoziata
ricorre:
- sotto il profilo soggettivo, la qualità di
amministrazione aggiudicatrice in capo
all’ente pubblico procedente e, sotto il
profilo oggettivo, l’esecuzione di opere
pubbliche, cioè di opere d’interesse
generale realizzate a vantaggio della
collettività;
- la natura negoziale del rapporto
pubblico-privato, con rapporto disciplinato
tra le parti con convenzione avente valore
vincolante, sulla base di uno scambio
sinallagmatico;
- il carattere oneroso della prestazione
(come nel caso in cui a fronte della
prestazione del privato, vi sia il
riconoscimento di un corrispettivo in
denaro, ovvero del diritto di sfruttamento
dell’opera o, ancora, come nel caso di
specie, la cessione in proprietà o in
godimento di beni appartenenti
all’amministrazione), il privato che si
assume l’obbligo di eseguire le opere è
tenuto, come nel caso della realizzazione
delle opere a scomputo degli oneri di
urbanizzazione, ad osservare le procedure
previste per l’esecuzione dei lavori
pubblici.
Ciò in quanto l’effettuazione di queste
opere da parte del privato avviene comunque
sulla base di un accordo convenzionale
concluso con l’amministrazione per il
raggiungimento di un proprio interesse
patrimoniale, che è la causa del negozio
giuridico in base al quale il privato stesso
assume su di sé l’obbligo di realizzare le
opere di cui trattasi.
Né osta a tale ricostruzione il fatto che la
realizzazione delle opere avvenga tramite
soggetti privati, atteso che la Corte
Costituzionale, con sentenza 28.03.2006 n.
129, ha espressamente stabilito che “il
ricorso a procedure ad evidenza pubblica per
la scelta del contraente non può essere
ritenuto incompatibile con gli accordi tra
privati e pubblica amministrazione”.
Il privato esecutore, pertanto, a seconda
che le opere da realizzare a favore del
Comune, a fronte della cessione in piena
proprietà di immobili precedentemente
concessi in diritto di superficie e
destinati ad insediamenti produttivi, siano
di importo superiore o inferiore alla soglia
comunitaria dovrà rispettare:
- le norme della Parte II titolo I, nonché
quelle della parte I, IV e V (cfr. art. 32,
comma 1, lett. g, nonché le eccezioni
previste dal comma 2 del medesimo articolo)
per le opere di importo superiore alla
soglia comunitaria prevista in tema di
lavori (dal 01/01/2012, € 5.000.000, come
imposto dal Regolamento CE n. 1251/2011)
- la disciplina prevista degli art. 121,
comma 1, e, in particolare, la procedura
dell’art. 57, comma 6 (con invito rivolto ad
almeno cinque soggetti se sussistono in tale
numero aspiranti idonei) del medesimo
Codice, in caso di lavori sotto soglia
comunitaria (cfr. art. 122, comma 8).
Relativamente a tale ultima ipotesi, va
evidenziato che l’articolo 45 del d.l. n.
201/2011, convertito nella legge n.
214/2011, ha modificato l’articolo 16 del
DPR n. 380/2001 con l’inserimento di un
comma 2-bis a mente del quale “nell'ambito
degli strumenti attuativi e degli atti
equivalenti comunque denominati nonché degli
interventi in diretta attuazione dello
strumento urbanistico generale, l'esecuzione
diretta delle opere di urbanizzazione
primaria di cui al comma 7, di importo
inferiore alla soglia di cui all'articolo
28, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali
all'intervento di trasformazione urbanistica
del territorio, è a carico del titolare del
permesso di costruire e non trova
applicazione il decreto legislativo
12.04.2006, n. 163" (Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259). |
ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Segretari,
spese senza eccezioni. Costi da computare
tra quelli per il personale.
Le spese relative ai
segretari comunali e provinciali vanno a
braccetto con quelle del personale
dipendente. Infatti, l'attuale assetto
normativo che regola il ruolo, le funzioni e
lo status dei segretari comunali e
provinciali non giustifica una posizione
funzionale all'interno degli enti locali
diversa da quella attuale, cosicché non si
può prevedere che le relative spese siano
allocate in bilancio diversamente da quelle
per il personale dipendente degli stessi
enti.
È quanto mette nero la sezione autonomie
della Corte dei conti nel testo della
deliberazione
30.05.2012 n. 8, in risposta
alle perplessità ventilate da un gruppo di
amministratori locali liguri in ordine agli
effetti conseguenti all'assunzione di nuovi
segretari comunali, sul piano dell'incidenza
delle relative spese di personale nei già
asfittici bilanci degli enti locali.
Si potrebbe argomentare, così come ha fatto
la sezione di controllo della Corte ligure,
che nelle funzioni del segretario comunale
ci sia un quid di specialità nel rapporto
funzionale con l'ente, così da poter
apprezzare una posizione diversa da quello
del normale dipendente.
Ma la sezione autonomie non ha ravvisato
alcunché di speciale nelle prerogative che
spettano al segretario dell'ente. Ha
ricordato, innanzitutto, che lo status
giuridico ed economico va ricondotto al dpr
n. 465/1997 e alle norme contenute nei
contratti collettivi. Ed è in tali contesti
che si ravvisano elementi per ricondurre il
segretario «nel tessuto strutturale
dell'organizzazione dell'ente locale».
Il riferimento è all'articolo 88 del Tuel,
dove i segretari comunali sono considerati
in termini unitari con il personale
dipendente e nelle disposizioni contenute
all'articolo 97 dello stesso Testo unico.
Qui, l'attività del segretario integra una
prestazione lavorativa interamente organica
all'ente e alle sue finalità istituzionali,
così come l'organicità del ruolo del
segretario non differisce da quella dei
dipendenti.
Quindi, ha ammesso la sezione autonomie,
l'attività di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli
organi dell'ente e il coordinamento
dell'attività dei dirigenti non sono
ritenuti fattori che incidono sulla
qualificazione del rapporto interno che
siano tali da differenziarlo sul piano della
finalità della spesa
(articolo ItaliaOggi
dell'08.06.2012 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Personale.
La sezione lombarda «smentisce» le sezioni
riunite.
Sul turn-over nei piccoli enti la Corte
conti prova a cambiare.
IL NODO IRRISOLTO/
La delibera nazionale (vincolante) prevede
l'applicazione dei vincoli a tutti i Comuni,
bloccando la gestione di quelli «minori».
Nelle delibere della Corte dei Conti è
necessario valutare se le affermazioni
contenute riguardano «l'oggetto principale»
della questione oppure un «argomento
incidentale»: nel primo caso tali
affermazioni sono da considerare, nel
secondo caso non hanno alcun valore.
È la conclusione, quantomeno sorprendente, a
cui si giunge con il
parere 22.05.2012 n. 242 della
Corte dei Conti Lombardia.
Quest'ultima è intervenuta nella vexata
quaestio che ha, per oggetto,
l'applicabilità, agli enti non soggetti al
Patto di stabilità, dell'articolo 14, comma
9, del Dl 78/2010, vale a dire il limite
alle assunzioni pari al 20% (oggi 40%) delle
cessazioni verificatesi nell'anno
precedente.
A fronte di un orientamento costante delle
Sezioni Riunite della stessa Corte
(deliberazioni 3 e 4 del 2011), che
escludeva tale previsione, le medesime
Sezioni, con la deliberazione 11/2012, hanno
modificato la loro posizione arrivando ad
affermare che anche gli enti non soggetti al
patto di stabilità potevano assumere nel
limite del 20% (oggi 40%) delle cessazioni
(si veda Il Sole 24Ore del 28 maggio).
Rilevato un cambiamento radicale di rotta,
che sicuramente avrebbe messo in crisi le
amministrazioni interessate, un piccolo
Comune interroga ancora i magistrati
contabili chiedendo lumi sul da farsi. La
Corte lombarda, riprendendo le motivazioni
indicate nelle delibere 3 e 4 del 2011, ne
condivide il contenuto e ne riafferma la
validità, ribadendo che, per le
amministrazioni non soggette al Patto di
stabilità, l'articolo 14, comma 9 impone
solo il generale vincolo che interessa
l'incidenza della spesa di personale sulla
spesa corrente. Sottolineano gli stessi
giudici che queste pronunce sono espressione
della funzione nomofilattica attribuita alle
Sezioni Riunite, vale a dire quella volta a
garantire l'esatta osservanza e l'uniforme
interpretazione della legge, che vincola le
sezioni regionali.
Ma a questo punto vengono in rilievo due
aspetti "anomali". In primo luogo, non si
comprende perché le delibere 3 e 4 del 2011
hanno funzione nomofilattica, mentre il
parere 11/2012, espresso sempre dalle
Sezioni Riunite, non debba presentare la
stessa caratteristica. Di conseguenza, non
risulta chiaro perché le stesse delibere 3 e
4 del 2011 vincolino le Corti regionali,
mentre la 11/2012 non possegga identica
forza.
Infatti, la Corte dei Conti
Lombardia, nel parere n. 242/2012, riconosce
che, nella deliberazione n. 11/2012, «è
effettivamente presente un passaggio in cui
si afferma che i comuni non soggetti alle
regole del patto dio stabilità possono
procedere ad assunzioni di personale nel
limite del 20% (oggi 40%) della spesa
corrispondente alle cessazioni dell'anno
precedente».
A questo punto, la Corte
lombarda risolve la questione affermando che
il problema affrontato nella delibera
11/2012 era rappresentato non tanto dalle
norme sulle assunzioni a tempo
indeterminato, quanto dalle disposizioni sul
lavoro flessibile. E, quindi, a quell'inciso
contenuto nella delibera 11 non si deve dare
peso, mentre resta in piedi lo stare
decisis
dei pareri del 2011.
Non sembrano necessari tanti commenti alla
vicenda, già eloquente di per sé. Secondo i
magistrati lombardi, si tratta di un
"incidente di percorso" delle Sezioni
Riunite. Poiché questo incidente mette in
forte dubbio la possibilità di assumere da
parte degli enti non soggetti al patto di
stabilità, con pesanti ripercussioni sul
mantenimento dei servizi resi alla
cittadinanza, è indifferibile un nuovo
intervento delle Sezioni Riunite, che si
esprimano risolvendo, questa volta
definitivamente, la questione.
---------------
L'approfondimento
Nelle pagine di Autonomie locali del Sole 24
Ore di lunedì scorso sono state illustrate
le conseguenze della delibera 11/2012 delle
Sezioni riunite della Corte dei conti,
secondo cui anche negli enti esclusi dal
Patto si applicano i vincoli del turn-over
(40% delle cessazioni dell'anno precedente).
Negli enti con piccole strutture, questo
determina sostanzialmente un'impossibilità
di coprire i vuoti in organico
(articolo Il Sole 24
Ore del 04.06.2012 - link a www.corteconti.it) |
ENTI LOCALI: Comando
e art. 9, comma 28, d.l. 78/2010.
Anche per la sezione regionale Calabria
della Corte dei Conti (parere
11.05.2012 n.
41):
"... pure con riferimento alla specifica
disposizione limitativa recata dall'articolo
9, comma 28, del d.l. n. 78 del 2010, le
considerazioni svolte orientano l'interprete
nel senso di ritenere la spesa relativa al
personale utilizzato in posizione di comando
esclusa dall'ambito applicativo della norma,
purché sia garantito il principio di
neutralità finanziaria dell'istituto, e
dunque a condizione che la medesima spesa
sia figurativamente mantenuta dall'Ente
cedente ai soli fini dell'applicazione della
norma richiamata (in questi termini, Corte
dei conti, sez. controllo Liguria,
deliberazione n. 7/2012).
Da ultimo, pare
infine appena il caso di sottolineare come
la spesa derivante dall'utilizzo del
personale in comando o distacco vada
comunque computata ai fini della verifica
del rispetto dei limiti imposti dal
legislatore alla spesa di personale degli
enti locali (art. 1, commi 557 e 562, della
L. 296/2006 e ss.mm.)" (tratto da www.publika.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI: Enti, ecco i soldi per le visite
fiscali.
Fondo di 70 mln ripartito in base al numero
degli accertamenti. Decreto Viminale con i
criteri per assegnare le risorse. Per il
2010 conterà anche il numero di abitanti.
In arrivo i contributi per le visite fiscali
degli enti locali. Il fondo di 70 milioni di
euro l'anno, che il ministero dell'economia
e delle finanze eroga complessivamente a
regioni, province, comuni, comunità montane
e unioni di comuni per finanziare i costi
delle visite fiscali ai dipendenti, dovrà
essere attribuito agli enti locali in
proporzione al numero degli accertamenti
medico-legali sui lavoratori assenti per
malattia. Per assegnare le spettanze a cui
le singole amministrazioni hanno diritto per
il 2011 e 2012 (il sistema andrà a regime
nel 2013) il Mef farà riferimento agli
ultimi dati disponibili sulle visite fiscali
forniti dalla Ragioneria generale dello
stato.
È questo l'accordo raggiunto tra
governo ed enti locali in Conferenza
stato-città sul decreto del ministero
dell'interno (di concerto con il Mef)
attuativo della manovra di luglio 2011 (dl
98).
Il provvedimento si è reso necessario perché
il dl 98 non specificava le modalità di
ripartizione (all'interno del comparto enti
locali) del fondo da destinare alla
copertura finanziaria delle visite fiscali.
In Stato-città Anci e Upi hanno espresso
parere favorevole sul testo, ma
l'Associazione dei comuni, nella seduta del
22 maggio, ha posto una condizione al
governo, impegnandolo ad individuare per il
2010 (anno di prima erogazione del
contributo) un criterio di calcolo
alternativo per gli enti che non abbiano
compilato il conto annuale.
La previsione che il riparto dei fondi venga
effettuato sulla base del numero di visite
fiscali desumibile dalla relazione allegata
al conto annuale potrebbe infatti
penalizzare gli enti che non lo hanno
compilato. Per questo, in Conferenza
stato-città il presidente dell'Anci,
Graziano Delrio, ha raccomandato al governo
di tenere conto di parametri diversi. Solo
per il 2010, l'Anci ha chiesto che i fondi
vengano assegnati prendendo in
considerazione il numero di abitanti del
comune e il valore medio delle visite
fiscali effettuate nel territorio di
riferimento in modo da erogare a tali enti
un rimborso forfettario medio.
Secondo l'Anci,
questo criterio ulteriore si rende
necessario in quanto, si legge nella nota
depositata in conferenza stato-città,
«l'art. 17, comma 5, del dl 98/2011 non àncora
l'erogazione del contributo alla
compilazione del conto annuale e dunque, in
assenza di un'espressa previsione normativa,
la mancata compilazione del conto non può
diventare una causa ostativa all'erogazione
del contributo».
Come detto, l'ammontare del fondo è di 70
milioni l'anno per il biennio 2011-2012 e
poi a regime dal 2013. Per il 2011-2012 il
governo troverà le risorse per coprire i
costi delle visite fiscali dalle
disponibilità finanziarie non utilizzate dal
Servizio sanitario nazionale. Dal 2013 la
legge di bilancio conterrà ogni anno una
dotazione non inferiore a 70 milioni di euro
(articolo ItaliaOggi
del 09.06.2012 - tratto da
www.ecostampa.it).). |
SICUREZZA LAVORO: Il
ministero sulla sicurezza nei cantieri edili. Formazione agli enti doc.
Organismi paritetici doc per la formazione
dei lavoratori edili sulla sicurezza lavoro.
Ossia, gli enti bilaterali emanati dalle
parti sociali con maggiore rappresentatività
in termini comparativi che hanno
sottoscritto i ccnl dei settori industria,
artigianato, cooperazione e industria pmi.
Lo stabilisce il Ministero del Lavoro nella
circolare
06.06.2012 n. 13/2012, con cui individua le
associazioni sindacali e di categoria
corrispondenti al predetto requisito e,
dunque, abilitate all'emanazione degli
organismi paritetici.
Il ministero risponde alle richieste di
chiarimento del personale ispettivo, circa
le problematiche della formazione dei
lavoratori nel settore edile e,
specificatamente, in merito al
coinvolgimento nell'attività formativa degli
«organismi paritetici», previsti
dall'articolo 2, lettera ee), del dlgs n.
81/2008 (T.u. sicurezza). In particolare, è
stato chiesto di conoscere quali organismi
del settore siano da ritenersi costituiti da
«una o più associazioni dei datori e
prestatori di lavoro comparativamente più
rappresentativi sul piano nazionale».
Circostanza questa, spiega il ministero,
essenziale in quanto possono definirsi tali
solo gli enti bilaterali emanazione delle
parti sociali dotate del requisito della
maggiore rappresentatività in termini
comparativi, e non tutti gli organismi
genericamente frutto di qualsivoglia
contrattazione collettiva in ambito edile.
Per ora, precisa dunque il ministero, nel
settore dell'edilizia, i contratti
collettivi nazionali (ccnl) sottoscritti
dalla organizzazioni sindacati e datoriali
comparativamente più rappresentative sempre
a livello nazionale sono: industria (Ance;
Feneal-Uil; Filca-Cisl; Fillea-Cgil);
artigianato (Anaepa; Cna-costruzioni;
Fiae-Casartigiani; Claai; Feneal-Uil;
Filca-Cisl; Fillea-Cgil); Cooperazione (Ancpl-Legacoop;
Federlavoro e servizi-Confcooperative; Pls
Agci; Feneal-Uil; Filca-Cisl; Fillea-Cgil);
Piccola e media industria (Anieme;
Feneal-Uil; Filca-Cisl; Fillea-Cgil).
In conclusione, il ministero precisa che
soltanto gli organismi bilaterali costituiti
a iniziativa di una o di più associazioni
dei datori di lavoro o dei prestatori di
lavoro firmatarie dei predetti contratti
(sigle in parentesi) possono definirsi «organismi
paritetici» ai sensi del T.u. sicurezza
e, pertanto, legittimati a svolgere
l'attività di formazione, in collaborazione
con i datori di lavoro, come previsto sempre
dal T.u. sicurezza (articolo 37)
(articolo ItaliaOggi
del 09.06.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: IL
DECRETO INFRASTRUTTURE/ Ristrutturazioni,
allargato il 36%. Il tetto è annuale: non si
cumulano le spese già sostenute.
Provvedimento in dirittura: ecco le novità
tributarie.
A decorrere
dall'01.01.2012, per la detrazione del 36%
per le ristrutturazioni il limite massimo
delle spese ammesse deve essere considerato
per periodo d'imposta, senza tenere conto
dall'ammontare delle spese sostenute negli
anni precedenti.
La bozza di decreto «infrastrutture»,
al vaglio di uno dei prossimi consigli dei
ministri, si aggiunge all'innalzamento
provvisorio del tetto di spesa (da 48 mila a
96 mila euro) e alla percentuale di
detrazione (dal 36% al 50%).
Innanzitutto, la modifica dispone che per le
spese documentate sostenute dalla data di
entrata in vigore del provvedimento in
commento fino al 30 giugno del prossimo anno
(2013), relativamente a tutti gli interventi
elencati nel nuovo art. 16-bis, dpr n.
917/1986 (Tuir), il contribuente potrà
tenere conto della soglia di spesa massima
di 96 mila euro, in luogo di quella prevista
a regime (48 mila) per singola unità
immobiliare, beneficiando di una detrazione
del 50% in luogo di quella del 36%. Stante
il fatto che dal 1° gennaio prossimo anche
il bonus sul risparmio energetico viene
ricondotto nell'ambito della detrazione
sulle ristrutturazioni, in luogo di un
abbattimento dal 55% al 36%, fino alla metà
del medesimo anno (30/06/2013) la detrazione
su tali spese sarà possibile nella nuova
misura (50%).
La detrazione in commento, ai sensi del
comma 48, dell'art. 1, della legge n.
220/2010 si applica anche alle spese per
interventi di sostituzione di scaldacqua
tradizionali con scaldacqua a pompa di
calore dedicati alla produzione di acqua
calda sanitaria, con ripartizione della
stessa in dieci quote annuali di pari
importo; il decreto in commento, con una
modifica al comma appena indicato, rende
applicabile, fermo restando i tetti di spesa
fissati, la detrazione nella misura del 50%,
limitatamente alle spese di questo genere
sostenute dall'01/01/2013 fino al 30 giugno
del medesimo anno.
Inoltre, l'ultimo comma sopprime il comma 4,
dell'art. 4 della legge n. 201/2011 che
disponeva sulla soglia di spese su cui
calcolare il bonus 36%, in presenza di una «mera
prosecuzione» di interventi iniziati in
anni precedenti; detta disposizione non
permetteva, in tal caso, di andare oltre il
tetto di 48 mila per i lavori relativi alla
medesima unità anche se realizzati (e
sostenuti) in periodi d'imposta diversi (per
esempio, 2010 euro 40 mila, 2011 euro 10
mila, massima detrazione ottenibile per
entrambi i periodi sarà pari al 36% su
48.000 per un ammontare di euro 17.280).
Come detto, infatti, il limite di spesa di
48 mila euro è fissato per ogni intervento
sulla stessa abitazione, pertinenze incluse,
e il limite è annuale e per immobile e per
tipo di intervento (anche se pluriennale).
Tale limite non è presente, però, se un
contribuente è in possesso di più abitazioni
in quanto, allo stato attuale, le spese
agevolate sono di 48 mila euro per ciascuna
unità (legge 266/2005) e, stante il fatto
che il limite deve essere riferito
all'abitazione, se l'unità risulta
cointestata e le spese per ristrutturazione
sono sostenute da tutti i cointestatari, il
limite (48 mila euro) deve essere suddiviso
tra i contribuenti proprietari.
Nel caso in cui, invece, per l'intervento di
ristrutturazione si renda necessario
l'ottenimento di una nuova e ulteriore
autorizzazione, magari per interventi
diversi da quelli già eseguiti, si configura
la presenza di un «nuovo» intervento
edilizio, con la conseguenza che il
contribuente potrà utilizzare un nuovo e
intero limite di spesa per l'ammontare
attuale pari a 48 mila euro; si è in
presenza di un nuovo intervento, come
chiarito anche dall'Agenzia delle entrate
(circolare n. 13/E/2001), anche nel caso in
cui non sia necessario chiedere una
specifica autorizzazione.
Con la novella inserita nel provvedimento in
commento, pertanto, si prevede l'abrogazione
di tale comma, a decorrere dal 1° gennaio
scorso (2012), con l'inevitabile possibilità
per il contribuente di sostenere, per ogni
periodo d'imposta, un limite di spesa «autonomo»
nei limiti previsti (48 mila o 96 mila)
dalle disposizioni vigenti.
Sul tema si ricorda che, in relazione «_
al computo del limite massimo di spesa, le
spese riferibili ai lavori sulle parti in
comune dell'edificio, essendo oggetto di
un'autonoma previsione legislativa, debbono
essere considerate in modo autonomo _»
(Agenzia delle entrate, risoluzione
19/E/2008), mentre l'attuale limite dei 48
mila euro, come detto, deve essere
considerato con riferimento all'abitazione e
alle relative pertinenze (Agenzia delle
entrate, risoluzioni n. 124/E/2007 e n.
181/E/2008)
(articolo ItaliaOggi
dell'08.06.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Per i dipendenti p.a. stipendio
pieno. La neve scusa i lavoratori. L'assenza
è giustificata, ma l'azienda non paga. I
chiarimenti del ministero del lavoro.
La «neve» grazia gli
impiegati pubblici. Quale causa di mancata
prestazione lavorativa, infatti, giustifica
in pieno i dipendenti statali, che per il
giorno in cui saltano il lavoro (come è
successo per cinque giorni a febbraio, nel
Lazio), conservano comunque il diritto alla
retribuzione. Nel settore privato, invece,
la neve giustifica sia i lavoratori (per
l'assenza sul lavoro) che le imprese (per la
mancata erogazione della retribuzione).
Lo precisa il Ministero del Lavoro nell'interpello
07.06.2012 n. 15/2012.
La «causa neve».
I chiarimenti arrivano in risposta all'Ugl
che ha chiesto al ministero di sapere se
ricorre l'obbligo sul datore di lavoro di
corrispondere la retribuzione ai lavoratori
che non hanno potuto raggiungere il posto di
lavoro, «causa neve», nell'ambito
territoriale di Roma Capitale e delle altre
province del Lazio (giornate del 3, 4, 6, 10
e 11.02.2012).
Settore pubblico.
Con riferimento al settore pubblico, il
ministero precisa che la mancata prestazione
lavorativa può considerarsi ascrivibile alle
ipotesi di impossibilità sopravvenuta della
prestazione per causa non imputabile al
lavoratore. Nello specifico, la fattispecie
afferisce al cosiddetto factum principis
inteso quale provvedimento autoritativo
(ossia l'ordinanza di chiusura degli uffici
pubblici causa neve) che impedisce in modo
oggettivo e assoluto l'adempimento della
prestazione, ossia l'espletamento
dell'attività lavorativa; in tal caso,
pertanto, resta fermo l'obbligo per la parte
datoriale di corrispondere la retribuzione.
Peraltro, aggiunge il ministero,
l'interpretazione è sostenuta anche dalla
contrattazione collettiva, comparto
ministeri, laddove indica tra le motivazioni
per cui possono essere concessi i permessi
retribuiti, anche l'ipotesi di assenza
motivata da gravi calamità naturali che
rendano oggettivamente impossibile il
raggiungimento della sede di servizio.
Settore privato.
Completamente diverso il discorso per il
settore privato dove, invece, il
provvedimento autoritativo concernente il
divieto di circolazione dei mezzi privati
sprovvisti di apposite catene non
costituisce impedimento di carattere
assoluto all'effettuazione della prestazione
lavorativa, in quanto non preclude la libera
scelta del datore di lavoro di continuare a
svolgere le attività connesse al settore di
appartenenza.
In tali casi, tuttavia, precisa il
ministero, il mancato raggiungimento del
posto di lavoro potrebbe risultare comunque
estraneo alla volontà del lavoratore; di
conseguenza, la mancata prestazione
lavorativa, in presenza di tempestiva
comunicazione del lavoratore all'azienda,
qualora supportata da idonea motivazione,
non è qualificabile in termini di
inadempimento imputabile al lavoratore.
In conclusione, in tali fattispecie
l'impossibilità sopravvenuta libera entrambe
le parti del rapporto di lavoro: il
lavoratore dall'obbligo di effettuare la
prestazione e il datore dall'obbligo di
erogare la corrispondente retribuzione.
Restano ferme, in ogni caso, le disposizioni
dei contratti collettivi che, generalmente,
contemplano la possibilità per il lavoratore
di fruire di titoli di assenza retribuiti al
verificarsi di eventi eccezionali
(articolo ItaliaOggi
dell'08.06.2012 - link a www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: La
p.a. diventa una casa di vetro. On-line i
pagamenti sopra i 1.000 a professionisti e
imprese. Nel decreto crescita il governo
punta sulla trasparenza della spesa pubblica
come volàno di sviluppo.
La via maestra per la
crescita? La massima trasparenza su come la
pubblica amministrazione e gli enti locali
spendono i propri soldi. Ministeri, regioni,
province e comuni, nessuno escluso, dovranno
pubblicare sul proprio sito internet i dati
relativi ai finanziamenti pubblici e agli
incentivi erogati alle imprese, nonché le
somme pagate per prestazioni, consulenze,
servizi e appalti quando l'importo supera i
1.000 euro. E dal 2013 la pubblicazione sul
web costituirà un requisito essenziale delle
prestazioni.
L'obiettivo che il governo Monti persegue
nel decreto crescita, atteso oggi in
consiglio dei ministri, è ambizioso:
realizzare quella trasparenza delle spesa (open
government) che è una realtà consolidata
nei paesi scandinavi, negli Usa e nel Regno
Unito e che «permette ai cittadini un
controllo generale e continuo nella gestione
dei fondi pubblici». Per questo
diventerà obbligatorio per le p.a.
pubblicare su internet tutte le somme
erogate a imprese e professionisti.
Come spiega la relazione tecnica al decreto
legge, l'obbligo riguarda la concessione di
vantaggi economici in senso lato e dunque
sovvenzioni, contributi, sussidi finanziari,
ma anche corrispettivi e compensi a persone
per forniture, servizi, incarichi e
consulenze. I dati dovranno essere caricati
su internet in formato tabellare accessibile
in modo semplice ai motori di ricerca. Le
amministrazioni dovranno indicare il nome
del soggetto beneficiario e i suoi dati
fiscali, l'importo, la norma o il titolo a
base dell'attribuzione, l'ufficio e il
funzionario o dirigente responsabile del
relativo procedimento amministrativo e le
modalità seguite per l'individuazione del
beneficiario.
Dovrà inoltre essere indicato un link al
progetto selezionato, al curriculum
del soggetto incaricato, nonché al contratto
e capitolato della prestazione, fornitura o
servizio. Come detto, la pubblicazione dei
dati su internet costituirà condizione
legale di efficacia del beneficio.
L'inadempimento dovrà essere rilevato
d'ufficio dagli organi dirigenziali e di
controllo sotto la propria diretta
responsabilità. Non solo. La mancata
pubblicazione potrà essere denunciata anche
dal beneficiario del contributo o del
pagamento e anche da chiunque altro vi abbia
interesse «ai fini del risarcimento del
danno da parte dell'amministrazione,
mediante azione davanti al tribunale
amministrativo regionale».
Servizi pubblici locali.
Il decreto crescita (si veda ItaliaOggi del
06/06/2012) alleggerisce gli adempimenti
burocratici per facilitare la
liberalizzazione dei servizi pubblici
locali. Ma a farne le spese è l'Antitrust
che vede sensibilmente ridotti i propri
poteri. La delibera quadro con cui i comuni
devono giustificare la mancata apertura al
mercato e il mantenimento di diritti di
esclusiva andrà trasmessa all'Authority solo
se il valore del servizio da assegnare senza
gara supera i 200 mila euro (la stessa
soglia per gli affidamenti diretti in
house).
Il parere dell'Antitrust, inoltre, non
costituirà più una condicio sine qua non
per l'adozione della delibera. E varrà il
principio del silenzio-assenso: in caso di
mancata risposta entro il termine di 60
giorni, il parere dell'organismo presieduto
da Giovanni Pitruzzella si intenderà
favorevolmente acquisito. La delibera quadro
potrà comunque essere adottata trascorsi 90
giorni dalla trasmissione all'Antitrust.
Le novità intervengono a modificare la
disciplina delle liberalizzazioni delle
utility riscritta dal governo Berlusconi con
la manovra di Ferragosto 2011 (l'intervento
si rese necessario a seguito
dell'abrogazione delle norme previgenti a
opera dei referendum). E puntano, come si
legge nella relazione illustrativa del
provvedimento, a «semplificare le
procedure relative all'approvazione della
delibera quadro, quando non strettamente
necessaria ai fini della promozione della
concorrenza».
Federalismo demaniale, le miniere dalle
province alle regioni. Lo schema di decreto
interviene anche a correggere il dlgs sul
federalismo demaniale (n. 85/2010) rimasto
finora sulla carta per la mancata
approvazione dei dpcm attuativi. Le miniere,
originariamente attribuite alle province
anche se queste non hanno alcuna competenza
in materia, vengono trasferite al patrimonio
indisponibile delle regioni a cui la riforma
del Titolo V ha attribuito la competenza
legislativa e gestionale in materia
(articolo ItaliaOggi
dell'08.06.2012 - link a www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Elenco
dei revisori, tutto pronto per l'invio delle
domande. Via alle istanze quando l'avviso
pubblico sarà approdato in gazzetta
ufficiale.
Tutto pronto per la
presentazione delle domande di inserimento
nell'elenco dei revisori dei conti degli
enti locali. Infatti, a breve sarà
pubblicato in G.U. l'avviso pubblico
contenente le indicazioni per poter
richiedere l'inserimento nel predetto
elenco, al momento riservato agli enti
locali ricadenti nei territori delle regioni
a statuto ordinario. Le domande dovranno
essere presentate esclusivamente per via
telematica, entro trenta giorni dalla
predetta pubblicazione e sottoscritte con
firma digitale.
È quanto contenuto nell'avviso pubblico per
la presentazione delle domande di
inserimento nell'elenco dei revisori dei
conti (solo per la fase di prima
applicazione), che è stato approvato dal
recente decreto Mininterno 05/06/2012.
I requisiti.
Alla data di scadenza del termine utile per
la presentazione, ovvero trenta giorni
decorrenti dalla pubblicazione dell'avviso
in Gazzetta Ufficiale (termine questo
perentorio), l'avviso rende noto che i
soggetti richiedenti dovranno essere in
possesso dei requisiti indicati all'articolo
4 del citato dm 15/02/2012.
In pratica, per i comuni fino a 5.000
abitanti (fascia 1 del dm) è necessaria
l'iscrizione da almeno due anni nel registro
dei revisori legali o all'Ordine dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili,
l'aver già avanzato richiesta di svolgere la
funzione quale organo di revisione di ente
locale e aver conseguito almeno 15 crediti
formativi, acquisiti nel triennio 2009-2011
e riconosciuti dai competenti ordini
professionali.
Per gli enti locali tra 5.000 e 15.000
abitanti (fascia 2), occorrerà l'iscrizione
da almeno 5 anni nel registro dei revisori
legali, l'aver già svolto un incarico di
revisore per almeno tre anni e il
conseguimento di almeno 15 crediti
formativi. Per gli enti con maggiore
dimensione (fascia 3) sono inseriti i
richiedenti con almeno dieci anni di
iscrizione, l'aver svolto almeno due
incarichi di revisore dei conti, ciascuno
per la durata di tre anni e il conseguimento
di almeno 15 crediti formativi.
L'iter di presentazione.
L'avviso specifica che le domande vanno
presentate al dipartimento per gli affari
interni e territoriali del Viminale
esclusivamente per via telematica, tramite
apposito modello contenente i dati
anagrafici e la dichiarazione del possesso
dei requisiti. A tal fine, sul sito
www.finanzalocale.interno.it, sarà attivato
il link «elenco revisori enti locali».
Al termine della compilazione, sarà generato
un file che il richiedente dovrà
sottoscrivere con firma digitale e
trasmettere alla casella di posta
elettronica certificata indicata al momento
dell'accesso nel portale.
Al fine di supportare i richiedenti nella
compilazione del modello, l'avviso rende
noto che sul sito sopra indicato saranno
messe a disposizione degli utenti, apposite
istruzioni anche in forma audio-video.
Nell'istanza, i richiedenti dovranno altresì
autocertificare il possesso dei requisiti,
fermo restando che il mininterno potrà
esercitare i poteri di controllo sulla loro
veridicità.
Precisazioni.
Dall'elenco formato al termine della
procedura, saranno estratti (a sorte) i
nominativi dei revisori in fase di prima
applicazione, ovvero sino al 28.02.2013.
Saranno nominati, per ciascun organo di
revisione da rinnovare sia i soggetti
designati che eventuali subentranti in
ordine di estrazione.
In breve, nel caso di organo di revisione
collegiale i primi tre nominativi estratti
saranno designati per la nomina e, in caso
di rinuncia o impedimento ad assumere
l'incarico, subentreranno gli altri
nominativi estratti in rigoroso ordine dal
quarto sino al nono
(articolo ItaliaOggi
dell'08.06.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Enti liberi sugli organici. Dai
dirigenti incarichi ai dipendenti di
categoria D. I manager possono delegare il
potere di emanare i pareri di propria
competenza.
Un comune che ha nella
dotazione organica n. 11 posizioni
dirigenziali, di cui n. 9 coperte da
dirigenti assunti a tempo determinato, con
contratto in scadenza, e n. 2 da dirigenti a
tempo indeterminato –che non può rinnovare i
predetti contratti in quanto il rapporto tra
la spesa di personale e la spesa corrente
supera il 40%- può istituire le posizioni
organizzative e attribuire ai titolari delle
stesse, con delega del dirigente, le
attività di cui all'art. 107 del dlgs
267/2000, nonché i pareri di cui all'art. 49
del medesimo decreto legislativo? È
necessario, al termine del procedimento, il
visto ovvero la firma del dirigente?
La struttura organizzativa è tipica
manifestazione dell'autonomia di cui gode
ogni singolo ente che, attraverso lo
strumento del regolamento sull'ordinamento
degli uffici e dei servizi, stabilisce le
modalità di conferimento dei compiti ai
dirigenti ovvero ai responsabili degli
uffici, dettando, altresì, i criteri secondo
i quali gli stessi devono dirigere gli
uffici.
Il citato regolamento provvede, inoltre,
all'individuazione delle posizioni
organizzative e, al fine di assicurare
l'efficacia e l'efficienza dell'azione
amministrativa, a collocare nell'ambito di
ciascuna unità organizzativa, i vari
procedimenti amministrativi.
A tal proposito si rammenta che l'art. 5
della legge 241/1990 (e successive
modificazioni e integrazioni) prevede
espressamente che il dirigente di ciascuna
unità organizzativa possa assegnare a sé, o
ad altro dipendente addetto all'unità, la
responsabilità dell'istruttoria e di ogni
altro adempimento inerente il singolo
procedimento nonché l'adozione del
provvedimento finale, compatibilmente con le
vigenti norme in materia di competenza
nell'emanazione dei vari atti.
In merito, l'istituzione dell'area delle
posizioni organizzative, ai sensi dell'art.
8 del Ccnl 31/03/1999, è caratterizzata
proprio dall'assunzione diretta di elevata
responsabilità di prodotto e di risultato
per lo svolgimento anche di funzioni di
direzione di unità organizzative di
particolare complessità e caratterizzate da
elevato grado di autonomia, sia gestionale
che organizzativa.
Conseguentemente, il comune potrebbe
procedere a una nuova organizzazione
amministrativa creando due macrostrutture al
vertice delle quali porre i due dirigenti
assunti a tempo indeterminato.
All'interno di dette strutture potrebbero
essere previsti i vari servizi o settori con
l'istituzione delle posizioni organizzative,
secondo la disciplina del richiamato art. 8.
Gli incarichi di posizione organizzativa
dovranno essere conferiti dai dirigenti, ai
dipendenti di categoria D, previa
determinazione di criteri generali fissati
dall'ente.
Con il meccanismo della delega potranno,
quindi, essere delegate ai predetti
dipendenti talune particolari funzioni o
attività, ivi compresa la possibilità di
emanare i pareri di propria competenza.
Pertanto, fermo restando che il conferimento
delle funzioni dirigenziali ex art. 107 del
dlgs 267/2000 ai responsabili degli uffici e
dei servizi è previsto dal comma 2 dell'art.
109 del medesimo dlgs 267/2000 solo per i
comuni privi di personale di qualifica
dirigenziale, devono essere mantenuti in
ogni caso in capo al dirigente i poteri di
indirizzo, di coordinamento e di controllo
dell'attività svolta dai titolari di
posizione organizzativa
(articolo ItaliaOggi
dell'08.06.2012 - link a www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Dal
31 maggio fonti rinnovabili nei titoli
edilizi.
Dal 31.05.2012 la presentazione dei
titoli edilizi dovrà obbligatoriamente
essere integrata dalle fonti energetiche
rinnovabili negli edifici.
È l'articolo 11
del dlgs 03.03.2011, n. 28 a prevede che
le fonti rinnovabili debbano coprire i
«consumi di calore, di elettricità e per il raffrescamento secondo i principi minimi di
integrazione e le decorrenze di cui
all'allegato 3». È l'allegato 3 al dlgs
03.03.2011, n. 28 a stabilire che gli
obblighi sono previsti solo a partire dal 31.05.2012 e sono crescenti nel tempo.
Nel
caso di edifici nuovi o edifici sottoposti a
ristrutturazioni rilevanti, gli impianti di
produzione di energia termica devono essere
progettati e realizzati in modo da garantire
il contemporaneo rispetto della copertura,
tramite il ricorso a energia prodotta da
impianti alimentati da fonti rinnovabili,
del 50% dei consumi previsti per l'acqua
calda sanitaria più una percentuale
variabile calcolata sulla somma dei consumi
previsti per l'acqua calda sanitaria, il
riscaldamento e il raffrescamento.
Le
percentuali variabili, secondo i tempi delle
relative costruzioni sono: 20% se la
richiesta del titolo edilizio è presentata
dal 31.05.2012 al 31.12.2013; 35%
se la richiesta del titolo edilizio è
presentata dall'01.01.2014 al 31.12.2016; il 50% quando la richiesta
del pertinente titolo edilizio è rilasciato
dall'01.01.2017. Questi obblighi non si
applicano qualora l'edificio sia allacciato
ad una rete di teleriscaldamento che ne
copra l'intero fabbisogno di calore per il
riscaldamento degli ambienti e la fornitura
di acqua calda sanitaria. Il dlgs 28/2001 ha
ridefinito la tempistica e i criteri di
integrazione delle energie rinnovabili negli
edifici di nuova costruzione e negli edifici
«sottoposti a ristrutturazione rilevante».
È
l'articolo 2, comma 1, lettera m), del dlgs
28/2011 che contiene la definizione di
«edificio sottoposto a ristrutturazione
rilevante». Definendolo come un «edificio
che ricade in una delle due seguenti
categorie: edificio esistente avente
superficie utile superiore a 1000 metri
quadrati, soggetto a ristrutturazione
integrale degli elementi edilizi costituenti
l'involucro; edificio esistente soggetto a
demolizione e ricostruzione anche in
manutenzione straordinaria».
L'articolo 11,
2 comma, del dlgs 28/2011 prevede che le
disposizioni suindicate non vengono
applicate agli edifici protetti dal Codice
dei beni culturali e del paesaggio (dlgs 22.01.2004, n. 42) e a quelli
specificamente individuati come tali negli
strumenti urbanistici, qualora il
progettista evidenzi che il rispetto delle
prescrizioni implica un'alterazione
incompatibile con il loro carattere o
aspetto, con particolare riferimento ai
caratteri storici e artistici.
Per gli
edifici pubblici gli obblighi di
integrazione sono incrementati del 10%. Le
regioni possono stabilire anche valori di
integrazione superiori a quelli stabiliti
dal dlgs 28/2011
(articolo ItaliaOggi
del 07.06.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Corte
dei conti. La sezione Puglia ha riconosciuto
le somme incentivanti destinate ai
dipendenti comunali che svolgono controlli
nel 2012.
Restano i compensi per chi accerta l'Ici.
Via libera ai compensi incentivanti al
personale comunale dell'ufficio tributi,
commisurati al gettito Ici. La previsione
contenuta nell'articolo 59, lettera p), Dlgs
446/1997, non è stata infatti abrogata.
La
conferma giunge dal parere reso in questi
giorni, in sede consultiva, dalla Corte dei
Conti della Puglia.
Il dubbio nasceva dal fatto che la legge
44/2012 ha eliminato l'articolo 59 suddetto
dalle norme richiamate ai fini dell'Imu. Ciò
ha reso inapplicabile la disposizione in
oggetto nell'ambito del nuovo tributo
comunale. Per il 2012, tuttavia, i progetti
di recupero dell'evasione non hanno a
oggetto l'Imu ma l'attività di controllo
dell'Ici. Da qui il quesito rivolto da un
Comune in ordine alla possibilità di
deliberare, in via regolamentare, anche
quest'anno programmi che prevedano
l'erogazione di compensi parametrati al
gettito dell'Ici.
La Corte dei Conti della Puglia ha risposto
positivamente, osservando come nessuna
disposizione abbia abrogato l'articolo 59,
del Dlgs 446/1997. Tale articolo, essendo
specificamente rivolto all'Ici, non appare
altresì in alcun modo incompatibile con
l'ordinamento attuale.
Va inoltre evidenziato che anche la
circolare n. 3 del 2012 del Dipartimento
delle politiche fiscali, sul punto, si è
limitata a rilevare che il medesimo articolo
59 «non può trovare applicazione per l'Imu».
Nulla è invece precisato in ordine alla sua
vigenza nel contesto della gestione
dell'Ici. Il problema si porrà non appena
inizieranno i controlli dell'Imu. E appare
incoerente promuovere la lotta all'evasione
con la collaborazione dei Comuni, eliminando
uno strumento che si è già rivelato di
indubbia utilità allo scopo
(articolo Il Sole 24
Ore 07.06.2012 - link a www.corteconti.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Anche la Funzione Pubblica conferma: spetta
alla P.A. richiedere il DURC.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica
ricorda che nei pubblici appalti e nei
lavori privati in edilizia, spetta alla P.A.
richiedere il rilascio del DURC alle
Amministrazioni preposte al rilascio ed alle
Cassa Edili le quali, a loro volta, dovranno
inviarlo per PEC.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con
circolare 31.05.2012 n. 6/2012, conferma che,
in virtù del D.L. n. 5/2012, convertito con
modificazioni dalla Legge n. 35/2012, è
escluso che un privato possa consegnare il DURC all’Amministrazione nei pubblici
appalti e nei lavori privati in edilizia,
perché spetta alla P.A. richiedere il
rilascio dello stesso alle Amministrazioni
preposte al rilascio ed alle Cassa Edili.
Tuttavia il privato può richiedere il
rilascio del DURC -su cui dovrà essere
apposta a pena di nullità la dicitura: “Il
presente certificato non può essere prodotto
agli organi della P.A. o ai privati gestori
di servizi pubblici”- da consegnare ad
altro privato.
Unico caso in cui le Amministrazioni
procedenti potranno accettare una
dichiarazione sostitutiva è quello in cui
sia la normativa di settore ad ammetterlo
ma, in tal caso, le Amministrazioni dovranno
verificare la veridicità di quanto
dichiarato dal privato.
In relazione ai lavori pubblici, sottolinea
inoltre la circolare, è necessario che il
DURC sia acquisito d’ufficio in tempi
rapidi, sia nella fase di gara che in quella
successiva in cui il controllo sulla
regolarità contributiva è condizione
necessaria per il pagamento degli stati
avanzamento lavori e per il pagamento del
saldo finale.
In conclusione, la Funzione Pubblica invita
le Amministrazioni ad utilizzare, per
l’inoltro della richiesta del DURC, il
servizio on-line disponibile all’indirizzo
www.sportellounicoprevidenziale.it, mentre
gli Istituti previdenziali e le Casse edili
dovranno utilizzare, per la trasmissione del
certificato, la PEC.
Nel caso in cui il certificato sia
rilasciato d’ufficio, sullo stesso deve
essere apposta la dicitura: “rilasciato
ai fini dell’acquisizione d’ufficio”
(06.06.2012 - tratto da www.ipsoa.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
Durc sopravvive su carta. Le indicazioni del
ministero del lavoro.
Il Durc sopravvive alla
decertificazione. Per i rapporti tra
privati, infatti, resta ancora richiedibile
in formato cartaceo (per esempio per la
verifica da parte del committente o del
responsabile dei lavori dell'idoneità
tecnico professionale delle imprese
affidatarie, come impone il T.u. sicurezza);
in tutti i rapporti tra le p.a., invece,
l'obiettivo è la sua completa
dematerializzazione con ricorso alla Pec,
canale obbligatorio di consegna del Durc a
partire dall'01.07.2013.
È quanto precisa, tra l'altro, il Ministero
del lavoro nella
circolare 01.06.2012 n. 12/2012.
Il ministero sottolinea, in primo luogo, che
le stazioni appaltanti sono tenute ad
acquisire d'ufficio il Durc non soltanto
nell'ambito dei lavori pubblici (in tutti i
contratti pubblici), ma anche nei lavori
privati dell'edilizia. In quest'ultimo
ambito, tuttavia, sopravvive la possibilità
di emissione del Durc a privati, ai fini
dell'utilizzo esclusivo nei rapporti fra
privati.
Ciò è previsto, precisa il ministero, dal
T.u. sicurezza laddove richiede, a carico
del committente o del responsabile dei
lavori privati, alcuni adempimenti
concernenti la verifica dell'idoneità
tecnico-professionale delle imprese
affidatarie, delle imprese esecutrici e dei
lavoratori autonomi anche attraverso il Durc
(adempimenti peraltro sanzionati
penalmente).
In secondo luogo, il ministero ribadisce
quanto già affermato in precedenza circa
l'impossibilità di sostituire il Durc con
un'autocertificazione, in quanto la
regolarità contributiva non può essere «oggetto
di sicura conoscenza». Rispetto a quanto
avviene per stati, qualità personali e
fatti, è cosa del tutto diversa, spiega il
ministero, la certificazione relativa al
regolare versamento dei contributi
obbligatori, poiché non costituisce una mera
certificazione del versamento di una somma a
titolo di contribuzione, ma è
un'attestazione di istituti previdenziali e
casse edili circa la «correttezza della
posizione contributiva di una realtà
aziendale».
Tuttavia, aggiunge il ministero, resta
possibile per l'impresa presentare la
dichiarazione in luogo del Durc nelle
specifiche ipotesi previste dalla legge (nei
contratti di forniture e servizi fino a 20
mila euro tra p.a. e società in house).
Il ministero, ancora, spiega che, per il
necessario risparmio di risorse economiche e
amministrative, gli istituti previdenziali e
le pubbliche amministrazioni sono tenute ad
adottare ogni accorgimento utile per la
dematerializzazione del Durc.
In particolare, il ministero ritiene che la
sua acquisizione non possa più operarsi
attraverso i canali della posta cartacea
che, oltre a dare luogo a costi elevati, non
garantiscono certezza dei tempi di consegna
materiale del certificato. Pertanto, gli
istituti sono tenuti ad attivare ogni
iniziativa utile alla progressiva diffusione
dell'utilizzo della Pec per la consegna del
Durc, fermo restando l'obbligatorietà
dell'invio esclusivo a partire
dall'01.07.2013.
Infine, nel ribadire l'esclusività delle
casse edili abilitate alla competenza e al
rilascio del Durc nel settore edile, il
ministero precisa che eventuali
certificazioni di regolarità rilasciate da
casse edili non abilitate, pur se
accompagnate da certificazioni di regolarità
separate da parte degli istituti di
previdenza, non potranno in alcun modo
sostituirsi al Durc, ancorché le predette
casse abbiano in passato sottoscritto
accordi a livello locale e abbiano in corso
contenzioso sul loro riconoscimento.
---------------
Un garbuglio infinito.
Indicazioni contrastanti sul documento.
Il garbuglio infinito del Durc si
arricchisce di un nuovo filone. La
circolare 01.06.2012 n. 12/2012
del ministero del lavoro posta a risolvere
alcune questioni concernenti il Durc dopo la
disciplina della cosiddetta decertificazione,
si pone indirettamente in contraddizione con
precedenti note dello stesso ministero e di
Inps e Inail.
Si tratta della nota ministeriale
16.01.2012, n. 619 e della nota congiunta di
513/2012, con le quali si è sostenuta la
tesi secondo la quale il Durc sfuggirebbe
all'applicazione delle nuove regole sui
certificati (che ne determinano l'invalidità
se scambiati tra amministrazioni pubbliche)
disposte dall'articolo 15 della legge
183/2012.
Secondo tali note, il Durc come certificato
continuerebbe a sopravvivere, per la
semplice ragione che i suoi contenuti,
caratterizzati da una rilevante attività di
tipo tecnico, non sono del tutto conoscibili
dai privati. Che, di conseguenza, non
potrebbero presentare dichiarazioni
sostitutive del documento, il quale, del
resto, deve essere acquisito d'ufficio dalle
amministrazioni appaltanti.
Molti hanno fatto notare che tale tesi non
regge per una serie di motivi, il principale
dei quali consiste nell'espressa previsione
contenuta nell'articolo 38, comma 2, del
dlgs 163/2006 da cui discende la piena
autocertificabilità del Durc, a sua volta
qualificato espressamente come certificato
dall'articolo 6, comma 1, del dpr 207/2010.
Ora, la circolare 37/2012 del ministero del
lavoro indirettamente contribuisce a privare
ulteriormente di pregio le indicazioni
precedenti. Nel paragrafo dedicato alla
validità trimestrale del Durc, detta
circolare indica: «Ha validità
trimestrale il Durc emesso ai fini del
controllo delle autocertificazioni
presentate ai sensi del dpr n. 445/2000 che
attesta la regolarità alla data
dell'autocertificazione che è stata indicata
nella richiesta». Smentendo totalmente i
precedenti assunti, dunque, il ministero
considera perfettamente legittimo che le
imprese, nell'ambito degli appalti pubblici,
presentino autocertificazioni, precisando la
validità trimestrale del Durc emesso, poi,
in risposta alle richieste delle
amministrazioni appaltanti in merito alla
verifica della veridicità di quanto
dichiarato dalle imprese.
La circolare, per altro, si pone a sua volta
in contrasto con la decertificazione. Scopo
primo e fondamentale dell'articolo 15 della
legge 183/2011 è vietare in via assoluta che
le amministrazioni tra loro dialoghino
mediante scambio di certificati. Ammettere
che la verifica del contenuto delle
autocertificazioni in merito alla posizione
contributiva e previdenziale degli
appaltatori si svolga mediante il rilascio
del Durc, significa legittimare la
violazione frontale e irrimediabile della
disciplina della decertificazione e indicare
indirettamente, ma senza alcun fondamento
legislativo, che sul Durc non vada inserita
la dicitura prevista dall'articolo 40, comma
02, del dpr 445/2000.
In senso diametralmente opposto al
pronunciamento del ministero del lavoro è,
invece, la
circolare 31.05.2012 n. 6/2012
della funzione pubblica, secondo la quale il
Durc ricade pienamente nella disciplina
dell'articolo 15 della legge 183/2011. Un
contrasto di opinioni che disorienterà non
poco operatori e imprese, tale da meritare
un urgente ripensamento della normativa
sulla semplificazione che, a ben vedere,
come si dimostra, di semplificazione ha ben
poco
(articolo ItaliaOggi
del 06.06.2012). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
richiamo di Patroni Griffi alle p.a.. Durc da
acquisire solo on-line.
L'acquisizione d'ufficio del Durc (il
documento unico di regolarità contributiva)
da parte delle p.a. deve avvenire in tempi
rapidi in modo da non provocare ritardi nei
pagamenti che possono far scattare
responsabilità erariale a carico del
dipendente pubblico. Per questo le pubbliche
amministrazioni per richiedere il
certificato dovranno utilizzare, «salvo
motivati casi eccezionali», i servizi on-line
offerti dal portale
www.sportellounicoprevidenziale.it. Gli
istituti di previdenza e le casse edili dal
canto loro dovranno trasmettere il Durc
esclusivamente tramite Pec (posta
elettronica certificata).
A richiamare
l'attenzione delle p.a. sulle novità in
materia di decertificazione contenute nella
legge di stabilità 2012 (legge n.183/2011) è
il ministero per la pubblica amministrazione
e la semplificazione nella
circolare 31.05.2012 n. 6/2012.
Nella nota, il
ministro Filippo Patroni Griffi, ricorda che
negli appalti pubblici e nei lavori privati
di edilizia il Durc non può più essere
consegnato dal privato all'amministrazione,
ma sarà la p.a. a doverlo chiedere agli enti
preposti al suo rilascio.
Se la normativa di settore lo prevede, al
posto del Durc il privato potrà presentare
una dichiarazione sostitutiva, la cui
attendibilità andrà attentamente valutata
dall'amministrazione. Il privato potrà
richiedere il rilascio del Durc se intende
consegnarlo ad altro privato, ma sul
documento dovrà essere apposta la dicitura
«il presente certificato non può essere
prodotto agli organi della pubblica
amministrazione o ai privati gestori di
pubblici servizi».
Ribaditi i paletti
normativi imposti dalla legge di stabilità e
dal decreto semplificazioni di Mario Monti
(dl n. 5/2012), la nota di Patroni Griffi
raccomanda che l'acquisizione d'ufficio del
documento avvenga in tempi rapidi «sia nella
fase di gara che in quella successiva nella
quale il controllo della regolarità
contributiva è condizione necessaria per il
pagamento degli stati di avanzamento lavori
o delle prestazioni relative a servizi e
forniture o per il pagamento del saldo
finale».
«In queste ultime ipotesi», scrive
il ministro, «un eventuale ritardo nella
richiesta del Durc può tradursi in uno
slittamento dei pagamenti con conseguente
maggiore onerosità degli stessi e
responsabilità erariale del dipendente
incaricato». Per questo va usato il portale
di cui sopra che attraverso un apposito
applicativo consente di verificare in tempo
reale l'inoltro della richiesta di Durc da
parte delle p.a.
(articolo ItaliaOggi
del 05.06.2012). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Le PP.AA. devono acquisire il DURC d’ufficio.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali fornisce chiarimenti sul rilascio
del DURC, con riferimento ai lavori edili
pubblici e privati, in relazione alla
possibilità di sostituire il DURC con
l’autocertificazione e sulla sua validità,
sulla dematerializzazione e consultazione
dello stesso ed infine sulle Casse Edili
abilitate al rilascio.
Con la
circolare 01.06.2012 n. 12/2012, il Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali ha
fornito indicazioni sul rilascio del DURC
per gli operatori del settore e per
uniformare il comportamento del personale
ispettivo.
DURC per lavori edili pubblici e privati
Innanzitutto la circolare ministeriale
chiarisce che nell’ambito dei lavori
pubblici le stazioni appaltanti sono tenute
ad acquisire d’ufficio il DURC, sia in forza
dell’art. 16-bis, c. 10, del D.L. n.
185/2008, convertito dalla Legge n. 2/2009,
sia in forza dell’art. 44-bis del DPR n.
445/2000. Inoltre, anche l’art. 14, c.
6-bis, D.L. n. 5/2012, le Amministrazioni
pubbliche devono acquisire d’ufficio il DURC
sia nell’ambito dei lavori pubblici che nei
lavori privati dell’edilizia.
Nell’ambito dei lavori privati in edilizia è
comunque possibile, da parte dei privati
richiedere il Documento ai fini di un suo
utilizzo nei rapporti fra privati ma, in tal
caso, gli Istituti e le Casse Edili devono
apporre sulla certificazione, a pena di
nullità, la dicitura “il presente
certificato non può essere prodotto agli
organi della P.A. o ai privati gestori di
servizi pubblici" (art. 40, c. 2, DPR n.
445/2000).
Per quanto concerne, invece, l’acquisizione
del DURC da parte dell’Amministrazione
concedente, l’acquisizione del DURC relativo
alle imprese affidatarie, alle imprese
esecutrici ed ai lavoratori autonomi
interessati deve essere effettuata d’ufficio
dalla medesima amministrazione.
Sostituzione del DURC con autocertificazione
Come già chiarito in altre occasioni, il
Ministero del Lavoro conferma che la
regolarità contributiva non può essere
autocertificabile. Cosa diversa è la
certificazione relativa al regolare
versamento della contribuzione obbligatoria
che non costituisce mera certificazione del
versamento di una somma a titolo di
contribuzione, per cui l’impresa può
presentare una dichiarazione in luogo del
DURC in specifiche ipotesi previste dal
Legislatore, come nel caso dell’art. 38, c.
1, lett. i), del D.Lgs. n. 163/2006 e l’art.
14-bis del D.L. n. 70/2011, convertito dalla
Legge n. 106/2011 (contratti di forniture e
servizi fino a 20.000 € stipulati con la
P.A. e con le società in house)
Validità del DURC
La circolare n. 12/2012, costituisce
occasione per il Ministero per ricordare che
il DURC, anche nell’ambito pubblico ha
validità trimestrale, inoltre:
- nell’ambito delle procedure di selezione
del contraente, va acquisito un DURC per
ciascuna procedura e lo stesso ha validità
trimestrale; analogamente ha validità
trimestrale il DURC emesso ai fini del
controllo delle autocertificazioni
presentate ex DPR n. 445/2000 che attesta la
regolarità alla data dell’autocertificazione
che è stata indicata nella richiesta. In
entrambi i casi il DURC può essere
utilizzato dalla stazione appaltante
all’interno della medesima procedura di
selezione, anche ai fini dell’aggiudicazione
e sottoscrizione del contratto, purché
ancora in corso di validità.
- per le fasi di stato avanzamento lavori o
stato finale/regolare esecuzione - fermo
restando l’obbligo di richiedere un nuovo
DURC per ciascun SAL o stato finale riferiti
ad ogni singolo contratto
- il DURC ha validità trimestrale.
- il DURC deve essere richiesto anche nel
caso di appalti relativi all’acquisizione di
beni, servizi e lavori effettuati in
economia ex art. 125, c. 1, lett. b), D.Lgs.
n 163/2006 ed ha validità trimestrale con
riferimento allo specifico contratto.
Dematerializzazione e consultazione del DURC
Gli Istituti e le PP.AA. devono adottare
ogni possibile misura per dematerializzare
il DURC e quindi per diffonde l’uso della
PEC per la consegna. Gli Istituti, inoltre,
potranno adottare misure tecniche per
rendere accessibili via web, a chi abbia un
interesse qualificato (Casse edili abilitate
comprese), le informazioni concernenti
richieste e contenuti dei DURC già
rilasciati. DURC e Casse Edili abilitate.
Infine, la circolare n. 12/2012 ribadisce
che le stazioni appaltanti debbono tenere in
conto solo le certificazioni rilasciate
dalle Casse Edili abilitate al rilascio del DURC.
Eventuali certificazioni rilasciate da Casse
edili non abilitate non possono sostituire
il DURC anche se le Casse abbiano in passato
sottoscritto accordi a livello locale o
abbiano in corso contenziosi relativi alla
possibilità di rilasciare attestazioni di
regolarità
(04.06.2012 - tratto da
www.ipsoa.it). |
APPALTI SERVIZI: Liberalizzazioni.
Ancora fermo lo schema di delibera-quadro
per l'analisi di mercato.
La burocrazia sposta al 2013 la riforma dei
servizi pubblici.
L'impasse sui decreti rende impossibile
rispettare i tempi.
VUOTI NORMATIVI/
Mancano anche le misure per assoggettare al
Patto di stabilità le imprese in house e le
aziende speciali.
Il processo per i nuovi affidamenti dei
servizi pubblici locali è partito, ma i
ritardi nell'emanazione di alcuni decreti
attuativi rischiano di rendere impossibile
il rispetto delle scadenze nel corso per
2012, per l'attribuzione dei diritti di
esclusiva e in relazione alla cessione delle
gestioni esistenti.
Il 31 maggio era l'ultima data utile per i
Comuni che volevano definire proposte per
Ato con dimensionamento diverso da quello
provinciale, da presentare alle Regioni per
la revisione di ambiti e bacini per i
servizi a rete, che dovrà essere adottata
entro il 30 giugno di quest'anno.
Lo sviluppo di questa fase, strategica per
servizi come il ciclo integrato dei rifiuti,
è stato però fortemente penalizzato dalla
mancanza di un riferimento certo per la
verifica istruttoria che gli enti locali
devono fare sull'attribuzione dei diritti di
esclusiva: le particolarità rilevabili in un
Ato possono infatti risultare decisive per
orientare gli enti affidanti sull'opzione
della gestione unitaria.
Il decreto ministeriale che doveva essere
adottato entro il 31 marzo è, invece, ancora
in itinere (dopo un passaggio nella
Conferenza unificata del 19 aprile, al quale
non ha avuto seguito la produzione di un
nuovo testo ufficiale) e il ritardo
compromette l'avvio dei processi di
affidamento entro l'anno.
Come rilevato da Federutility (si veda anche
il grafico a fianco) la mancanza del decreto
ministeriale e, quindi, l'assenza di
parametri certi per la definizione della
delibera-quadro, incidono sulla possibilità
degli enti affidanti di rispettare la prima
scadenza fondamentale, individuata nella
data del 13.08.2012, entro la quale
dovranno trasmettere all'Antitrust
l'istruttoria complessiva sui servizi
pubblici liberalizzabili o riconducibili a
un unico gestore.
La situazione rischia di condurre a una
corsa contro il tempo, ma, soprattutto, di
produrre il congestionamento del l'Authority
per i troppi pareri da rendere. L'autorità,
una volta investita della richiesta di
parere, deve rendere la sua valutazione
entro 60 giorni, con una proiezione che
permetterebbe agli enti affidanti di avere
solo alla metà di ottobre (nella migliore e
più teorica delle ipotesi) il quadro di
analisi dei servizi da liberalizzare e di
quelli da affidare in base al l'articolo 4
della legge 148/2011, per poter definire la
delibera-quadro.
Il passaggio è, peraltro, obbligatorio per
poter procedere almeno all'avvio dei nuovi
affidamenti entro la prima scadenza del 31.12.2012, prevista per gli affidamenti
in house non più compatibili con i
riferimenti normativi.
Lo slittamento della verifica istruttoria
per l'attribuzione dei diritti di esclusiva
renderebbe impossibile il rispetto della
tempistica prevista per il periodo
transitorio, mentre l'ipotesi di un
meccanismo di silenzio-assenso rispetto al
parere dell'Agcm rischierebbe di vanificare
il significato stesso della verifica.
Il decreto ministeriale, inoltre, dovrebbe
risolvere alcuni punti oscuri del quadro
normativo generale, primo tra tutti lo
scioglimento del dubbio circa la necessità o
meno che la verifica per l'attribuzione dei
diritti di esclusiva debba essere fatta
anche in relazione agli affidamenti in house
(compresi quelli alle potenziali società
uniche d'ambito). Oltre al Dm sulla
delibera-quadro mancano, tuttavia, altri
decreti attuativi di norme cruciali per il
sistema dei servizi pubblici locali.
Il più rilevante è senza dubbio quello che
deve definire i criteri per l'applicazione
del Patto di stabilità alle società in
house, previsto sia dall'articolo 18 della
legge 133/2008 sia dallo stesso articolo 4
della legge 148/2011. Altrettanto critica
risulta la mancata adozione, ad oggi, del
decreto per l'assoggettamento al Patto di
stabilità delle aziende speciali
(articolo Il Sole 24
Ore del 04.06.2012 - link a www.corteconti.it). |
APPALTI: Appalti
e gare pubbliche. Tutte le novità per gli
affidamenti della PA.
Iter più snello per «conquistare» un
contratto. Oggi è possibile accedere alle
procedure utilizzando sempre
l'autocertificazione.
La valanga di ben 70 modifiche correttive
del Codice dei contratti pubblici disperse
nel l'ultimo anno in 15 provvedimenti (dal
decreto sviluppo di maggio 2011 a quello
sulla spending review di pochi giorni
fa) ha avuto almeno il merito di introdurre
strumenti e soluzioni che semplificano
l'accesso alla gara degli operatori
economici, in particolar modo delle Pmi.
Le Pmi
Per le micro, piccole e medie imprese le
norme contenute nel l'articolo 13 della
legge 180/2011 (Statuto delle imprese)
facilitano la partecipazione alle procedure
selettive, con l'introduzione di un
principio di suddivisione in lotti
funzionali degli appalti, trasformato in
obbligo vero e proprio dal decreto salva
Italia (Dl 201/2011), con una specifica
previsione, condizionata a una valutazione
di economicità e convenienza da parte delle
amministrazioni.
Lo Statuto delle imprese sollecita le
stazioni appaltanti a semplificare le regole
di gara, per consentire la maggiore
partecipazione di raggruppamenti temporanei
tra micro, piccole e medie imprese, ma
prevede anche ottimizzazioni della
procedura, attraverso requisiti di capacità
non sproporzionati rispetto all'appalto,
oppure limitando il controllo dei requisiti
all'aggiudicataria e consentendo
l'autocertificazione di tutti i requisiti.
L'autocertificazione
Questo aspetto è stato esteso a tutte le
tipologie di gara con le disposizioni sulla
"decertificazione", introdotte nel
Testo unico sulla documentazione
amministrativa (Dpr 445/2000) dalla legge di
stabilità (legge 183/2011) dal primo gennaio
di quest'anno.
Con tali disposizioni, infatti, le
dichiarazioni sostitutive di certificazione
e di atto di notorietà diventano definitive,
in quanto i certificati emessi da pubbliche
amministrazioni (ad esempio un certificato
del casellario giudiziale) non possono più
essere utilizzati nei confronti di soggetti
pubblici. Le stazioni appaltanti, quindi,
non possono più chiedere certificati ai
concorrenti e sono tenute ad acquisire i
riscontri per le dichiarazioni sostitutive
rese, mediante verifiche d'ufficio. Così
come d'ufficio sarà l'acquisizione della
documentazione antimafia presso le
Prefetture, secondo quanto sta per chiarire
il decreto che anticipa l'entrata in vigore
del Codice antimafia, approvato in prima
lettura dal Consiglio dei ministri il 25
maggio.
Ma c'è un risvolto della medaglia: le
imprese e gli operatori devono essere molto
attenti a preparare le autocertificazioni.
Devono verificare, ad esempio, se tutti gli
amministratori e i vertici della società non
abbiano, ad esempio, magari cartelle
esattoriali in sospeso o condanne per reati
che incidono sulla moralità professionale.
La sanzione per le false dichiarazioni rese
con dolo o colpa grave è stata di recente
graduata (Dl 5/2012, in vigore dal 10
febbraio) e consiste nell'esclusione dal
mercato fino a un anno, a giudizio
dell'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici.
Le imprese possono comunque richiedere i
certificati attestanti lavori, forniture o
servizi eseguiti presso il committente
pubblico. Questi documenti, meglio se
aggiornati, possono risultare utilissimi per
controllare tutte le informazioni da rendere
in sede di partecipazione alla gara. Una
delle modifiche più significative al Codice
dei contratti è l'introduzione del principio
della tassatività delle cause di esclusione,
i cui termini applicativi sono definiti nel
comma 1-bis dell'articolo 46 del Dl sviluppo
(Dl 70/2011).
Ora le stazioni appaltanti possono inserire
nei bandi clausole che prevedano
l'esclusione solo in rapporto a obblighi
prescritti dal Codice, dal regolamento
attuativo o da norme di legge (ad esempio il
pagamento del contributo all'Autorità
contratti), nonché per ragioni legate alla
completezza o alla segretezza delle offerte
(ad esempio in caso di lesione del plico).
Se il bando o il disciplinare prevedono
clausole non rispondenti a questo principio,
queste sono nulle. L'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici sta
elaborando dei bandi-tipo, che conterranno
le clausole di esclusione specifiche.
I requisiti
Un'impresa che voglia partecipare a una gara
di lavori, servizi o forniture deve comunque
possedere un'ampia serie di requisiti di
ordine generale, che dimostrano
l'insussistenza di cause ostative a
contrattare con le pubbliche
amministrazioni. Il catalogo di questi
requisiti è delineato dall'articolo 38 del
Codice dei contratti pubblici, più volte
integrato negli ultimi mesi
(articolo Il Sole 24
Ore del 04.06.2012 - link a www.ecostampa.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Chi sono i soggetti tenuti alla rimozione ed
allo smaltimento dei rifiuti rinvenuti negli
alvei?
Nel caso di abbandono di rifiuti lungo le
sponde di corsi d’acqua appare anzitutto
necessario individuare il limite tra la
proprietà privata e l’alveo di un corso
d’acqua pubblico appartenente, ai sensi
dell’articolo 822 del Codice Civile, al
Pubblico Demanio dello Stato. Il limite
dell’alveo coincide con il punto di
intersezione della sponda del corso d’acqua
con il livello di piena ordinaria del fiume
(1).
Volendo quindi procedere ad una
delimitazione fra la proprietà privata e
l’alveo demaniale, è sufficiente eseguire
preventivamente la lettura del livello
dell’acqua (al momento in cui si eseguono i
rilievi) sull’idrometro più prossimo al
cespite da delimitare del quale si conosce
la quota di piena ordinaria e, con una
livellazione, aggiungere (o sottrarre) alla
(o dalla) quota dell’acqua che lambisce il
terreno la differenza di lettura fra la
quota di piena ordinaria e la quota del
fiume in quel momento. Il punto di
intersezione fra la linea orizzontale
corrispondente al livello dell’acqua
-sommato algebricamente alla differenza
anzidetta ed il terreno- determinerà il
confine fra proprietà privata e alveo del
fiume (2).
Si ritiene che, per competenza funzionale
spetti alla Provincia l’individuazione della
titolarità della proprietà privata, poiché
il registro dei beni demaniali ed il catasto
dei terreni solitamente sono presso gli
Uffici provinciali, dopo di che la Provincia
potrà indicare al Comune competente il
destinatario dell’ordine della rimozione dei
rifiuti.
Il comune quindi provvederà emettendo
l’ordinanza di cui all’art. 192, per la
rimozione dei rifiuti abbandonati.
Destinatario del provvedimento sarà o il
proprietario dell’area o il gestore
dell’alveo del fiume, a seconda
dell’ubicazione dei rifiuti abbandonati.
Relativamente alle eventuali responsabilità
si riporta quanto affermato dalle Sezioni
unite della Corte di Cassazione nella
sentenza 25.02.2009, n. 4472: “In tema di
abbandono di rifiuti, sebbene l'art. 14,
comma 3, del d.lgs. 05.02.1997, n. 22
(applicabile "ratione temporis") preveda la
corresponsabilità solidale del proprietario
o dei titolari di diritti personali o reali
di godimento sull'area ove sono stati
abusivamente abbandonati o depositati
rifiuti, solo in quanto la violazione sia
agli stessi imputabile a titolo di dolo o
colpa, tale riferimento va inteso, per le
sottese esigenze di tutela ambientale, in
senso lato, comprendendo, quindi, qualunque
soggetto che si trovi con l'area interessata
in un rapporto, anche di mero fatto
(detenzione), tale da consentirgli -e per
ciò stesso imporgli- di esercitare una
funzione di protezione e custodia
finalizzata ad evitare che l'area medesima
possa essere adibita a discarica abusiva di
rifiuti nocivi per la salvaguardia
dell'ambiente; per altro verso, il requisito
della colpa postulato da tale norma può ben
consistere nell'omissione delle cautele e
degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza
suggerisce ai fini di un’efficace custodia.
(Fattispecie relativa ad ordinanza nei
confronti di un Consorzio di Bonifica per
provvedere alla rimozione, all'avvio al
recupero, allo smaltimento ed alla messa in
sicurezza dei rifiuti depositati lungo un
fiume)”. (SM)
---------------
(1) Si tratta di una quota che venne
individuata in passato (ormai da molti anni
e non più aggiornata) che, per definizione,
corrisponde alla quota raggiunta dalle acque
defluenti nell’alveo di un corso d’acqua con
la frequenza del 75% dei casi.
La "piena ordinaria" è quella che si
verifica tre volte su quattro: non è il
livello di massima piena e non quello di
magra, bensì un livello intermedio che
l’Ufficio Idrografico ha calcolato in
passato, quando però le condizioni
idrogeologiche del territorio e del bacino
imbrifero erano completamente diverse. Il
livello di piena ordinaria -immutato ormai
da anni- viene riferito ad idrometri che
l’Ufficio del Genio Civile aveva dislocato
lungo il corso dei più importanti fiumi.
(2) AA.VV: “Le accessioni fluviali nella
pregressa e nell’attuale normativa”,
contributo pubblicato sul sito del il Sole
24 ore (08.06.2012 - link a
www.tuttoambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: I
comuni possono con regolamento prevedere una
tariffa, avente natura corrispettiva, in
luogo della TARES?
(04.06.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: I
“materiali da riporto” saranno
disciplinati nel decreto interministeriale
sull’utilizzo delle terre e rocce da scavo?
(04.06.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
vicinitas ad una discarica legittima
al ricorso contro il provvedimento
autorizzativo?
(04.06.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI -
TRIBUTI: Quale
organo comunale è competente a modificare la
TIA?
(04.06.2012 - link a www.ambientelegale.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Obbligo di apertura di procedimento
amministrativo e di comunicazione di avvio
del procedimento a seguito di istanza di
accesso.
Il Sig. ... ha
sottoposto a questa Commissione i seguenti
quesiti:
1 – se ogni istanza di accesso agli atti
amministrativi determini l’obbligo di avvio
di un procedimento amministrativo;
2 – se la comunicazione di avvio del
procedimento di cui all’art. 7 della l. n.
241/1990 e s.m.i. debba essere inviata
tempestivamente al richiedente l’accesso
agli atti anche quando la documentazione
richiesta non sia detenuta dalla P.A. a cui
è stata presentata la richiesta o anche
quando la documentazione richiesta non sia
stata ancora formata;
3 – se la suddetta comunicazione possa
essere omessa nel caso in cui entro il
termine previsto per il suo inoltro la P.A.
comunichi, al richiedente l’accesso, l’impossidenza,
da parte della stessa P.A., o l’inesistenza
dell’atto richiesto.
La risposta al primo quesito non può che
essere affermativa: ogni istanza apre un
procedimento amministrativo, sia in caso di
accesso informale (art. 5, d.P.R. n.
184/2006) che formale (art. 6, stesso d.P.R.).
Lo si deduce dai principi generali
introdotti dalla l. n. 241/1990, art. 4, 5 e
6, nonché dai citati artt. 5 e 6 del d.P.R.
n. 184/2006, ove si fa riferimento a
specifica normativa regolamentare da
adottare da ogni singola amministrazione in
ordine alle modalità di esercizio del
diritto di accesso, alla previsione della
preposizione di un responsabile del
procedimento e all’obbligo di comunicazione
ad eventuali controinteressati.
I due successivi quesiti involgono l’obbligo
(e la tempestività) della comunicazione di
avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7,
l. n. 241/1990.
Ritiene questa Commissione che a tal
riguardo non sussista l’obbligo di
comunicazione di avvio del procedimento
secondo le modalità ed i contenuti di cui
agli artt. 7 e 8 della l. n. 241/1990.
Infatti, ai sensi della prima parte del
comma 1 del citato art. 7, la sussistenza di
ragioni di impedimento derivanti da
particolari esigenze di celerità del
procedimento –che escludono l’obbligo di
comunicazione- sono ravvisabili sia
nell’ipotesi di accesso informale (che può
concludersi contestualmente alla richiesta)
che in quella formale (che deve concludersi
nel termine di trenta giorni)
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Accesso a documenti amministrativi
di cittadino residente.
Il Comune di Pescara ha negato al Sig.
... l’accesso agli
atti relativi ai finanziamenti del progetto
socio-sportivo “Più sport meno alcol” di
iniziativa della società sportiva
... Pescara (di cui era
stato aderente con funzioni amministrative),
sul presupposto della mancanza in capo al
medesimo di una situazione giuridica
qualificata dal possesso di un interesse
diretto, concreto ed attuale.
Il diniego opposto dall’amministrazione
comunale è illegittimo.
Infatti, per quanto riguarda la
legittimazione all’accesso agli atti
adottati da enti locali, la consolidata
giurisprudenza di questa Commissione
distingue la diversa posizione dei cittadini
residenti e non. Per i primi, cittadini
residenti (siano essi persone fisiche,
associazioni o persone giuridiche), il
principio fondamentale che informa
l’orientamento consolidato della Commissione
sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è
quello di “specialità”: si ritiene cioè che
il legislatore abbia adottato una disciplina
specifica per gli enti locali versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n. 267/2000.
Tale specialità comporta, in linea generale,
che le norme contenute nella l. n. 241/1990
si applicano al TUEL solo in via suppletiva,
ove necessario, e nei limiti in cui siano
con esso compatibili. E mentre, per
l’accesso agli atti di amministrazioni
centrali dello Stato (e sue articolazioni
periferiche) l’art. 22, comma 1, lett. b),
l. n. 241/1990 prevede che la legittimazione
all’accesso spetti soltanto ai soggetti
titolari di un “interesse diretto, concreto
e attuale, corrispondente ad una situazione
tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non
stabilisce invece alcuna restrizione e si
limita a prevedere l’esistenza di un’area di
atti (non precisata) il cui accesso o è
assolutamente precluso per legge o è
differibile (tale essendo l’effetto pratico
della necessaria dichiarazione del Sindaco)
nei casi previsti da un apposito
regolamento, a tutela della riservatezza.
Secondo la Commissione i diversi contenuti
delle due disposizioni citate caratterizzano
la specificità del diritto di accesso dei
cittadini comunali configurandolo alla
stregua di un’azione popolare che non deve
essere accompagnata né dalla titolarità di
una situazione giuridicamente rilevante né
da un’adeguata motivazione.
Nella specie, inoltre, l’istanza di accesso
acquista ulteriore legittimazione dalla
dichiarata necessità del richiedente di
tutelare la propria posizione giuridica
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Quesito circa la sussistenza di
effetti pregiudizievoli all’azionabilità
davanti all’autorità giudiziaria della
presentazione di istanza di accesso a
documenti amministrativi ex lege n.
241/1990.
L’avv. ... ha
partecipato ad una “selezione pubblica per
l’assunzione con contratto di lavoro a tempo
determinato di n. 1 dirigente per la
direzione per la gestione finanziaria e
patrimoniale” presso l’Istituto di
Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di
Borgo Grotta Gigante.
A seguito della comunicazione della sua
esclusione dalla selezione per assunta
mancanza di requisito soggettivo, ha deciso
di esercitare il diritto di accesso ai
documenti amministrativi relativi alla
procedura concorsuale in questione per
conoscere, in particolare, i motivi della
mancata o negativa valutazione della propria
esperienza professionale posta a fondamento
della esclusione.
Con l’istanza in oggetto chiede a questa
Commissione se l’esercizio del diritto di
accesso ex lege n. 241/1990 potrebbe
pregiudicargli l’ulteriore esercizio
dell’azione giudiziaria dinanzi l’autorità
competente.
Il timore paventato dall’Avv.
... è infondato, se
riferito alla possibilità di promuovere
un’azione giudiziaria dinnanzi il giudice
amministrativo per l’eventuale diniego
totale o parziale della domanda di accesso
presentata (art. 25, comma 5, l. n.
241/1990). Ed è altrettanto infondato se
riferito, invece, alla possibilità di
invocare in via giudiziaria l’illegittimità
della sua esclusione dalla procedura
selettiva.
In quest’ultimo caso, peraltro,
il ricorso è sottoposto a termine di
decadenza che, nella specie, a fronte della
comunicazione della esclusione del settembre
2010 sembra scaduto
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Accesso di cittadino residente a
documenti in materia edilizia.
L’Avv. ... lamenta
che il Comune di Sannicandro Garganico, in
contrasto con le disposizioni contenute
nell’art. 10, TUEL, gli abbia negato
l’accesso ad atti che riguardano la materia
edilizia in generale (progettazioni,
autorizzazioni a costruire e simili).
Il diniego dell’amministrazione comunale, ai
sensi del richiamato art. 10 del TUEL è
illegittimo.
Per quanto riguarda la legittimazione
all’accesso agli atti adottati da enti
locali, la consolidata giurisprudenza di
questa Commissione distingue la diversa
posizione dei cittadini residenti e non. Per
i primi, cittadini residenti (siano essi
persone fisiche, associazioni o persone
giuridiche), il principio fondamentale che
informa l’orientamento consolidato della
Commissione sull’applicazione dell’art. 10,
TUEL è quello di “specialità”: si ritiene
cioè che il legislatore abbia adottato una
disciplina specifica per gli enti locali
versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n.
267/2000.
Tale specialità comporta, in linea
generale, che le norme contenute nella l. n.
241/1990 si applicano al TUEL solo in via
suppletiva, ove necessario, e nei limiti in
cui siano con esso compatibili. E mentre,
per l’accesso agli atti di amministrazioni
centrali dello Stato (e sue articolazioni
periferiche) l’art. 22, comma 1, lett. b),
l. n. 241/1990 prevede che la legittimazione
all’accesso spetti soltanto ai soggetti
titolari di un “interesse diretto, concreto
e attuale, corrispondente ad una situazione
tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non
stabilisce invece alcuna restrizione e si
limita a prevedere l’esistenza di un’area di
atti (non precisata) il cui accesso o è
assolutamente precluso per legge o è
differibile (tale essendo l’effetto pratico
della necessaria dichiarazione del Sindaco)
nei casi previsti da un apposito
regolamento, a tutela della riservatezza.
Secondo la Commissione i diversi contenuti
delle due disposizioni citate caratterizzano
la specificità del diritto di accesso dei
cittadini comunali configurandolo alla
stregua di un’azione popolare che non deve
essere accompagnata né dalla titolarità di
una situazione giuridicamente rilevante né
da un’adeguata motivazione.
Ovviamente, a tutela del buon andamento
dell’ordinaria attività amministrativa degli
uffici comunali, l’amministrazione ha la
facoltà di stabilire tempi e modalità di
accesso alla documentazione richiesta
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso dei consiglieri comunali
agli atti di una fondazione privata.
Con mail del 05.08.2011 un consigliere
comunale ha fatto presente che la Fondazione
Asilo Infantile, avente sede nel comune,
aveva negato in parte l’accesso ad
informazioni relative ai costi del personale
dipendente in quanto, quale ente di diritto
privato, non poteva essere ricompresa tra le
aziende o enti dipendenti dal Comune.
Ciò
premesso, l’istante ha chiesto di conoscere
se, a parere di questa Commissione, i
consiglieri comunali abbiano diritto di
ottenere le informazioni richieste ai sensi
dell’art. 43 del TUEL, segnalando che il
Consiglio Comunale, oltre a nominare il
consiglio di amministrazione della
fondazione, eroga contributi in favore di
quest’ultima.
La Commissione ritiene che si possa
rispondere in senso positivo al quesito
posto dal consigliere comunale.
L’art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000
attribuisce ai consiglieri comunali e
provinciali il “…diritto di ottenere dagli
uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie ed informazioni
in loro possesso, utili all’espletamento del
loro mandato…”.
Si tratta, secondo il costante insegnamento
della giurisprudenza, cui la Commissione si
è sempre uniformata, di un diritto pubblico
funzionale, correlato all’assolvimento del
munus publicum di consigliere comunale o
provinciale.
Nel caso di specie, l’accessibilità agli
atti richiesti dai consiglieri comunali
discende dal fatto che la predetta
fondazione, pur avendo natura formalmente
privatistica (quale soggetto sottoposto alla
disciplina del codice civile ex art. 14 e ss
c.c.), è un ente dipendente dal Comune di
Pandino. La “dipendenza” della fondazione in
parola risulta sia dal fatto che essa
persegue finalità pubblicistiche riferibili
al Comune stesso (gestione della scuola
dell’infanzia), sia dal fatto che il
Consiglio comunale nomina l’organo gestorio
(consiglio di amministrazione) ed eroga
contributi pubblici in favore della
fondazione.
Si deve concludere, pertanto, che sono
pienamente accessibili tutti gli atti
inerenti ad attività poste in essere dalla
fondazione, nel perseguimento delle sue
finalità istituzionali
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Richiesta di parere concernente il
diritto di accesso a pratiche edilizie.
L’amministrazione istante solleva dubbi
sulla legittimità della richiesta di
accesso, formulata dal proprietario di un
immobile, alla documentazione edilizia
(permesso di costruire, concessioni in
sanatoria) relativa ad opere realizzate dal
confinante, il quale si è opposto
all’accesso in quanto difetterebbe in capo
all’accedente un interesse giuridicamente
rilevante. E’ poi precisato che l’accesso è
funzionale all’eventuale innesco, da parte
dell’accedente, di un giudizio civile per il
mancato rispetto delle distanze legali.
E’ indubbio, osserva questa Commissione, che
l’istanza di accesso provenga da cittadino
non residente e conseguentemente, in tale
quadro, l’accesso dovrà essere valutato
dall’ente civico ai sensi degli artt. 22 e ss
della legge n. 214/1990 che lo riconosce a
chiunque vi abbia interesse per la tutela di
situazioni giuridicamente rilevanti,
prevalendo comunque l’accesso rispetto alla
riservatezza se esercitato per la cura o la
difesa di un interesse giuridico, fermi
restando i limiti previsti dall’art. 24 co.
7 della legge n. 241/1990.
Nella specie, pare incontestabile
l’interesse che l’istante, in qualità di
proprietario finitimo, possa vantare alla
verifica che le opere edilizie realizzate
sul fondo confinante non ledano propri
diritti, ed in particolare quelli al
rispetto delle distanze legali, con la
conseguenza che l’opposizione del
controinteressato non appare giustificata e
dunque l’istanza di accesso merita
accoglimento (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Diritto di accesso ad ordinanza di
sgombero di appartamento da parte del
proprietario confinante.
Il comune di Cassago Brianza ha chiesto a
questa Commissione se il proprietario di un
appartamento confinante con altro,
dichiarato inabitabile ed antigienico, possa
ottenere il rilascio dell’ordinanza di
sgombero. In particolare, l’ente civico
dubita della legittimità all’accesso della
documentazione richiesta poiché non
sussisterebbe un interesse giuridicamente
rilevante in capo all’istante.
E’ noto che la diversità di posizione tra
cittadino residente e quello non residente
nel Comune dà luogo ad un doppio regime del
diritto di accesso secondo quanto disposto
dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 che ha
presupposti diversi dal diritto di accesso
previsto dalla normativa generale di cui
all’art. 22 della l. n. 241/1990 (arg. ex
TAR Puglia Lecce Sez. II, 12-04-2005, n.
2067; TAR Marche, 12-10-2001, n. 1133).
Qualora l’istante risieda nel territorio del
comune, si deve ritenere che egli possa
accedere a tutti i documenti dell’ente
locale, ai sensi dell’art. 10, comma 1, del
decreto legislativo n. 267/2000, senza
essere condizionato alla titolarità in capo
al soggetto accedente di una situazione
giuridica differenziata né alla necessità di
motivare la sua istanza con riferimento ad
uno specifico interesse all’accesso, atteso
che l’esercizio di tale diritto, secondo la
costante giurisprudenza amministrativa e le
pronunce di questa stessa Commissione, è
equiparabile all’attivazione di un’azione
popolare finalizzata ad una più efficace e
diretta partecipazione del cittadino
all’attività amministrativa dell’ente locale
e alla realizzazione di un più immanente
controllo sulla legalità dell’azione
amministrativa.
Nel caso contrario, ossia se l’istante non
fosse cittadino residente, l’accesso potrà
essere consentito previa dimostrazione della
titolarità di una situazione giuridicamente
rilevante e sufficientemente qualificata ex
art. 22, co. 1, lett. b, della legge n.
241/1990, circostanza che allo stato non
pone dubbi, attesa la qualità di
proprietario di un immobile confinante con
quello oggetto dell’ordinanza di sgombero,
fatta salva la previa comunicazione
all’eventuale soggetto contro interessato
secondo quanto previsto dall’art. 3 del
d.P.R. n. 184/2006
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Regolamento sul diritto di accesso
dei consiglieri comunali del comune di
Casalzuigno. Richiesta parere.
Il Comune di Casalzuigno ha chiesto un
parere in ordine al Regolamento sull’accesso
dei consiglieri comunali approvato con
delibera n. 54 del 18.12.2010. Esaminata la
bozza di regolamento inviata, la Commissione
rappresenta quanto segue:
- art. 2, comma 1: la richiesta di accesso va
indirizzata normalmente al dirigente o al
responsabile o addetto dell’ufficio
competente ad autorizzare in via generale
l’accesso e non al Sindaco o all’assessore;
pertanto, la norma in questione non appare
conforme all’art. 6, co. 6, d.P.R. n. 184/2006
e comunque potrebbe determinare in astratto
un’arbitraria forma di controllo limitando
la prerogativa dei consiglieri comunali
riconosciuta all’art. 43 TUEL. Si consiglia
dunque di riformulare la disposizione nel
senso che
- art. 2, commi 2 e 3: stando alla lettera
della disposizione, sembra riconoscersi al
consigliere comunale il diritto ad ottenere
copie dei documenti solo successivamente
alla presa visione. In tal modo, appare
fortemente limitato l’accesso dei
consiglieri comunali poiché la presa visione
è congegnata come un adempimento preliminare
all’ottenimento dell’atto richiesto.
Va,
invece, considerato che sia la visione che
il diritto ad ottenere copia dei documenti
dell’ente sono alcune delle espressioni in
cui si sostanzia lo speciale accesso dei
consiglieri comunali previsto dal citato
art. 43. “l’accesso alle notizie ed
informazioni è soddisfatto mediante accesso
personale e diretto del consigliere al
responsabile del servizio competente che
fornirà le notizie ed informazioni
richieste”;
Si consiglia di cancellare le seguenti
locuzioni
- art. 2, comma 4; art. 4 comma
1: va
precisato che la richiesta di accesso, fermo
restando il termine previsto dei 10 giorni
lavorativi, va evasa di norma,
immediatamente e in ogni caso nei tempi più
celeri e ragionevoli possibili, onde evitare
il rischio di concreta soppressione delle
prerogative del consigliere nei casi di
procedimenti o discussioni urgenti ovvero
che richiedano l’espletamento delle funzioni
politiche entro un termine inferiore a
quello previsto: “successivamente”;
“quindi” e “successiva”;
Si consiglia dunque di integrare le
disposizioni citate
- art. 2, comma 5: è assolutamente superfluo
il mero rinvio normativo all’art. 13 del
d.lgs. n. 163/2006, che disciplina l’accesso
alle procedure di affidamento dei contratti
pubblici, in quanto meramente ripetitivo di
disposizioni legislative vigenti; anche in
armonia con quanto previsto dall’art. 4,
comma 5, prevedendo all’art. 2, comma 4, che
“l’evasione delle richieste avverrà, di
norma, senza indugio e comunque entro i
successivi 10 giorni lavorativi” e all’art.
4 comma 1 aggiungendo dopo la parola
“richiedente” “…di norma senza indugio e
comunque…”;
si consiglia di espungere la disposizione
- art. 3, co 2: quanto agli atti ancora da
adottare, si segnala che essi sono
accessibili in base all’art. 22, co. 1,
lett. d), legge n. 241/1990 che ricomprende
anche gli atti interni (relativi o meno ad
uno specifico procedimento) e, per
consolidato orientamento del giudice
amministrativo, gli atti preparatori,
relazioni o pareri informali e persino
“brogliacci di giunta”; quanto agli atti
adottati successivamente ad una certa data o
intere categorie di documenti, si rammenta
che, seppur anche le richieste di accesso ai
documenti avanzate dai Consiglieri comunali
ai sensi dell’art. 43, co. 2, d.lgs. n.
267/2000 debbano rispettare il limite di
carattere generale -valido per qualsiasi
richiesta di accesso agli atti- della non
genericità della richiesta medesima (cfr.
C.d.S., Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n.
6293 del 13.11.2002), non è generica
l’istanza relativa all’accesso a tutti gli
atti precedenti e successivi a quelli
specificamente indicati qualora nell’istanza
siano indicati gli elementi necessari e
sufficienti alla puntuale identificazione
dei documenti richiesti; peraltro, la
fattispecie relativa alla genericità della
richiesta è superflua in quanto implicita
nella previsione del comma 1 dell’art. 3;
si consiglia pertanto di eliminare la
disposizione
- art. 7, comma 1 e 2:
non v’è alcuna valida ragione per precludere
l’accesso dei consiglieri comunali alle minutazioni,
registrazioni o appunti delle sedute degli
organi collegiali in quanto l’ampiezza di
tale diritto, come riconosciuto dall’art. 43
TUEL, determina, di riflesso, che possa in
astratto indirizzarsi verso qualsiasi
“notizia” o “informazione” (in questo senso,
cfr., da ultimo, parere Commissione 20.04.2009);;
si consiglia di espungere la disposizione
- art. 7, comma 3: la preclusione
dell’accesso ad atti cd riservati o segreti
(nella specie, atti di consulenza e
patrocinio legale o atti oggetto di vertenza
giudiziaria o conciliativa) non appare
conforme all’ampiezza del diritto
riconosciuto dall’art. 43, co. 2, del TUEL
ai consiglieri comunali. La segretezza che
pure opera nei confronti del consigliere
comunale non è quella legata alla natura
dell’atto ma al suo comportamento che non
può essere divulgativo (“nei casi
specificamente determinati dalla legge”)
del contenuto degli atti ai quali ha avuto
accesso, stante il vincolo previsto dal
citato art. 43 all’osservanza del segreto
d’ufficio nelle ipotesi specificatamente
determinate dalla legge nonché al divieto di
divulgazione dei dati personali ai sensi del
d.lgs. 196/2003 e successive modificazioni
(cfr. in senso favorevole TAR Toscana Firenze Sez. II,
06.04.2007,
n. 622); infine, l’art. 7 viene ad
introdurre un’ulteriore illegittima
limitazione dell’accesso dei consiglieri
comunali nei casi di atti segretati su
disposizione del Sindaco per un periodo
massimo di 3 anni, in contrasto con
l’ampiezza riconosciuta ex art. 43 TUEL. Si
consiglia l’espunzione della disposizione.
La Commissione resta quindi in attesa di un
nuovo testo, modificato nei sensi su
indicati
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta parere sulla
legittimazione a richiedere l’accesso a
documenti amministrativi.
Con e-mail del 07.09.2011 è stato chiesto a
questa Commissione se la domanda di accesso
ai documenti amministrativi (effettuata
tramite un legale di fiducia) necessiti di
una procura generale, speciale ovvero di una
semplice delega.
Al riguardo, l’art. 5, co. 2, del d.P.R. n.
184/2006 precisa che “il richiedente
deve… dimostrare…, ove occorra, i propri
poteri di rappresentanza del soggetto
interessato”; l’art. 6, co. 1, stesso
decreto dispone, tra l’altro, che “qualora…
sorgano dubbi sulla legittimazione del
richiedente, sulla sua identità, sui suoi
poteri rappresentativi …..l’amministrazione
invita l’interessato a presentare richiesta
d’accesso formale…”.
Alla stregua delle citate disposizioni, la
Commissione è del parere che una semplice
delega ad un legale soddisfi il requisito
minimo essenziale per legittimare terzi alla
richiesta di accesso ai documenti
amministrativi, fermo restando che, ove
sorgano dubbi sulla legittimazione
dell’istante o comunque sulla titolarità del
potere di rappresentanza in capo ad esso,
l’amministrazione ben potrà invitare
l’interessato a regolarizzare l’istanza
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Diritto di accesso di consigliere
provinciale ad atti dell’Ambito Territoriale
Caccia “SP”.
Il consigliere provinciale in epigrafe
chiedeva al Dirigente del Settore Caccia
della Provincia
di La Spezia documentazione in possesso
dell’Ambito Territoriale della Caccia A.T.C.
SP, e
precisamente:
1 – Relazione dei revisori dei conti;
2 – Verbale di approvazione del Bilancio
Consuntivo 2009-2010 dell’ATC SP;
3 – Fatture di acquisto della selvaggina e
relativa documentazione;
4 – Copia di una Convenzione stipulata dalla
Provincia citata nel Bilancio;
5 – Dettaglio spesa controllo cinghiale
progetto Pignone;
6 – Dettaglio spesa controllo cinghiale
progetto Castelnuovo/Ortonovo;
7 – Dettaglio spesa collaborazioni e
sorveglianza.
Il Presidente dell’ATC SP ha risposto che
nei confronti dell’organismo di gestione
dell’ATC
SP non trovano applicazione le norme
sull’accesso agli atti amministrativi di cui
alla l.n. 241/1990
(e neppure quelle di cui al d.p.r.
445/2000), che la richiesta è immotivata e
non è stata dimostrata la
titolarità di un interesse giuridicamente
qualificato e che, in particolare, le
fatture di acquisto
oggetto della domanda di accesso non sono
annoverate tra i documenti e le modalità di
cui all’art.
21, co. 2, lett. f/bis) della L.R. 29/1994
(istitutiva degli ATC), né tra quelli di cui
agli artt. 8, comma
5, e 13, comma 11 dello Statuto ATC SP,
adottato ai sensi del citato art. 21, l.r.
n. 29/1994 (che
disciplinano le modalità e i soggetti che
possono accedere alle deliberazioni assunte
e alle
informazioni sull’attività svolta dal
Comitato di Gestione dell’ATC).
L’interessato rivendica il proprio diritto
di accesso facendo leva sul contenuto
dell’art. 43,
co. 2, TUEL secondo il quale i consiglieri
comunali e provinciali hanno diritto di
ottenere tutte le
notizie ed informazioni in possesso dei
rispettivi uffici comunali e provinciali
nonché delle loro
aziende ed enti dipendenti, fra i quali
andrebbe annoverato l’ATC, ancorché l’art.
20, co. 1 della l.
n. 29/1994 della Regione Liguria stabilisca
che gli ambiti territoriali di caccia sono
gestiti da
strutture associative di natura privata.
Dalla premessa che l’ATC, ancorché gestito
da struttura associativa privata, non può
non
considerarsi soggetto pubblico “dipendente”
dalla Provincia (i contenuti e le finalità
della l.r. n.
29/1994 depongono in tal senso), derivano
due conseguenze giuridiche:
a. l’applicabilità in generale della
normativa sull’accesso ai documenti
amministrativi;
b. l’applicabilità, in particolare,
dell’art. 43, co. 2, che consente al
consigliere
provinciale, in esecuzione del suo mandato,
di accedere ad ogni tipo di notizia e/o
informazione
collegata all’attività della Provincia o di
enti dipendenti.
Il diniego opposto dal Presidente dell’ATC
SP risulta, pertanto, giuridicamente
illegittimo,
specie allorché lo giustifica, circa le
fatture di acquisto (facenti parte della
richiesta), con il rinvio
all’art. 21, co. 2, lett. f/bis della l.r.
n. 29/1994, che rimette si allo Statuto la
disciplina delle
modalità attraverso le quali devono essere
garantite a tutti i cacciatori iscritti
l’accessibilità alle
deliberazioni assunte e l’informazione
sull’attività svolta dal Comitato di
gestione, ma con
riferimento appunto ai cacciatori iscritti e
non certo ai consiglieri provinciali
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto. Accesso di consigliere comunale (di
minoranza) al giornale di cassa.
Il Dipartimento in indirizzo sottopone a
questa Commissione il quesito posto, in
ordine di
tempo, dal Responsabile del Settore
Economico Finanziario e da un consigliere
comunale di
minoranza del Comune di Sant’Agata di Puglia
(FG) in ordine al diritto di quest’ultimo
di:
- avere visione e di estrarre copia del
giornale di cassa 2010 del Comune;
- avere copia dei Mod. 770 degli anni dal
2005 al 2008 con relativi dati contabili di
tutti
i dipendenti.
Quanto al primo punto, l’amministrazione
comunale ha sospeso l’accesso in attesa del
parere richiesto; quanto al secondo, ha
negato l’accesso ai documenti contabili del
personale per la
tutela della privacy.
Sulle questioni oggetto del parere richiesto
si richiama la consolidata giurisprudenza di
questa Commissione (cfr., parere del 07.07.2011, in linea con quella del giudice
amministrativo)
secondo cui <<il “diritto di accesso” ed il
“diritto di informazione” dei consiglieri
comunali nei
confronti della P.A. trovano la loro
disciplina specifica nell’art 43 del d.lgs.
n. 267/2000 (TU degli
Enti locali) che riconosce ai consiglieri
comunali e provinciali il “diritto di
ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le
notizie e le informazioni in loro possesso,
utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince
il riconoscimento in capo al consigliere
comunale
di un diritto dai confini più ampi sia del
diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al
cittadino nei confronti del Comune di
residenza (art. 10, T.U. enti locali) sia,
più in generale, nei
confronti della P.A. quale disciplinato
dalla l.n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza
di
legittimazione è riconosciuta in ragione del
particolare munus espletato dal consigliere
comunale,
affinché questi possa valutare con piena
cognizione di causa la correttezza e
l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, onde poter esprimere
un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza
della P.A., opportunamente considerando il
ruolo di garanzia democratica e la funzione
pubblicistica da questi esercitata (a
maggior ragione, per ovvie considerazioni,
qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza,
istituzionalmente deputata allo svolgimento
di compiti di
controllo e verifica dell’operato della
maggioranza). A tal proposito, il Giudice
amministrativo
individua la situazione giuridica in capo ai
consiglieri comunali con l’espressione
“diritto soggettivo
pubblico funzionalizzato”, vale a dire un
diritto che “implica l’esercizio di facoltà
finalizzate al
pieno ed effettivo svolgimento delle
funzioni assegnate direttamente al consiglio
comunale”.
A tal fine il consigliere comunale non deve
motivare la propria richiesta di
informazioni,
poiché, diversamente opinando, la P.A. si
ergerebbe ad arbitro delle forme di
esercizio delle potestà
pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei
fini collettivi.
Ogni limitazione all’esercizio del diritto
sancito dall’art. 43, TUEL interferisce
inevitabilmente con la potestà istituzionale
del consigliere comunale di sindacare la
gestione
dell’ente, onde assicurare –in uno con la
trasparenza e la piena democraticità– anche
il buon
andamento. Evidentemente, il diritto di
accesso non può essere garantito
nell’immediatezza in tutti i
casi, e, dunque, rientrerà nella facoltà del
responsabile del procedimento dilazionare
opportunamente nel tempo il rilascio delle
copie richieste, al fine di contemperare
tale adempimento
straordinario con l’esigenza di assicurare
l’adempimento dell’attività ordinaria,
concedendo
ovviamente, nel frattempo, la facoltà di
prendere visione di quanto richiesto negli
orari stabiliti
presso gli uffici comunali.
In ordine alla tutela della privacy dei
soggetti evocati nei documenti acceduti, si
ricorda che
–sempre ai sensi dell’art. 43, TUEL- i
consiglieri comunali sono tenuti a
preservare la riservatezza
del contenuto dei documenti e rispondono
verso i terzi del pregiudizio arrecato dalla
loro illegittima
divulgazione>> (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011
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APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: richiesta di accesso ad atti di
gara da parte di un’impresa non
partecipante.
Con nota del 31.08.2011, lo Stato
Maggiore della Marina ha rappresentato a
questa
Commissione che:
- nel gennaio 2011 aveva affidato in appalto
alla RTI Trenitalia spa e FS Logistica spa
il
servizio di trasporto “su ferrovia” di
masserizie del personale delle forze armate;
- contemporaneamente, aveva affidato alla
società JAS Jet Air Service spa il diverso
servizio
di trasporto “su gomma” di masserizie del
personale delle forze armate;
- quest’ultima società aveva chiesto
l’accesso a copia delle singole prestazioni
(effettuate o
affidate e non ancora effettuate) del
servizio di spedizione/trasporto su ferrovia
eseguite dalla RTI
Trenitalia e FS Logistica nel corso del 2011
al fine di verificare quali fossero i
criteri di affidamento
dei servizi di trasporto al vettore
ferroviario anziché al vettore su gomma,
potendo in astratto le
modalità esecutive del contratto d’appalto
aggiudicato alla RTI Trenitalia comportare
un grave
pregiudizio in termini di riduzione di
fatturato.
A fronte di tale istanza di accesso,
l’amministrazione militare adduce forti
dubbi
sull’accoglibilità della richiesta di
accesso in ragione della valutata
insussistenza di profili di
interesse concreto, diretto ed attuale,
corrispondente a situazioni giuridicamente
rilevanti e collegate
ai documenti richiesti, non avendo l’istante
preso parte alla procedura di gara per i
servizi di
trasporto su ferrovia affidati alla RTI
Trenitalia e Fs Logistica.
La Commissione osserva che, di recente, il
Consiglio di Stato (cfr. decisione sez. VI n.
5062
del 30.07.2010) ha affermato che le
disposizioni contenute nella legge 241/1990
devono trovare
applicazione tutte le volte in cui non si
rinvengono disposizioni derogatorie
contenute nel Codice
dei contratti pubblici (ove l’art. 13 del
d.lgs. n 163/2006 stabilisce che <<salvo
quanto
espressamente previsto nel presente codice,
il diritto d’accesso [.] è disciplinato
dalla legge 07.08.1990, n. 241>>). Partendo da questo
presupposto, quindi, occorre interpretare il
comma 6°
dell’art. 13 -secondo cui “è comunque
consentito l’accesso al concorrente che lo
chieda in vista
della difesa in giudizio dei suoi
interessi”- non come un “restringimento” dei
requisiti di
legittimazione all’accesso sul piano
soggettivo (solo ai “concorrenti”) in
quanto, anche nelle
procedure ad evidenza pubblica, deve
comunque sopravvivere quel diritto
generalizzato all’accesso
in capo a tutti coloro che dimostrino di
averne un interesse reale e concreto:
quindi,
indipendentemente dalla loro partecipazione
alla gara.
Pertanto, se la richiesta d’accesso provenga
da un concorrente ad una pubblica gara,
allora
tale richiesta deve sicuramente essere
evasa, ma ciò non significa tout court che,
anche in altri casi -ovvero qualora la richiesta risulti
formulata da un non-concorrente- non
sussista ancora un interesse
reale e concreto a prendere visione della
documentazione, che l’istante deve
motivatamente palesare e
che la P.A. è obbligata a compiutamente
verificare dovendo, in caso affermativo,
concedere
certamente l’accesso.
Nella specie, la Commissione rileva non
soltanto che la società IAS non ha preso
parte alla
gara per l’affidamento dei servizi di
trasporto su ferrovia, i cui atti hanno
formato oggetto della
citata richiesta di accesso documentale, ma
che, ulteriormente, non può in capo ad essa
nemmeno
ravvisarsi un interesse legittimante
l'accesso documentale agli atti della
procedura stessa, non
potendo rilevare in proposito l’interesse
della JAS, aggiudicataria dei servizi di
trasporto su gomma,
di acquisire chiarimenti sulle modalità
esecutive dell’appalto o sui criteri di
selezione dei servizi su
ferrovia rispetto a quelli su gomma.
Ed infatti, l'istanza ostensiva non deve
costituire uno strumento surrettizio di
sindacato
generalizzato sull'azione amministrativa
nell'ambito di una procedura concorsuale cui
si è rimasti
volontariamente estranei, non essendo
ammissibile piegare lo strumento
dell'accesso al perseguimento di una
generica attività informativa ed
esplorativa, attraverso l'enunciazione di un
interesse meramente esplorativo
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Reiterate richieste di accesso a
documenti da parte di cittadino residente.
Limiti
all’esercizio dell’accesso.
Il Ministero istante -premesso che un
cittadino residente nel Comune di Angri
aveva chiesto
all’ente locale di ottenere “chiarimenti”
sui motivi dell’approvazione di due delibere
di Giunta,
aventi ad oggetto il riconoscimento di
debiti fuori bilancio per notevoli importi
in favore di terzi-
chiede a questa Commissione un parere sull’accoglibilità
della richiesta di accesso, segnalando che
l’istante, in qualità di “utente e
contribuente comunale” invoca la titolarità
di un interesse diretto e
personale ai sensi dell’art. 22 legge n.
241/1990 e che l’art. 24, comma 3, legge n.
241/1990 non ammette
richieste dirette ad operare un controllo
generalizzato sull’operato della pubblica
amministrazione.
Circa la prima questione, secondo
l’orientamento consolidato della
Commissione, il diritto
di accesso agli atti degli enti locali del
cittadino-residente –come quello di specie- non è
condizionato (diversamente a quanto l’art.
22, comma 1, lett. b, legge n. 241/1990
prescrive per
l’accesso ai documenti di amministrazioni
centrali dello Stato) alla titolarità in
capo al soggetto
accedente di una situazione giuridica
differenziata, atteso che l’esercizio di
tale diritto è
equiparabile all’attivazione di un’azione
popolare finalizzata ad una più efficace e
diretta
partecipazione del cittadino all’attività
amministrativa dell’ente locale e alla
realizzazione di un più
immanente controllo sulla legalità
dell’azione amministrativa. Non è, pertanto,
possibile
subordinare il diritto di accesso del
cittadino-residente alla dimostrazione della
titolarità di un
interesse giuridicamente rilevante.
Quanto alla seconda questione, è possibile
nella specie negare l'accesso in quanto
dalle
delibere comunali, già rese accessibili
all’istante, appare evincibile a sufficienza
il percorso
motivazionale posto dall’amministrazione a
fondamento delle delibere adottate, con la
conseguenza
che risulta infondata la richiesta di
accesso volta ad ottenere non meglio
precisati “chiarimenti” sui
motivi di adozione delle delibere stesse
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Diritti di ricerca e visura presso
il Comune di Matera.
L’istante, in qualità di procuratore legale
di un cittadino residente, lamenta che
l’amministrazione comunale in indirizzo
abbia disposto, in virtù di una delibera
adottata il 09.04.2010
che rimodulava l’importo dei diritti di
segreteria per l’accesso a copie di
documenti, il pagamento
per l’accesso ad una pratica della somma
forfettaria di euro 50,00 (che lievita a
70,00 euro nel caso
di accesso a più pratiche), oltre al costo
delle fotocopie dei documenti, da
determinare a parte e da
corrispondersi al momento della
presentazione della domanda
indipendentemente dal suo esito.
Assumendo la vessatorietà della misura
adottata, ha chiesto un parere sulla esosità
dei diritti di
segreteria richiesti dall’ente civico per
l’esercizio dell’accesso.
Sul tema la Commissione si è già pronunciata
in passato, ritenendo che i diritti di
ricerca e
visura possono essere richiesti
legittimamente dall’ente locale in quanto
per costo –secondo la
giurisprudenza amministrativa (cfr. C.d.S.,
Sez. V 25.10.1999, n. 1709), alla quale
si è allineata
anche quella di questa Commissione (cfr.
parere 01.07.2008)– non deve intendersi
solo quello
di riproduzione del documento, ma anche
tutti gli altri sostenuti
dall’amministrazione (quali, per
esempio, quelli concernenti la ricerca dei
documenti e/o l’istruzione della pratica),
ma in questo
caso l’importo (che non può essere
predeterminato a livello generale, ma deve
costituire oggetto di
responsabile valutazione da parte di ogni
singola amministrazione) deve essere equo e
non esoso, in
quanto la richiesta di un importo elevato
costituisce un limite all’esercizio del
diritto di accesso.
Nella specie, i costi tariffati per
l’accesso appaiono eccessivi (diritti di
ricerca di euro 50,00
o euro 70,00 a seconda del numero delle
pratiche) e illegittimi se debbano essere
versati
indipendentemente dal numero dei documenti
richiesti e dall’esito dell’istanza di
accesso. Infatti, la
nuova delibera comunale di rimodulazione dei
costi per l’accesso si pone in netto
contrasto con
l'art. 25, co. 1, legge n. 241/1990 secondo cui
"l'esame dei documenti è gratuito. Il
rilascio di copia è
subordinato soltanto al rimborso del costo
di riproduzione, salve le disposizioni
vigenti in materia
di bollo, nonché i diritti di ricerca e di
visura" nonché con la previsione di cui
all'art. 7, c. 6, del
d.P.R. 12.04.2006, n. 184 che prevede:
"in ogni caso, la copia dei documenti è
rilasciata
subordinatamente al pagamento degli importi
dovuti ai sensi dell'articolo 25 della legge
secondo
le modalità determinate dalle singole
amministrazioni. Su richiesta
dell'interessato, le copie
possono essere autenticate").
Ne consegue che i costi indicati si
atteggiano a irragionevole e sproporzionata
misura volta a
scoraggiare l’accedente dall’esercitare un
diritto soggettivo
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: richiesta di accesso di consigliere
comunale a documenti inerenti le indennità
corrisposte al sindaco.
Un funzionario comunale lamenta l’abusività
delle reiterate richieste di accesso agli
atti di
bilancio provenienti da un consigliere
comunale, adducendo in particolare dubbi
sulla legittimità
della istanza di accesso alle indennità del
sindaco negli ultimi dieci anni (1999–2011) in quanto,
per il numero di atti richiesti e per
l’ampiezza della richiesta, si tradurrebbe
in un eccessivo e
minuzioso controllo dell’ente estranea alla
funzione di controllo dei consiglieri e
determinerebbe un
rischio di paralisi delle ordinarie attività
amministrative.
La Commissione osserva anzitutto che,
secondo l’articolo 11 del d.lgs. n.
150/2009, la
trasparenza amministrativa -che sta
assumendo tendenzialmente portata generale,
tanto che rientra,
nei livelli essenziali delle prestazioni
disciplinate nella Costituzione (articolo
117, comma 2, lett. m)- è intesa come accessibilità totale delle
informazioni concernenti ogni aspetto
dell’organizzazione
e l’utilizzo delle risorse per il
perseguimento delle funzioni istituzionali.
In tale ottica, è stato
imposto ad ogni amministrazione l’obbligo di
pubblicare sul proprio sito istituzionale,
tra l’altro, i curricula e le retribuzioni di coloro che
rivestono incarichi di indirizzo politico
amministrativo (vedi
art 11 comma 8 lett. h).
Tale ampio regime di pubblicità delle
informazioni inerenti la situazione
reddituale dei
titolari di cariche elettive attribuisce, di
conseguenza, anche il diritto di accedere ai
documenti
formati dalla pubblica amministrazione e a
qualsiasi informazione concernente indennità
e altri
emolumenti corrisposti dall’Amministrazione
a favore del Sindaco e degli assessori. Ciò
è peraltro
conforme all’art 43 d.lgs. n. 267/2000 che
attribuisce ai consiglieri comunali un
diritto pieno e non
comprimibile ad accedere a tutte le notizie
e le informazioni in possesso degli uffici,
utili
all’espletamento del proprio mandato che è
quello di controllare l’attività degli
organi istituzionali
del Comune.
In secondo luogo, in conformità al
consolidato orientamento giurisprudenziale
amministrativo (cfr., fra le molte, C.d.S.,
Sez. V, 22.05.2007, n. 929), riguardo le
modalità di accesso alle informazioni e alla
documentazione richieste dai consiglieri
comunali ex art 43 TUEL,
la Commissione ribadisce che il diritto di
accesso agli atti di un consigliere comunale
non può
subire compressioni per pretese esigenze di
natura burocratica dell’Ente, tali da
ostacolare
l’esercizio del suo mandato istituzionale,
con l’unico limite di poter esaudire la
richiesta (qualora
essa sia di una certa gravosità) secondo i
tempi necessari per non determinare
interruzione alle altre
attività di tipo corrente: ciò in ragione
del fatto che il consigliere comunale non
può abusare del
diritto all’informazione riconosciutogli
dall’ordinamento pregiudicando la corretta
funzionalità
amministrativa dell’ente civico con
richieste non contenute entro i limiti della
proporzionalità e
della ragionevolezza che possano aggravare
l’ordinaria attività amministrativa.
Pertanto, in merito alle problematiche
esposte, la Commissione ritiene che la
richiesta di
accesso in esame rientri senza dubbio nelle
facoltà di esercizio del munus del
consigliere comunale,
sia sufficientemente specifica e possa
essere evasa, senza aggravare l’ordinaria
attività
amministrativa, anche avvalendosi dei
sistemi telematici o di supporti informatici
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Necessità o meno di comunicare ai controinteressati l’istanza di accesso
presentata ai sensi dell’art. 391-quater
cod. proc. pen..
Il dirigente del Comune di Rieti in
indirizzo chiede il parere di questa
Commissione in ordine alla necessità di
comunicare ai controinteressati (ex art. 3,
d.p.r. n. 184/2006) la domanda di accesso
formulata i sensi dell’art. 391-quater cod.
proc. pen. da un avvocato per conto del suo
cliente ed avente ad oggetto il rilascio di
copia della documentazione relativa a
pratiche edilizie appartenenti a terzi e non
riconducibili al procedimento penale in cui
il suo assistito è coinvolto.
A parere del dirigente comunale la
comunicazione ai terzi controinteressati non
sarebbe necessaria in quanto la suddetta
documentazione è finalizzata esclusivamente
alla redazione di memorie da parte del
legale.
Ritiene questa Commissione di poter
condividere tale assunto.
La notifica ai controinteressati ex art. 3,
d.p.r. n. 184/2006 è un atto dovuto
dall’amministrazione in ogni caso in cui la
richiesta di accesso coinvolga la tutela
della riservatezza del terzo, il quale ha il
diritto di presentare o meno una motivata
opposizione all’accesso entro dieci giorni
dalla comunicazione. Questa procedura, la
cui osservanza non può dipendere dal
giudizio sulla sua fondatezza che la stessa
amministrazione maturi anche in virtù di
consolidata giurisprudenza, può essere
superata nei casi in cui la legge stabilisca
l’obbligo di ostensione del documento
richiesto o il consenso dell’autorità
giudiziaria e in quelli in cui il soggetto
terzo, pur individuato nel documento,
rivesta la posizione di controinteressato
solo in senso formale (è l’ipotesi della
richiesta di accesso di un candidato di una
procedura concorsuale ad accedere a verbali
o elaborati di altri candidati della stessa
procedura).
Nel caso di specie, sembra ricorrere la
prima ipotesi considerato che l’art.
391-quater cod. proc. pen. –secondo cui “Ai
fini delle indagini difensive, il difensore
può chiedere i documenti in possesso della
pubblica amministrazione e di estrarne
copia”- prevede, al terzo comma, che in
caso di rifiuto al rilascio da parte della
P.A. si applicano gli artt. 367 e 368 cod.
proc. pen., che devolvono al P.M. (art. 367)
e al GIP (art. 368) la decisione su
richieste istruttorie nel corso delle
indagini preliminari. Non è, dunque, il
terzo controinteressato che può opporsi alla
domanda di accesso, ma solo l’autorità
giudiziaria può valutarne l’ammissibilità
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 20.07.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Richiesta di parere in merito
all’accesso agli elenchi firme allegati alle
mozioni/interrogazioni di consiglieri
comunali.
L’amministrazione comunale istante ha
chiesto il parere della Commissione al fine
di conoscere:
a) se, a fronte della pubblicazione in albo
pretorio di delibere consiliari, approvate
su mozioni o interrogazioni presentate in
base a raccolte di firme, contenenti dati
personali di cittadini (come nome, cognome e
residenza), sia legittima o meno l’integrale
pubblicazione anche dell’elenco firme
allegato alla delibera;
b) se i consiglieri comunali, all’atto della
raccolta firme dei cittadini, debbano
informare questi ultimi che i relativi dati
personali saranno divulgati ovvero se dalla
raccolta della firma possa implicitamente
desumersi il consenso del cittadino alla
pubblicazione dei dati;
c) se per l’accesso a copia dell’elenco
firme occorra specificare l’interesse
giuridicamente rilevante, senza violare i
principi di riservatezza.
Premesso che i primi due quesiti in oggetto
vertono su questioni assolutamente estranee
alla materia nella quale la Commissione per
l’accesso ai documenti amministrativi è
competente ad esprimere pareri, ai sensi
dell’art. 11, comma 1, lettera a), del d.P.R.
n. 184/2006, non venendo in rilievo né atti
con i quali sono individuate categorie di
documenti sottratti all’accesso, né atti
attinenti all’esercizio ed
all’organizzazione del diritto di accesso,
la Commissione si dichiara incompetente ad
emettere il richiesto parere, dal momento
che la tutela della riservatezza rientra
nella distinta competenza del Garante per la
protezione dei dati personali.
Per quanto concerne, invece, l’ultimo
quesito, si osserva che l’eventuale
pubblicazione in albo dell’elenco contenente
dati personali, non esclude il rispetto
delle vigenti discipline in materia di
accesso. Si rammenta, al riguardo, che ai
sensi dell’art. 59 d.lgs. n 196/2003 i
presupposti, i limiti e le modalità per
l’esercizio del diritto di accesso a
documenti amministrativi contenenti “dati
personali”, come nella specie quelli
contenuti negli elenchi firme raccolte,
restano disciplinati dalla legge n. 241/1990
e dalle altre disposizioni di legge in
materia nonché dai relativi regolamenti di
attuazione.
Alla luce di tali disposizioni, se con la
pubblicazione in albo può già ritenersi
realizzato il diritto di accesso, quantomeno
nell’aspetto della visione dell’elenco
firme, tuttavia è ben vero che terzi possano
fare richiesta di rilascio di copia della
delibera e dell’allegato elenco. In tali
ipotesi, soprattutto quando la pubblicazione
sia limitata nel tempo, come quella
effettuata tramite albo, una volta trascorso
il periodo di pubblicità, il diritto di
accesso sarà esercitato nei limiti della
generale disciplina dell’accesso ex lege n
241/1990, verificando la motivazione della
domanda d’accesso all’elenco di dati
personali nonché curando la riservatezza
delle persone, fatti salvi comunque i
diversi e più ampi limiti previsti dagli
altri regimi speciali di accesso
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 20.07.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Richiesta di parere in merito
all’accesso agli atti da parte di un
consigliere comunale.
Il Segretario del Comune di Felitto
rappresenta alla Commissione che un
consigliere eletto in altro comune (quello
di Albanella) -con cui condivideva un’unità
di personale addetta al servizio tecnico-
aveva richiesto di accedere agli atti di
gara e ad incarichi esterni per lavori e
progettazioni di esclusivo interesse del
Comune di Felitto. L’istante, dubitando che
il consigliere di un comune possa avvalersi
della prerogativa ex art 43 TUEL per
accedere ad atti e notizie inerenti
all’attività di altro e diverso comune,
chiede di conoscere quale sia la rilevanza
del convenzionamento dei servizi tecnici ai
fini del regime giuridico cui assoggettare
le richieste di accesso del consigliere di
un diverso comune.
La Commissione osserva che lo speciale
diritto di accesso ex art 43 TUEL è
riconosciuto al singolo consigliere comunale
ai fini del sindacato ispettivo sull’azione
amministrativa del Comune che rappresenta e
non anche di altro e diverso comune, essendo
del tutto irrilevante la circostanza che i
due comuni cogestiscano il servizio tecnico
mediante un’unità di personale. Ne consegue
l’inapplicabilità, alla fattispecie, della
prerogativa di accesso riconosciuta al
consigliere comunale.
Resta ferma la possibilità che la richiesta
di accesso, avanzata da un consigliere di un
comune diverso da quello istante, sia
valutata non in base alla disciplina
contenuta nel Capo V della legge n. 241/1990
che attribuisce tale diritto espressamente
ed esclusivamente i soggetti privati bensì
più correttamente alla stregua del principio
di leale cooperazione istituzionale che
informa di sé i rapporti tra pubbliche
amministrazioni ex art. 22, comma 5, e dell’art.
5, co. 4, del Dpr n 184/2006 in cui si
stabilisce che “l’acquisizione di documenti
da parte di soggetti pubblici, ove non
rientrante nella previsione dell’art. 43,
comma 2, del testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di
documentazione amministrativa, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, si informa al
principio di leale cooperazione
istituzionale”
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 20.07.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Richiesta di parere in merito
all’oscuramento dei dati personali dei
candidati in caso di accesso agli atti di
una procedura selettiva.
L’ente istante rappresenta che -in
ottemperanza all’invito formulato da questa
Commissione che aveva accolto favorevolmente
il ricorso presentato da un concorrente,
risultato non utilmente collocato in
graduatoria, per accedere ai documenti della
procedura selettiva avviata per il
conferimento di un incarico di
collaborazione coordinata e continuativa
Progetto In La Sicilia- aveva concesso al
candidato di visionare le domande di
partecipazione degli altri concorrenti.
Tuttavia, l’amministrazione segnala che nel
rilasciare le copie dei documenti richiesti
ha oscurato i dati personali degli altri
candidati a tutela della riservatezza. Sulla
questione viene chiesto il parere di questa
Commissione, facendo presente
l’inopportunità di rendere visibili i dati
personali.
Al riguardo, la Commissione osserva che male
ha fatto l’amministrazione ad oscurare i
dati personali delle domande di
partecipazione degli altri concorrenti
utilmente graduati, non sussistendo alcuna
esigenza di tutela della riservatezza, dal
momento che i concorrenti, prendendo parte
alla selezione pubblica, hanno
implicitamente accettato che i loro dati
personali esposti nei documenti della
procedura stessa potessero essere resi
conoscibili da tutti gli altri concorrenti a
ciò interessati (quali sono senza dubbio i
concorrenti non utilmente graduati)
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 20.07.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: accesso del consigliere comunale a
provvedimenti urbanistici in itinere.
Il Sig. ...,
Consigliere comunale di Garbagnate Milanese
(MI), ha chiesto il
parere di questa Commissione sul
comportamento degli Uffici comunali che gli
hanno consentito
l’accesso per sola visione ad un
provvedimento urbanistico in itinere,
peraltro già trasmesso ai
comuni limitrofi per il parere di
competenza, differendo la chiesta consegna
di copia in formato
digitale del provvedimento ad una data
successiva all’approvazione del
provvedimento stesso.
Al riguardo la Commissione fa presente che
nell’attuale disciplina del diritto
d’accesso è
scomparsa la figura dell’accesso per sola
visione, e che ai sensi dell’art. 43 del
T.U.E.L. i
consiglieri hanno diritto di ottenere, dai
competenti Uffici comunali, senza eccezioni,
tutte le
notizie e tutti i documenti necessari per
l’esercizio delle loro funzioni ed in
possesso dell’Ente.
L’indicato differimento deve quindi
ritenersi privo di giustificazione
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: accesso dei consiglieri comunali a
tutti i documenti protocollati dal Comune.
Il Segretario comunale di Grotteria ha
comunicato che un consigliere comunale ha
chiesto di
avere notizia, con deposito quotidiano di
apposito elenco presso l’ufficio protocollo,
di tutti i
documenti protocollati dall’ente nella
giornata precedente, con specifica delle
informazioni relative
ad oggetto, mittente destinatario e numero
progressivo di identificazione. Chiede
pertanto di
conoscere se, ad avviso di questa
Commissione, una domanda di tale ampiezza
possa ritenersi
ammissibile.
Osserva la Commissione che anche per i
consiglieri comunali deve ritenersi operante
il
limite dell’art. 2 del regolamento approvato
con dPR 12.04.2006 n. 184, secondo cui
“la
pubblica amministrazione non è tenuta ad
elaborare dati in suo possesso al fine di
soddisfare le
domande d’accesso”. Pertanto, la richiesta
di predisporre ex novo apposito dettagliato
elenco
quotidiano da depositare presso l’Ufficio
protocollo deve ritenersi priva di
giustificazione
normativa.
Va peraltro tenuto presente che
il consigliere comunale ha diritto d’accesso
al protocollo
informatico del Comune, e quindi può
liberamente trarre dalla relativa
consultazione tutte le notizie
ritenute necessarie
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Accesso a licenze ed autorizzazioni
per l’apertura di supermercato.
Il Sig. ...,
cittadino residente, ha chiesto l’accesso a
licenze ed autorizzazioni
relativi all’apertura di un supermercato in
quanto “vicinante” di tale futura apertura
di esercizio
commerciale.
Il Comune ha opposto il suo diniego perché
il contenuto della domanda non presenta le
caratteristiche di interesse diretto,
concreto ed attuale e perché, ai sensi
dell’art. 29 del
regolamento comunale sull’esercizio del
diritto di accesso non sussistono gli
elementi che ne
consentano l’individuazione e la
legittimazione e per mancanza della
motivazione con eventuale
specificazione dell’interesse connesso.
Per quanto riguarda la legittimazione
all’accesso agli atti adottati da enti
locali, la
consolidata giurisprudenza di questa
Commissione distingue la diversa posizione
dei cittadini
residenti e non. Per i primi, cittadini
residenti (siano essi persone fisiche,
associazioni o persone
giuridiche), il principio fondamentale che
informa l’orientamento consolidato della
Commissione
sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è
quello di “specialità”: si ritiene cioè che
il legislatore abbia
adottato una disciplina specifica per gli
enti locali versata nel TUEL approvato con
il d.lgs. n.
267/2000.
Tale specialità comporta, in linea
generale, che le norme contenute nella l. n.
241/1990 si
applicano al TUEL solo in via suppletiva,
ove necessario, e nei limiti in cui siano
con esso
compatibili. E mentre, per l’accesso agli
atti di amministrazioni centrali dello Stato
(e sue
articolazioni periferiche) l’art. 22, comma
1, lett. b), l. n. 241/1990 prevede che la
legittimazione
all’accesso spetti soltanto ai soggetti
titolari di un “interesse diretto, concreto
e attuale,
corrispondente ad una situazione tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l’accesso”,
l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece
alcuna restrizione e si limita a prevedere
l’esistenza di
un’area di atti (non precisata) il cui
accesso o è assolutamente precluso per legge
o è differibile (tale
essendo l’effetto pratico della necessaria
dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti
da un apposito
regolamento, a tutela della riservatezza.
Secondo la Commissione i diversi contenuti
delle due
disposizioni citate caratterizzano la
specificità del diritto di accesso dei
cittadini comunali
configurandolo alla stregua di un’azione
popolare che non deve essere accompagnata né
dalla
titolarità di una situazione giuridicamente
rilevante né da un’adeguata motivazione.
Nella specie, il diniego opposto dal Comune
appare illegittimo nella sua motivazione sia
allorché fa riferimento alla titolarità di
un interesse diretto, concreto ed attuale di
cui all’art. 22,
comma 1, lett. b), l. n. 241/1990, sia
quando, richiamando analoga disposizione
contenuta nel
regolamento comunale (art. 29) sottolinea la
mancanza degli elementi che non ne
consentirebbero la
individuazione (che, al contrario, sembrano
sussistere) e la mancanza dell’eventuale
specificazione
dell’interesse connesso (anche questo
sufficientemente espresso, e comunque
ulteriormente chiarito
con e-mail del 19.05.2011, allegata agli
atti).
L’istanza di accesso andrebbe pertanto
accolta
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Accesso a documenti contabili del
Comune da parte dei consiglieri comunali.
Il Comune in indirizzo chiede a questa
Commissione di formulare il proprio parere
in ordine
alla richiesta di accesso di alcuni
consiglieri di minoranza ad una serie di
documenti contabili
(impegni di spesa, fatture, richieste di
pagamento, ecc) relativi a documentazione
ricevuta in seguito
alle ultime interpellanze consiliari dalla
quale si evincerebbe un grave deficit
finanziario.
Il Comune
chiede se l’istanza, nei modi come
formulata, possa essere utilmente evasa,
entro quali termini e con
quali modalità considerata
l’indeterminatezza e genericità della
stessa; chiede, inoltre, se:
1. i consiglieri comunali sono tenuti o meno
al segreto nei casi specificati dalla legge;
2. l’amministrazione abbia l’obbligo o meno
di valutare l’estensione dell’istanza al
fine
di verificare se sia o meno capace di
“paralizzare” l’attività dell’ufficio che
detiene i documenti;
3. la richiesta di rilascio copie possa
essere generica e indiscriminata.
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di
informazione” dei consiglieri comunali nei
confronti
della P.A. trovano la loro disciplina
specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000
(TU degli Enti
locali) che riconosce ai consiglieri
comunali e provinciali il “diritto di
ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le
notizie e le informazioni in loro possesso,
utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince
il riconoscimento in capo al consigliere
comunale
di un diritto dai confini più ampi sia del
diritto di accesso ai documenti
amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di
residenza (art. 10, T.U. enti locali) sia,
più in generale, nei
confronti della P.A. quale disciplinato
dalla l. n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza
di
legittimazione è riconosciuta in ragione del
particolare munus espletato dal consigliere
comunale,
affinché questi possa valutare con piena
cognizione di causa la correttezza e
l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, onde poter esprimere
un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza
della P.A., opportunamente considerando il
ruolo di garanzia democratica e la funzione
pubblicistica da questi esercitata (a
maggior ragione, per ovvie considerazioni,
qualora il consigliere
comunale appartenga alla minoranza,
istituzionalmente deputata allo svolgimento
di compiti di
controllo e verifica dell’operato della
maggioranza).
A tal proposito, il Giudice
amministrativo
individua la situazione giuridica in capo ai
consiglieri comunali con l’espressione
“diritto soggettivo
pubblico funzionalizzato”, vale a dire un
diritto che “implica l’esercizio di facoltà
finalizzate al
pieno ed effettivo svolgimento delle
funzioni assegnate direttamente al consiglio
comunale”.
A tal fine il consigliere comunale non deve
motivare la propria richiesta di
informazioni,
poiché, diversamente opinando, la P.A. si
ergerebbe ad arbitro delle forme di
esercizio delle potestà
pubblicistiche dell’organo deputato
all’individuazione ed al perseguimento dei
fini collettivi.
Ogni limitazione all’esercizio del diritto
sancito dall’art. 43, TUEL interferisce
inevitabilmente con la potestà istituzionale
del consigliere comunale di sindacare la
gestione
dell’ente, onde assicurare –in uno con la
trasparenza e la piena democraticità– anche
il buon
andamento. Evidentemente, il diritto di
accesso non può essere garantito
nell’immediatezza in tutti i
casi, e, dunque, rientrerà nella facoltà del
responsabile del procedimento dilazionare
opportunamente nel tempo il rilascio delle
copie richieste, al fine di contemperare
tale adempimento
straordinario con l’esigenza di assicurare
l’adempimento dell’attività ordinaria,
concedendo
ovviamente, nel frattempo, la facoltà di
prendere visione di quanto richiesto negli
orari stabiliti
presso gli uffici comunali.
Detto del diritto di accesso dei consiglieri
comunali così come configurato dalla
giurisprudenza alla luce dell’art. 43, TUEL,
e ritenuto che la domanda dei consiglieri di
minoranza
in questione sia sufficientemente
determinata e non generica, si risponde agli
ulteriori quesiti posti
dal Comune di Castelfranci:
1. i consiglieri comunali sono tenuti a
preservare la riservatezza del contenuto dei
documenti acceduti e rispondono verso i
terzi del pregiudizio arrecato dalla loro
illegittima
divulgazione;
2. l’amministrazione non può sindacare la
richiesta di accesso dei consiglieri
comunali
sotto nessun profilo, nemmeno quello della
sua estensione – ma può modulare il suo
adempimento
nel tempo al fine di evitare la paralisi
dell’ordinaria attività amministrativa;
3. la richiesta di accesso non può mai
essere generica ed indiscriminata
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: diritto di accesso dei consiglieri
comunali. Modifiche al Regolamento del
Comune di
Teverola (Ce). Richiesta parere.
Il Ministero dell’Interno, in seguito ad una
nota inviata dal sindaco del Comune di
Teverola,
chiede un parere in ordine alle modifiche e
integrazioni che il Consiglio comunale
intende apportare
al Regolamento sull’accesso dei consiglieri
comunali, prevedendo, in particolare, di:
1) escludere le richieste di accesso dei
consiglieri che rappresentino reiterazione
di altre
già presentate;
2) prolungare il termine per concedere la
visione e il rilascio di copie degli atti da
3 a 7
gg.;
3) ammettere all’accesso solo il capogruppo
e non i singoli consiglieri che fanno parte
del
gruppo;
4) organizzare nell’ufficio di segreteria
gli spazi necessari per la visione e il
rilascio di
copia degli atti.
Al riguardo, la Commissione rappresenta che:
●
quanto ai quesiti sub 1) e sub 3) -da
esaminare congiuntamente inerendo a connesse
problematiche- non potrebbe negarsi al
singolo consigliere comunale di ottenere
informazioni o atti
detenuti dall'amministrazione comunale,
anche quando la richiesta di accesso sia
analoga a quella
presentata da altri consiglieri comunali del
gruppo, in quanto la prerogativa è
riconosciuta al singolo
rappresentante politico in funzione dello
svolgimento del proprio mandato.
Tuttavia,
la reiterazione
di istanze di accesso da parte dei medesimi
consiglieri in assenza di elementi di novità
potrebbe
costituire un abuso del diritto
all’informazione, un abuso del diritto,
permanendo l'esigenza che le
istanze di accesso non abbiano carattere
emulativo e non aggravino eccessivamente,
superando i
limiti della proporzionalità e della
ragionevolezza, la corretta funzionalità
dell'amministrazione
comunale (arg. ex Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.09.2005, n. 4471);
●
quanto al quesito sub 2), l’ampliamento del
termine per evadere la richiesta di accesso
(da 3
a 7 gg.), seppur complessivamente contenuto
sotto il profilo temporale, potrebbe
comunque
determinare il rischio di concreta
soppressione delle prerogative del
consigliere nei casi di
procedimenti urgenti o che richiedano
l’espletamento delle funzioni politiche
entro un termine
inferiore a quello previsto.
Onde
scongiurare tale pericolo, è necessario che
l’ente garantisca
l’accesso al consigliere comunale
nell’immediatezza e in ogni caso nei tempi
più celeri e
ragionevoli possibili. Nel caso in cui
l’accesso non possa essere garantito subito
(per eccessiva
gravosità della richiesta), rientrerà nelle
facoltà del responsabile del procedimento
dilazionare
opportunamente nel tempo il rilascio delle
copie, ferma restando la facoltà del
consigliere comunale
di prendere visione, nel frattempo, di
quanto richiesto negli orari stabiliti
presso gli uffici comunali
competenti, anche con mezzi informatici;
●
quanto al quesito sub 4), l’individuazione
di spazi presso la segreteria dell’ente
civico, da
destinare alla presa visione e/o al rilascio
di copie di atti, appare una misura
organizzativa, tra le
altre possibili in astratto, pienamente
compatibile con il regime di accesso dei
consiglieri comunali
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri
comunali. Modifiche al Regolamento del
Comune di Parabita (Le). Richiesta parere.
Il Ministero dell’Interno, a seguito di una
nota inviata da un consigliere del Comune di
Parabita, chiede un parere in ordine alle
modifiche e integrazioni che il Consiglio
comunale intende
apportare al Regolamento approvato con
deliberazione n. 69 del 30.06.1992,
stabilendo, in
particolare, che è escluso l’accesso “agli
atti non ancora emanati al momento della
richiesta” (art.
5, comma 3); che il responsabile del settore
ha facoltà di differire l’accesso agli atti
legali o tecnici
afferenti liti in potenza o in atto (art 6
comma 4) e che i consiglieri possono
prendere visione di tutti
gli atti per soli due giorni settimanali ed
in determinate fasce orarie (art. 9).
In merito alle segnalazioni ed osservazioni
del Ministero istante, la Commissione
rappresenta che:
sub 1) non v’è alcuna valida ragione per
limitare il diritto di accesso dei
consiglieri comunali
in quanto l’ampiezza di tale diritto, come
riconosciuto dall’art 43 TUEL, determina, di
riflesso, che
possa in astratto indirizzarsi, oltre che
verso qualsiasi “notizia” o “informazione”,
anche verso tutti
gli atti non ancora formalmente emanati,
ricomprendendo gli atti preparatori,
relazioni o pareri
informali anche se non hanno una autonoma
rilevanza, estendendo tale diritto anche a
bozze o a
brogliacci (in questo senso, cfr., da
ultimo, parere Commissione 20.04.2009);
sub 2) non appare legittimo il differimento
dell’accesso agli atti legali o tecnici
afferenti liti
in potenza o in atto perché il potere di
differimento previsto dalla generale
disciplina della legge n.
241/1990 (art. 24) e del DPR n 184/2006 (art.
9) risulta incompatibile con l’ampio e
speciale diritto
di accesso dei consiglieri comunali ex art.
43 TUEL, in quanto per regola l’accesso dei
consiglieri
comunali non tollera limiti.
Diversamente
opinando gli Uffici comunali potrebbero
sindacare il
nesso intercorrente tra l’oggetto delle
richieste di informazioni avanzate da un
Consigliere
comunale e le modalità di esercizio del
munus da questi espletato, in tal modo
pregiudicando la
cura di un interesse pubblico connesso al
mandato conferito. Restano ovviamente salve
le
eccezionali ipotesi in cui l’accesso sia
piegato ad esigenze meramente personali, al
perseguimento
di finalità emulative o che comunque
aggravino eccessivamente, al di là dei
limiti di proporzionalità
e ragionevolezza, la corretta funzionalità
amministrativa;
sub 3) la limitazione dell’orario d’accesso
agli uffici non lede di per sé le
prerogative del
consigliere comunale, dal momento che il
diritto ad ottenere i documenti
amministrativi e le notizie
richieste non comporta anche quello di
disporre senza limiti del tempo del
personale degli uffici.
Quindi, la disposizione non sembra contenere
irregolarità sembrando ispirata all’esigenza
di
evitare ritardi e disservizi nell’ordinaria
attività amministrativa. Tuttavia, resta
ferma la necessità
che l’accesso sia consentito nei tempi più
celeri e ragionevoli possibili in modo tale
da consentire il
concreto espletamento del mandato, come nei
casi di discussioni politiche o procedimenti
amministrativi urgenti o in corso
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: accesso dei consiglieri comunali
all’albo pretorio on-line.
Con nota del 09.05.2011 il segretario
comunale di Castelgrande, premesso che
l’attuale
art. 32 della legge n. 69/2009 ha disposto
che le pubblicazioni effettuate su carta non
hanno più
valore legale e che di conseguenza tutte le
delibere e tutte le determine dei
responsabili di servizio
di tale Comune vengono pubblicate e
mantenute in un apposito albo pretorio on-line, ha chiesto di
conoscere se il regolamento comunale
sull’accesso ai documenti amministrativi
possa prevedere
che gli interessati all’accesso, ed in
particolare i consiglieri comunali, non
possano più richiedere
copia cartacea di quanto pubblicato nel
suddetto albo.
Al riguardo la Commissione esprime il parere
che, in linea di massima, al quesito debba
essere data una risposta negativa, sia
perché l’esercizio del diritto d’accesso non
ha alcun rapporto
con il valore legale del documento al quale
si chiede di accedere sia perché non tutti
possono essere
in grado di connettersi con la rete comunale
e di navigare in essa; sicché il mancato
rilascio della
chiesta copia cartacea potrebbe costituire
una discriminazione dei soggetti privi di
adeguata cultura
informatica, con conseguente lesione sia del
principio generale di uguaglianza sia dello
specifico
diritto d’accesso, che pure attiene a quelle
prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che devono
essere garantiti a tutti i cittadini e su
tutto il territorio nazionale.
Va però considerato che il citato art. 32 fa
parte del pacchetto delle misure adottate
dal
legislatore per comprimere le spese
correnti, finalità che com’è noto rientra
tra le esigenze generali
prioritarie della politica economica
finanziaria nazionale. Ora tali esigenze non
vengono
compromesse qualora le copie in forma
cartacea (quelle rilasciate per e-mail sono
praticamente a
costo zero e quindi gratuite) siano
richieste da privati cittadini, dal momento
che in tal caso
l’accesso è subordinato ad un sia pur
limitato onere finanziario; possono però
essere compromesse
nel caso in cui consiglieri comunali
avanzino richieste generalizzate, o comunque
di dimensioni
manifestamente esorbitanti, di copie in
forma cartacea, con conseguente
ingiustificato aggravio
economico ed operativo per il Comune; e
pongano così in essere comportamenti non
consoni ai
principi di leale cooperazione tra gli
uffici dell’amministrazione e che pertanto
potrebbero formare
oggetto di segnalazione alle competenti
autorità giudiziarie ed amministrative.
Attesa peraltro la
difficoltà, nell’attuale stato della
legislazione, di introdurre in via
regolamentare precisi limiti al
diritto d’accesso dei consiglieri comunali,
si esprime l’avviso che l’indicata esigenza
economica
finanziaria possa essere in concreto
soddisfatta solo praeter legem, e cioè
mediante intese con i cui i
gruppi consiliari concordino
responsabilmente un atteggiamento comune in
materia, al fine di
evitare inutili sprechi delle risorse
disponibili.
Un accordo del genere potrebbe
essere facilitato se
una copia di tutte le delibere e di tutte le
determine comunali venisse depositata presso
il consiglio
comunale, a libera consultazione da parte di
tutti i suoi componenti
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Accesso a documentazione relativa a
domanda di riconoscimento di infermità
dipendente da causa di servizio.
Il Sig. ... ha presentato al
Comando Legione CC. Lazio-S.M. Ufficio
Personale in
data 15.02.2010 richiesta di estrazione di
copia della intera documentazione relativa
alla domanda
di riconoscimento di infermità dipendente da
causa di servizio. L’Amministrazione
rispondeva in
data 18.11.2010 di aver inoltrato la
richiesta all’Ufficio competente, ma da quel
giorno l’interessato
non ha ricevuto alcuna comunicazione.
In ordine al silenzio osservato
dall’Amministrazione, il Sig.
... chiede parere a
questa Commissione invitandola ad assumere
le conseguenti determinazioni, dandone
comunicazione all’Ufficio interessato.
Ritiene questa Commissione che
l’Amministrazione adita non abbia alcun
motivo giuridico
per ritardare o tanto più negare l’accesso
alla documentazione oggetto dell’istanza del
Sig. ..., avendo egli un interesse
diretto, concreto ed attuale (art. 22, comma
1, lett. b, l. n.
241/1990) ad acquisire copia di
documentazione relativa ad una pratica
avviata con domanda del
medesimo attinente a procedimento
concernente uno stato di salute di rilievo
assolutamente
personale.
Quanto alle determinazioni conseguenti al
parere in tali termini espresso, si
sottolinea come
questa Commissione non ha poteri per
renderlo effettivo ed esecutivo nei
confronti
dell’Amministrazione ma solo di comunicarlo
per l’ulteriore corso che la stessa
Amministrazione
vorrà discrezionalmente dargli
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Richiesta parere in ordine a
domanda di accesso a documentazione relativa
a
corso (di brand developer) finanziato con
fondi europei.
Il Dr. ..., avendo preso
parte ad un corso di “brand developer”
finanziato dal
Fondo sociale europeo, in data 21.02.2011 chiedeva alla Provincia di Ancona di
poter
accedere a documentazione relativa a sé
medesimo ed altri partecipanti. In sede di
accesso i documenti contenenti i dati di
terze persone venivano oscurati. Contro tale
diniego il ...
presentava ricorso alla Commissione che si
pronunciava nella seduta del 10.05.2011
dichiarando la propria incompetenza (in
quanto atto di ente locale) e di conseguenza
l’inammissibilità dello stesso.
Il Dr. ... sottopone ora a
questa Commissione, per acquisirne parere,
la legittimità
dell’operato dell’Amministrazione che aveva
subordinato il rilascio della documentazione
richiesta
alla previa comunicazione dell’istanza di
accesso ai controinteressati (gli altri
corsisti) ai sensi
dell’art. 3, comma 1, d.p.r. n. 184/20006.
Sostiene il ... che
l’Amministrazione avrebbe dovuto accogliere
la sua domanda
senza subordinarla alla previa comunicazione
agli altri corsisti, in quanto solo in
questo modo la
tutela della riservatezza avrebbe operato
non in maniera discriminata, e cioè solo a
vantaggio dei
terzi e non anche nei suoi confronti, atteso
che sarebbe stato costretto a rivelare il
proprio
nominativo ai propri colleghi di corso
incidendo negativamente sul piano
relazionale.
Il quesito che viene sottoposto alla
Commissione non è nuovo e su di esso si è
già formata
una consolidata giurisprudenza. Si tratta
della questione relativa all’operatività
dell’obbligo della
comunicazione ai terzi interessati (ex art.
3, comma 1, d.p.r. n. 184/2006) della domanda
di accesso a
documenti (verbali, elaborati, ecc.)
attinenti corsi e/o concorsi i cui
partecipanti sono sottoposti ad
una valutazione comparativa.
L’orientamento del giudice amministrativo in
materia di accesso nell’ambito di procedure
concorsuali (cui ha aderito questa
Commissione, v. pareri del 12.03 e del
16.12.2008) è nel senso
che deve essere esclusa in radice l’esigenza
di riservatezza a tutela dei terzi
relativamente ai
documenti prodotti dai candidati, ai
verbali, alle schede di valutazione e agli
elaborati (cfr., TAR
Lazio, Roma, sez. III, 08.07.2008 n. 6450;
TAR Campania, Napoli, se. V, 12.09 2007 n.
7538; Cons.
Stato, se. VI, 11.02.1997 n 260), in quanto
i concorrenti, nel partecipare ad una
competizione per
propria natura di carattere comparativo,
accettano l’uscita di tali atti dalla
propria sfera personale e
la loro acquisizione alla procedura e,
pertanto, ai fini della domanda di accesso,
non assumono, ai
sensi dell’art. 22, comma 1, lett. c, l. n.
241/1990, la veste di controinteressati in
senso tecnico.
La condizione posta dall’Amministrazione è
conseguentemente illegittima e il Dr. ... ha diritto all’accesso
alla documentazione richiesta senza la
previa comunicazione
della sua istanza agli altri corsisti
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Accesso a “permessi a costruire”.
L’ing. ..., unitamente agli
Ing. ... e
..., hanno chiesto in data
26.01.2011 al Comune di Mottola (TA) di
prendere visione di alcuni “permessi a
costruire” con
relativi elaborati rilasciati dal
Responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale.
Con nota del 24.02.2011 il Responsabile
dell’Ufficio ha negato l’accesso agli atti
per
l’opposizione dei controinteressati ai quali
in data 03.02.2011 aveva comunicato la
presentazione
dell’istanza in questione: Il diniego viene
giustificato dall’assenza in capo ai
richiedenti di un
interesse diretto, concreto ed attuale
richiesto quale requisito legittimante
l’accesso dall’art. 22,
comma 1, lett. b), l. n. 241/1990.
Gli interessati con nota pervenuta a questa
Commissione il 16.05.2011 propongono ricorso
avverso il diniego opposto
dall’amministrazione comunale di Mottola e
nel caso in cui fosse
decorso il termine ne chiedono il parere.
Il termine di trenta giorni decorrenti dalla
piena conoscenza del provvedimento negativo
per
proporre ricorso avverso il diniego del
Comune di Mottola comunicato con nota del
24.02.2011 è
effettivamente scaduto (art. 25, comma 4, l.
n. 241/1990 e art. 12, comma 2, d.p.r. n.
184/2006), per
cui questa Commissione, così come richiesto
dagli istanti, può procedere solo ad
esprimere in
merito il proprio parere. E questo, alla
luce della consolidata giurisprudenza del
giudice
amministrativo e di questa stessa
Commissione, non può che essere di
accoglimento della domanda
di accesso in oggetto.
Infatti, il diritto di accesso agli atti
degli enti locali del cittadino-residente ex
art 10, co. 1,
TUEL non è condizionato, diversamente a
quanto l’art. 22, comma 1, lett. b, legge n.
241/1990
prescrive per l’accesso ai documenti di
amministrazioni centrali dello Stato, alla
titolarità in capo al
soggetto accedente di una situazione
giuridica differenziata, atteso che
l’esercizio di tale diritto è
equiparabile all’attivazione di un’azione
popolare finalizzata ad una più efficace e
diretta
partecipazione del cittadino all’attività
amministrativa dell’ente locale e alla
realizzazione di un più
immanente controllo sulla legalità
dell’azione amministrativa. Di conseguenza,
a nulla può valere
l’opposizione manifestata dai
controinteressati, imperniata su
disposizioni normative che non si
applicano nella fattispecie (cfr., parere
del 31.05.2011).
Nel caso in cui l’istanza
provenisse da
cittadino non residente, con conseguente
applicazione della disciplina ex lege n
241/1990 -fermo
restando l’obbligo di valutare di volta in
volta i motivi di opposizione- prevarrà
comunque il diritto
di accesso rispetto alla riservatezza,
qualora il diritto di accesso è esercitato
per la cura o la difesa di
un interesse giuridico, fermi restando i
limiti previsti dall’art 24, co. 7, della
legge n. 241/1990
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Istanza di accesso alle delibere di
Consiglio comunale decorso il periodo di
pubblicazione di cittadino non residente.
Il Comune di Monterosso al Mare ha chiesto
parere a questa Commissione su un’istanza di
accesso del Sig. M.E ad alcune delibere
adottate nella seduta del Consiglio comunale
del
29.09.2010.
Poiché l’istante è titolare di
beni immobili nel territorio comunale ma non
cittadino
residente, l’autorità comunale ha chiesto
all’accedente di motivare più specificamente
i motivi della
sua richiesta sotto il profilo della
titolarità di un interesse diretto, concreto
ed attuale ai sensi
dell’art. 22, comma 1, lett. b), della l.n.
241/1990 e s.m.i..
Il Sig. M.E. ha riproposto formale richiesta
di accesso motivandola come segue:
1 – delibera n. 23/2010: poiché lo scrivente
risulta essere contribuente comunale per
quanto
riguarda il versamento dei tributi relativi
ai rifiuti solidi urbani, credo che sia
lecito essere a
conoscenza dei tempi e ragione sociale delle
aziende che forniscono tale servizio e
concorrono
quindi a determinare l’ammontare dei tributi
pagati dallo scrivente;
2 – delibera n. 24-25-26/2010: in qualità di
regolare contribuente che con i propri
versamenti (vedi ICI) concorre alla
formazione del bilancio comunale credo sia
lecito essere a
conoscenza di come la A.C. impiega il denaro
pubblico (e quindi anche quello dello
scrivente)
acquistando ad esempio beni immobiliari e
concorrendo ad interessare direttamente il
bilancio
comunale e le sue variazioni/equilibri;
3 – delibera n. 27/2010: credo sia lecito da
parte di ogni cittadino conoscere i
regolamenti
comunali già al momento della loro
approvazione proprio per snellire e favorire
il conseguente
funzionamento degli uffici pubblici;
4 – delibera n. 29/2010: in qualità di
cittadino che paga regolarmente le cartelle
relative
alla fornitura di acqua potabile e relative
al collegato servizio di depurazione acque
credo sia
perfettamente lecito poter visionare la
delibera che tratta lo statuto della società
pubblica ACAM
che fornisce detti servizi sul territorio
comunale.
Le motivazioni del Sig. M.E. sono state
ritenute dal Comune di Monterosso al Mare
generiche e prive della dimostrazione di un
interesse diretto e concreto giuridicamente
tutelato.
La Prefettura di La Spezia, intervenuta
sulla vicenda con nota del 01.02.2011, dopo
aver
chiesto chiarimenti all’autorità comunale,
ha suggerito, facendo leva su precedenti
giurisprudenziali
del giudice amministrativo, di riconsiderare
l’istanza di accesso in questione. Da qui la
richiesta di
parere alla Commissione per l’accesso.
Per quanto riguarda la legittimazione
all’accesso agli atti adottati da enti
locali,
correttamente il Comune di Monterosso al
Mare (SP) richiama il principio del “doppio
regime”,
distinguendo, in linea con la consolidata
giurisprudenza di questa Commissione, la
diversa
posizione dei cittadini residenti e non.
Per
i primi, cittadini residenti (siano essi
persone fisiche,
associazioni o persone giuridiche), il
principio fondamentale che informa
l’orientamento
consolidato della Commissione
sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è
quello di “specialità”: si
ritiene cioè che il legislatore abbia
adottato una disciplina specifica per gli
enti locali versata nel
TUEL approvato con il d.lgs. n. 267/2000.
Tale specialità comporta, in linea generale,
che le norme
contenute nella l.n. 241/1990 si applicano
al TUEL solo in via suppletiva, ove
necessario, e nei
limiti in cui siano con esso compatibili. E
mentre, per l’accesso agli atti di
amministrazioni centrali
dello Stato (e sue articolazioni
periferiche) l’art. 22, comma 1, lett. b),
l.n. 241/1990 prevede che la
legittimazione all’accesso spetti soltanto
ai soggetti titolari di un “interesse
diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione
tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto
l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non
stabilisce invece alcuna restrizione e si
limita a prevedere
l’esistenza di un’area di atti (non
precisata) il cui accesso o è assolutamente
precluso per legge o è differibile (tale
essendo l’effetto pratico della necessaria
dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti
da un apposito regolamento, a tutela della
riservatezza.
Secondo la Commissione i
diversi contenuti
delle due disposizioni citate caratterizzano
la specificità del diritto di accesso dei
cittadini comunali
configurandolo alla stregua di un’azione
popolare che non deve essere accompagnata né
dalla
titolarità di una situazione giuridicamente
rilevante né da un’adeguata motivazione.
La mancanza del requisito della residenza
nel soggetto interessato all’accesso a
documenti
adottati da amministrazioni locali impedisce
l’applicazione della più favorevole
disposizione
dell’art. 10, TUEL, facendo rivivere
l’operatività dei presupposti stabiliti dal
richiamato art. 22,
comma 1, lett. b), della l.n. 241/1990 e
s.m.i..
E’ dunque alla luce dell’esistenza in capo
al Sig. M.E. di un interesse diretto,
concreto ed
attuale che deve essere valutata
l’ammissibilità della sua istanza in
riferimento alla tipologia dei
singoli atti richiesti.
Secondo la consolidata giurisprudenza del
giudice amministrativo, correttamente citata
nella
nota della Prefettura di La Spezia, <<…ai
fini della sussistenza del presupposto
legittimante per
l’esercizio del diritto di accesso deve
esistere un interesse giuridicamente
rilevante del soggetto che
richiede l’accesso, non necessariamente
consistente in un interesse legittimo o in
un diritto
soggettivo, ma comunque giuridicamente
tutelato, non potendo identificarsi con il
generico ed
indistinto interesse di ogni cittadino al
buon andamento della attività
amministrativa, ed un
rapporto di strumentalità tra tale interesse
e la documentazione di cui si chiede
l’ostensione.>>
Nella fattispecie, per fare alcuni esempi,
si potrebbe configurare un interesse
diretto,
concreto ed attuale, correlato al diritto di
proprietà su immobili insistenti sul
territorio comunale, nei
casi in cui un atto dell’Ente incidesse su
tale diritto (provvedimento di variazione
urbanistica o
edilizia, rilascio di permesso di costruire
su un terreno limitrofo, ecc.) e, in
riferimento alla
posizione di contribuente (requisito
soggettivo rivendicato a sostegno della
domanda di accesso),
nei casi di provvedimento che influisse
sullo specifico rapporto tributario connesso
al possesso del
bene immobile o di istanze aventi ad oggetto
(per citare fattispecie ricorrente nei
pareri di questa
Commissione) l’accesso all’elenco dei
contribuenti (senza che venga peraltro
pregiudicato il diritto
alla riservatezza).
Nessuna di tali ipotesi
ricorre nella specie per cui l’interesse del
Sig. M.E.
sottostante alla sua domanda di accesso. non
perde il carattere di genericità che ne
impedisce
l’ammissibilità. Diversamente opinando si
avallerebbe l’equiparazione del titolare di
un diritto di
proprietà immobiliare al cittadino
residente, eludendo il dettato normativo
così come ritenuto
operativo dalla consolidata giurisprudenza.
Non vi è nessun motivo giuridico di opporsi
alla richiesta di accesso al Regolamento
comunale -come anche segnalato dalla
Prefettura nella citata nota– atto generale
la cui conoscenza
costituisce diritto di ogni cittadino. Ma
alla pubblicità di tale atto, così come
delle delibere
comunali, il Comune di Monterosso ha già
provveduto rendendo operativo, dal
01.01.2011, il sito
istituzionale informatico in ossequio anche
alle disposizioni introdotte dall’art. 32,
l.n. 69/2009
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Parere su regolamento di accesso da
parte dei consiglieri comunali a documenti
amministrativi.
Un consigliere comunale ha rappresentato che
l’ente civico, nel rielaborare la bozza di
regolamento comunale per l’esercizio
dell’accesso dei consiglieri comunali, a suo
tempo inviata dal
Comune, non si era attenuto alle modifiche
suggerite dalla Commissione. Pertanto, ha
chiesto alla
Commissione di esprimere una valutazione sui
punti della bozza regolamentare contrarie ai
principi
di trasparenza dell’ente.
La Commissione, prima di esprimere qualsiasi
giudizio, ritiene opportuno attendere che il
Comune si pronunci con formale proposta di
delibera sulle modifiche suggerite da questa
Commissione, tenuto anche conto
dell’impossibilità di evincere dalla bozza
allegata dall’istante
quali sarebbero gli specifici punti del
regolamento oggetto delle lamentele
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Parere su modifica regolamentare
del diritto di accesso da parte dei
consiglieri
comunali.
L’istante ha chiesto il parere di questa
Commissione in ordine alla legittimità della
modifica
apportata dalla maggioranza consiliare al
regolamento per il funzionamento del
Consiglio
Comunale nella parte in cui sopprime il
limite di 30 gg. entro cui rispondere ad
interrogazioni ed
interpellanze con risposta in Consiglio
Comunale ex art. 43, comma 3, TUEL.
La Commissione, pur comprendendo la
delicatezza ed importanza della questione
prospettata, che inerisce allo svolgimento
del potere di controllo del consiglio -esercitato dai
consiglieri comunali attraverso vari mezzi,
quali le interrogazioni, le interpellanze e
le semplici
domande- osserva che la questione proposta
non riguarda l’esercizio del diritto di
accesso dei
consiglieri comunali né l’interpretazione
della relativa disciplina contenuta nell’art.
43, comma 2,
TUEL, vertendo invece sul diritto dei
consiglieri, nell’esercizio del sindacato
ispettivo, ad ottenere
entro 30 gg. risposta alle interrogazioni e
ad ogni altra istanza rivolta al sindaco o
al presidente della
provincia o agli assessori.
Alla stregua di quanto sopra esposto, tenuto
conto degli ambiti di competenza attribuiti
dall’art. 11 del DPR n 184/2006 la
Commissione non può esprimersi sul quesito
di cui in premessa (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Richiesta di parere in tema di
estensione e limiti del diritto di accesso
ai
documenti da parte dei consiglieri
provinciali.
Viene chiesto a questa Commissione di
esprimere parere in ordine alla estensione e
ai limiti
del segreto che i consiglieri della
provincia autonoma di Bolzano sono tenuti ad
osservare
relativamente a documenti ai quali hanno
avuto accesso in funzione del mandato
elettivo, ed in
particolare a contratti (conclusi tra
Società Elettrica Altoatesina ed Enel o
Edison) che tuttavia
contengono clausole di riservatezza fra le
parti contraenti.
L’art. 43, co. 2, Tuel nel disporre che i
consiglieri comunali e provinciali sono
tenuti al
segreto nei casi espressamente stabiliti
dalla legge, intende ribadire la regola
secondo cui,
lecitamente acquisite le informazioni e le
notizie utili all'espletamento del mandato
consiliare, il
consigliere è tenuto a preservare la
riservatezza del contenuto dei documenti
acceduti assumendosi
la personale responsabilità del pregiudizio
eventualmente arrecato a terzi della loro
divulgazione
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Consigliere comunale: accesso a
pareri legali: divieto - limiti.
Con e-mail del 29.04.2011 la Sig.ra
..., consigliere
comunale di minoranza del Comune di Trebaseleghe, ha comunicato a questa
Commissione:
- di aver chiesto l’accesso al parere legale
rilasciato al progettista del piano comunale
degli interventi per la regolamentazione del
biogas, parere che in consiglio comunale il
sindaco aveva letto solo parzialmente;
- di averne ricevuto un rifiuto dal
responsabile del settore, su conforme avviso
del progettista, sia perché il consigliere
comunale di minoranza non sarebbe
legittimato ad accedere ad un parere legale
rilasciato al sindaco sia perché “in caso
contrario verrebbe violato il segreto
professionale del legale e la stessa privacy
dell’organo decidente che deve restare
libero nell’acquisizione dei pareri che
ritiene necessari per la formazione di una
propria corretta volontà”.
A sostegno di
tale assunto l’Amministrazione ricorda che è
indirizzo del Consiglio di Stato (Sez. V, 02.04.2001 n. 1893) e di questa Commissione
che i pareri legali sono accessibili solo se
versati in atti di un giudizio o citati a
sostegno dei provvedimenti adottati dal
soggetto che li ha richiesti: condizioni che
non ricorrerebbero nel caso in esame.
Al riguardo la Commissione osserva quando
segue:
●
In primo luogo va ricordato che tutti
consiglieri comunali hanno gli stessi poteri
di accesso ai documenti amministrativi ed
alle notizie in possesso degli uffici
comunali e devono fruire di un’identica
collaborazione da parte di tali uffici.
Pertanto è palesemente illegittimo
discriminare i consiglieri comunali a
seconda che siano di maggioranza o di
minoranza.
●
In secondo luogo la citata giurisprudenza è
inconferente, dal momento che nel caso in
esame, in concreto, non si ravvisa alcun
segreto professionale da tutelare. Infatti,
il progettista non può invocare alcun
segreto professionale, dal momento che ha
spontaneamente trasmesso al Comune il parere
legale in questione, mettendolo così a piena
e insindacabile disposizione dei competenti
uffici del Comune e –di conseguenza– a
disposizione di tutti indistintamente i
consiglieri comunali eventualmente
interessati.
E l’Amministrazione comunale
dal canto suo non può ignorare che in
consiglio comunale il sindaco ha letto –sia
pure parzialmente- il testo dell’indicato
parere legale, facendone così un documento
progettuale e riconoscendo in tal modo il
carattere non segreto di tale documento.
D’altronde una volta che il sindaco aveva
ritenuto necessario sottoporre -sia pure
parzialmente- alla valutazione del
consiglio comunale il parere in questione
quest’ultimo doveva ritenersi accessibile
nella sua totalità da qualsiasi consigliere
comunale, dal momento che un parere legale
va valutato nella sua totalità e non sulla
sola base di una sua parte che, isolatamente
considerata, potrebbe non rispecchiare con
esattezza il pensiero dell’esperto che il
parere ha rilasciato.
Si esprime pertanto il parere che la domanda
d’accesso del consigliere debba essere
accolta
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 31.05.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Difensore Civico della Regione
Liguria: competenze.
Con nota del 18.04.2011 n. PG/2011/54626
codesto Difensore Civico ha fatto presente:
- che un cittadino di Orero (Genova) ha
presentato una richiesta di accesso a
documenti amministrativi del proprio Comune;
- che sulla richiesta si è formato il
silenzio rifiuto;
- che, non essendo stato istituito il
difensore civico comunale, il cittadino ha
presentato ricorso al difensore civico
provinciale;
- che quest’ultimo ha peraltro declinato la
propria competenza in favore del difensore
civico regionale, atteso un accordo in tal
senso intervenuto nel 2006 tra la Regione
Liguria e il Comune di Orero;
- che, non condividendo tale declinatoria,
in quanto essa derogherebbe all’ordine
legale delle competenze stabilito in via
generale dal legislatore nazionale, codesto
Difensore Civico ha restituito gli atti al
difensore civico provinciale.
Sulla questione di competenza viene comunque
chiesto il parere di questa Commissione.
Al riguardo si osserva quanto segue.
Il suindicato accordo tra Regione Liguria e
Comune di Orero è intervenuto nel 2006 in
attuazione dell’art. 5, comma 6, della legge
regionale Liguria 05.08.1986 n. 17. Tale
articolo, come sostituito dall’art. 1 della
legge regionale 14.03.2000 n. 14,
dispone: “Previa specifica deliberazione
assunta dagli organi competenti dei Comuni,
delle Province, delle Comunità montane o
tramite convenzione con l’Ufficio di
Presidenza del Consiglio Regionale,
l’attività del Difensore Civico” (regionale)
“potrà riguardare anche le pratiche presso
gli enti suddetti”; ed al successivo comma 7
dispone: “E’ di competenza del Difensore
civico” (regionale) “l’intervento
sull’attività degli uffici:…e) degli enti
locali e di quelli destinatari di deleghe da
parte della Regione presso i quali non siano
operanti difensori civici”. Tra le
competenze attribuite al Difensore Civico
Regionale non figura quella di decidere
ricorsi in materia di diritto d’accesso.
Il citato accordo del 2006, all’art. 1,
prevede che le funzioni del Difensore Civico
“sono quelle disciplinate dall’art. 5 della
legge regionale 05.08.1986 n. 17,
modificato dalla legge regionale 14.03.2000 n. 14”, con conseguente implicita
esclusione del diritto d’accesso.
Infine la legge regionale 25.11.2009
n. 56, all’art. 25, dispone: “In caso di
diniego dell’accesso, espresso o tacito, o
di differimento dello stesso, si applicano
le disposizioni di cui all’art. 25, commi 4,
5, 5-bis e 6, della legge 241/1990 e
successive modifiche e integrazioni”; e
quindi recepisce espressamente anche la
disposizione dell’indicato comma 4 secondo
cui, qualora il difensore civico competente
per ambito territoriale non sia stato
istituito, “la competenza è assunta dal
difensore civico competente per l’ambito
territoriale immediatamente superiore”.
Ciò stante, in considerazione sia della non
menzione della materia dell’accesso tra
quelle oggetto dell’accordo del 2006 sia
dell’espresso rinvio alla disciplina della
legge 241/1990, deve ritenersi che la
competenza a decidere sul ricorso
amministrativo in questione sia
effettivamente del Difensore Civico
Provinciale
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 31.05.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Accesso: oneri per il rilascio dei
documenti amministrativi richiesti.
Con e-mail del 25 aprile scorso il Sig.
... ha chiesto di
conoscere quali oneri debba sostenere per
avere copie anche non conformi di un verbale
della polizia stradale relativo ad un
incidente stradale.
Al riguardo si fa presente che, ai sensi
degli artt. 25 della legge n. 241/1990 e 7,
comma 6, del dPR n. 184/2006, il rilascio di
copia è subordinato soltanto al rimborso del
costo di riproduzione del documento
richiesto, salvo il pagamento del bollo e
degli eventuali diritti di segreteria nel
caso di rilascio di copia autentica
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 31.05.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Accesso pratiche edilizie.
Il Comune istante, a seguito dell’incremento
delle istanze di accesso alle pratiche
edilizie da parte di cittadini che si
ritengono pregiudicati nei propri interessi
dai permessi edilizi, ha formulato a questa
Commissione una serie di quesiti, inerenti
ai presupposti e limiti del diritto di
accesso, onde verificare la correttezza
della procedura seguita. In particolare,
l’amministrazione ha chiesto di conoscere:
1) se i titolari della concessioni e i
progettisti siano qualificabili come
controinteressati;
2) se tutti gli elaborati progettuali
allegati alla pratica siano accessibili;
3) quali potrebbero essere i motivi di
opposizioni all’accesso;
4) se sia sufficiente, ai fini dell’accesso,
una presunta lesione degli interessi;
5) se un numero troppo ampio di richieste di
accesso si configuri quale controllo
generalizzato dell’operato della p.a.
Quanto al primo quesito, relativo alla
qualifica dei controinteressati, posto che
in linea generale la qualità di
controinteressato va individuata con
riferimento alla titolarità di un interesse
analogo e contrario a quello che legittima
l’accesso, senza dubbio sussiste un
interesse contrario all’accesso in capo ai
titolari della concessione edilizia ed anche
in capo ai progettisti, in considerazione
del pregiudizio derivante, ai primi, per la
loro proprietà (in termini di amenità,
visuale, privacy, ecc.) ed al secondo in
relazione all’interesse a che non venga
divulgata senza autorizzazione la
documentazione oggetto di prestazione
professionale, anche ai fini della tutela
apprestata dall’ordinamento al diritto di
autore.
Circa il secondo quesito, si rileva che
tutti gli elaborati progettuali allegati
alla pratica possono essere rilasciati in
copia, sia perché rientrano nell’amplissima
formulazione data dalla legge n. 241/1990
(art. 22, co. 1, lett. d) -comprendente ogni
rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di
qualunque altra specie, detenuta da una
Pubblica Amministrazione e relativa ad
attività di pubblico interesse- sia perché,
anche se opera di ingegno, si deve escludere
che il diritto d'autore ne impedisca
l'accesso ove siano strumentali alla tutela
di situazioni giuridicamente rilevanti (arg.
ex Cons. Stato, Sez. V, 10.01.2005 n. 34).
I restanti quesiti possono essere trattati
congiuntamente, presupponendo a monte la
definizione dei distinti regimi giuridici
dell’accesso. Come è noto, infatti, il
diritto di accesso agli atti degli enti
locali del cittadino-residente ex art. 10, co.
1, TUEL non è condizionato, diversamente a
quanto l’art. 22, comma 1, lett. b, legge n.
241/1990 prescrive per l’accesso ai documenti
di amministrazioni centrali dello Stato,
alla titolarità in capo al soggetto
accedente di una situazione giuridica
differenziata, atteso che l’esercizio di
tale diritto è equiparabile all’attivazione
di un’azione popolare finalizzata ad una più
efficace e diretta partecipazione del
cittadino all’attività amministrativa
dell’ente locale e alla realizzazione di un
più immanente controllo sulla legalità
dell’azione amministrativa.
Di conseguenza, quanto al terzo quesito -a
prescindere dalle singole motivazioni dei controinteressati, la cui valutazione deve
essere rimessa caso per caso alla
discrezionalità della p.a.- a nulla può
valere l’opposizione manifestata dal 184 del
2006, la cui applicazione anche all’ambito
delle autonomie locali finirebbe per operare
un’indebita compressione dei più ampi
diritti riconosciuti dalla disciplina
speciale in favore dei cittadini residenti
(cfr. altresì plenum 16.09.2008). Nel caso in
cui l’istanza provenisse da cittadino non
residente, con conseguente applicazione
della disciplina ex lege n 214/1990 -fermo
restando l’obbligo di valutare di volta in
volta i motivi di opposizione- prevarrà
comunque il diritto di accesso rispetto alla
riservatezza, qualora il diritto di accesso
è esercitato per la cura o la difesa di un
interesse giuridico, fermi restando i limiti
previsti dall’art. 24, co. 7, della legge n.
241/1990.
Circa il quarto quesito, relativo alla
sufficienza della presunta lesione degli
interessi invocati dall’accedente, si
osserva che: se l’istanza di accesso è stata
avanzata da cittadino non residente (ex lege
n 241/1990), il richiedente deve addurre la
sussistenza della titolarità di una
situazione giuridicamente rilevante e
sufficientemente qualificata rispetto a
quella del quisque de populo, senza che la
pa possa verificare l’effettiva lesione di
tali interessi giuridici posti a fondamento
dell’accesso.
Diversamente, nel caso di
accesso del cittadino residente ex art 10 TUEL, non si fa menzione alcuna della
necessità di dichiarare la sussistenza di
tale situazione al fine di poter valutare la
legittimazione all’accesso del richiedente,
con la conseguenza che la pa non potrà
utilizzare il “filtro” costituito dalla
titolarità di una situazione giuridicamente
rilevante (di cui, peraltro, nel caso di
specie non v’è dubbio sussistere, in quanto
si tratta di istanti risiedere nelle zone
confinanti).
Infine, circa il quinto quesito, se
l’accesso del cittadino residente ex art. 10 TUEL non pone le problematiche esposte
trattandosi di azione popolare, tuttavia è
ben possibile che l’accesso dal cittadino
non residente assuma la finalità di porre in
essere un controllo generalizzato
sull’operato dell’amministrazione comunale,
e ciò nei casi in cui la richiesta non sia
indirizzata a specifici documenti o riguardi
periodi di tempo non ragionevolmente
delimitati, ma non nell’ipotesi in cui le
pur reiterate richieste, riguardanti una
stessa materia o settore di attività
amministrativa individuino specifici
documenti accedenti ad altrettanto
specificate pratiche o fascicoli
amministrativi
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 31.05.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Prerogative consiglieri comunali.
Con nota del 30.03.2011 l’Avv.
..., consigliere comunale
di Fontegreca, ha
fatto presente a questa Commissione che, su
disposizione del sindaco:
1) il suo l’accesso ai documenti
amministrativi dell’ente è subordinato alla
presentazione di
una domanda scritta, a differenza di quanto
invece praticato nei confronti di tutti gli
altri consiglieri
comunali;
2) viene estromessa da ogni forma di
informazione riguardante la svolgimento dei
compiti
istituzionali connessi all’attività di
programmazione e gestione dell’ente;
3) le vengono preclusi l’accesso al
protocollo informatico dell’ente e la
possibilità di essere
tempestivamente informata dell’attività
dell’ente.
L’interessata chiede in proposito il parere
di questa Commissione.
Al riguardo si fa presente:
1) che l’amministrazione comunale deve
garantire a tutti indistintamente i
consiglieri parità
di condizioni di accesso e di informazione,
attesa la parità delle funzioni da ciascuno
di essi
esercitate. Eventuali disparità di
trattamento devono quindi ritenersi contra legem e possibile causa
di responsabilità;
2) che tutti gli atti formati o detenuti
dagli uffici comunali sono accessibili dal
consigliere
comunale, senza alcuna distinzione di
settore o di materia, con la sola eccezione
di quelli di natura
strettamente personale e non utilizzati
nell’attività amministrativa;
3) che il consigliere comunale ha diritto di
accedere sia al protocollo informatico ed
all’archivio informatico sia all’archivio
cartaceo del Comune;
3) che il consigliere comunale ha pertanto
il diritto di ottenere dagli uffici del
Comune tutti i
documenti amministrativi e tutte le
informazioni da lui ritenute utili per
l’espletamento del proprio
mandato che non possa agevolmente ottenere
direttamente in via informatica,
eventualmente
avvalendosi della collaborazione degli
uffici stessi
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Accesso ad accertamenti ispettivi
da parte del Servizio Ispezione del Lavoro.
L’Azienda istante è stata sottoposta ad
accertamenti ispettivi da parte del Servizio
Ispezione
del Lavoro della Direzione Provinciale del
Lavoro di Varese, a conclusione dei quali
sono stati
notificati 11 processi verbali di
accertamento e contestazione di illecito
amministrativo ex artt. 194
e 200 del Codice della Strada.
Con istanza del 21.02.2011 la Società in
indirizzo chiedeva l’accesso ad una serie di
documenti amministrativi fra i quali le
dichiarazioni di due lavoratori e della
denuncia di un altro
lavoratore, poi dimessosi. Con nota del
15.03.2011 la DPL di Varese ha negato
l’accesso alla
documentazione richiesta specificando che le
dichiarazioni dei lavoratori sono sottratte
al diritto di
accesso in base all’art. 2, lett. c), del
D.M. n. 757/1994 del Ministero del lavoro e
delle politiche
sociali, mentre per gli altri documenti il
diniego era motivato dalla loro
assimilazione a quelli
contenenti notizie sulla programmazione
dell’attività di vigilanza, nonché sulle
modalità ed i tempi
di svolgimento di essa sottratta al diritto
di accesso per cinque anni in base allo
stesso D.M..
L’art. 2, lett. c), del d.m. n. 757/1994
vieta l’accesso ai documenti contenenti
notizie
acquisite nel corso delle attività
ispettive, quando dalla loro divulgazione
possano derivare azioni
discriminatorie o indebite pressioni o
pregiudizi a carico di lavoratori o di
terzi.
La più recente giurisprudenza del Consiglio
di Stato ha richiamato l’esigenza di evitare
possibili pregiudizi per i lavoratori (Cons.
St., sez. VI, 09.02.2009 n. 736; Cons.
St., sez. VI, 22.04.2008 n. 1842), così superando la
precedente giurisprudenza secondo cui le
norme
regolamentari (che precludono l’accesso alla
documentazione contenente le dichiarazioni
rese in
sede ispettiva da dipendenti delle imprese
che richiedono l’accesso, fondate su un
particolare
aspetto della riservatezza, quello cioè
attinente all’esigenza di preservare
l’identità degli autori delle
dichiarazioni per sottrarli a potenziali
azioni discriminatorie, pressioni indebite o
ritorsioni da parte
del datore di lavoro) recedono a fronte
dell’esigenza contrapposta di tutela della
difesa dei propri
interessi giuridici, essendo la
realizzazione del diritto alla difesa
garantita “comunque” dall’art. 24,
comma 7, della legge n. 241/1990 (Cons.
St., sez. VI: 29.07.2008 n. 3798; 10.04.2003 n.
1923; 03.05.2002 n. 2366, 26.01.1999
n. 59).
Si afferma infatti che le disposizioni in
materia di diritto di accesso mirano a
coniugare la ratio dell’istituto, quale fattore di
trasparenza e garanzia di imparzialità
dell’Amministrazione –nei
termini di cui all’art. 22, l. n. 241/1990–
con il bilanciamento da effettuare rispetto
ad interessi
contrapposti e fra questi –specificamente–
quelli dei soggetti “individuati o
facilmente
individuabili” che dall’esercizio
dell’accesso vedrebbero compromesso il loro
diritto alla
riservatezza” (art. 22 cit., co. 1, lett.
c).
Il successivo art. 24 della medesima legge,
che disciplina i casi di esclusione dal
diritto in
questione, prevede al comma 6 i casi di
possibile sottrazione all’accesso in via
regolamentare e fra
questi –al punto d)– quelli relativi ai
“documenti che riguardino la vita privata o
la riservatezza di
persone fisiche, persone giuridiche, gruppi,
imprese e associazioni, con particolare
riferimento agli
interessi epistolare, sanitario,
professionale, finanziario, industriale di
cui siano in concreto titolari,
ancorché i relativi dati siano forniti
all’Amministrazione dagli stessi soggetti a
cui si riferiscono”.
In rapporto a tale quadro normativo, si è
osservato che se è vero che, in via
generale, le
necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della
Costituzione– sono ritenute
prioritarie rispetto alla riservatezza di
soggetti terzi (Cons. St., ad plen., 04.02.1997 n. 5) ed in
tal senso il dettato normativo richiede
l’accesso sia garantito “comunque” a chi
debba acquisire la
conoscenza di determinati atti per la cura
dei propri interessi giuridicamente protetti
(art. 20, co. 7,
l. n. 241/1990); la medesima norma tuttavia
–come successivamente modificata tra il
2001 e il 2005 (art. 22 l. n. 45/2001, art.
176, comma 1, d.lgs. n. 196/2003 e art. 16
l. n. 15/2005)– specifica
come non bastino esigenze di difesa
genericamente enunciate per garantire
l’accesso, dovendo
quest’ultimo corrispondere ad una effettiva
necessità di tutela di interessi che si
assumano lesi ed
ammettendosi solo nei limiti in cui sia
“strettamente indispensabile” la conoscenza
di documenti,
contenenti “dati sensibili e giudiziari”.
Ferma restando, dunque, una possibilità di
valutazione “caso per caso”, che potrebbe
talvolta
consentire di ritenere prevalenti le
esigenze difensive in questione (cfr. Cons.
St., sez. VI, n.
3798/2908 del 29.07.2008, che ammette
l’accesso al contenuto delle dichiarazioni
di lavoratori
agli ispettori del lavoro, ma “con modalità
che escludano l’identificazione degli autori
delle
medesime”), non può però dirsi sussistente
una generalizzata soccombenza dell’interesse
pubblico
all’acquisizione di ogni possibile
informazione, per finalità di controllo
della regolare gestione dei
rapporti di lavoro (a cui sono connessi
valori, a loro volta, costituzionalmente
garantiti), rispetto al
diritto di difesa delle società o imprese
sottoposte ad ispezione.
Il primo di tali interessi, infatti, non
potrebbe non essere compromesso dalla
comprensibile
reticenza di lavoratori, cui non si
accordasse la tutela di cui si discute,
mentre il secondo risulta
comunque garantito dall’obbligo di
motivazione per eventuali contestazioni,
dalla documentazione
che ogni datore di lavoro è tenuto a
possedere, nonché dalla possibilità di
ottenere accertamenti
istruttori in sede giudiziaria.
In virtù dell’orientamento del Consiglio di
Stato si deve pertanto affermare che la
sottrazione all’accesso degli atti
dell’attività ispettiva in materia di lavoro
postula che risulti un
effettivo pericolo di pregiudizio per i
lavoratori, sulla base di elementi di fatto
concreti, e non per
presunzione assoluta. Si può anche ritenere
che il pericolo di pregiudizio sia presunto,
ma la
presunzione va ritenuta relativa e
suscettibile di prova contraria da parte del
richiedente l’accesso.
Va poi considerato che il successivo art. 3,
co. 1, lett. c), del citato d.m. 757/1994
dispone
specificamente che la sottrazione
all’accesso permane finché perduri il
rapporto di lavoro, salvo che
le notizie contenute nei documenti di tale
categoria risultino a quella data sottoposti
al segreto
istruttorio penale.
Su tale orientamento si è consolidata anche
la giurisprudenza di questa Commissione
(cfr.,
parere del 07.10.2008).
Peraltro, ancora più recentemente, il
Consiglio di Stato (Sez. VI 16.12.2010 n.
9103) ha
operato una rivisitazione della posizione
giurisprudenziale sull’accesso agli atti di
accertamento
degli ispettori del lavoro propendendo per
la prevalenza all’esibizione degli stessi.
Nella sentenza si
legge, infatti, che le finalità delle
disposizioni preclusive del diritto di
accesso alla documentazione
–fondate su un particolare aspetto della
riservatezza, quello cioè attinente
all’esigenza di preservare
l’identità dei dipendenti autori delle
dichiarazioni allo scopo di sottrarli a
potenziali azioni
discriminatorie, pressioni indebite o
ritorsioni da parte del datore di lavoro–
recedono a fronte
dell’esigenza contrapposta di tutela della
difesa dei propri interessi giuridici.
La prevalenza del diritto di difesa (da
parte dei datori di lavoro), in proiezione
giurisdizionale, dei propri interessi
giuridicamente rilevanti non necessita di
specificazioni ulteriori
in ordine alle concrete esigenze di difesa
perseguite, allorquando tale specificazione
sia
sufficientemente contenuta nell’allegazione
che la conoscenza delle dichiarazioni è
necessaria per
approntare la difesa in sede di azione di
accertamento della legittimità dell’operato
dell’amministrazione.
Alla luce della richiamata più recente
giurisprudenza del giudice amministrativo e
di fronte
alla motivata richiesta di accesso della
società istante finalizzata alla difesa dei
propri interessi
giuridici il diniego opposto
dall’amministrazione non appare sorretto da
giuridico fondamento (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Inottemperanza della Giunta alle
richieste di accesso di consiglieri
comunali.
Il Gruppo consiliare in indirizzo ha fatto
pervenire ad una serie di autorità
amministrative
un’istanza nella quale, dopo aver esposto
l’inottemperanza entro i termini di legge da
parte
dell’amministrazione comunale di Atrani alle
loro richieste di accesso, chiedono che
“vengano
presi i provvedimenti del caso e venga
ripristinata una normale situazione, nel
rispetto dei principi
sanciti dalla normativa vigente.”
Poiché l’istanza ha per oggetto l’adozione
di atti che esulano dalla competenza di
questa
Commissione, si ritiene di non poter dare
seguito alla richiesta e si archivia la
pratica
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Accesso di consiglieri comunali a
documentazione relativa a “project financing”.
A fronte della richiesta di accesso ad una
serie di documenti ed in particolare
del ”Project
financing impianto ludico-sportivo
natatorio+centro welness e servizi”, il
Comune in indirizzo si
chiede se sia legittimo un differimento
dell’istanza a tutela della par condicio
degli offerenti
nell’ambito della procedura ad evidenza
pubblica attivata.
L’opportunità del differimento dell’accesso
alla documentazione relativa alla procedura
in
atto (per gli altri documenti oggetto
dell’istanza di accesso dei consiglieri
comunali non sussistono
motivi giuridici per opporvisi, neppure
temporaneamente) trova conforto giuridico
nell’art. 13,
comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 163/2006
Codice dei contratti pubblici che, appunto,
autorizza il
differimento del diritto di accesso alle
offerte fino all’approvazione
dell’aggiudicazione.
Tale norma
ha valenza generale ed è applicabile anche
nei confronti dei consiglieri comunali che
pur godono
nell’esercizio delle loro funzioni
dell’ampio potere di accesso definito
dall’art. 43, TUEL
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri
comunali ai dati anagrafici dei cittadini.
Con e-mail del 15.10. 2010, il Comune di
Valle Aurina aveva chiesto a questa
Commissione di conoscere:
-) se i consiglieri comunali possano
accedere ai dati anagrafici dei cittadini
comunali,
avvalendosi della generale prerogativa loro
riconosciuta dall’art. 43 d.lgs. n 267/2000
ovvero se tale
diritto sia limitato dalla disciplina sulla
tenuta degli atti anagrafici ex art. 34 dpr n
223/1989 che
consente invece la comunicazione degli
elenchi della popolazione residente
esclusivamente ad altre
pubbliche amministrazioni per usi di
pubblica utilità ovvero anche ad altri
soggetti per soli fini
statistici e di ricerca (come di solito
avviene per il coro della chiesa locale e
l’orchestra locale che
chiedono i dati anagrafici per trasmettere
inviti ai cittadini);
-) se il responsabile dell'ufficio
anagrafico -responsabile del trattamento
dei dati personali ai
sensi del D.lgs. 196/2003- possa essere
soggetto a sanzioni nel caso il consigliere
comunale
divulghi i dati anagrafici a terzi privati
interessati a conoscerli.
Quanto al primo quesito, esaminato il parere
reso dal garante dei dati personali con nota
08.03.2011 (pervenuta il successivo 24
marzo), la Commissione ritiene legittima la
trasmissione
degli elenchi anagrafici anche al
consigliere comunale e provinciale alla luce
della specifica
disposizione dell’art. 43, co 2, TUEL.
La Commissione non ignora che, allo
specifico quesito se sia possibile
rilasciare gli elenchi
anagrafici ad un consigliere comunale in
forza dell'art. 43 del d.lgs. n. 267/2000,
il Ministero
dell’Interno abbia risposto negativamente,
affermando che la richiesta di elenchi
anagrafici deve
comunque rispettare i requisiti stabiliti
dall'art. 34 dpr n 223/1989 (Min Interno
15.09.2003 prot.
03004817-15100/336). Ne conseguirebbe che la
richiesta di accesso all'archivio dei
residenti
avanzata dai Consiglieri comunali, potrebbe
essere soddisfatta, di volta in volta, con
il rilascio di
elenchi e di supporti magnetici, a
condizione che i dati anagrafici vengano
resi anonimi ed aggregati
e solo per fini statistici e di ricerca.
Tuttavia, tale orientamento non è
condivisibile per una serie di ragioni.
Anzitutto, alla stregua di quanto ha
ribadito il garante dei dati personali,
resta fermo il diritto
dei consiglieri comunali di ottenere dagli
uffici del comune di riferimento tutte le
notizie ed le
informazioni in loro possesso utili
all’espletamento del loro mandato ai sensi
dell’art 43 TUEL,
stante la clausola di riserva dell’art 59
Codice privacy (Dlgs n 196/2003) che fa
salve le altre
disposizioni che consentono l’accesso anche
ai documenti amministrativi contenenti dati
personali.
Inoltre, il trattamento dei dati personali
da parte di soggetti pubblici, e dunque
anche del
consigliere comunale, è consentito per lo
svolgimento di funzioni istituzionali (art.
18, co. 2, d.lgs. n.
196/2003), in particolare per funzioni di
controllo e indirizzo politico, direttamente
connesse
all’espletamento del mandato elettivo (arg.
ex art. 67, co. 1, lett. A; art. 65, co. 4,
lett. b) e nel
rispetto dei principi di pertinenza ed
utilità rispetto allo svolgimento dei loro
compiti (art. 11, co 1,
lett. d), d.lgs. cit.).
In tale quadro normativo, l’art 43 TUEL
costituisce una fonte idonea a legittimare
la
comunicazione di dati personali da parte
delle pp.aa. al consigliere comunale, senza
che la
disciplina specifica dell’anagrafe della
popolazione residente, contenuta nell’art. 34
dpr n 223/1989
possa circoscrivere la conoscibilità dei
dati personali.
Le citate disposizioni costituiscono norme
speciali operanti in settori e con limiti
diversi,
l’una (art 34 dpr n 223/1989) assicurando la
comunicazione di dati personali alle sole
amministrazioni pubbliche per esclusivo uso
di pubblica utilità (ovvero a terzi
interessati in modo
anonimo e aggregato per fini statistici e di
ricerca o anche per fini di comunicazione
istituzionale ex art. 177 d.lgs. n.
196/2003), l’altra (art. 43 TUEL) assicurando
l’accesso ai dati personali ai
consiglieri comunali per scopi inerenti il
mandato elettivo.
Atteso il diverso ambito di operatività, la
perdurante applicabilità dell’art. 34 dpr n.
223/1989
non pregiudica la disposizione dell’art. 43 TUEL.
In secondo luogo, un consolidato indirizzo
giurisprudenziale da cui la Commissione non
ha
motivo di discostarsi (da ultimo C.d.S.,
sez. V, 09.10.2007, n. 5264; Cons. Stato
Sez. V, 17-09-2010, n. 6963) afferma che i consiglieri
comunali hanno un incondizionato diritto di
accesso a tutti
gli atti che possano essere d'utilità
all'espletamento del loro mandato.
Tale orientamento interpretativo lascia
intendere che non vi sono settori o aspetti
dell'attività
comunale che possano essere negati alla
conoscenza dei consiglieri e che
l'acquisizione di tale
conoscenza può essere legittimata anche in
base ad una mera valutazione di opportunità,
senza
un'assoluta e specifica necessità
dell'informazione non solo al fine di
valutare -con piena
cognizione- la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'Amministrazione ma anche
nell’esigenza di
mantenere i rapporti con i cittadini e gli
elettori, non essendo l’attività del
consigliere limitata alla
partecipazione alle determinazioni
consiliari.
Se il diritto di informazione dei
consiglieri comunali ex art. 43 TUEL non
tollera
tendenzialmente limitazioni o
condizionamenti di sorta, la disposizione
dell’art. 34 dpr n. 223/1989
costituirebbe un ingiustificato limite
all’ampio diritto dei consiglieri comunali.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto
di accesso dei consiglieri comunali possono
rinvenirsi,
per un verso, nel fatto che esso deve
avvenire in modo da comportare il minor
aggravio possibile
per gli uffici comunali e, per altro verso,
che esso non deve sostanziarsi in richieste
assolutamente
generiche ovvero meramente emulative o
abnormi o piegate ad interessi meramente
personali,
fermo restando tuttavia che la sussistenza
di tali caratteri deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente
inammissibili
limitazione al diritto stesso.
Infatti, sarebbe incongruo che gli uffici
dell'ente possano avere alcuna ingerenza o
esercitare
alcun sindacato in ordine alle concrete
ragioni che inducono il consigliere ad
acquisire determinate
notizie ed informazioni, poiché altrimenti
si determinerebbe un illegittimo ostacolo
all'esercizio
delle loro funzioni politiche.
Quanto al secondo quesito -fermo restando
che, ai sensi dell’art. 43, TUEL i
consiglieri
comunali “sono tenuti al segreto nei casi
specificamente determinati dalla legge”,
essendo ad essi
imposto di non divulgare a terzi il
contenuto delle informazioni e degli atti ai
quali hanno avuto
accesso, incorrendo in caso negativo in
responsabilità personale- nessuna
responsabilità potrà
incombere in capo al responsabile
dell'ufficio anagrafico nel caso il
consigliere comunale abbia
svelato i dati a terzi non titolari di tale
diritto o senza il rispetto delle modalità
previste
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Accesso agli atti inerenti
erogazione di contributi economici ad
associazioni.
Un comune chiede a questa Commissione di
esprimere un parere sulla legittimità
dell’accesso richiesto da un segretario
locale di una formazione politica (Sezione
Lega Nord “La
Bassa”) che intende conoscere l’entità dei
contributi economici stanziati a favore
delle diverse
associazioni del territorio. L’ente precisa
di avere negato l’accesso poiché presentato
da soggetto
privo di interesse diretto concreto ed
attuale e dunque in difetto delle condizioni
ex lege n 241/1990.
Come è noto la diversità di posizione tra
cittadino residente e quello non residente
nel
Comune dà luogo ad un doppio regime del
diritto di accesso, secondo quanto disposto
dall’art. 10
del d.lgs. n. 267/2000 che ha presupposti
diversi dal diritto di accesso previsto
dalla normativa
generale di cui all’art. 22 della legge n.
241/1990 (arg. ex TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
12/04/2005, n.
2067; TAR Marche, 12/10/2001, n.1133).
In conformità all’orientamento espresso da
questa Commissione (e da cui non v’è motivo
di
discostarsi), nel caso in cui l’istante sia
un cittadino residente nel comune il diritto
di accesso non è
soggetto alla disciplina dettata dalla legge
n. 241/1990 -che in effetti richiede la
titolarità di un
interesse diretto, concreto ed attuale
corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e
collegata al documento richiesto- bensì
alla speciale disciplina di cui all’art. 10, co. 1, del d.lgs. n.
267/2000 (TUEL), che sancisce espressamente
ed in linea generale il principio della
pubblicità di
tutti gli atti ed il diritto dei cittadini
di accedere agli atti ed alle informazioni
in possesso delle
autonomie locali, senza fare menzione alcuna
della necessità di dichiarare la sussistenza
di tale
situazione al fine di poter valutare la
legittimazione all’accesso del richiedente.
Ebbene, considerato che il diritto di
accesso ex art. 10 TUEL si configura alla
stregua di
un’azione popolare, il cittadino residente -come nella specie anche il segretario della
sezione
politica locale- può accedere agli atti
amministrativi dell'ente locale di
appartenenza senza alcun
condizionamento alla sussistenza di un
interesse personale e concreto e senza
necessità della previa
indicazione delle ragioni della richiesta
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Accesso agli atti inerenti ad un
fascicolo processuale inerente una
controversia giudiziale innanzi al Consiglio
di Stato.
L’associazione ..., a
quanto è dato capire, rappresenta di aver
chiesto alla polizia locale del Comune di
Bollate di visionare, ed eventualmente
estrarre copia, dell’incartamento inerente
un ricorso giurisdizionale amministrativo, a
suo tempo presentato e di recente rigettato
dal Consiglio di Stato, onde verificare se
la p.a. abbia commesso alcune illegittimità,
anche alla luce dei motivi di rigetto del
predetto ricorso (che farebbe riferimento ad
un procedimento penale archiviato), e poter
decidere eventuali contromisure.
A fronte
del diniego di accesso agli atti da parte
della polizia locale, ritenuto più economico
rispetto all’accesso ottenibile dal
Consiglio di Stato, l’istante chiede di
valutare la legittimità o meno della mancata
visione ostensione degli atti richiesto.
Al riguardo, si osserva che secondo
l’orientamento consolidato della
Commissione, il diritto di accesso (in
termini di visione ed estrazione di copia)
agli atti degli enti locali del
cittadino residente ex art. 10 d.lgs. n.
267/2000 non è condizionato (diversamente a
quanto l’art. 22, comma 1, lett. b, legge n.
241/1990 prescrive per l’accesso ai documenti
di amministrazioni centrali dello Stato)
alla titolarità in capo al soggetto
accedente di una situazione giuridica
differenziata, atteso che l’esercizio di
tale diritto è equiparabile all’attivazione
di un’azione popolare finalizzata ad una più
efficace e diretta partecipazione del
cittadino all’attività amministrativa
dell’ente locale e alla realizzazione di un
più immanente controllo sulla legalità
dell’azione amministrativa.
Con riguardo al caso di specie, sebbene
l’istante non abbia dedotto quali siano i
motivi del diniego di accesso opposti dalla
p.a., è indubbio che anche l’associazione,
con sede nello stesso comune destinatario
dell’istanza di accesso, possa avvalersi del
diritto sancito dell’art 10, co. 2, D.lgs. n
267/2000, qualificandosi come “cittadino
residente”, con la conseguenza che sotto
tale profilo il diniego di accesso appare
illegittimo
(Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi,
risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011
- link a www.commissioneaccesso.it). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Congedo matrimoniale: la
decorrenza non deve necessariamente
coincidere con il giorno delle nozze, ma può
essere differita.
Investita della questione inerente a quale
sia, ai sensi del R.D.L. 1334/1937, la
decorrenza del congedo matrimoniale ivi
previsto, la Corte di Cassazione, Sez.
lavoro, con
sentenza
06.06.2012 n. 9150, ha rilevato come
questa non debba necessariamente iniziare
dal giorno del matrimonio. In mancanza,
infatti, di una specifica disciplina
contrattuale collettiva sul punto,
l’articolo unico del regio decreto indicato
si limita a prevedere esclusivamente il
diritto degli impiegati privati ad un
congedo straordinario per contrarre
matrimonio non eccedente la durata di 15
giorni.
Benché la norma stabilisca che il congedo
spetti per contrarre matrimonio, non ritiene
la Corte, in assenza di specifica disciplina
collettiva ed essendo essa diretta a
tutelare le personali esigenze del
lavoratore in occasione delle nozze, anche
costituzionalmente tutelate (art. 30, co. 1,
Cost.) che tale periodo debba decorrere in
ogni caso a partire dal giorno del
matrimonio. Quest’ultimo deve piuttosto
essere inteso come la causa che fa sorgere
il diritto del lavoratore, non come il
dies a quo dello stesso.
In materia soccorrono i principi di
correttezza e di buona fede nell’adempimento
delle obbligazioni (art. 1175 c.c.)
nell’esecuzione del contratto (art. 1375
c.c.), sicché, contemperando le esigenze
personali del lavoratore in occasione del
matrimonio e quelle organizzative
dell’impresa, i giudici di legittimità
ritengono che il periodo di fruizione del
congedo debba essere sicuramente
giustificato dall’evento matrimonio e che
tale inevitabile collegamento, da un lato,
non impone che il giorno del matrimonio
debba essere necessariamente ricompreso nei
15 giorni di congedo ma, dall’altro, non può
neanche comportare che la relativa fruizione
sia del tutto svincolata dall’evento
giustificativo.
Tanto premesso, conclude la Corte che il
congedo per matrimonio, che il lavoratore
deve richiedere con sufficiente anticipo,
spetta, in difetto di specifica disciplina
contrattuale collettiva, laddove il periodo
richiesto sia ragionevolmente connesso, in
senso temporale, con la data delle nozze per
mantenere il necessario rapporto causale con
l’evento. Nel caso sottoposto all’attenzione
degli Ermellini, il datore di lavoro è stato
avvertito con congruo anticipo dell’evento
matrimonio e il congedo è stato richiesto,
sempre con adeguato anticipo, per un periodo
ragionevolmente connesso (circa dieci
giorni) alle nozze, sicché il rifiuto di
accordarlo, in assenza di comprovate ragioni
organizzative o produttive ostative, risulta
illegittimo (commento tratto da www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il proprietario di
immobile confinante con quello oggetto di
permesso di costruire non può essere
qualificato come soggetto direttamente
interessato al provvedimento, con la
conseguenza che non sussiste alcuna lesione
delle sue facoltà procedimentali -comunque
salvaguardate dalla possibilità di
intervento volontario nel procedimento di
rilascio del titolo ai sensi dell’art. 9
della legge n. 241/1990- poiché non vi è alcun
obbligo per l’amministrazione di
comunicazione dell’avvio del procedimento
preordinato al rilascio del permesso di
costruire.
---------------
Secondo piani principi, il procedimento
amministrativo è regolato dal principio
tempus regit actum, con la conseguenza che
la legittimità dell’atto va valutata con
riferimento alle norme vigenti al tempo in
cui è stato adottato, essendo il rapporto
cui l’atto inerisce sensibile ai mutamenti
della normativa di riferimento fino a quando
non sia irretrattabilmente definito.
Ciò è avvenuto, nella specie, solo mediante
il rilascio del permesso di costruire su
istanza dell’interessato, non avendo
quest’ultima alcun effetto definitorio del
rapporto.
Si condivide, invero, a riguardo il rilievo
del primo giudice, secondo cui l’inedificabilità, per l’appellante, di una fascia di 5 metri
di distanza dal confine discende
direttamente dall’applicazione del punto 3
dell’art. 14 delle N.T.A. del piano di
fabbricazione del Comune di Muro Leccese,
secondo cui, salva l’ipotesi di costruzione
in aderenza con altro edificio, il
proprietario del fondo deve edificare
rispettando la distanza dai confini di
proprietà non inferiore a mt. 5,00.
Dovendosi, pertanto, ricollegare a tale
disposizione -e non alla realizzazione
dell’impianto ed al rispetto delle relative
distanze di 10 metri tra edifici- il
sacrificio dello ius aedificandi lamentato
dall’appellante, non può essere riconosciuto
nei suoi riguardi alcun effetto diretto
ricollegabile al provvedimento di rilascio
del permesso di costruire ed alle relative
distanze da osservare, da cui derivi
l’obbligo di comunicazione dell’avvio del
procedimento.
In quanto proprietario di
immobile confinante con quello oggetto di
permesso di costruire, egli non può essere
qualificato come soggetto direttamente
interessato al provvedimento, con la
conseguenza che non sussiste alcuna lesione
delle sue facoltà procedimentali -comunque
salvaguardate dalla possibilità di
intervento volontario nel procedimento di
rilascio del titolo ai sensi dell’art. 9
della legge n. 241/1990- poiché non vi è alcun
obbligo per l’amministrazione di
comunicazione dell’avvio del procedimento
preordinato al rilascio del permesso di
costruire (Cons. St. Sez. IV, 27.10.2011, n.
5789; 06.07.2009, n. 4300).
---------------
Parimenti infondato è il terzo motivo,
con cui si lamenta l’applicazione da parte
dell’amministrazione della disciplina
vigente al momento del rilascio del permesso
di costruire anziché a quello della
presentazione dell’istanza.
Secondo piani principi, il procedimento
amministrativo è regolato dal principio
tempus regit actum, con la conseguenza che
la legittimità dell’atto va valutata con
riferimento alle norme vigenti al tempo in
cui è stato adottato (Cons. St. Sez. VI,
12.10.2011, n. 5515; 12.01.2011, n. 112),
essendo il rapporto cui l’atto inerisce
sensibile ai mutamenti della normativa di
riferimento fino a quando non sia irretrattabilmente definito.
Ciò è avvenuto,
nella specie, solo mediante il rilascio del
permesso di costruire su istanza
dell’interessato, non avendo quest’ultima
alcun effetto definitorio del rapporto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.06.2012 n. 3343 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’inserimento della strada nel
contesto della rete viaria comunale, in
quanto idonea a soddisfare le esigenze di
carattere generale della comunità
territoriale mediante l’uso pubblico, non ne
fa venire meno la natura di strada
“vicinale”, cui occorre fare riferimento ai
fini della distanza da applicare ai sensi
dell’art. 26, che non contiene alcuna
distinzione tra uso pubblico o privato delle
strade vicinali.
Infondato è anche l’ulteriore mezzo, con
cui l’appellante censura la sentenza di
primo grado per avere erroneamente giudicato
non violato l’obbligo di distanza di 20
metri dalle strade locali comunali, sancito
dall’art. 26, c. 2, D.P.R. 495/1992,
rilevandosi una distanza inferiore tra
l’impianto e la strada “Carruttata”.
Va, preliminarmente, osservato che ai
sensi dell’art. 26, comma 2, del Regolamento
di cui al D.P.R. n. 495 del 1992, la
distanza delle costruzioni dalla sede
stradale è di 20 metri per le strade di tipo
F (ossia di interesse locale) diverse dalle
strade vicinali, e di 10 metri per le strade
vicinali.
Nella specie, la c.d. strada Carruttata
risulta dalla certificazione comunale del
20.09.2010 e dalla pianta allegata come
strada comunale esterna denominata “strada
vicinale Carottata”.
L’inserimento della
strada nel contesto della rete viaria
comunale, in quanto idonea a soddisfare le
esigenze di carattere generale della
comunità territoriale mediante l’uso
pubblico, non ne fa venire meno la natura di
strada “vicinale” (cfr. Cons. Stato Sez. V,
23-05-2005, n. 2584), cui occorre fare
riferimento ai fini della distanza da
applicare ai sensi dell’art. 26, che non
contiene alcuna distinzione tra uso pubblico
o privato delle strade vicinali.
La sentenza
di primo grado fa, quindi, corretta
applicazione della disciplina in materia di
distanze dalle strade vicinali, che è di 10
metri e nella specie risulta rispettata (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.06.2012 n. 3343 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il Collegio ritiene di aderire alla tesi che
limita l’applicabilità del citato art.
38/C), sull’obbligo di esclusione
nell’ipotesi di omessa dichiarazione, ai
soli amministratori della spa e non anche ai
procuratori speciali o “ad negotia”, i quali
“non sono amministratori, e ciò a
prescindere dall’esame dei poteri loro
assegnati”,
dovendosi “ancorare l’applicazione della
norma su basi di oggettivo rigore formale”, occorrendo avere
riguardo alla posizione formale del singolo
nell’organizzazione societaria piuttosto che
a malcerte indagini “sostanzialistiche”, e
ciò anche per non scalfire garanzie di
certezza del diritto sotto il profilo della
possibilità di partecipare a pubblici
appalti (sez. V, n. 513/2011 cit., in cui si
ribadisce che “una norma che limiti la
partecipazione alle gare e la libertà di
iniziativa economica delle imprese… assume
carattere eccezionale ed è, quindi,
insuscettibile di applicazione analogica a
situazioni diverse, quale è quella dei
procuratori”).
---------------
In tema di verifica della congruità della
offerta si è affermato che:
- nel caso di ricorso proposto avverso il
giudizio di anomalia dell'offerta presentata
in una pubblica gara il Giudice
amministrativo può sindacare le valutazioni
compiute dall'Amministrazione sotto il
profilo della loro logicità e ragionevolezza
e della congruità dell'istruttoria, ma non
può verificare in via autonoma la congruità
della offerta presentata e delle sue singole
voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica
al giudizio, non erroneo né illogico,
formulato dall'organo amministrativo cui la
legge attribuisce la tutela dell'interesse
pubblico nell'apprezzamento del caso
concreto, poiché, così facendo, il Giudice
violerebbe il fondamentale principio della
separazione dei poteri;
- il giudizio di verifica della congruità di
un'offerta potenzialmente anomala ha natura
globale e sintetica, vertendo sulla serietà
o meno dell'offerta nel suo insieme.
L'attendibilità della offerta va cioè
valutata nel complesso, e non con
riferimento alle singole voci di prezzo
ritenute incongrue, avulse dalla incidenza
che potrebbero avere sull'offerta economica
nel suo insieme, ferma restando la possibile
rilevanza del giudizio di inattendibilità
che dovesse investire voci che, per la loro
rilevanza ed incidenza complessiva,
potrebbero rendere l'intera operazione
economica implausibile e, per l'effetto,
insuscettibile di accettazione da parte
dell'Amministrazione, in quanto insidiata da
indici strutturali di carente affidabilità;
- sul piano strettamente motivazionale è
ormai sedimentata l’elaborazione
giurisprudenziale in base alla quale il
giudizio di anomalia richiede una
motivazione rigorosa e analitica ove si
concluda in senso sfavorevole all'offerente,
mentre non si richiede, di contro, una
motivazione analitica nell'ipotesi di esito
positivo della verifica. In quest’ultimo
caso è sufficiente una motivazione “per
relationem” riferita alle giustificazioni
presentate dal concorrente (sempre che a
loro volta adeguate). Di conseguenza, in
questa seconda evenienza grava su colui il
quale contesti l'aggiudicazione l'onere di
individuare gli specifici elementi da cui il
Giudice amministrativo possa evincere che la
valutazione tecnico -discrezionale della
Stazione appaltante sia stata manifestamente
irragionevole, ovvero basata su fatti
erronei o travisati.
L’interpretazione dell’art. 38 del codice dei contratti pubblici, nella
parte in cui prevede l’esclusione dalla
procedura qualora i fatti indicati dalla
lettera c) della disposizione riguardino,
nel caso delle s.p.a., quale è quello della
società Gesteco, “gli amministratori muniti
di potere di rappresentanza”, o il
direttore tecnico, ha formato oggetto di
diversi orientamenti giurisprudenziali (per
un riepilogo delle diversificate posizioni
di questo Consiglio si rinvia a Cons. St.,
sez. V, n. 513 del 2011).
Il Collegio, nel condividere le più recenti
decisioni di questa Sezione sulla questione
(v. Cons. St. , sez. V, nn. 1186 del 2012 e
513 del 2011; si vedano anche –sempre della
sez. V- le sentenze nn. 6136, 3069 e 1782
del 2011, cui si rinvia anche ai sensi degli
articoli 60, 74 e 88, comma 2, lett. d) del
c.p.a.), ritiene di aderire alla tesi che
limita l’applicabilità del citato art.
38/C), sull’obbligo di esclusione
nell’ipotesi di omessa dichiarazione, ai
soli amministratori della spa e non anche ai
procuratori speciali o “ad negotia”, i quali
“non sono amministratori, e ciò a
prescindere dall’esame dei poteri loro
assegnati” (così CdS, V, n. 513/11 cit.),
dovendosi “ancorare l’applicazione della
norma su basi di oggettivo rigore formale”
(Cons. St., V, n. 3069/2011), occorrendo avere
riguardo alla posizione formale del singolo
nell’organizzazione societaria piuttosto che
a malcerte indagini “sostanzialistiche”, e
ciò anche per non scalfire garanzie di
certezza del diritto sotto il profilo della
possibilità di partecipare a pubblici
appalti (sez. V, n. 513/2011 cit., in cui si
ribadisce che “una norma che limiti la
partecipazione alle gare e la libertà di
iniziativa economica delle imprese… assume
carattere eccezionale ed è, quindi,
insuscettibile di applicazione analogica a
situazioni diverse, quale è quella dei
procuratori”).
Nel caso di specie l’onere, per le
procuratrici speciali, di rendere la
dichiarazione ex art. 38/C) non emergeva in
alcun modo nemmeno dalla formulazione della
“lex specialis”, le disposizioni della quale
andavano interpretate avendo riguardo al
senso proprio delle espressioni usate, senza
estensioni o sviluppi interpretativi del
loro oggettivo contenuto.
---------------
In tema
di verifica della congruità della offerta,
la Sezione (v. , di recente, la sent. n.
1183/2012 e, ivi, numerosi riferimenti
giurisprudenziali ulteriori) ha affermato
che:
- nel caso di ricorso proposto avverso il
giudizio di anomalia dell'offerta presentata
in una pubblica gara il Giudice
amministrativo può sindacare le valutazioni
compiute dall'Amministrazione sotto il
profilo della loro logicità e ragionevolezza
e della congruità dell'istruttoria, ma non
può verificare in via autonoma la congruità
della offerta presentata e delle sue singole
voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica
al giudizio, non erroneo né illogico,
formulato dall'organo amministrativo cui la
legge attribuisce la tutela dell'interesse
pubblico nell'apprezzamento del caso
concreto, poiché, così facendo, il Giudice
violerebbe il fondamentale principio della
separazione dei poteri;
- il giudizio di verifica della congruità di
un'offerta potenzialmente anomala ha natura
globale e sintetica, vertendo sulla serietà
o meno dell'offerta nel suo insieme.
L'attendibilità della offerta va cioè
valutata nel complesso, e non con
riferimento alle singole voci di prezzo
ritenute incongrue, avulse dalla incidenza
che potrebbero avere sull'offerta economica
nel suo insieme, ferma restando la possibile
rilevanza del giudizio di inattendibilità
che dovesse investire voci che, per la loro
rilevanza ed incidenza complessiva,
potrebbero rendere l'intera operazione
economica implausibile e, per l'effetto,
insuscettibile di accettazione da parte
dell'Amministrazione, in quanto insidiata da
indici strutturali di carente affidabilità;
- sul piano strettamente motivazionale è
ormai sedimentata l’elaborazione
giurisprudenziale in base alla quale il
giudizio di anomalia richiede una
motivazione rigorosa e analitica ove si
concluda in senso sfavorevole all'offerente,
mentre non si richiede, di contro, una
motivazione analitica nell'ipotesi di esito
positivo della verifica. In quest’ultimo
caso è sufficiente una motivazione “per relationem”
riferita alle giustificazioni presentate dal
concorrente (sempre che a loro volta
adeguate).
Di conseguenza, in questa seconda evenienza
grava su colui il quale contesti
l'aggiudicazione l'onere di individuare gli
specifici elementi da cui il Giudice
amministrativo possa evincere che la
valutazione tecnico -discrezionale della
Stazione appaltante sia stata manifestamente
irragionevole, ovvero basata su fatti
erronei o travisati (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.06.2012 n. 3340 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La
commissione di gara, per individuare l'offerta economicamente più vantaggiosa, gode
di un'ampia discrezionalità nella
suddivisione del punteggio da attribuire
agli elementi costituenti l'offerta
tecnica, secondo i criteri predefiniti nella
“lex specialis” di gara.
Tale
discrezionalità, di natura
tecnico-amministrativa, non può essere
oggetto di sindacato giurisdizionale se non
in presenza di evidenti irrazionalità e
incongruenze, non potendosi ritenere tali
l'elaborazione, da parte della commissione,
di modalità di graduazione del punteggio.
---------------
Le clausole di esclusione poste dalla legge
o dal bando in ordine alle dichiarazioni cui
é tenuta l’impresa partecipante alla gara
sono di stretta interpretazione, dovendosi
dare esclusiva prevalenza alle espressioni
letterali in esse contenute, e restando
preclusa ogni forma di estensione analogica
diretta ad evidenziare significati
impliciti, che rischierebbe di vulnerare
l’affidamento dei partecipanti, la “par
condicio” dei concorrenti e l’esigenza della
più ampia partecipazione.
---------------
Qualora la partecipazione a una pubblica
gara avvenga in RTI, solo i requisiti
generali di partecipazione, in quanto
relativi alla regolarità della gestione
delle singole imprese sotto gli aspetti
dell’ordine pubblico e della moralità devono
essere posseduti da tutte le imprese
raggruppate, data la preminenza
dell’interesse pubblico alla moralità e
all’affidabilità del soggetto chiamato a
eseguire l’appalto; diversamente, i
requisiti di natura economico –finanziaria
sono ritenuti pacificamente cumulabili nella
ipotesi di partecipazione riunita, con la
conseguenza che i requisiti vanno riferiti
al raggruppamento quale unico soggetto che
si avvale delle sue articolazioni
organizzative.
Detto altrimenti, una diversa
interpretazione, conforme alla tesi
dell’appellante, sarebbe contraria alla
“ratio” delle ATI e degli RTI, che tendono
ad estendere la partecipazione alle gare
anche ad imprese che, singolarmente, non
sarebbero in grado di sostenere l’onere
dell’ appalto, con conseguente ampliamento
della dinamica concorrenziale.
---------------
Nelle procedure a evidenza pubblica per la
scelta del contraente la cauzione
provvisoria versata dai partecipanti svolge
una duplice funzione di garanzia per
l'amministrazione appaltante, sia per il
caso in cui l'affidatario non si presti a
stipulare il relativo contratto, sia per la
veridicità delle dichiarazioni fornite dalle
imprese in sede di partecipazione alla gara
in ordine al possesso dei requisiti di
capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa prescritti dal bando o
dalla lettera di invito, così da garantire
l'affidabilità della offerta, il cui primo
indice é rappresentato proprio dalla
correttezza e serietà del comportamento del
concorrente in relazione agli obblighi
derivanti dalla disciplina della gara.
La cauzione provvisoria rappresenta, salvo
prova di maggior danno, una liquidazione
anticipata dei danni derivanti
all’Amministrazione dall’inadempimento di
tale obbligo di serietà da parte del
concorrente.
Con il versamento della cauzione provvisoria
in contanti è stata pienamente soddisfatta
la funzione di garanzia perseguita
dall’Amministrazione appaltante; è stata
assolta l’esigenza di garantire
l‘affidabilità dell’offerta, e la necessita
di una liquidazione anticipata dei danni
derivanti all’Amministrazione
dall’inadempimento di tale obbligo di
serietà da parte del concorrente, e questo a
prescindere dal fatto che il suddetto
versamento sia stato eseguito a nome di una
associazione facente parte dell’ATI,
dall’ATI nel suo complesso o da tutte le
associazioni che compongono l’ATI.
In
termini generali va osservato che la
commissione di gara, per individuare l'offerta economicamente più vantaggiosa, gode
di un'ampia discrezionalità nella
suddivisione del punteggio da attribuire
agli elementi costituenti l' offerta
tecnica, secondo i criteri predefiniti nella
“lex specialis” di gara.
Tale
discrezionalità, di natura
tecnico-amministrativa, non può essere
oggetto di sindacato giurisdizionale se non
in presenza di evidenti irrazionalità e
incongruenze, non potendosi ritenere tali
l'elaborazione, da parte della commissione,
di modalità di graduazione del punteggio.
---------------
Il bando,
a pag. 4, prevedeva che occorresse
depositare, “a dimostrazione della solidità
finanziaria ed economica”, una “referenza
bancaria”.
La referenza è stata presentata solo da
Adriatika Nuoto, anziché da Adriatika e da
Fiorentina Nuoto.
Il TAR ha ritenuto non invocabile l’art. 38
del d.lgs. n. 163/2006 dato che la gara
riguarda l’affidamento di una concessione.
In base all'articolo 30, comma settimo, del
medesimo decreto legislativo –ha proseguito
il TAR-, la procedura non è in sé soggetta
al codice dei contratti pubblici, di cui
sono applicabili solo le disposizioni della
parte IV ("Contenzioso") e l'articolo 143,
comma settimo (che riguarda le
caratteristiche sotto il profilo
economico-finanziario dell'offerta e del
contratto), in quanto compatibile. Per il
resto l'articolo 30, comma terzo, impone
solamente: "La scelta del concessionario
deve avvenire nel rispetto dei principi
desumibili dal Trattato e dei principi
generali relativi ai contratti pubblici e,
in particolare, dei principi di trasparenza,
adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità, previa gara informale a cui
sono invitati almeno cinque concorrenti, se
sussistono in tale numero soggetti
qualificati in relazione all'oggetto della
concessione, e con predeterminazione dei
criteri selettivi".
L’appellante osserva che, trattandosi di
referenza bancaria, la referenza stessa
doveva essere prodotta da entrambe le
partecipanti. E poiché nell’ATI orizzontale
ogni impresa riunita è responsabile, nei
confronti della stazione appaltante, della
esecuzione della intera opera o del
servizio, ne discende che ambedue le
componenti dell’RTI aggiudicatario avevano
l’obbligo di presentare autonoma referenza
bancaria. Non avendolo fatto, l’RTI
Adriatika Nuoto -Fiorentina Nuoto andava
escluso. Il TAR avrebbe errato nel ritenere
inapplicabile, alla procedura “de qua”, la
disciplina di cui al codice dei contratti
pubblici, trattandosi di concessione ex art.
30 del decreto n. 163/2006. L’appellante
rileva che la stazione appaltante ha inteso autovincolarsi alla normativa in tema di
pubblici appalti, con conseguente diretta
applicazione del codice dei contratti
pubblici. Si noti infine che a pag. 4 del
bando, nel caso di associazione non ancora
costituita, era previsto quanto segue:
“…assume l’impegno, in caso di
aggiudicazione, a uniformarsi alla
disciplina vigente in tema di contratti
pubblici con riguardo alle associazioni
temporanee…”.
Il Collegio ritiene che, indipendentemente
dalla soluzione da dare alla questione che
riguarda l’applicabilità, alla fattispecie,
dell’art. 30, comma 7, del d.lgs. n.
163/2006, o del codice degli appalti pubblici
nel suo complesso, il motivo dedotto sia
infondato e vada respinto.
Anche muovendo dall’assunto, dal quale
prendono le mosse tutte le parti in causa,
dell’applicabilità del codice, resta che il
bando di gara, a pag. 4, nell’elencare i
documenti da presentare e da inserire nella
busta A, prevedeva anche la “referenza
bancaria, a dimostrazione della solidità
finanziaria ed economica”, senza specificare
nulla per il caso in cui il richiedente
fosse una ATI non ancora costituita. Ora, in
assenza di una espressa disposizione nel
disciplinare di gara, come è accaduto nel
caso di specie, la presentazione da parte
del solo mandatario delle referenze bancarie
assolve la dimostrazione del requisito,
tenuto conto che il raggruppamento si
qualifica dimostrando cumulativamente il
possesso dei requisiti richiesti per il
singolo partecipante.
Di contro il bando, nel disciplinare i
requisiti di partecipazione, specificava le
integrazioni documentali occorrenti nel caso
in cui la domanda di partecipazione fosse
presentata da un RTI non ancora costituito,
come nell’ipotesi di cui a pag. 4, punto 2),
lett. s) e t).
In generale, per la giurisprudenza, in
materia di procedure ad evidenza pubblica,
le clausole di esclusione poste dalla legge
o dal bando in ordine alle dichiarazioni cui
é tenuta l’impresa partecipante alla gara
sono di stretta interpretazione, dovendosi
dare esclusiva prevalenza alle espressioni
letterali in esse contenute, e restando
preclusa ogni forma di estensione analogica
diretta ad evidenziare significati
impliciti, che rischierebbe di vulnerare
l’affidamento dei partecipanti, la “par
condicio” dei concorrenti e l’esigenza della
più ampia partecipazione (Cons. Stato, Sez.
V, sent. n. 3213 del 2010).
In questa prospettiva, sussistendo elementi
di incertezza nella formulazione del bando,
il criterio interpretativo adottato dalla
commissione non poteva che essere coerente
con il principio diretto a favorire la
massima partecipazione delle imprese alle
procedure di gara (giurisprudenza univoca
sul punto).
Peraltro, qualora la partecipazione a una
pubblica gara avvenga in RTI, solo i
requisiti generali di partecipazione, in
quanto relativi alla regolarità della
gestione delle singole imprese sotto gli
aspetti dell’ordine pubblico e della
moralità devono essere posseduti da tutte le
imprese raggruppate, data la preminenza
dell’interesse pubblico alla moralità e
all’affidabilità del soggetto chiamato a
eseguire l’appalto; diversamente, i
requisiti di natura economico –finanziaria
sono ritenuti pacificamente cumulabili nella
ipotesi di partecipazione riunita, con la
conseguenza che i requisiti vanno riferiti
al raggruppamento quale unico soggetto che
si avvale delle sue articolazioni
organizzative. Detto altrimenti, una
diversa interpretazione, conforme alla tesi
dell’appellante, sarebbe (stata) contraria
alla “ratio” delle ATI e degli RTI, che
tendono ad estendere la partecipazione alle
gare anche ad imprese che, singolarmente,
non sarebbero in grado di sostenere l’onere
dell’ appalto, con conseguente ampliamento
della dinamica concorrenziale.
---------------
Nelle
procedure a evidenza pubblica per la scelta
del contraente la cauzione provvisoria
versata dai partecipanti svolge una duplice
funzione di garanzia per l'amministrazione
appaltante, sia per il caso in cui
l'affidatario non si presti a stipulare il
relativo contratto, sia per la veridicità
delle dichiarazioni fornite dalle imprese in
sede di partecipazione alla gara in ordine
al possesso dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e tecnico-organizzativa prescritti dal bando o dalla
lettera di invito, così da garantire
l'affidabilità della offerta, il cui primo
indice é rappresentato proprio dalla
correttezza e serietà del comportamento del
concorrente in relazione agli obblighi
derivanti dalla disciplina della gara (Cons.
St., V, n. 3746/2009 e sez. IV n. 4789/2004).
La cauzione provvisoria rappresenta, salvo
prova di maggior danno, una liquidazione
anticipata dei danni derivanti
all’Amministrazione dall’inadempimento di
tale obbligo di serietà da parte del
concorrente.
Con il versamento della cauzione provvisoria
in contanti è stata pienamente soddisfatta
la funzione di garanzia perseguita
dall’Amministrazione appaltante; è stata
assolta l’esigenza di garantire
l‘affidabilità dell’offerta, e la necessita
di una liquidazione anticipata dei danni
derivanti all’Amministrazione
dall’inadempimento di tale obbligo di
serietà da parte del concorrente, e questo a
prescindere dal fatto che il suddetto
versamento sia stato eseguito a nome di una
associazione facente parte dell’ATI,
dall’ATI nel suo complesso o da tutte le
associazioni che compongono l’ATI.
In modo
condivisibile il TAR ha affermato che la
prescrizione del bando sulla cointestazione
della polizza fideiussoria a mandante e
mandataria è estranea alla fattispecie in
esame, nella quale la cauzione provvisoria è
stata costituita mediante versamento in
contanti, come espressamente consentito dal
bando
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.06.2012 n. 3339 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della razionalità
dell’azione amministrativa e del rispetto
del principio costituzionale di buon
andamento, l’Amministrazione comunale deve
esaminare contestualmente l’eventuale
pluralità di istanze di sanatoria prodotte
in riferimento a un medesimo complesso
edilizio, e ciò al fine precipuo di
contrastare –ove ne ricorra il caso-
artificiose frammentazioni che, in luogo di
una corretta qualificazione unitaria
dell’abuso e di una conseguente
identificazione unitaria del titolo edilizio
che sarebbe stato necessario o che può ora
essere rilasciato, prospettino una
scomposizione virtuale dell’intervento
finalizzata all’elusione dei presupposti e
dei limiti di ammissibilità della sanatoria
stessa.
La valutazione dell’abuso edilizio
presuppone dunque una visione complessiva e
non atomistica dell’intervento giacché il
pregiudizio recato al regolare assetto del
territorio deriva non dal singolo intervento
ma dall’insieme delle opere realizzate nel
loro contestuale impatto edilizio.
Con il secondo motivo l’appellante lamenta
l’illegittimità del diniego di sanatoria
nella parte in cui rileva che l’omessa
ottemperanza a un precedente ordine di
demolizione, relativo ad una parte di
fabbricato non oggetto della ’istanza di
accertamento di conformità, impedisce la
sanatoria. Essa aggiunge di aver presentato
nel 2004 al Comune due distinte istanze di
condono edilizio, per due autonomi
interventi eseguiti in tempi diversi: una
riferita al fabbricato oggetto di
demolizione e ricostruzione, un’altra ad un
ampliamento costituente un appendice,
indipendente funzionalmente e
strutturalmente, dal predetto fabbricato.
Il rilievo è infondato.
Dagli atti del processo risulta che i due
interventi (ricostruzione dell’annesso
agricolo e chiusura della tettoia) siano
stati contestuali (cfr. ordinanza di
ingiunzione a demolire del 10.06.2009, prot.
n. 14712) risultando entrambi ultimati il
30.01.2003 (cfr. relazione dell’Ufficio
abusivismo edilizio e paesaggistico
dell’11.05.2011). Ciò comporta che i due
interventi -come correttamente rilevato
dall’Amministrazione comunale– non possono
qui essere artificiosamente frammentati, per
il solo fatto della presentazione di due
istanze messa in opera dalla ricorrente, ma
vanno ricondotti in realtà ad un unico ed
unitario intervento, che è quello che ha nei
fatti, dunque nella realtà materiale,
portato alla creazione di un organismo
edilizio che è diverso per forma e
dimensioni da quello preesistente.
Invero, ai fini della razionalità
dell’azione amministrativa e del rispetto
del principio costituzionale di buon
andamento, l’Amministrazione comunale deve
esaminare contestualmente l’eventuale
pluralità di istanze di sanatoria prodotte
in riferimento a un medesimo complesso
edilizio, e ciò al fine precipuo di
contrastare –ove ne ricorra il caso-
artificiose frammentazioni che, in luogo di
una corretta qualificazione unitaria
dell’abuso e di una conseguente
identificazione unitaria del titolo edilizio
che sarebbe stato necessario o che può ora
essere rilasciato, prospettino una
scomposizione virtuale dell’intervento
finalizzata all’elusione dei presupposti e
dei limiti di ammissibilità della sanatoria
stessa.
La valutazione dell’abuso edilizio
presuppone dunque una visione complessiva e
non atomistica dell’intervento giacché il
pregiudizio recato al regolare assetto del
territorio deriva non dal singolo intervento
ma dall’insieme delle opere realizzate nel
loro contestuale impatto edilizio.
Così ha, doverosamente e correttamente,
operato il Comune di Piombino (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 06.06.2012 n. 3330 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Va
annullata la procedura di gara poiché
l’apertura della busta contenente
la documentazione tecnica ed economica è
avvenuta in forma riservata, così che
risulta irrimediabilmente pregiudicata
l’intera e successiva attività
procedimentamentale, atteso che la puntuale
osservanza degli obblighi di trasparenza e
par condicio tra i soggetti di gara
impongono un metodo di selezione immune da
qualsivoglia sospetto di parzialità, così
che ogni singolo atto del procedimento,
anche di natura materiale, costituisce un
momento essenziale della procedura
competitiva e deve essere informato, sia
sotto il profilo formale, che sostanziale
agli indicati principi assolutamente
inderogabili, se non pregiudicando la natura
stessa e la funzione della competizione.
Considerato che la censura avanzata dalla
parte ricorrente è fondata, risultando,
dagli atti di causa, che l’apertura della
busta contenente la documentazione tecnica
ed economica è avvenuta in forma riservata,
così che risulta irrimediabilmente
pregiudicata l’intera e successiva attività
procedimentamentale, atteso che la puntuale
osservanza degli obblighi di trasparenza e
par condicio tra i soggetti di gara
impongono un metodo di selezione immune da
qualsivoglia sospetto di parzialità, così
che ogni singolo atto del procedimento,
anche di natura materiale, costituisce un
momento essenziale della procedura
competitiva e deve essere informato, sia
sotto il profilo formale, che sostanziale
agli indicati principi assolutamente
inderogabili, se non pregiudicando la natura
stessa e la funzione della competizione
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza
06.06.2012 n. 780 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Se appare ragionevole ipotizzare
che in tema di prestazioni di opere
dell’ingegno, con specifico riguardo alle
attività del progettista, il rapporto tra
costi e ricavi possa essere diverso rispetto
a quanto avviene per gli appalti di lavori
pubblici, giacché nei lavori pubblici
incidono in modo sensibile i costi delle
materie prime, del cantiere, per la
manodopera e per l’acquisto o il noleggio di
macchinari, mentre l’attività di
progettazione, come avviene per ogni
prestazione d’opera intellettuale, è
affidata in via prevalente al lavoro
intellettuale del progettista, non va però
sottaciuto che la giurisprudenza, nel
determinare il risarcimento del danno da
lucro cessante in materia di lavori pubblici
(ma anche di attività di progettazione)
applica, di regola, il cosiddetto “criterio
del decimo” limitando il risarcimento per
equivalente alla misura massima del 10% del
prezzo offerto.
---------------
Vanno impiegati criteri equitativi per
quantificare il cosiddetto danno curriculare
richiesto dagli appellanti.
Ci si riferisce al ristoro del pregiudizio
economico connesso alla impossibilità di far
valere, nelle future contrattazioni, il
requisito economico collegato alla
esecuzione della attività di progettazione.
L’impiego di criteri equitativi induce a
riconoscere questa voce di danno nella
misura del 10 % dell’utile economico (detto
altrimenti, nel 2% del prezzo offerto).
Poiché il danno curriculare si concretizza
nel nocumento alla immagine sociale della
impresa, o del professionista, con
riferimento all’aspetto del radicamento nel
territorio, risulta evidente la contiguità
con quello che in perizia viene qualificato
come “danno per il mancato ritorno di
immagine”.
... per la riforma della sentenza del TAR
PIEMONTE-TORINO -SEZIONE I, n. 303/2008,
resa tra le parti, concernente risarcimento
del danno ingiusto derivante
dall'illegittimo affidamento dell'incarico
di progettazione del restauro e adeguamento
funzionale delle Officine Grandi Riparazioni
a sede espositiva, museale ed Urban Center
Torino in favore del R.T. SO.TEC. srl;
...
Quanto all’utile economico che sarebbe
derivato agli appellanti dalla esecuzione
della attività di progettazione, la “perizia
di stima del danno” arch. Filippi,
depositata in giudizio il 28.12.2011,
richiama, a pagina 2, le statistiche
elaborate dalla Agenzia delle Entrate in
base ai dati degli studi di settore relativi
alle società e ai professionisti operanti
nel campo delle prestazioni professionali di
ingegneri e architetti. Dai dati messi a
disposizione dall’Agenzia si rileva che nel
settore interessato, su scala nazionale,
l’utile sarebbe rappresentato da una
percentuale variabile tra il 40% e il 60%
dei ricavi. Il mancato utile netto dei
ricorrenti/appellanti viene stimato, in
via cautelativa, nella percentuale minima
“pari al 40% dell’importo corrisposto ai
progettisti”.
Il Collegio ritiene eccessiva la
quantificazione del mancato utile indicata
in perizia.
In primo luogo è verosimile che, sul piano
statistico, i dati forniti dall’Agenzia
delle Entrate con riferimento alle
prestazioni professionali di ingegneri e
architetti –dati che, considerando numerose
variabili idonee a influenzare il risultato
economico del professionista, valgono come
mere ipotesi probabilistiche- riguardino, in
misura predominante, contrattazioni tra
privati, contrattazioni che non soggiacciono
alle regole proprie delle procedure
pubbliche e che possono quindi consentire
margini di guadagno superiori rispetto a
queste ultime.
In secondo luogo, se appare ragionevole
ipotizzare che in tema di prestazioni di
opere dell’ingegno, con specifico riguardo
alle attività del progettista, il rapporto
tra costi e ricavi possa essere diverso
rispetto a quanto avviene per gli appalti di
lavori pubblici, giacché nei lavori pubblici
incidono in modo sensibile i costi delle
materie prime, del cantiere, per la
manodopera e per l’acquisto o il noleggio di
macchinari, mentre l’attività di
progettazione, come avviene per ogni
prestazione d’opera intellettuale, è
affidata in via prevalente al lavoro
intellettuale del progettista, non va però
sottaciuto che la giurisprudenza, nel
determinare il risarcimento del danno da
lucro cessante in materia di lavori pubblici
(ma anche di attività di progettazione: v.
Cons. St., VI, nn. 115/2012 e 1774/2003)
applica, di regola, il cosiddetto “criterio
del decimo” limitando il risarcimento per
equivalente alla misura massima del 10% del
prezzo offerto.
In questo contesto, il Collegio stima equo
determinare il mancato utile nella misura
della metà di quanto specificato nella
perizia di parte, vale a dire nella misura
del 20% del prezzo indicato nella offerta
economica del RTP PCA.
Poiché nella perizia il mancato guadagno è
ragguagliato non solo all’incarico di
progettazione dell’intervento e al
coordinamento della sicurezza, ma anche a
“integrazioni di onorari” per attività
ulteriori, deliberate a partire dal
18.12.2003 e che esulano dall’oggetto
specifico della procedura, occorre precisare
che la determinazione del mancato guadagno
dovrà essere parametrata in via esclusiva
alla offerta economica presentata dal RTP
PCA nella procedura che si è conclusa nella
seduta del 18.10.2002.
Occorre inoltre puntualizzare –v. “supra”,
p. 3.2., “in finem”, e 4.1.- che nel
quantificare le somme da versare agli
appellanti si terrà conto del fatto che il
giudizio è stato proposto solo da tre dei
cinque partecipanti alla procedura, non
avendo proposto ricorso gli offerenti RPA e
MEDIF. Stando alla perizia, sul punto non
contestata dalla difesa comunale (v. pag.
8), gli appellanti vantavano nel complesso
una percentuale del 65% sull’importo dei
compensi, data dalla somma delle rispettive
percentuali parziali. La quantificazione del
danno dovrà pertanto essere
proporzionalmente ridotta sulla base del
riparto “pro quota” indicato nella perizia.
Vanno impiegati criteri
equitativi per quantificare il cosiddetto
danno curriculare richiesto dagli appellanti
(v. pag. 20 ric. app.) .
Ci si riferisce al ristoro del pregiudizio
economico connesso alla impossibilità di far
valere, nelle future contrattazioni, il
requisito economico collegato alla
esecuzione della attività di progettazione.
L’impiego di criteri equitativi induce a
riconoscere questa voce di danno nella
misura del 10 % dell’utile economico (detto
altrimenti, nel 2% del prezzo offerto).
Poiché il danno curriculare si concretizza
nel nocumento alla immagine sociale della
impresa, o del professionista, con
riferimento all’aspetto del radicamento nel
territorio (cfr., sul punto, Cons. St., VI,
n. 2751/2008), risulta evidente la contiguità
con quello che in perizia viene qualificato
come “danno per il mancato ritorno di
immagine”.
Non sono invece liquidabili le
spese e i costi sostenuti dal RTP PCA per la
preparazione dell’offerta e più in generale
della documentazione di gara (v. pag. 4
perizia). La partecipazione alla gara
implica infatti oneri che, almeno di regola,
restano a carico del soggetto che abbia
inteso prendere parte a una procedura di
selezione, e ciò sia nel caso di
aggiudicazione, sia nella ipotesi di mancata
aggiudicazione: le spese di partecipazione
alla gara sono il “prezzo dell’acquisto di
una opportunità di guadagno” (così Cons. St., V, 541/2012 e 808/2010, p. 17.3.; v. anche IV,
n. 6485 del 2010, § 44, cui si rinvia ai
sensi degli articoli 60, 74 e 88, comma 2,
lett. d), del cod. proc. amm.).
Non è riconoscibile nemmeno il
pregiudizio economico sofferto per la
gestione della gara, incluso quello connesso
alla assistenza e alla consulenza legale e
alle spese di difesa giudiziale, con
riguardo al giudizio impugnatorio terminato
con la sentenza Cons. St., V, n. 1805/2005.
In sede di liquidazione del risarcimento del
danno per mancata aggiudicazione non è,
infatti, ravvisabile una responsabilità
delle parti per spese legali e per danni
processuali atteso che, per quanto riguarda
in particolare le spese legali si tratta di
danni successivi all’aggiudicazione, come
tali non riconoscibili.
In materia di spese
processuali trova inoltre applicazione non
la disciplina dell’illecito aquiliano
dettata dall’art. 2043 cod. civ., ma la
disciplina di cui agli articoli 90 e
seguenti c. p.c., disposizioni applicabili
anche nei giudizi amministrativi (conf.
Cons. St., V, 541/2012, 6873/2009 e IV,
3340/2008; v. anche CdS, VI, n. 2751/2008, cui
si rinvia ex c. p. a.). Le spese per
reperire la documentazione necessaria per
“la procedura di ricorso” (v. pag. 5
perizia), in quanto propedeutiche rispetto
alle spese propriamente legali, vanno
assoggettate al “regolamento” appena
stabilito per quest’ultima tipologia di
spese.
Va soggiunto che, trattandosi di
debito di valore, agli appellanti spetta
anche la rivalutazione monetaria dal giorno
della stipulazione del contratto da parte
della società dichiarata illegittimamente
aggiudicataria fino alla pubblicazione della
presente sentenza, a decorrere dalla quale,
in forza della liquidazione giudiziale, il
debito di valore si trasforma in debito di
valuta.
Sulla somma totale, calcolata secondo le
indicazioni fatte sopra, vanno invece
computati gli interessi legali dalla data
del deposito della presente sentenza sino
all'effettivo soddisfo (giurisprudenza
pacifica, il che esime da citazioni
particolari) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.06.2012 n. 3314 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai
fini del rilascio della concessione edilizia
è necessaria una relazione qualificata a
contenuto reale dell'istante con il bene, e
cioè la qualità di proprietario,
superficiario, affittuario di fondi rustici,
usufruttuario dello stesso, anche se in
formazione, non essendo sufficiente il solo
rapporto obbligatorio, in quanto il diritto
a costruire è una proiezione del diritto di
proprietà o di altro diritto reale di
godimento che autorizzi a disporre un
intervento costruttivo.
All'usufruttuario è comunque riconosciuta
la legittimazione al rilascio del permesso
di costruire dal momento che l'art. 11, d.P.R. n. 380 del 2001 individua tra i
soggetti legittimati oltre al proprietario
anche coloro che «abbiano titolo per
richiederlo», sicché non vi è dubbio che tra
gli aventi titolo rientri anche
l'usufruttuario del bene, che, quale
titolare di un diritto reale di godimento,
gode di una relazione qualificata con il
bene medesimo.
-------------
Nel ricorso proposto avverso il permesso di
costruire rilasciato al vicino la vicinitas
è condizione necessaria, ma non sufficiente
a radicare, ferma la legittimazione,
l'interesse al ricorso, il quale richiede
anche la dimostrazione del pregiudizio
concreto alle facoltà dominicali del
ricorrente.
La dimostrata titolarità a chiedere ed
ottenere la concessione edilizia su un
fondo, da parte dell’usufruttuario, importa
che lo stesso in via di principio sia
legittimato a contestare la legittimità del
permesso di costruire rilasciato al vicino,
purché sussistano i presupposti della
vicinitas e del concreto pregiudizio alle
facoltà dominicali, che si è visto essere il
proprium della legittimazione ad agire in
subiecta materia.
---------------
Per costante quanto condivisibile
giurisprudenza della Corte di Cassazione
l’usufruttuario al cospetto dei terzi
esercita i diritti del pieno possessore
(“l'usufruttuario, ancorché possessore
rispetto ai terzi, è, nel rapporto con il
nudo proprietario, mero detentore del bene,
con la conseguenza che egli può usucapirne
la proprietà solo ponendo in essere un atto
d'interversione del possesso, esteriorizzato
in maniera inequivocabile e riconoscibile,
vale a dire attraverso un'attività durevole,
contrastante e incompatibile con il possesso
altrui”) e pertanto i diritti nascenti da
detta posizione giuridica non possono essere
condizionati dalla sussistenza –o meno– di
un rapporto di detenzione con il bene
materiale (è appena il caso di rammentare
che per tradizione risalente al diritto
romano classico il possesso può esercitarsi
“solo animo”).
Deve premettersi che la giurisprudenza amministrativa, muovendo dal
tenore letterale dell’art. 11 del dPR n.
380/2001, ha costantemente affermato che ”ai
fini del rilascio della concessione edilizia
è necessaria una relazione qualificata a
contenuto reale dell'istante con il bene, e
cioè la qualità di proprietario,
superficiario, affittuario di fondi rustici,
usufruttuario dello stesso, anche se in
formazione, non essendo sufficiente il solo
rapporto obbligatorio, in quanto il diritto
a costruire è una proiezione del diritto di
proprietà o di altro diritto reale di
godimento che autorizzi a disporre un
intervento costruttivo” (Consiglio Stato,
sez. IV, 08.06.2007, n. 3027);
”all'usufruttuario è comunque riconosciuta
la legittimazione al rilascio del permesso
di costruire dal momento che l'art. 11, d.P.R. n. 380 del 2001 individua tra i
soggetti legittimati oltre al proprietario
anche coloro che «abbiano titolo per
richiederlo», sicché non vi è dubbio che tra
gli aventi titolo rientri anche
l'usufruttuario del bene, che, quale
titolare di un diritto reale di godimento,
gode di una relazione qualificata con il
bene medesimo” (TAR Campania Napoli,
sez. VIII, 07.03.2011, n. 1318).
Costituisce altresì principio fondante in
materia quello per cui “nel ricorso proposto
avverso il permesso di costruire rilasciato
al vicino la vicinitas è condizione
necessaria, ma non sufficiente a radicare,
ferma la legittimazione, l'interesse al
ricorso, il quale richiede anche la
dimostrazione del pregiudizio concreto alle
facoltà dominicali del ricorrente”
(Consiglio Stato, sez. IV, 24.01.2011, n. 485).
La dimostrata titolarità a chiedere ed
ottenere la concessione edilizia su un
fondo, da parte dell’usufruttuario, importa
che lo stesso in via di principio sia
legittimato a contestare la legittimità del
permesso di costruire rilasciato al vicino,
purché sussistano i presupposti della
vicinitas e del concreto pregiudizio alle
facoltà dominicali, che si è visto essere il
proprium della legittimazione ad agire in
subiecta materia.
Posto che nel caso di specie la vicinitas è
certamente sussistente, ed il petitum
proposto dall’appellante in primo grado era
volto a censurare, tra l’altro, anche la
violazione del regime delle distanze, appare
al Collegio doveroso affermare che in via
astratta fosse incontestabile la
legittimazione ad agire dell’appellante.
---------------
E’ ben
noto al Collegio che la funzionalizzazione
del concetto di proprietà (comprensivo dei
diritti reali “parziari” o “minori”)
ascrivibile non soltanto all’art. 42 della
Costituzione induca a ritenere ormai privo
di cittadinanza, nel sistema, il brocardo
romanistico secondo cui il proprium dello
statuto proprietario si ravvisa nel “ius utendi fruendi et abutendi” .
Tuttavia resta incontestabile che le facoltà
attribuite dal titolo costitutivo
all’usufruttuario di un bene immobile
possano essere liberamente esercitabili da
questo; che la scelta di non esercitarle sia
allo stesso liberamente rimessa; che a
cagione di tale omesso esercizio, e sino
alla eventuale prescrizione estintiva del
diritto (art. 1014, n.1, del codice civile)
quest’ultimo si conservi immutato e
legittimi il titolare all’esercizio di tutte
le azioni a difesa del proprio diritto.
Si rammenta in proposito che, per costante
quanto condivisibile giurisprudenza della
Corte di Cassazione l’usufruttuario al
cospetto dei terzi esercita i diritti del
pieno possessore (“l'usufruttuario, ancorché
possessore rispetto ai terzi, è, nel
rapporto con il nudo proprietario, mero
detentore del bene, con la conseguenza che
egli può usucapirne la proprietà solo
ponendo in essere un atto d'interversione
del possesso, esteriorizzato in maniera
inequivocabile e riconoscibile, vale a dire
attraverso un'attività durevole,
contrastante e incompatibile con il possesso
altrui” - Cassazione civile, sez. II, 10.01.2011, n. 355) e pertanto i diritti
nascenti da detta posizione giuridica non
possono essere condizionati dalla
sussistenza –o meno– di un rapporto di
detenzione con il bene materiale (è appena
il caso di rammentare che per tradizione
risalente al diritto romano classico il
possesso può esercitarsi “solo animo”).
--------------
Tale legittimazione, peraltro, spetta
certamente all’usufruttuario (semmai, con
riferimento a particolari aspetti, si
potrebbe forse dubitare della legitimatio ad
causam del nudo proprietario: “la servitù
determina un rapporto tra fondi -di cui uno
fornisce utilità all'altro-, la
legittimazione processuale, attiva e
passiva, nei giudizi ove è contestata
l'esistenza di detto rapporto, compete a
coloro che al momento della domanda sono
titolari delle situazioni giuridiche
dominicali rispettivamente avvantaggiate e
svantaggiate dalla servitù.
Tuttavia, quando
il godimento completo del bene, cui si
riferisce -in linea di vantaggio o di
svantaggio- la contestata situazione di
servitù, spetta non al proprietario, ma al
titolare del diritto di usufrutto, al quale
è assimilabile il concessionario di bene
demaniale, a tale soggetto -usufruttuario o
concessionario- si estende la legittimazione
processuale, attiva e passiva, ai sensi
dell'art. 1012, comma 2, c.c., che,
legittimando espressamente l'usufruttuario
all'azione confessoria per la difesa della
servitù costituita a favore del fondo,
implica di per sé la legittimazione passiva
alla negatoria -costituente l'aspetto
negativo della confessoria-, salvo l'onere
-in base alla norma citata- di chiamare in
causa il proprietario che, quindi, deve
partecipare al giudizio come litisconsorte
necessario dell'usufruttuario o del
concessionario” Cassazione civile, sez. II,
29.01.1983, n. 819).
E ciò a prescindere dalla circostanza che
l’usufruttuario fosse anche detentore del
bene.
Sotto altro profilo, appare senz’altro
inammissibile, per quanto si è finora
chiarito (ma si veda anche: ”ove su di un
immobile coesistano il diritto del nudo
proprietario e quello dell'usufruttuario, il
possesso che acquista rilievo ai fini
dell'usucapione è, in primo luogo,
configurabile a favore dell'usufruttuario,
il quale può esercitarlo anche a vantaggio
del nudo proprietario, ampliandone il
godimento anche attraverso la costituzione
di servitù attive; peraltro, se il nudo
proprietario ha, di fatto, la disponibilità
del bene, possono assumere rilievo anche gli
atti di possesso dal medesimo compiuti,
l'esercizio dei quali costituisce onere
probatorio della parte che lo invochi” -Cassazione civile, sez. II, 14.10.2010, n. 21231-) che la inerzia del nudo
proprietario possa pregiudicare il diritto
di difesa dell’usufruttuario (e viceversa):
anche le dette eccezioni devono pertanto
essere disattese, e, per concludere sul
tema, nessuna refluenza spiega sull’odierno
giudizio la circostanza prospettata alle
pagg. 10 ed 11 della memoria depositata
dalla Parco Costruzioni Srl secondo cui il
padre dell’appellante Signor P.P.
avrebbe posto in vendita il complesso
immobiliare di propria pertinenza (e ciò sia
perché, in ossequio al principio nemo plus
iuris transferre potest quam ipse habet,
tale volontà dismissiva non potrebbe
riguardare l’usufrutto di pertinenza
dell’appellante; sia perché la volontà di
alienare un bene non implica rinuncia alle
azioni proposte, e men che meno sopravvenuta
carenza di interesse, posto che l’esito
favorevole di una lite potrebbe in ipotesi
arrecare un incremento di valore del bene
dallo stesso posseduto, sia, infine, perché
a tale volontà di alienare la proprietà del
bene non è seguita, comunque, la
stipulazione di alcuna compravendita: in
ogni caso l’appellante ha proposto azione
risarcitoria, e ciò esclude la ravvisabilità
di profili di sopravvenuta carenza di
interesse)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.06.2012 n. 3300 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La decorrenza del termine per
ricorrere in sede giurisdizionale avverso
atti abilitativi dell'edificazione si ha,
per i soggetti diversi da quelli cui l'atto
è rilasciato (ovvero che in esso sono
comunque indicati) dalla data in cui si
renda palese ed oggettivamente apprezzabile
la lesione del bene della vita protetto, la
qual cosa si verifica quando sia percepibile
dal controinteressato la concreta entità del
manufatto e la sua incidenza effettiva sulla
propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di
costruire, è sufficiente la cd. "vicinitas",
quale elemento che distingue la posizione
giuridica del ricorrente da quella della
generalità dei consociati, di talché è
corretto riconoscere a chi si trovi in tale
situazione un interesse tutelato a ché il
provvedimento dell'Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente
ossequioso delle norme vigenti in materia”.
Ciò che si vuole rimarcare, però, è che la
“conoscenza” non può essere sfalsata, o
procrastinata sine die, a cagione della
situazione soggettiva del terzo
asseritamente leso: questi è certamente
libero di non risiedere nel sito di propria
pertinenza, e disinteressarsi di ciò che
accade nelle vicinanze dello stesso, ma non
può giovarsi di tale circostanza per
proporre gravami tardivi.
Più che di effettiva conoscenza, quindi,
deve farsi riferimento al concetto di
“conoscibilità” della possibile lesione
giuridica al proprio “statuto proprietario”
arrecata dalla costruzione limitrofa, quale
termine a partire dal quale decorre la
proponibilità dell’azione giurisdizionale
(quantomeno laddove un titolo vi sia, ed in
disparte la differente ipotesi in cui
vengano intrapresi lavori abusivi in carenza
di provvedimento abilitativo).
Ciò per non lasciare che l’azione
amministrativa culminata nel rilascio di
titoli abilitativi ai controinteressati
rimanga esposta alla proposizione di azioni
demolitorie intentate a rilevante distanza
temporale dal rilascio (e per salvaguardare
altresì l’affidamento del latore del titolo
abilitativo rilasciatogli sulla legittimità
di quest’ultimo).
---------------
A conoscenza effettiva e completa della
concessione edilizia rilasciata a terzi -che
deve essere provata da chi eccepisce la
tardività dell'impugnazione- si verifica di
regola, in mancanza di diversi mezzi di
inoppugnabile prova, con l'ultimazione dei
lavori di costruzione dell'immobile e non
con solo il loro inizio occorre pertanto che
le parti evidenzino elementi di prova di una
conoscenza anteriore dell'opera assentita e
della sua consistenza o una ultimazione dei
lavori in epoca anteriore oltre sessanta
giorni rispetto alla proposizione del
ricorso.
Non ignora il Collegio che
consolidata e condivisibile giurisprudenza
abbia con continuità affermato che “la
decorrenza del termine per ricorrere in sede
giurisdizionale avverso atti abilitativi
dell'edificazione si ha, per i soggetti
diversi da quelli cui l'atto è rilasciato
(ovvero che in esso sono comunque indicati)
dalla data in cui si renda palese ed
oggettivamente apprezzabile la lesione del
bene della vita protetto, la qual cosa si
verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del
manufatto e la sua incidenza effettiva sulla
propria posizione giuridica.
In materia di
impugnazione del permesso di costruire, è
sufficiente la cd. "vicinitas", quale
elemento che distingue la posizione
giuridica del ricorrente da quella della
generalità dei consociati, di talché è
corretto riconoscere a chi si trovi in tale
situazione un interesse tutelato a ché il
provvedimento dell'Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente
ossequioso delle norme vigenti in
materia” Consiglio Stato, sez. IV, 05.01.2011, n. 18).
Ciò che si vuole rimarcare, però, è che la
“conoscenza” non può essere sfalsata, o
procrastinata sine die, a cagione della
situazione soggettiva del terzo
asseritamente leso: questi è certamente
libero di non risiedere nel sito di propria
pertinenza, e disinteressarsi di ciò che
accade nelle vicinanze dello stesso, ma non
può giovarsi di tale circostanza per
proporre gravami tardivi.
Più che di effettiva conoscenza, quindi,
deve farsi riferimento al concetto di
“conoscibilità” della possibile lesione
giuridica al proprio “statuto proprietario”
arrecata dalla costruzione limitrofa, quale
termine a partire dal quale decorre la
proponibilità dell’azione giurisdizionale
(quantomeno laddove un titolo vi sia, ed in
disparte la differente ipotesi in cui
vengano intrapresi lavori abusivi in carenza
di provvedimento abilitativo).
Ciò per non lasciare che l’azione
amministrativa culminata nel rilascio di
titoli abilitativi ai controinteressati
rimanga esposta alla proposizione di azioni
demolitorie intentate a rilevante distanza
temporale dal rilascio (e per salvaguardare
altresì l’affidamento del latore del titolo
abilitativo rilasciatogli sulla legittimità
di quest’ultimo).
---------------
Come è noto, la giurisprudenza
amministrativa di primo grado ha a più
riprese affermato che
“a conoscenza effettiva e completa della
concessione edilizia rilasciata a terzi -che deve essere provata da chi eccepisce la
tardività dell'impugnazione- si verifica di
regola, in mancanza di diversi mezzi di
inoppugnabile prova, con l'ultimazione dei
lavori di costruzione dell'immobile e non
con solo il loro inizio occorre pertanto che
le parti evidenzino elementi di prova di una
conoscenza anteriore dell'opera assentita e
della sua consistenza o una ultimazione dei
lavori in epoca anteriore oltre sessanta
giorni rispetto alla proposizione del
ricorso” (TAR Liguria Genova, sez. I, 19.12.2006, n. 1711).
Ritiene il Collegio che detta evenienza (la
“prova inoppugnabile” cui fa riferimento la
giurisprudenza) sia avvenuta nel caso in
esame, proprio tenuto conto delle doglianze
contenute nel mezzo di primo grado, volte a
dolersi della demolizione e della
ricostruzione violativa del regime delle
distanze: non si tratta, come è evidente, di
affermare un insussistente obbligo del
titolare di un diritto reale di risiedere a
tempo pieno nell’immobile di propria
pertinenza, al fine di potere contestare (asseritamente) illegittime
iniziative edificatorie da altri intraprese,
al fine di ritualmente contestarle.
Si tratta di verificare, caso per caso, e
tenuto conto delle particolari circostanze
concrete, con una tolleranza possibile
laddove lo scostamento temporale sia minimo,
il momento in cui la lesione era
concretamente avvertibile e percepibile, e
da tal momento individuare il dies a quo di
proposizione del gravame.
Nel caso di specie, a fronte di uno
scostamento temporale che per le già
chiarite ragioni appare assai ampio, non
sussistono motivi per dilatare oltremisura –siccome
richiesto dall’appellante- i termini di
proposizione del gravame: la sentenza
impugnata merita quindi piena conferma sul
punto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.06.2012 n. 3300 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
L'Amministrazione non ha
l'obbligo, ma il potere discrezionale, di
agire in autotutela, con la conseguenza che
istanze volte a sollecitare l'esercizio di
tale potere hanno una funzione di mera
denuncia o sollecitazione, ma non creano in
capo alla p.a. alcun obbligo di provvedere e
non danno luogo a formazione di
silenzio-inadempimento in caso di mancata
definizione dell'istanza.
Ulteriore autonomo caso in cui non si
ravvisa alcun obbligo di provvedere sulla
istanza del privato, si ravvisa laddove
l'istanza volta all'esercizio del potere di
autotutela abbia ad oggetto un provvedimento
già impugnato in sede giurisdizionale e "sub
judice" al momento dell'istanza stessa: e
ciò all'evidente scopo di evitare la
proliferazione di inutili e dispendiose
iniziative giurisdizionali in relazione ad
un'unica vicenda sostanziale.
Le doglianze dell’appellante si fondano
su una non corretta esegesi dell’art. 27 del dPR n. 380/2001, a torto invocato nel caso
in esame.
Stabilisce infatti la richiamata
disposizione che: “Il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale
esercita, anche secondo le modalità
stabilite dallo statuto o dai regolamenti
dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale
per assicurarne la rispondenza alle norme di
legge e di regolamento, alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Il dirigente o il responsabile, quando
accerti l'inizio o l'esecuzione di opere
eseguite senza titolo su aree assoggettate,
da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo
di inedificabilità, o destinate ad opere e
spazi pubblici ovvero ad interventi di
edilizia residenziale pubblica di cui alla
legge 18.04.1962, n. 167, e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché in
tutti i casi di difformità dalle norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici, provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei
luoghi. Qualora si tratti di aree
assoggettate alla tutela di cui al regio
decreto 30.12.1923, n. 3267, o
appartenenti ai beni disciplinati dalla
legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle
aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede
alla demolizione ed al ripristino dello
stato dei luoghi, previa comunicazione alle
amministrazioni competenti le quali possono
eventualmente intervenire, ai fini della
demolizione, anche di propria iniziativa.
Per le opere abusivamente realizzate su
immobili dichiarati monumento nazionale con
provvedimenti aventi forza di legge o
dichiarati di interesse particolarmente
importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del
decreto legislativo 29.10.1999, n.490,
o su beni di interesse archeologico, nonché
per le opere abusivamente realizzate su
immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione
delle disposizioni del titolo II del decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490, il
Soprintendente, su richiesta della regione,
del comune o delle altre autorità preposte
alla tutela, ovvero decorso il termine di
180 giorni dall'accertamento dell'illecito,
procede alla demolizione, anche avvalendosi
delle modalità operative di cui ai commi 55
e 56 dell'articolo 2 della legge 23.12.1996, n. 662 .
Ferma rimanendo l'ipotesi prevista dal
precedente comma 2, qualora sia constatata,
dai competenti uffici comunali d'ufficio o
su denuncia dei cittadini, l'inosservanza
delle norme, prescrizioni e modalità di cui
al comma 1, il dirigente o il responsabile
dell'ufficio, ordina l'immediata sospensione
dei lavori, che ha effetto fino all'adozione
dei provvedimenti definitivi di cui ai
successivi articoli, da adottare e
notificare entro quarantacinque giorni
dall'ordine di sospensione dei lavori. Entro
i successivi quindici giorni dalla notifica
il dirigente o il responsabile dell'ufficio,
su ordinanza del sindaco, può procedere al
sequestro del cantiere.
Gli ufficiali ed agenti di polizia
giudiziaria, ove nei luoghi in cui vengono
realizzate le opere non sia esibito il
permesso di costruire, ovvero non sia
apposto il prescritto cartello, ovvero in
tutti gli altri casi di presunta violazione
urbanistico-edilizia, ne danno immediata
comunicazione all'autorità giudiziaria, al
competente organo regionale e al dirigente
del competente ufficio comunale, il quale
verifica entro trenta giorni la regolarità
delle opere e dispone gli atti conseguenti”.
Secondo parte appellante detto potere-dovere
di vigilanza integra un preciso dovere
dell’Amministrazione, cui la stessa deve
ottemperare sia ex officio, che ove (come
del caso di specie) sollecitata da una
diffida di privati: l’eventuale diniego
all’adozione dei richiesti provvedimenti
repressivi sfocia in una manifestazione
(seppure negativa) di potere avente
contenuto provvedimentale, autonomamente
impugnabile.
Il Collegio, seppur il linea di
principio concordi con talune affermazioni
contenute nei richiamati motivi di appello,
ritiene che la pur abilmente formulata prospettazione dell’appellante non abbia
alcuna possibilità di accoglimento.
Invero, ciò che l’appellante trascura di
rilevare è che la sollecitazione
all’esercizio del detto potere di vigilanza
e repressivo, si innestava in una pendente
vicenda contenziosa, già devoluta al vaglio
giurisdizionale e, soprattutto, non trattavasi di iniziativa sollecitatoria
volta a stimolare l’amministrazione a
reprimere condotte di edificazione abusiva
sine titulo (vedasi il comma 2 della citata
disposizione), ma di diffida all’esercizio
di poteri di autotutela in quanto volti al
ritiro od autoannullamento di atti
ampliativi precedentemente resi (e per di
più già impugnati in sede giurisdizionale).
Appare al Collegio evidente, pertanto, che
se l’oggetto dell’attività “sollecitata”
all’amministrazione riposava nella
repressione di asserite violazioni edilizie,
avuto riguardo alla non secondaria
circostanza che erano già stati emessi
provvedimenti ampliativi, in realtà ciò che
si pretendeva da parte dell’appellante
riposava nell’esercizio di attività di
autotutela da parte del comune.
Rammenta il Collegio che, per condivisa
quanto pacifica giurisprudenza
“l'Amministrazione non ha l'obbligo, ma il
potere discrezionale, di agire in
autotutela, con la conseguenza che istanze
volte a sollecitare l'esercizio di tale
potere hanno una funzione di mera denuncia o
sollecitazione, ma non creano in capo alla
p.a. alcun obbligo di provvedere e non danno
luogo a formazione di silenzio-inadempimento
in caso di mancata definizione
dell'istanza” (Consiglio Stato, sez. VI, 11.02.2011, n. 919).
In particolare, poi, si è condivisibilmente rimarcato da parte della
giurisprudenza di merito che, ulteriore
autonomo caso in cui non si ravvisa alcun
obbligo di provvedere sulla istanza del
privato, si ravvisa laddove l'istanza volta
all'esercizio del potere di autotutela abbia
ad oggetto un provvedimento già impugnato in
sede giurisdizionale e "sub judice" al
momento dell'istanza stessa: e ciò
all'evidente scopo di evitare la
proliferazione di inutili e dispendiose
iniziative giurisdizionali in relazione ad
un'unica vicenda sostanziale (TAR
Liguria, sez. II, 10.05.2007; cfr.
altresì TAR Campania Napoli, sez. III, 19.03.2008, n. 1410 e ancor più di recente,
TAR Lazio Roma, sez. II, 22.09.2010, n.
32400)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.06.2012 n. 3300 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rivalutazioni senza le ritenute. Cds
sul calcolo degli stipendi nella
p.a..
Per le differenze retributive dovute al
dipendente pubblico, ad esempio perché ha
svolto mansioni superiori, il calcolo degli
interessi e della rivalutazione monetaria
deve avvenire al netto delle ritenute
assistenziali, previdenziali e erariali.
Lo
chiarisce una volta per tutte l'Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato con la
sentenza
05.06.2012 n. 18.
Il massimo consesso di palazzo Spada fuga
ogni dubbio e mette a tacere i giudici
dissenzienti. Il punto della questione sta
nell'articolo 22 della legge 724/1994 in tema
di finanza pubblica: il divieto del cumulo
fa in modo che la rivalutazione monetaria
non sia più compenetrata con il credito
retributivo, ma costituisca un elemento
distinto che rappresenta unicamente una
tecnica liquidatoria del danno da ritardo;
il credito da lavoro, insomma, non risulta
diverso dalle altre obbligazioni di natura
pecuniaria. Tanto la rivalutazione quanto
gli interessi che spettano al dipendente
pubblico, rappresentano soltanto un effetto
del ritardo e quindi non possono essere
inglobati nel credito fin dall'origine.
Sbaglia il lavoratore cui non tornano i
conti: secondo il travet il calcolo degli
accessori doveva essere operato al lordo
sugli importi nominali di ogni rateo e fino
all'adempimento tardivo e non sull'importo
netto come ha fatto l'amministrazione.
Fa bene invece l'ufficio a considerare come
la base di calcolo la somma dovuta a titolo
principale al netto delle ritenute fiscali e
previdenziali: deve essere applicata la
tecnica liquidatoria imperniata sul
successivo calcolo separato di interessi e
rivalutazione sul valore nominale del
credito, mentre è definitivamente superata
la tesi che propugnava la rivalutazione con
il credito contributivo. E ciò anche perché
l'articolo 429 cpc non ha trasformato il
debito creditorio in debito di valore (sia
pure indicizzabile secondo una particolare
disciplina).
Non bisogna dimenticare, poi, la rilevanza
della ritenuta alla fonte, che il sostituto
d'imposta effettua in base a una delega di
legge: il denaro corrispondente, infatti,
non sarebbe comunque mai entrato nella
disponibilità del dipendente, mentre può
produrre interessi e resta soggetto ai
meccanismi di attualizzazione del credito
soltanto il denaro che è posto a
disposizione del creditore e che
effettivamente ne incrementa il patrimonio
(articolo ItaliaOggi
del 09.06.2012 - link a www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - SINDACATI:
Va confermata la piena
legittimazione delle organizzazioni
sindacali ad azionare il diritto di accesso,
sia iure proprio, sia a tutela di interessi
giuridicamente rilevanti della categoria
rappresentata, purché esso non configuri una
forma di preventivo e generalizzato
controllo dell’intera attività
dell’Amministrazione datrice di lavoro.
Vanno decisamente in questo senso altre
sentenze del Consiglio di Stato, applicando più
generali principi messi in luce da
precedenti sentenze che hanno riconosciuto
in via estesa e sistematica il diritto di
accesso a tutela di interessi collettivi e
diffusi, con il limite che esso “non
giustifica un generalizzato e pluricomprensivo
diritto alla conoscenza di tutti i documenti
riferiti all’attività di un gestore di un
servizio.
---------------
L’esercizio del diritto di accesso
costituisce, rispetto ai diritti di
informazione riconosciuti per legge al
sindacato, uno strumento del tutto autonomo,
ma è per converso legittimato dallo stesso
tipo di interesse e dalla stessa ratio che
sostiene le norme sul diritto di
informazione. L’esistenza di queste dimostra
in modo tangibile che i dati in materia non
corrispondono ad interessi di singoli, ma ad
un interesse tipicamente collettivo, in
quanto riguardano la verifica della
osservanza di criteri oggettivi attraverso
il confronto di una pluralità di casi e
l’esame di singole situazioni anomale alla
luce dei criteri fissati.
Si tratta quindi di un interesse specifico e
proprio del sindacato, del tutto distinto da
quello che i singoli associati potrebbero
far valere. Non solo, ma questo interesse va
oltre quello dei propri associati: un
sindacato non solo tutela i propri iscritti,
ma anche quelli dei non iscritti e tende ad
accrescere la sua forza agendo per acquisire
nuovi iscritti e maggiore rappresentatività.
Tale interesse è inoltre concreto e attuale
perché in grado di determinare
corrispondenti iniziative del sindacato a
tutela degli interessi collettivi che gli
sono propri e che si riferiscono alla intera
categoria rappresentata, la quale è
certamente nel suo complesso interessata ad
evitare disparità di trattamento di casi
analoghi tra i dipendenti, siano o meno
iscritti al sindacato, mentre i singoli
associati, ove avvantaggiati, potrebbero
esserlo molto meno.
---------------
Non basta avere un interesse valido e
giuridicamente rilevante se la richiesta
configura una forma di controllo
generalizzato sulla pubblica
amministrazione, in quanto questo limite
all’accesso è posto esplicitamente
dall’articolo 24, comma 3, a prescindere
dalla esistenza di un interesse ancorché
qualificato.
La richiesta di accesso ha, infatti,
carattere accessorio e complementare
rispetto a diritti di informazione che hanno
la stessa portata, differenziandosi solo per
il contenuto. Essa è pertanto strumentale
alla medesima finalità ed è quindi -per
definizione normativa- una forma di
controllo consentita e legittima con
riferimento ad uno specifico settore di
attività, che è quello definito dal
corrispondente diritto di informazione.
Pertanto, il diritto di informazione non si
confonde, ma costituisce un valido
presupposto per l’esercizio di una richiesta
di accesso con diversi contenuti aventi la
stessa portata spaziale e temporale.
Anzitutto va confermata la piena
legittimazione delle organizzazioni
sindacali ad azionare il diritto di accesso,
sia iure proprio, sia a tutela di interessi
giuridicamente rilevanti della categoria
rappresentata, purché esso non configuri una
forma di preventivo e generalizzato
controllo dell’intera attività
dell’Amministrazione datrice di lavoro.
Vanno decisamente in questo senso le
sentenze del Consiglio di Stato, Sezione VI,
n. 1351/2009 e n. 24/2010, applicando più
generali principi messi in luce da
precedenti sentenze che hanno riconosciuto
in via estesa e sistematica il diritto di
accesso a tutela di interessi collettivi e
diffusi, con il limite che esso “non
giustifica un generalizzato e pluricomprensivo diritto alla conoscenza di
tutti i documenti riferiti all’attività di
un gestore di un servizio..” (Consiglio di
Stato, Sezione VI, n. 555/2006).
Occorre dunque verificare nel caso di
specie:
a) l’esistenza di un interesse
collettivo proprio del sindacato ad azionare
il diritto di accesso nella materia
indicata;
b) la non opponibilità di limiti
previsti dalle norme in vigore e, in modo
specifico, sia quelli derivanti dal divieto
di esercitare nella forma dell’accesso un
controllo generalizzato su attività
amministrative, sia quelli derivanti dal
diritto alla riservatezza delle persone
interessate.
Per dirimere ognuno di questi diversi
aspetti, il Collegio ritiene necessario
delineare il quadro normativo nel quale la
richiesta di accesso si colloca.
Quest’ultima si aggiunge ad un diritto di
informazione già normativamente previsto,
nella stessa materia, dall’art. 7, comma 3,
del D.P.R. n. 254/1999, che riconosce al
sindacato l’informazione relativa al “numero
delle assegnazioni temporanee e dei relativi
rinnovi”, e dall’articolo 24 dello stesso
decreto che conferma questo diritto di
informazione in materia quanto “ai criteri
generali e alle iniziative concernenti:….b)
la mobilità del personale a domanda”.
Richiamare tali norme non significa
confondere il diritto di informazione da
esse sancito con il diritto di accesso ai
documenti relativi, come sostenuto
nell’appello. Al contrario, vi è una precisa
distinzione tra la tutelata aspettativa ad
essere informati su alcuni aspetti e
l’esercizio del diritto di accesso su altri
aspetti della stessa materia.
Dalla
disciplina della materia nel quadro
normativo e contrattuale in vigore per il
personale di polizia, si evince però che la
materia è tra quelle di massimo interesse
del sindacato in rapporto alle condizioni
specifiche del rapporto di lavoro
nell’ambito delle forze di polizia, ove la
questione della sede di assegnazione e della
mobilità a domanda è tra quelle che incidono
maggiormente sulla vita degli operatori e
delle loro famiglie.
L’esercizio del diritto di accesso
costituisce, rispetto ai diritti di
informazione riconosciuti per legge al
sindacato, uno strumento del tutto autonomo,
ma è per converso legittimato dallo stesso
tipo di interesse e dalla stessa ratio che
sostiene le norme sul diritto di
informazione. L’esistenza di queste dimostra
in modo tangibile che i dati in materia non
corrispondono ad interessi di singoli, ma ad
un interesse tipicamente collettivo, in
quanto riguardano la verifica della
osservanza di criteri oggettivi attraverso
il confronto di una pluralità di casi e
l’esame di singole situazioni anomale alla
luce dei criteri fissati.
Si tratta quindi
di un interesse specifico e proprio del
sindacato, del tutto distinto da quello che
i singoli associati potrebbero far valere.
Non solo, ma questo interesse va oltre
quello dei propri associati: un sindacato
non solo tutela i propri iscritti, ma anche
quelli dei non iscritti e tende ad
accrescere la sua forza agendo per acquisire
nuovi iscritti e maggiore rappresentatività.
Tale interesse è inoltre concreto e
attuale perché in grado di determinare
corrispondenti iniziative del sindacato a
tutela degli interessi collettivi che gli
sono propri e che si riferiscono alla intera
categoria rappresentata, la quale è
certamente nel suo complesso interessata ad
evitare disparità di trattamento di casi
analoghi tra i dipendenti, siano o meno
iscritti al sindacato, mentre i singoli
associati, ove avvantaggiati, potrebbero
esserlo molto meno.
Dimostrato il carattere collettivo e
propriamente sindacale dell’interesse
sottostante l’accesso, non sfugge al
Collegio che questa stessa Sezione ha anche
di recente affermato -nella sentenza n.
519/2012- che non basta avere un interesse
valido e giuridicamente rilevante se la
richiesta configura una forma di controllo
generalizzato sulla pubblica
amministrazione, in quanto questo limite
all’accesso è posto esplicitamente
dall’articolo 24, comma 3, a prescindere
dalla esistenza di un interesse ancorché
qualificato. Occorre dunque escludere che la
richiesta in oggetto, pur se sostenuta da un
valido interesse, configuri una forma di
controllo generalizzato. Anche a questo fine
risulta decisiva l’analisi del quadro
normativo sopra ricordato.
La richiesta di accesso ha, infatti,
carattere accessorio e complementare
rispetto a diritti di informazione che hanno
la stessa portata, differenziandosi solo per
il contenuto. Essa è pertanto strumentale
alla medesima finalità ed è quindi -per
definizione normativa- una forma di
controllo consentita e legittima con
riferimento ad uno specifico settore di
attività, che è quello definito dal
corrispondente diritto di informazione.
Pertanto, il diritto di informazione non si
confonde, ma costituisce un valido
presupposto per l’esercizio di una richiesta
di accesso con diversi contenuti aventi la
stessa portata spaziale e temporale.
E’ invece diverso il caso dei limiti
che la richiesta di accesso può incontrare
per il necessario rispetto dei diritti di
riservatezza del personale interessato alle
assegnazioni provvisorie disposte. Il TAR ha
dimostrato di tener conto di questo aspetto,
disponendo l’integrazione del
contraddittorio nei confronti delle persone
nominativamente indicate nel ricorso come
destinatarie di provvedimenti di
assegnazione provvisoria e prevedendo nel
dispositivo che il diritto della “CONSAP” di
prendere visione degli atti da essa
richiesti sussisteva limitatamente alla
posizione dei controinteressati intimati.
Tale limite deve essere confermato in sede
di appello, ma deve essere accentuato e
integrato, stabilendo in aggiunta che
l’Amministrazione deve adempiere all’accesso
nei limiti e con modalità tali che
consentano di rispettare il diritto alla
riservatezza delle persone interessate per i
dati da considerare sensibili alla stregua
di quanto previsto dal provvedimento
generale n. 29823 del 09.07.2003
dell’Autorità Garante per la protezione dei
dati personali (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 04.06.2012 n. 2559 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Tenuto
conto del lungo tempo intercorso dalla
presentazione della SCIA e delle numerose
integrazioni documentali, è illegittimo il
provvedimento di demolizione recante un mero
richiamo alla presunta contrarietà
dell’opera alle NTA vigente e senza alcun
cenno ai presupposti per l’esercizio del
potere di autotutela, come del resto
stabilito dalla prevalente giurisprudenza in
analoghe fattispecie, nelle quali
l’esercizio del potere repressivo in materia
edilizia non è stato preceduto dal rituale
esercizio del potere ex art. 21-nonies della
legge 241/1990.
L’ordinanza di demolizione concerne un’opera
(box per auto), realizzata dall’esponente in
esecuzione della SCIA depositata il
24.05.2011 e successivamente integrata
attraverso la produzione documentale del
21.06.2011 e del 13.09.2011 (cfr. doc. 1 del
ricorrente).
A fondamento della propria decisione, il
Comune assume la presunta difformità
dell’opera rispetto agli elaborati
progettuali (distanza dal fabbricato
principale di metri 4,2 anziché 5 ed altezza
di metri 2,92 anziché 2,5).
L’art. 19 della legge 241/1990, nel testo
attualmente vigente relativo alla SCIA,
consente all’Amministrazione, in caso di
accertata carenza dei requisiti di legge per
la segnalazione certificata di inizio
attività, di adottare provvedimenti di
divieto di prosecuzione dell’attività o di
rimozione degli effetti, entro 30 giorni dal
ricevimento della SCIA in materia edilizia
(così il combinato disposto dei commi 3 e
6-bis dell’art. 19).
Dopo la scadenza del suddetto termine, è
consentito l’intervento dell’Amministrazione
per la tutela di beni giuridici di
particolare valore (ambiente, salute ed
altri), oppure l’esercizio del potere di
autotutela ai sensi degli articoli
21-quinquies e 21-nonies della legge
241/1990 (così i commi 3 e 4 dell’art. 19).
Nel caso di specie, l’ordinanza di
demolizione è stata adottata il 13.02.2102
(cfr. doc. 1 del ricorrente), allorché
l’ultima produzione documentale integrativa
da parte dell’esponente era avvenuta il
19.12.2011, come del resto ammesso anche nel
provvedimento ivi impugnato.
Nell’ordinanza di demolizione, manca ogni
accenno ai presupposti per l’esercizio del
potere di autotutela ai sensi dell’art.
21-nonies sopra citato, né è fatto
riferimento ad un eventuale pericolo di
danno per il patrimonio artistico od altro,
ai sensi del comma 4 dell’art. 19.
Il Comune si limita infatti, nell’ordinanza
stessa, a sostenere la presunta contrarietà
dell’intervento edilizio all’art. 13 delle
NTA del vigente PRG, senza altro addurre per
giustificare il provvedimento di carattere
demolitorio adottato nei confronti della
SCIA dell’esponente.
Tenuto conto del lungo tempo intercorso
dalla presentazione per la prima volta della
SCIA (24.05.2011) e che l’ultima delle
–peraltro numerose– integrazioni documentali
é stata effettuata il 19.11.2011, il
provvedimento di demolizione del 13.02.2012,
recante un mero richiamo alla presunta
contrarietà dell’opera alle NTA vigente e
senza alcun cenno ai presupposti per
l’esercizio del potere di autotutela, appare
illegittimo, come del resto stabilito dalla
prevalente giurisprudenza in analoghe
fattispecie, nelle quali l’esercizio del
potere repressivo in materia edilizia non è
stato preceduto dal rituale esercizio del
potere ex art. 21-nonies della legge
241/1990 (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez.
IV, 07.06.2011, n. 1405; TAR Marche,
27.09.2010, n. 3305 e TAR Campania, Napoli,
sez. VIII, 02.07.2010, n. 16562).
Si conferma pertanto l’accoglimento del
ricorso, con assorbimento di ogni altra
censura e con conseguente annullamento
dell’ordinanza comunale del 13.02.2012
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.06.2012 n. 1515 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Conferimento dell’incarico di patrocinio
legale.
Con la presentazione
della domanda di partecipazione alla gara e
con la predisposizione e l’inoltro
dell'offerta, i soggetti concorrenti
assumono una posizione differenziata e
qualificata e, di conseguenza,
l’Amministrazione che ha bandito la gara,
ove intenda annullarla in autotutela, deve
provvedere, ai sensi degli art. 7 e 8 l. n.
241/1990, a comunicare loro l'avviso di
avvio del relativo procedimento al fine di
consentire la difesa del bene della vita
dato dalla chance di aggiudicazione.
---------------
La domanda di risarcimento del danno
quantificata dal ricorrente in € 24.000,00
non può trovare accoglimento per mancato
raggiungimento, sia sotto il profilo del
danno emergente che del lucro cessante,
della prova del danno lamentato, non avendo
il ricorrente dimostrato, sotto il primo
profilo, la perdita patrimoniale riveniente
dall’illegittimo annullamento della
procedura comparativa, e non avendo addotto,
sotto il secondo profilo, elementi puntuali
(ad esempio, titoli professionali di
particolare valore o maggior convenienza
della offerta economica presentata) dai
quali si possa legittimamente inferire,
secondo un giudizio prognostico di tipo
probabilistico, che il ricorrente medesimo
sarebbe stato preferito, ai fini del
conferimento dell’incarico de quo, rispetto
agli altri aspiranti.
Ritiene, invece, il collegio che possa
essere riconosciuto al ricorrente il danno
da perdita di chance, che costituisce una
forma di lucro cessante che si concreta
nella mera perdita della effettiva occasione
favorevole di conseguire un determinato
bene; tale forma di danno non costituisce,
infatti, un’aspettativa di fatto, ma
un’entità giuridicamente ed economicamente
suscettibile di autonoma valutazione.
Ai fini della determinazione del quantum, il
collegio ritiene di poter quantificare, in
via equitativa, il danno da perdita di
chance (sulla base del criterio già previsto
dall’art. 345 della legge 20.03.1865 n. 2248
allegato F per l’ipotesi di esercizio della
facoltà di recesso da parte
dell’amministrazione committente),
rapportandolo in termini percentuali
all’utile in astratto conseguibile e
determinandolo nella misura del 10% del
compenso che sarebbe spettato al ricorrente
in caso di affidamento dell’incarico de quo.
... per l'annullamento della Determinazione
n. 29 (Reg. Gen. n. 148) del 17.02.2011, con al quale il Segretario generale
del Comune di Carovigno ha annullato la
determinazione n. 1056 del 30.12.2010
(con la quale veniva indetto un avviso
pubblico per il conferimento dell’incarico
di patrocinio legale dell’Ente), della
Deliberazione n. 44 del 25.02.2011,
con la quale la Giunta comunale di Carovigno
ha autorizzato il Sindaco al conferimento di
incarico di patrocinio legale dell’Ente ad
un avvocato di propria fiducia nonché del
decreto del 1° marzo 2011, con il quale il
Sindaco del Comune di Carovigno ha nominato
l'avv.to Alberto Magli quale difensore e
patrocinante del Comune di Carovigno dall'01.03 al 31.08.2011;
...
Anzitutto, non può essere condivisa la tesi
sostenuta dalla Amministrazione resistente
secondo la quale, nel caso di specie, ai
fini dell’esercizio dei poteri di ritiro,
non era necessaria la comunicazione di avvio
del procedimento, di cui all’art. 7 della l.
n. 241/1990. L’Amministrazione resistente
richiama alcune pronunce giurisprudenziali
che escludono, nell’ambito delle procedure
di evidenza pubblica per l’aggiudicazione
degli appalti, la doverosità della predetta
comunicazione con riguardo all’annullamento
e alla revoca dell’aggiudicazione
provvisoria, che è notoriamente un atto endoprocedimentale ad effetti instabili ed
interinali. Nel caso di specie,
l’Amministrazione comunale ha invece
annullato, in autotutela, la determinazione
con la quale veniva indetta una selezione,
mediante procedura comparativa, per il
conferimento di un incarico professionale,
ossia un atto di natura provvedimentale.
Orbene, il collegio fa rilevare che con la
presentazione della domanda di
partecipazione alla gara e con la
predisposizione e l’inoltro dell'offerta, i
soggetti concorrenti assumono una posizione
differenziata e qualificata e, di
conseguenza, l’Amministrazione che ha
bandito la gara, ove intenda annullarla in
autotutela, deve provvedere, ai sensi degli
art. 7 e 8 l. n. 241/1990, a comunicare loro
l'avviso di avvio del relativo procedimento
al fine di consentire la difesa del bene
della vita dato dalla chance di
aggiudicazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
07.01.2009 n. 17).
---------------
Ad avviso
del collegio, la domanda di risarcimento del
danno quantificata dal ricorrente in €
24.000,00 non può trovare accoglimento per
mancato raggiungimento, sia sotto il profilo
del danno emergente che del lucro cessante,
della prova del danno lamentato, non avendo
il ricorrente dimostrato, sotto il primo
profilo, la perdita patrimoniale riveniente
dall’illegittimo annullamento della
procedura comparativa, e non avendo addotto,
sotto il secondo profilo, elementi puntuali
(ad esempio, titoli professionali di
particolare valore o maggior convenienza
della offerta economica presentata) dai
quali si possa legittimamente inferire,
secondo un giudizio prognostico di tipo
probabilistico, che il ricorrente medesimo
sarebbe stato preferito, ai fini del
conferimento dell’incarico de quo, rispetto
agli altri aspiranti.
Ritiene, invece, il collegio che possa
essere riconosciuto al ricorrente il danno
da perdita di chance, che costituisce una
forma di lucro cessante che si concreta
nella mera perdita della effettiva occasione
favorevole di conseguire un determinato
bene; tale forma di danno non costituisce,
infatti, un’aspettativa di fatto, ma
un’entità giuridicamente ed economicamente
suscettibile di autonoma valutazione.
Ai fini della determinazione del quantum, il
collegio, conformemente ad un orientamento
giurisprudenziale consolidato (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. VI 16.09.2011 n.
5168; Sez. V 08.07.2002 n. 3796), ritiene di
poter quantificare, in via equitativa, il
danno da perdita di chance (sulla base del
criterio già previsto dall’art. 345 della
legge 20.03.1865 n. 2248 allegato F per
l’ipotesi di esercizio della facoltà di
recesso da parte dell’amministrazione
committente), rapportandolo in termini
percentuali all’utile in astratto
conseguibile e determinandolo nella misura
del 10% del compenso che sarebbe spettato al
ricorrente in caso di affidamento
dell’incarico de quo e, quindi, nella
misura onnicomprensiva di € 2.400,00 (euro
duemilaquattrocento/00)
(TAR Puglia-Lecce,
Sez. II,
sentenza 01.06.2012 n. 995 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il procedimento di mobilità
volontaria esterna tra Pubbliche
Amministrazioni è atto di gestione del
rapporto di lavoro ed il relativo
contenzioso rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario; la mobilità, infatti,
determina una semplice cessione del
contratto di lavoro del dipendente tra
l’Amministrazione di provenienza e quella di
destinazione con continuità del suo
contenuto (art. 30, comma 1, del d.lgs. n.
165 del 2001) e non la costituzione di un
nuovo rapporto di pubblico impiego o una
nuova assunzione.
Ciò sia nel caso
in cui la mobilità venga posta in essere
mediante selezione del personale attraverso
una procedura comparativa, sia nell’ipotesi
in cui essa avvenga mediante passaggio
diretto, “in quanto le diverse modalità
scelte dall’Amministrazione al fine di
attivare la mobilità esterna non possono
snaturare l’essenza stessa dell’istituto
tracciata dalla norma”; né la giurisdizione
dell’uno o dell’altro giudice può “dipendere
dalle scelte dell’Amministrazione e quindi
radicarsi in maniera diversa a seconda delle
concrete modalità (selezione comparativa o
passaggio diretto) attraverso cui la
mobilità viene attuata, ma essa sussiste a
monte, unico essendo l’istituto e ferma
restando la natura gestionale dei relativi
atti.
Il discrimine, pertanto, è
rappresentato dalla costituzione del
rapporto di lavoro alla dipendenza delle
pubbliche amministrazioni; tutte le vicende
che interessano la fase di gestione del
rapporto di lavoro e le modifiche soggettive
ed oggettive che dovessero intervenire in
costanza di esso (ivi compresa la mobilità
volontaria) devono, perciò, essere
conosciute dal giudice ordinario in funzione
di giudice del lavoro, residuando la
giurisdizione del giudice amministrativo
sulle controversie in materia di procedure
concorsuali finalizzate all’assunzione dei
dipendenti, ossia relative alla fase
antecedente alla costituzione del rapporto
di impiego".
---------------
La mobilità volontaria prevista dal D.Lgs.
03.02.1993, n. 29, art. 33, come modificato
dalla L. 28.11.2005, n. 246, art. 16,
integra una modificazione soggettiva del
rapporto di lavoro, con il consenso di tutte
le parti, e quindi una cessione del
contratto”; infatti “in materia di riparto
di giurisdizione nelle controversie relative
al pubblico impiego contrattualizzato solo
le procedure selettive di tipo concorsuale
per l'attribuzione a dipendenti di p.a.
della qualifica superiore, che comportino il
passaggio da un'area ad un'altra, hanno una
connotazione peculiare e diversa,
assimilabile alle "procedure concorsuali per
l'assunzione", e valgono a radicare -ed
ampliare- la fattispecie eccettuata rimessa
alla giurisdizione del giudice
amministrativo di cui al comma 4, dell'art.
63 citato D.Lgs.; fuori da questa ipotesi
non opera detta fattispecie eccettuata del
comma 4, dell'art. 63 e conseguentemente si
riespande la regola del primo comma della
medesima disposizione, che predica in
generale la giurisdizione del giudice
ordinario nelle controversie aventi ad
oggetto il lavoro pubblico privatizzato”,
con la conseguenza che “le procedure di
mobilità volontaria interna, che comportino
una mera modificazione soggettiva del
rapporto di lavoro e non già la costituzione
di un nuovo rapporto mediante una procedura
selettiva concorsuale".
La Sezione, invero, ha già avuto modo di
pronunciarsi sulla questione relativamente a
fattispecie del tutto analoghe a quella in
esame (cfr. sentenze n. 2039 del 28.09.2010 e
n. 2346 del 26.10.2010, quest’ultima
confermata in appello da Cons. Stato, sez.
V, 20.07.2011, n. 4402, alle cui
statuizioni il Collegio interamente
rimanda).
Giova comunque evidenziare in questa sede
che il procedimento di mobilità volontaria
esterna tra Pubbliche Amministrazioni è atto
di gestione del rapporto di lavoro ed il
relativo contenzioso rientra nella
giurisdizione del giudice ordinario; la
mobilità, infatti, determina una semplice
cessione del contratto di lavoro del
dipendente tra l’Amministrazione di
provenienza e quella di destinazione con
continuità del suo contenuto (art. 30, comma
1, del d.lgs. n. 165 del 2001) e non la
costituzione di un nuovo rapporto di
pubblico impiego o una nuova assunzione (TAR
Sardegna - Cagliari, Sez. II, 28.06.2010, n. 1695; Cons. Stato, Sez. V, 26.10.2009, n. 6541; TAR Puglia - Lecce,
Sez. II, 16.03.2009, n. 480; Cass. Civ.,
Sez. Un., 06.03.2009, n. 5458; TAR
Campania – Napoli, Sez. III, 09.09.2008, n. 10060; Cass. Civ. Sez. Un. 12.12.2006, n. 26420).
Ciò sia nel caso
in cui la mobilità venga posta in essere
mediante selezione del personale attraverso
una procedura comparativa, sia nell’ipotesi
in cui essa avvenga mediante passaggio
diretto, “in quanto le diverse modalità
scelte dall’Amministrazione al fine di
attivare la mobilità esterna non possono
snaturare l’essenza stessa dell’istituto
tracciata dalla norma”; né la giurisdizione
dell’uno o dell’altro giudice può “dipendere
dalle scelte dell’Amministrazione e quindi
radicarsi in maniera diversa a seconda delle
concrete modalità (selezione comparativa o
passaggio diretto) attraverso cui la
mobilità viene attuata, ma essa sussiste a
monte, unico essendo l’istituto e ferma
restando la natura gestionale dei relativi
atti.
Il discrimine, pertanto, è
rappresentato dalla costituzione del
rapporto di lavoro alla dipendenza delle
pubbliche amministrazioni; tutte le vicende
che interessano la fase di gestione del
rapporto di lavoro e le modifiche soggettive
ed oggettive che dovessero intervenire in
costanza di esso (ivi compresa la mobilità
volontaria) devono, perciò, essere
conosciute dal giudice ordinario in funzione
di giudice del lavoro, residuando la
giurisdizione del giudice amministrativo
sulle controversie in materia di procedure
concorsuali finalizzate all’assunzione dei
dipendenti, ossia relative alla fase
antecedente alla costituzione del rapporto
di impiego” (cfr. TAR Lecce, II, 28.09.2010,
2039, cit.).
La procedura indetta dal Comune di Taranto
non comporta la costituzione di un nuovo
rapporto di lavoro con i soggetti
selezionati, ma soltanto la cessione del
contratto di lavoro già in essere con la
originaria Amministrazione di appartenenza,
non potendosi condividere la tesi secondo
cui la valutazione dei titoli e del
colloquio da parte della Commissione
giudicatrice integri una vera e propria
procedura concorsuale, trattandosi invece di
strumenti atti semplicemente a verificare la
concreta rispondenza dei candidati alle
specifiche esigenze dell’Amministrazione
attraverso l’apprezzamento delle loro
attitudini e professionalità.
L’art. 30, comma 1, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, stabilisce che “le
amministrazioni possono ricoprire posti
vacanti in organico mediante cessione di
contratto di lavoro dei dipendenti
appartenenti alla stessa qualifica in
servizio presso altre amministrazioni, che
facciano domanda di trasferimento”,
aggiungendo che “le amministrazioni devono
in ogni caso rendere pubbliche le
disponibilità dei posti in organico da
ricoprire attraverso passaggio diretto di
personale da altre amministrazioni, fissando
preventivamente i criteri di scelta”.
Tale principio è stato di recente affermato
anche dalla Corte regolatrice della
giurisdizione (Corte di Cassazione, SS.UU. 09.09.2010, n. 19251), secondo cui “la
mobilità volontaria prevista dal D.Lgs. 03.02.1993, n. 29, art. 33, come
modificato dalla L. 28.11.2005, n.
246, art. 16, integra una modificazione
soggettiva del rapporto di lavoro, con il
consenso di tutte le parti, e quindi una
cessione del contratto”; infatti “in
materia di riparto di giurisdizione nelle
controversie relative al pubblico impiego contrattualizzato solo le procedure
selettive di tipo concorsuale per
l'attribuzione a dipendenti di p.a. della
qualifica superiore, che comportino il
passaggio da un'area ad un'altra, hanno una
connotazione peculiare e diversa,
assimilabile alle "procedure concorsuali per
l'assunzione", e valgono a radicare -ed
ampliare- la fattispecie eccettuata rimessa
alla giurisdizione del giudice
amministrativo di cui al comma 4, dell'art.
63 citato D.Lgs.; fuori da questa ipotesi
non opera detta fattispecie eccettuata del
comma 4, dell'art. 63 e conseguentemente si
riespande la regola del primo comma della
medesima disposizione, che predica in
generale la giurisdizione del giudice
ordinario nelle controversie aventi ad
oggetto il lavoro pubblico privatizzato”,
con la conseguenza che “le procedure
di mobilità volontaria interna, che
comportino una mera modificazione soggettiva
del rapporto di lavoro e non già la
costituzione di un nuovo rapporto mediante
una procedura selettiva concorsuale…”.
Né a conclusioni diverse si giunge in
considerazione del fatto che oggetto del
gravame è il provvedimento con cui
l’Amministrazione ha negato il ritiro degli
atti relativi alla procedura di mobilità di
cui si discute; ed invero, nonostante
formalmente il ricorrente abbia impugnato il
diniego di autotutela, in sostanza ciò che
intende far valere in questa sede -e che
costituisce il “petitum” sostanziale della
controversia in esame- è la propria pretesa
ad ottenere il trasferimento presso il
Comune di Copertino, assumendo la non
correttezza degli atti relativi al
procedimento di mobilità posto in essere
dall’Amministrazione (che, si ribadisce, è
atto di gestione del rapporto di lavoro ed
il relativo contenzioso rientra nella
giurisdizione del giudice ordinario); in
altri termini, l’interesse ad impugnare il
diniego di autotutela viene in rilievo solo
in via mediata ed indiretta, essendo la
pretesa principale quella di far valere il
proprio diritto alla mobilità, che il
ricorrente assume essere stato leso per
effetto della scorretta valutazione dei
titoli di accesso richiesti dall’Avviso in
capo ai candidati che lo precedono in
graduatoria (TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 01.06.2012 n. 994 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla legittimità della
deliberazione di un consiglio comunale che
ha affidato in house alla propria società
strumentale il servizio di accertamento e
riscossione volontaria di alcuni tributi
locali
Sussiste il c.d. "controllo analogo" anche
nel caso di un comune socio di minoranza
della società.
E' legittima la deliberazione di un
consiglio comunale che ha affidato in house
alla propria società strumentale il servizio
di accertamento e riscossione volontaria di
alcuni tributi locali, in quanto coerente
con la specifica normativa settoriale a quel
momento vigente [art. 7, c. 2, lett. gg-ter)
e gg-quater) del d.l. n. 70 del 2011], che,
nel prevedere una chiara limitazione
all'affidamento del servizio di riscossione
alle società private concessionarie e ai
poteri da queste esercitati, appare diretta,
oltre che a semplificare e rendere meno
gravosa per il contribuente, sotto il
profilo finanziario, l'operazione di
riscossione dei tributi locali, anche a
finalità di contenimento della spesa
pubblica degli enti locali.
Vero è, che detta disposizione è stata
modificata, in sede di conversione del d.l.,
nel senso che l'affidamento esterno del
servizio è stato precluso solo riguardo alla
c.d. riscossione "coattiva", con la
conseguenza che la riscossione c.d. "spontanea"
rimane tuttora disciplinata dall'art. 52 del
D.Lgs. n. 446 del 1997, che prevede, oltre
all'affidamento in house allo stesso Comune
o a società strumentale a capitale
interamente pubblico, anche altre modalità
prevedenti l'indizione di gara pubblica
preordinata alla scelta o della società
privata concessionaria del servizio o del
socio privato di una costituenda società a
capitale misto, tuttavia, nel peculiare caso
di specie, l'originario testo della norma
contenuto nel d.l., è comunque idoneo ad
integrare valido supporto motivazionale alla
scelta (che in quel momento costituiva un
obbligo, essendo contenuta in un d.l.) del
Comune di procedere all'affidamento del
servizio a una società pubblica, senza
previa indizione di una gara per
l'individuazione o del concessionario o del
socio privato.
Ne consegue la legittimità della
deliberazione comunale impugnata sia in
riferimento agli oneri motivazionali
previsti dal citato art. 52 del D.Lgs. n.
446 del 1997 nelle ipotesi di affidamento
in house del servizio in parola, sia
riguardo al testo definitivo della norma,
come risultante dalla legge di conversione.
---------------
E' legittimo l'affidamento diretto del
servizio a società strumentale da parte di
un comune socio di minoranza della società,
qualora il necessario controllo analogo
sulla stessa sia esercitato congiuntamente
da parte delle amministrazioni locali socie
per la totalità del capitale sociale (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 31.05.2012 n. 380 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva, quando la
consumazione è differenziata.
Per la consumazione della lottizzazione
bisogna distinguere tra acquirente e
venditore.
La Corte di Cassazione affronta in termini
pertinenti il delicato tema
dell'accertamento del momento consumativo
del reato di lottizzazione edilizia, la cui
soluzione riverbera i propri effetti anche
ai fini della prescrizione.
Il tema è reso delicato dal rilievo che la
lottizzazione abusiva “negoziale” (cfr.
articolo 30 del dpr n. 380 del 2001) ha
carattere generalmente plurisoggettivo,
poiché in essa normalmente confluiscono
condotte convergenti verso un’operazione
unitaria caratterizzata dal nesso causale
che lega i comportamenti dei vari partecipi
[venditore ed acquirente] diretti a
condizionare la riserva pubblica di
programmazione territoriale.
In questa prospettiva, l’acquirente
dell’immobile non può considerarsi, solo per
tale sua qualità, “terzo estraneo” al reato,
essendo al contrario ravvisabile la sua
cooperazione nel reato con l’adesione, anche
non preordinata o concordata, al disegno
criminoso del venditore, posta in essere
anche solo attraverso la violazione
(deliberata o per trascuratezza) di
specifici doveri di informazione e
conoscenza in ordine alla legittimità
dell’acquisto che costituiscono diretta
esplicazione dei doveri di solidarietà
sociale di cui all’articolo 2 della
Costituzione.
Nel caso, sarà l’acquirente a poter e dover
dimostrare di avere agito “in buona fede”,
senza rendersi conto cioè -pur avendo
adoperato la necessaria diligenza
nell’adempimento dei suddetti doveri di
informazione e conoscenza- di partecipare
ad un’operazione di illecita lottizzazione.
Quanto detto non esclude, però, che la
diversità delle posizioni non debba essere
tenuta in conto ai fini della consumazione
del reato.
Così esattamente si esprime la Cassazione,
affermando che, appunto per l’accertamento
della consumazione del reato di
lottizzazione edilizia, rilevante anche per
la prescrizione, occorre distinguere la
posizione di coloro che hanno dato corso
alla lottizzazione (venditore-lottizzatore)
e quella di coloro che hanno successivamente
partecipato come acquirenti di specifici
lotti.
Infatti, mentre per i primi sussistono
profili di responsabilità che discendono
dalle condotte poste in essere dai singoli
acquirenti, così che la permanenza del reato
per il venditore-lottizzatore cessa solo con
il cessare delle ultime condotte altrui o
con il verificarsi di interventi esterni che
incidono sul reato (sequestro preventivo;
intervento dell’ente territoriale
competente), per i singoli acquirenti, che
non hanno dato causa alla lottizzazione nei
termini fissati dall’articolo 41 c.p.,
occorre di regola guardare alle condotte
poste in essere con riferimento al proprio
lotto (tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.05.2012 n.
20671). |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Come notorio, già con la legge
142/1990 (poi recepita nel D.Lgs. 267/2000,
art. 107) è stata introdotta la netta
separazione tra l'esercizio dei poteri
politici, di spettanza esclusiva degli
organi di amministrazione del comune, e
l'esercizio di quelli amministrativi, tra
cui rientra senz'altro la nomina della
commissione di concorso, di spettanza
esclusiva degli organi burocratici.
Ne consegue che gli atti impugnati devono
essere annullati per incompetenza della
giunta comunale ad adottare atti espressione
dell'esercizio di un potere amministrativo,
tra cui la nomina della commissione di
concorso, di spettanza esclusiva dei
dirigenti dell'ente, con conseguente
annullamento delle operazioni di gara e
l’assorbimento degli altri motivi di
ricorso.
Preliminarmente deve essere esaminata la
censura di illegittimità delle deliberazioni
di nomina della commissione giudicatrice del
concorso e della delibera di C.C. n.
79/1995, art. 48, co. 1, di approvazione del
regolamento organico del comune di Latina
(vigente in virtù dell’art. 47 delle norme
regolamentari sull'ordinamento degli uffici
e dei servizi, approvate con delibera
commissariale n. 122/2011) per incompetenza
della giunta comunale, organo politico, alla
nomina della commissione di concorso in
luogo del dirigente, organo burocratico.
La censura merita accoglimento posto che,
come notorio, già con la legge 142/1990 (poi
recepita nel D.Lgs. 267/2000, art. 107) è
stata introdotta la netta separazione tra
l'esercizio dei poteri politici, di
spettanza esclusiva degli organi di
amministrazione del comune, e l'esercizio di
quelli amministrativi, tra cui rientra
senz'altro la nomina della commissione di
concorso (cfr. TAR Sardegna n. 1093, del
29.09.2003), di spettanza esclusiva degli
organi burocratici.
Ne consegue che gli atti impugnati devono
essere annullati per incompetenza della
giunta comunale ad adottare atti espressione
dell'esercizio di un potere amministrativo,
tra cui la nomina della commissione di
concorso, di spettanza esclusiva dei
dirigenti dell'ente, con conseguente
annullamento delle operazioni di gara e
l’assorbimento degli altri motivi di ricorso
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 29.05.2012 n. 412 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Negare la sanatoria di una veranda al
piano primo adibita a lavanderia, in quanto
“l’intervento per ubicazione,
consistenza e materiali utilizzati alterano
negativamente il sito oggetto di tutela”
risulta che la motivazione è apodittica ed
insufficiente ad evidenziare le ragioni per
cui l'opera sarebbe incompatibile con le
esigenze di tutela paesaggistica.
Nei casi in cui la discrezionalità
tecnico/amministrativa abbia un ruolo
considerevole, un diniego di nulla-osta deve
essere assistito da una motivazione concreta
sulla realtà dei fatti e sulle ragioni
ambientali ed estetiche che sconsigliano
alla P.A. di non ammettere un determinato
intervento: affermare che un determinato
intervento compromette gli equilibri
ambientali della zona interessata per le
incongruenze fra tipologia e materiali
scelti e contesto paesaggistico senza nulla
aggiungere, non spiega alcunché sul futuro
danno alle bellezze ambientali che ne
deriverebbe ed è un mero postulato
apodittico.
Per quanto concerne la motivazione idonea a
sorreggere un provvedimento di diniego del
richiesto nulla-osta per la costruzione in
area soggetta a vincolo paesaggistico, deve
chiarirsi che l'Amministrazione non può
limitare la sua valutazione al mero
riferimento ad un pregiudizio ambientale,
utilizzando espressioni vaghe o formule
stereotipate, ma tale motivazione deve
contenere una sufficiente esternazione delle
specifiche ragioni per le quali si ritiene
che un'opera non sia idonea ad inserirsi
nell'ambiente, attraverso l'individuazione
degli elementi di contrasto; pertanto,
occorre un concreto ed analitico
accertamento del disvalore delle valenze
paesaggistiche.
... per l'annullamento del provvedimento
comunale 03.12.1997 prot. 54510/19610/10 di
diniego concessione in sanatoria.
...
E' fondato il secondo motivo, in forza del
quale il parere della CEI -cui rinvia il
provvedimento impugnato- è affetto da
carenza di motivazione. Infatti, come già
accennato, la CEI ha espresso parere
negativo, in relazione alla sanatoria della
veranda al piano primo adibita a lavanderia,
in quanto “l’intervento per ubicazione,
consistenza e materiali utilizzati alterano
negativamente il sito oggetto di tutela”.
Tale motivazione, per costante
giurisprudenza, è apodittica ed
insufficiente ad evidenziare le ragioni per
cui l'opera sarebbe incompatibile con le
esigenze di tutela paesaggistica.
L'amministrazione, infatti, ha negato il
rilascio della concessione in sanatoria
stante l'asserita incompatibilità degli
interventi con il vincolo e tale
incompatibilità viene fatta genericamente
derivare dalla “consistenza” dell’intervento
e dai materiali utilizzati, il tutto senza
che sia offerta alcuna descrizione del
vincolo, delle strutture e dei materiali e,
tantomeno, senza che siano individuate le
specifiche caratteristiche dell'opera che si
porrebbero concretamente in contrasto con le
esigenze di tutela poste dal vincolo.
In fattispecie affini alla presente, la
giurisprudenza amministrativa ha avuto modo
di precisare che "nei casi in cui -come
quello in esame- la discrezionalità
tecnico/amministrativa abbia un ruolo
considerevole, un diniego di nulla-osta deve
essere assistito da una motivazione concreta
sulla realtà dei fatti e sulle ragioni
ambientali ed estetiche che sconsigliano
alla P.A. di non ammettere un determinato
intervento: affermare che un determinato
intervento compromette gli equilibri
ambientali della zona interessata per le
incongruenze fra tipologia e materiali
scelti e contesto paesaggistico senza nulla
aggiungere, non spiega alcunché sul futuro
danno alle bellezze ambientali che ne
deriverebbe ed è un mero postulato
apodittico" (TAR Liguria, sez. I, 22.12.2008, n. 2187).
Ed ancora: "Per quanto concerne la
motivazione idonea a sorreggere un
provvedimento di diniego del richiesto nulla
osta per la costruzione in area soggetta a
vincolo paesaggistico, deve chiarirsi che
l'Amministrazione non può limitare la sua
valutazione al mero riferimento ad un
pregiudizio ambientale, utilizzando
espressioni vaghe o formule stereotipate, ma
tale motivazione deve contenere una
sufficiente esternazione delle specifiche
ragioni per le quali si ritiene che un'opera
non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente,
attraverso l'individuazione degli elementi
di contrasto; pertanto, occorre un concreto
ed analitico accertamento del disvalore
delle valenze paesaggistiche" (TAR
Campania, Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23751).
Alla luce di tali precisazioni, risulta di
tutta evidenza come lo stringato rilievo
posto a fondamento degli impugnati
provvedimenti di diniego sia del tutto
inidoneo a costituire sufficiente supporto
motivazionale degli stessi, poiché esso non
rende conto in alcun modo né delle
caratteristiche del bene tutelato né delle
specifiche ragioni per cui le opere
sarebbero incompatibili con l'ambiente.
Si tratta, perciò, di motivazione solo
apparente che, come correttamente rilevato
dalla difesa della ricorrente, non consente
all'interessata di individuare gli elementi
specifici delle opere che siano
eventualmente in contrasto con il bene
tutelato e, in ipotesi, di apprestare
interventi di adeguamento alle esigenze di
tutela.
Per queste ragioni, il ricorso è fondato e
deve essere accolto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.05.2012 n. 738 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il parere dell'Amministrazione preposta
alla tutela del vincolo, cui l'articolo 32
della legge 28.02.1985 n. 47 subordina il
rilascio della concessione in sanatoria per
opere eseguite su aree sottoposte a
determinati vincoli, è richiesto anche per
le opere eseguite anteriormente
all'imposizione dei vincoli stessi.
L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
ha infatti chiarito che "La pubblica
amministrazione, sulla quale a norma
dell'articolo 97 Cost. incombe più pressante
l'obbligo di osservare la legge, deve
necessariamente tener conto, nel momento in
cui provvede, della norma vigente e delle
qualificazioni giuridiche che essa impone;
pertanto, la disposizione di portata
generale di cui all'articolo 32, primo
comma, della Legge 28.02.1985 n. 47,
relativa ai vincoli che appongono limiti
all'edificazione, non recando nessuna deroga
a questi principi, deve interpretarsi nel
senso che l'obbligo di pronuncia da parte
dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo sussiste in relazione alla esistenza
del vincolo al momento in cui deve essere
valutata la domanda di sanatoria, a
prescindere dall'epoca d'introduzione del
vincolo, atteso che tale valutazione
corrisponde alla esigenza di vagliare
l'attuale compatibilità con il vincolo, dei
manufatti realizzati abusivamente".
Conseguentemente, anche nel caso in cui un
immobile sia stato edificato prima
dell’imposizione del vincolo, la disciplina
applicabile rimane sempre quella di cui
all'art. 32 della L. 47/1985 e l'opera
diventa sanabile ove intervenga il parere
favorevole dell’autorità preposta alla
gestione del vincolo.
-------------
Ai sensi dell'art. 32, l. 28.02.1985 n. 47
l'esistenza di un vincolo paesaggistico
esclude la possibilità della formazione del
silenzio assenso sulle domande di rilascio
di concessione edilizia in sanatoria.
Dal combinato disposto degli art. 35, comma
19, e 32, comma 1, della l. 28/2/1985 n. 47
si evince che, in caso d’istanza di
sanatoria edilizia per opere abusive
realizzate in aree sottoposte a vincolo, il
silenzio assenso per decorso del termine di
ventiquattro mesi dall'emissione del parere
dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo si forma solo nel caso di parere
favorevole, e non anche di parere contrario,
poiché il rilascio della concessione in
sanatoria per abusi in zone vincolate
presuppone necessariamente il parere
favorevole, e non il parere "sic et
simpliciter" della predetta autorità.
Di conseguenza, nel caso di specie,
trattandosi di area vincolata e mancando il
parere favorevole dell'autorità competente,
il termine normativamente previsto per la
formazione del silenzio assenso non ha mai
cominciato a decorrere.
Non può però ritenersi fondata la prima
censura, secondo la quale, nel caso di
vincolo sopravvenuto, il rilascio della
concessione in sanatoria non è subordinato
al parere della commissione edilizia
integrata. Infatti, è consolidato
l'insegnamento giurisprudenziale in base al
quale il parere dell'Amministrazione
preposta alla tutela del vincolo, cui
l'articolo 32 della legge 28.02.1985
n. 47 subordina il rilascio della
concessione in sanatoria per opere eseguite
su aree sottoposte a determinati vincoli, è
richiesto anche per le opere eseguite
anteriormente all'imposizione dei vincoli
stessi.
L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
ha infatti chiarito che "La pubblica
amministrazione, sulla quale a norma
dell'articolo 97 Cost. incombe più pressante
l'obbligo di osservare la legge, deve
necessariamente tener conto, nel momento in
cui provvede, della norma vigente e delle
qualificazioni giuridiche che essa impone;
pertanto, la disposizione di portata
generale di cui all'articolo 32, primo
comma, della Legge 28.02.1985 n. 47,
relativa ai vincoli che appongono limiti
all'edificazione, non recando nessuna deroga
a questi principi, deve interpretarsi nel
senso che l'obbligo di pronuncia da parte
dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo sussiste in relazione alla esistenza
del vincolo al momento in cui deve essere
valutata la domanda di sanatoria, a
prescindere dall'epoca d'introduzione del
vincolo, atteso che tale valutazione
corrisponde alla esigenza di vagliare
l'attuale compatibilità con il vincolo, dei
manufatti realizzati abusivamente" (cfr.
A.P., 22.07.1999 n. 20).
Deve conseguentemente ritenersi che, anche
nel caso in cui un immobile sia stato
edificato prima dell’imposizione del
vincolo, la disciplina applicabile rimane
sempre quella di cui all'art. 32 della L.
47/1985 e l'opera diventa sanabile ove
intervenga il parere favorevole dell’autorità preposta alla gestione del vincolo
(cfr. Consiglio di Stato, VI, 13.03.2008
n. 1077).
Ugualmente infondato è il quarto motivo
di ricorso in base al quale, l'istanza di
condono sarebbe da ritenersi già accolta per
silenzio assenso.
Infatti, in primo luogo,
si osserva che la legge sul primo condono
edilizio n. 47/1985, in base alla quale è
stata avanzata la richiesta di sanatoria (a
differenza della legge sul condono
successivo n. 724/1994, non applicabile ratione temporis alla fattispecie), non ha
previsto l’istituto del silenzio assenso per
il parere delle speciali autorità preposte
alla tutela dei vincoli, e nemmeno quello
del silenzio significativo in termini di
diniego, bensì la formazione del silenzio
rifiuto (un silenzio, cioè, che esprime
l’inerzia dell’amministrazione rispetto
all’obbligo generale di concludere il
procedimento con un provvedimento espresso
entro termini certi), con la conseguenza che
l’autorità preposta non perde il potere di
provvedere una volta scaduto il termine per
il rilascio del parere.
In secondo luogo,
quanto al preteso silenzio assenso sulla
domanda di sanatoria, si osserva che per
costante giurisprudenza, "Ai sensi dell'art.
32, l. 28.02.1985 n. 47 l'esistenza di
un vincolo paesaggistico esclude la
possibilità della formazione del silenzio
assenso sulle domande di rilascio di
concessione edilizia in sanatoria" (Tar
Umbria, I, 2/2010); come pure precisato,
"Dal combinato disposto degli art. 35, comma
19, e 32, comma 1, della l. 28/2/1985 n. 47 si
evince che, in caso d’ istanza di sanatoria
edilizia per opere abusive realizzate in
aree sottoposte a vincolo, il silenzio
assenso per decorso del termine di
ventiquattro mesi dall'emissione del parere
dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo si forma solo nel caso di parere
favorevole, e non anche di parere contrario,
poiché il rilascio della concessione in
sanatoria per abusi in zone vincolate
presuppone necessariamente il parere
favorevole, e non il parere "sic et
simpliciter" della predetta autorità" (Tar
Lombardia, Brescia, I, 2459/2010).
Di conseguenza, nel caso di specie,
trattandosi di area vincolata e mancando il
parere favorevole dell'autorità competente,
il termine normativamente previsto per la
formazione del silenzio assenso non ha mai
cominciato a decorrere
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.05.2012 n. 738 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa
maggioritaria ha sempre ancorato il dies a
quo per l’impugnazione in sede
giurisdizionale della concessione edilizia
(ed in generale dei titoli abilitativi
all’edificazione), per i soggetti diversi da
quelli cui l'atto è rilasciato, alla data in
cui sia percepibile dal controinteressato la
concreta entità del manufatto e la sua
incidenza effettiva sulla propria posizione
giuridica, con la conseguenza che il termine
decadenziale per l'impugnazione del permesso
di costruire decorre quindi dalla piena
conoscenza dell'esistenza e dell'entità
delle violazioni urbanistiche o dal
contenuto specifico del progetto edilizio,
il che postula la conoscenza non solo
dell'effetto pratico, ma anche delle ragioni
formali che sono alla base del titolo
abilitativo.
Tale piena conoscenza del provvedimento
impugnato deve essere comprovata dalla parte
che eccepisce l'irricevibilità del ricorso e
la relativa eccezione va disattesa ove la
parte processuale che l'ha sollevata non
fornisca la prova idonea a dimostrare che il
ricorrente fosse a conoscenza degli atti
impugnati.
Il collegio non ignora che una parte della
giurisprudenza ritenga che, ai fini della
decorrenza del termine di impugnazione di un
permesso di costruire, il requisito della
piena conoscenza non postuli necessariamente
la conoscenza di tutti i suoi elementi,
essendo sufficiente quella degli elementi
essenziali quali l'autorità emanante, la
data, il contenuto dispositivo e il suo
effetto lesivo, salva la possibilità di
proporre motivi aggiunti ove dalla
conoscenza integrale del provvedimento e
degli atti presupposti emergano ulteriori
profili di illegittimità (il caso tipico è
quello del cartello di cantiere).
In realtà, sia nell’uno che nell’altro caso,
può ricavarsi un minimo comune denominatore
costituito dalla percezione, per il terzo,
delle caratteristiche essenziali dell'opera
e dell'eventuale non conformità del permesso
di costruire al titolo o alla disciplina
urbanistica; il che fa decorrere il termine
di impugnazione in modo diverso, a seconda
della tipologia di censure proposte, quindi
sia dal completamento dei lavori come pure
dalla data del loro inizio (qualora si
deduca, ad esempio, l'assoluta
inedificabilità dell'area o analoghe
censure).
Di certo, in mancanza dell’inizio dei
lavori, il termine non può che decorrere
dalla conoscenza dell’esistenza effettiva di
una concessione edilizia, la cui portata
lesiva sia apprezzabile.
Il che equivale, in mancanza di un’attività
materiale sul campo, alla piena conoscenza
del contenuto del provvedimento, posto che,
in caso contrario, il ricorrente si
esporrebbe ad un ricorso del tutto
temerario, non avendo neppure la contezza
dell’esistenza stessa del provvedimento
lesivo, del quale, quindi, non potrebbe
censurare neppure la potenziale
illegittimità.
In sintesi, la decorrenza del termine
decadenziale per ricorrere al giudice contro
l'atto amministrativo consegue alla maturata
attualità e concretezza dell'interesse a
ricorrere.
Questo, nel caso di ignoto titolo
trasformativo del territorio, sorge solo
“quando è raggiunta la piena conoscenza da
parte del chiunque della ragione giuridica,
dall'effetto per lui pregiudizievole, che è
alla base del provvedimento”, e quindi
“quando le ragioni che sono a base del
titolo abilitativo sono davvero divenute
note al chiunque, per cui questi vi si può,
responsabilmente, opporre in giudizio. Il
sospetto in questione lo carica solo
dell'onere di chiedere senza indugio alcuno
di accedere agli atti dell'amministrazione
competente all'abilitazione: e solo in
difetto di una tale condotta diligente egli
può essere considerato comunque decaduto,
trascorso il termine, dai mezzi di tutela in
giustizia”.
La giurisprudenza sopra citata ha altresì
ribadito che “a voler seguire l'impostazione
opposta, il titolare dell'interesse
legittimo per tutelare adeguatamente la
propria situazione senza incorrere in
decadenze dovrebbe adempiere, oltre ogni
ragionevole esigibilità, al gravoso onere
della proposizione di una diretta azione
giurisdizionale, con il suo consistente
costo, con l'onerosa assistenza di un
professionista, e con l'alea aggiuntiva
della mancanza della possibilità di stimarne
preventivamente il fondamento e la
probabilità di successo. Egli cioè dovrebbe
proporre un'impugnazione -il cui fondamento
gli è a quel momento ignoto- al solo fine di
non incorrere nella decadenza, salvo poi
abbandonarla qualora la documentazione
acquisita agli atti del processo dimostri la
legittimità dell'operato
dell'Amministrazione; e l'impossibilità
pratica di una pronuncia favorevole gli
impedirebbe, anche in questo caso, la
rifusione delle spese affrontate.”
La giurisprudenza amministrativa
maggioritaria, pertanto, ha sempre ancorato
il dies a quo per l’impugnazione in sede
giurisdizionale della concessione edilizia
(ed in generale dei titoli abilitativi
all’edificazione), per i soggetti diversi da
quelli cui l'atto è rilasciato, alla data in
cui sia percepibile dal controinteressato la
concreta entità del manufatto e la sua
incidenza effettiva sulla propria posizione
giuridica, con la conseguenza che il termine
decadenziale per l'impugnazione del permesso
di costruire decorre quindi dalla piena
conoscenza dell'esistenza e dell'entità
delle violazioni urbanistiche o dal
contenuto specifico del progetto edilizio
(Cons. St., sez. IV, 23.01.2012 n. 284;
id. 05.01.2011, n. 18; sez. VI, 16.09.2011, n. 5170; id., 10.12.2010, n. 8705; Tar Catania, sez. I, 22.03.2012 n. 800), il che postula la conoscenza
non solo dell'effetto pratico, ma anche
delle ragioni formali che sono alla base del
titolo abilitativo.
Tale piena conoscenza del provvedimento
impugnato deve essere comprovata dalla parte
che eccepisce l'irricevibilità del ricorso e
la relativa eccezione va disattesa ove la
parte processuale che l'ha sollevata non
fornisca la prova idonea a dimostrare che il
ricorrente fosse a conoscenza degli atti
impugnati (Tar Salerno, sez. II, 26.01.2012, n. 139).
Il collegio non ignora che una parte della
giurisprudenza ritenga che, ai fini della
decorrenza del termine di impugnazione di un
permesso di costruire, il requisito della
piena conoscenza non postuli necessariamente
la conoscenza di tutti i suoi elementi,
essendo sufficiente quella degli elementi
essenziali quali l'autorità emanante, la
data, il contenuto dispositivo e il suo
effetto lesivo, salva la possibilità di
proporre motivi aggiunti ove dalla
conoscenza integrale del provvedimento e
degli atti presupposti emergano ulteriori
profili di illegittimità (il caso tipico è
quello del cartello di cantiere) (in questo
senso Cons. St., sez. IV, 02.09.2011
n. 4973; Tar Toscana, sez. III, 26.03.2012 n. 594).
In realtà, sia nell’uno che nell’altro caso,
può ricavarsi un minimo comune denominatore
costituito dalla percezione, per il terzo,
delle caratteristiche essenziali dell'opera
e dell'eventuale non conformità del permesso
di costruire al titolo o alla disciplina
urbanistica; il che fa decorrere il termine
di impugnazione in modo diverso, a seconda
della tipologia di censure proposte, quindi
sia dal completamento dei lavori come pure
dalla data del loro inizio (qualora si
deduca, ad esempio, l'assoluta
inedificabilità dell'area o analoghe
censure).
Di certo, in mancanza dell’inizio dei
lavori, il termine non può che decorrere
dalla conoscenza dell’esistenza effettiva di
una concessione edilizia, la cui portata
lesiva sia apprezzabile.
Il che equivale, in mancanza di un’attività
materiale sul campo, alla piena conoscenza
del contenuto del provvedimento, posto che,
in caso contrario, il ricorrente si
esporrebbe ad un ricorso del tutto
temerario, non avendo neppure la contezza
dell’esistenza stessa del provvedimento
lesivo, del quale, quindi, non potrebbe
censurare neppure la potenziale
illegittimità.
In sintesi, la decorrenza del termine
decadenziale per ricorrere al giudice contro
l'atto amministrativo consegue alla maturata
attualità e concretezza dell'interesse a
ricorrere.
Questo, nel caso di ignoto titolo
trasformativo del territorio, sorge solo
“quando è raggiunta la piena conoscenza da
parte del chiunque della ragione giuridica,
dall'effetto per lui pregiudizievole, che è
alla base del provvedimento”, e quindi
“quando le ragioni che sono a base del
titolo abilitativo sono davvero divenute
note al chiunque, per cui questi vi si può,
responsabilmente, opporre in giudizio. Il
sospetto in questione lo carica solo
dell'onere di chiedere senza indugio alcuno
di accedere agli atti dell'amministrazione
competente all'abilitazione: e solo in
difetto di una tale condotta diligente egli
può essere considerato comunque decaduto,
trascorso il termine, dai mezzi di tutela in
giustizia” (così Cons. St., sez. VI,
5170/2011, cit.).
La giurisprudenza sopra citata ha altresì
ribadito che “a voler seguire l'impostazione
opposta, il titolare dell'interesse
legittimo per tutelare adeguatamente la
propria situazione senza incorrere in
decadenze dovrebbe adempiere, oltre ogni
ragionevole esigibilità, al gravoso onere
della proposizione di una diretta azione
giurisdizionale, con il suo consistente
costo, con l'onerosa assistenza di un
professionista, e con l'alea aggiuntiva
della mancanza della possibilità di stimarne
preventivamente il fondamento e la
probabilità di successo. Egli cioè dovrebbe
proporre un'impugnazione -il cui fondamento
gli è a quel momento ignoto- al solo fine
di non incorrere nella decadenza, salvo poi
abbandonarla qualora la documentazione
acquisita agli atti del processo dimostri la
legittimità dell'operato
dell'Amministrazione; e l'impossibilità
pratica di una pronuncia favorevole gli
impedirebbe, anche in questo caso, la
rifusione delle spese affrontate.” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 1057 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Il
condominio (in persona del suo
amministratore, investito di apposita
delibera approvata con il quorum richiesto
dall'art. 1136 c.c.) possiede la
legittimazione e l'interesse ad agire per
l'impugnazione, per difformità dalle
prescrizioni urbanistico-edilizie, della
concessione assentita a terzi (tale
principio riguarda, normalmente, la
costruzione di stabili sul fondo confinante
e, quindi, vale a maggior ragione per
costruzioni interne allo stabile comune).
Ciò avviene sia perché sussiste in capo al
condominio uno stabile collegamento con la
zona (cd. vicinitas), e quindi, nel caso di
specie, con la sua stessa struttura, sia
(anche senza che venga lamentato un danno
specifico) in ragione del pregiudizio che è
insito nella violazione edilizia a danno di
tutti i membri della collettività e
consistente nel sacrificio derivante
dall'aggravio connesso alla presenza, nel
caso di concreto, di un ulteriore ottavo
piano.
La finalità di assicurare e garantire l'uso
e la conservazione delle cose comuni, ìnsita
nella creazione del condominio di un
edificio come centro di imputazione
d'interessi, giustifica la titolarità in
capo al medesimo dell'azione di annullamento
nei confronti dell'illegittima esplicazione
dello ius aedificandi anche se ad opera di
un condòmino, poiché le azioni promosse a
difesa dei diritti e degli interessi
legittimi dei condomini esplicano efficacia
sull'intero raggruppamento degli occupanti
dell'edificio e rappresentano una modalità
della realizzazione dell'interesse comune.
La
giurisprudenza amministrativa ha
costantemente sostenuto che il condominio
(in persona del suo amministratore,
investito di apposita delibera approvata con
il quorum richiesto dall'art. 1136 c.c.)
possiede la legittimazione e l'interesse ad
agire per l'impugnazione, per difformità
dalle prescrizioni urbanistico-edilizie,
della concessione assentita a terzi (tale
principio riguarda, normalmente, la
costruzione di stabili sul fondo confinante
e, quindi, vale a maggior ragione per
costruzioni interne allo stabile comune).
Ciò avviene sia perché sussiste in capo al
condominio uno stabile collegamento con la
zona (cd. vicinitas), e quindi, nel caso di
specie, con la sua stessa struttura, sia
(anche senza che venga lamentato un danno
specifico) in ragione del pregiudizio che è
insito nella violazione edilizia a danno di
tutti i membri della collettività e
consistente nel sacrificio derivante
dall'aggravio connesso alla presenza, nel
caso di concreto, di un ulteriore ottavo
piano (cfr. Cons. St., V, 15.02.2010
n. 809).
La finalità di assicurare e garantire l'uso
e la conservazione delle cose comuni, ìnsita
nella creazione del condominio di un
edificio come centro di imputazione
d'interessi, giustifica la titolarità in
capo al medesimo dell'azione di annullamento
nei confronti dell'illegittima esplicazione
dello ius aedificandi anche se ad opera di
un condòmino, poiché le azioni promosse a
difesa dei diritti e degli interessi
legittimi dei condomini esplicano efficacia
sull'intero raggruppamento degli occupanti
dell'edificio e rappresentano una modalità
della realizzazione dell'interesse comune
(arg. Tar Brescia, 06.05.2005, n. 410;
Cass. civ., III, 20.02.2009, n. 4245).
Il Condominio Alfa, pertanto, aveva dunque
una piena legittimazione ad adire questo
Tribunale (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 1057 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
comunicazione di avvio del procedimento non
è dovuta in relazione ai procedimenti
promossi ad iniziativa di parte quale la
richiesta di concessione edilizia in
sanatoria.
In primo luogo, è infondato il primo motivo
del ricorso principale, in quanto la
comunicazione di avvio del procedimento non
è dovuta in relazione ai procedimenti
promossi ad iniziativa di parte quale la
richiesta di concessione edilizia in
sanatoria (giurisprudenza pacifica, ex plurimis, recentemente, Cons. St., sez. IV,
13.07.2011 n. 4257; Tar Toscana, sez. III, 27.02.2009 n. 350 e
06.02.2008 n. 102) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
pacifico che possa parlarsi di opere di
manutenzione straordinaria tutte le volte in
cui il rifacimento di alcune parti di un
manufatto preesistente, nel senso sopra
indicato, non comporti variazioni
plano-volumetriche delle stesse, laddove,
per contro, interventi edilizi che
determinino un aumento delle altezze e un
mutamento di destinazione d'uso vanno
qualificati come “ristrutturazione
edilizia".
Pertanto, seppur il rifacimento o il puro
rinnovo di un manufatto preesistente possa
essere inquadrato nella categoria della
manutenzione straordinaria, ciò presuppone
la mancata alterazione di volumi e
superfici: in sostanza, deve sussistere un
duplice requisito, funzionale e strutturale,
consistente sia nella finalità delle opere
che nel rispetto dell’obbligo di cui sopra.
Orbene, è pacifico che possa parlarsi di
opere di manutenzione straordinaria tutte le
volte in cui il rifacimento di alcune parti
di un manufatto preesistente, nel senso
sopra indicato, non comporti variazioni
plano-volumetriche delle stesse, laddove,
per contro, interventi edilizi che
determinino un aumento delle altezze e un
mutamento di destinazione d'uso vanno
qualificati come “ristrutturazione edilizia”
(Tar Lecce, sez. III, 29.09.2011 n.
1694; Tar Lazio, sez. I, 01.08.2011 n.
6834).
Pertanto, seppur il rifacimento o il puro
rinnovo di un manufatto preesistente possa
essere inquadrato nella categoria della
manutenzione straordinaria, ciò presuppone
la mancata alterazione di volumi e
superfici: in sostanza, deve sussistere un
duplice requisito, funzionale e strutturale,
consistente sia nella finalità delle opere
che nel rispetto dell’obbligo di cui sopra
(Tar Napoli, sez. II, 01.04.2011 n.
1902; Cons. St., sez. IV, 22.03.2007 n.
1388) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'adempimento
garantistico di partecipazione e di
conoscenza di cui all'art. 7, l. n. 241 del
07.08.1990 è atto dovuto per tutti i
procedimenti di autotutela o di secondo
grado che mirano all' annullamento od alla
revoca di ufficio di un provvedimento
amministrativo, posto che tale decisione
dell’Amministrazione pregiudica la sfera
giuridica del soggetto che in origine aveva
beneficiato del provvedimento annullato.
Tale adempimento è obbligatorio in tutti i
casi di provvedimenti di secondo grado, ad
iniziativa d’ufficio, posto gli stessi sono
certamente caratterizzati da un contenuto
estremamente discrezionale e sono adottati
dall’Amministrazione come frutto di una
scelta precisa, non soggetta ad alcun potere
impositivo o ad alcuna pretesa da parte del
privato, al punto che sull’eventuale istanza
sollecitatoria esterna non può mai formarsi
un silenzio-inadempimento.
---------------
Normalmente, l’esercizio del potere di
autotutela non può prescindere dall’espressa
valutazione dell’interesse pubblico sotteso
alla decisione amministrativa (e questo
anche prima della legge n. 15 del 2005 che
ha introdotto gli artt. 21-quinquies e
21-nonies della legge 241/1990,
rispettivamente dedicati alla revoca e
all’annullamento d’ufficio, così codificando
principi già sanciti in epoca passata e
relativi alla necessaria valutazione, in
sede di autotutela procedimentale, del tempo
trascorso dall’adozione del provvedimento
ritirato, dell’affidamento ingenerato nei
terzi e, soprattutto, dell’interesse
pubblico al ritiro del provvedimento), fatta
eccezione per quei casi in cui l’interesse
pubblico sia in re ipsa.
Anche se in materia urbanistica le esigenze
del ripristino della legalità sono,
generalmente, idoneo supporto dell'esercizio
dell'autotutela, sicché una motivazione
sull’interesse pubblico è sovente ritenuta
superflua, nel caso oggetto del presente
giudizio deve ritenersi che da parte del
Comune sarebbe stato necessario fornire le
spiegazioni circa le ragioni del
provvedimento, stante la particolarità della
situazione e la pendenza di un giudizio
amministrativo sull’atto sostanzialmente
presupposto a quello di autotutela.
Venendo
al ricorso per motivi aggiunti avverso
l’annullamento, in autotutela, del
certificato provvisorio di agibilità, è
sicuramente fondato il primo motivo di
ricorso, sotto il profilo della mancata
comunicazione dell’avvio del procedimento di
annullamento d’ufficio.
L'adempimento garantistico di partecipazione
e di conoscenza di cui all'art. 7, l. n. 241
del 07.08.1990 è, infatti, atto dovuto
per tutti i procedimenti di autotutela o di
secondo grado che mirano all' annullamento
od alla revoca di ufficio di un
provvedimento amministrativo, posto che tale
decisione dell’Amministrazione pregiudica la
sfera giuridica del soggetto che in origine
aveva beneficiato del provvedimento
annullato (Cons. St., sez. V, 27.04.2011
n. 2456; Tar Campania, sez. V, 01.02.2012 n. 512; Tar Sardegna, sez. II, 08.08.2011 n. 882).
Tale adempimento, a parere del collegio, e
secondo la giurisprudenza maggioritaria, è
obbligatorio in tutti i casi di
provvedimenti di secondo grado, ad
iniziativa d’ufficio, posto gli stessi sono
certamente caratterizzati da un contenuto
estremamente discrezionale (ex multis, Cons.
St., sez. VI, 23.09.1998, n. 1276) e
sono adottati dall’Amministrazione come
frutto di una scelta precisa, non soggetta
ad alcun potere impositivo o ad alcuna
pretesa da parte del privato (Tar Campania,
sez. III, 08.11.2011 n. 5172; Tar
Umbria, 28.07.2011 n. 250), al punto che
sull’eventuale istanza sollecitatoria
esterna non può mai formarsi un
silenzio-inadempimento (Tar Lazio, sez. II,
27.06.2011 n. 5661).
Nel caso in esame, al ricorrente non è stata
data formale comunicazione di avvio del
procedimento diretto all’annullamento del
certificato di agibilità della discoteca
(datato 01.03.2000), né sono state
evidenziate particolari ragioni di urgenza
nell'adozione del provvedimento di
annullamento, con la conseguenza che già
sotto questo profilo il provvedimento
impugnato è illegittimo.
Invero, la partecipazione procedimentale del
ricorrente avrebbe potuto contribuire alla
completezza della fase istruttoria del
procedimento stesso, apportando elementi di
valutazione utili a definire la vicenda,
anche in ragione della circostanza che
l’agibilità era stata pacificamente concessa
in relazione al vecchio impianto (anch’esso
oggetto di istanza di sanatoria edilizia), e
che la nuova struttura, sotto un profilo
strettamente igienico – sanitario, era
certamente più idonea di quella precedente.
L’accoglimento del motivo precedente è
sufficiente per affermare la fondatezza del
ricorso per motivi aggiunti.
Per completezza il collegio precisa che il
contenuto discrezionale del provvedimento di
autotutela, in relazione alle specificità
della fattispecie concreta, consente
l’accoglimento anche del secondo motivo dei
motivi aggiunti, che censura il difetto di
motivazione sotto il profilo della mancanza
del riferimento all’interesse pubblico al
ritiro dell’atto annullato.
Normalmente, infatti, l’esercizio del potere
di autotutela non può prescindere
dall’espressa valutazione dell’interesse
pubblico sotteso alla decisione
amministrativa (e questo anche prima della
legge n. 15 del 2005 che ha introdotto gli
artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge
241/1990, rispettivamente dedicati alla
revoca e all’annullamento d’ufficio, così
codificando principi già sanciti in epoca
passata e relativi alla necessaria
valutazione, in sede di autotutela
procedimentale, del tempo trascorso
dall’adozione del provvedimento ritirato,
dell’affidamento ingenerato nei terzi e,
soprattutto, dell’interesse pubblico al
ritiro del provvedimento), fatta eccezione
per quei casi in cui l’interesse pubblico
sia in re ipsa.
Anche se in materia urbanistica le esigenze
del ripristino della legalità sono,
generalmente, idoneo supporto dell'esercizio
dell'autotutela (ex multis, Cons. St., sez.
V, 20.04.2012 n. 2322), sicché una
motivazione sull’interesse pubblico è
sovente ritenuta superflua, nel caso oggetto
del presente giudizio deve ritenersi che da
parte del Comune sarebbe stato necessario
fornire le spiegazioni circa le ragioni del
provvedimento, stante la particolarità della
situazione e la pendenza di un giudizio
amministrativo sull’atto sostanzialmente
presupposto a quello di autotutela.
Infatti, la motivazione posta a sostegno
dell’annullamento d’ufficio del certificato
provvisorio di agibilità della discoteca (in
data 29.10.2001) è stata fatta
coincidere, da parte del Comune,
esclusivamente con l’emissione del diniego
di sanatoria (datato 29.01.2001).
Non si tratta, dunque, di un mancato
rilascio dell’agibilità conseguente
all’accertamento dell’abusività
dell’edificio (circostanza in ordine alla
quale, la giurisprudenza amministrativa,
dopo una fase di incertezza, è generalmente
propensa nel ritenere la legittimità del
diniego, si veda Cons. St., sez. V, 30.04.2009, n. 2760; id.,
03.02.2000,
n. 592), bensì di un ritiro ex post di un
provvedimento emesso –in data 01.03.2000- in favore di un edificio la cui sanatoria
era già stata richiesta, giustificato
esclusivamente sulla base di un successivo
diniego di sanatoria.
In pratica, al momento del rilascio
dell’agibilità provvisoria (marzo 2000), la
situazione di fatto dell’immobile era
identica a quella esistente al momento del
ritiro del provvedimento (ottobre 2011),
eccezion fatta per l’intervenuto diniego di
sanatoria.
Ne consegue che sarebbe stato doveroso, per
l’Amministrazione, giustificare il proprio
operato sotto il profilo della valutazione
operata e della lesione dell’affidamento del
terzo e considerato che, nel frattempo, il
predetto diniego era stato oggetto di
ricorso giurisdizionale (ricorso notificato
il 05.04.2001).
Può quindi affermarsi che il suddetto
provvedimento, non constando nel rilievo di
una illegittimità ab origine, ma solo
successiva, non avrebbe dovuto essere
qualificato come “annullamento d’ufficio”
ma semmai come “revoca” (in quanto il
mutamento della situazione di fatto è
successivo all’emissione del provvedimento
originario, ed i suoi effetti si producono
ex nunc), sicché la semplice motivazione
avente ad oggetto il preteso rapporto di
presupposizione/consequenzialità tra
agibilità e sanatoria edilizia (per cui
venendo meno la seconda va ritirata anche la
prima) non costituisce una giustificazione
legittima, sotto il profilo dell’interesse
pubblico, dell’attività posta in essere
dall’ente locale.
Sotto questo profilo, il diniego di
sanatoria avrebbe dovuto essere
funzionalmente motivato anche in ragione dei
profili di merito censurati nel ricorso
principale, comparandosi l'interesse
pubblico con quello del privato che
incolpevolmente ha confidato sulla
legittimità dei provvedimenti originari
dell'amministrazione (Tar Salerno, sez. II,
31.05.2011 n. 1053) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è in parte orientata nel
ritenere che il rilascio dell’agibilità
debba aver riguardo non solo alla regolarità
igienico-sanitaria dell’edificio, ma anche
alla sua conformità urbanistico-edilizia.
Ancor prima della logica giuridica è
d'altronde la ragionevolezza ad escludere
che possa essere utilizzato, per qualunque
destinazione, un fabbricato non conforme
alla normativa urbanistico-edilizia e, come
tale, in potenziale contrasto con la tutela
degli interessi collettivi alla cui
protezione quella disciplina è preordinata
(corretto uso del suolo, difesa
dell'ambiente, salubrità degli abitati,
sicurezza e stabilità delle costruzioni,
ecc.).
In primo luogo deve rilevarsi che l’art. 221
del T.U. delle Leggi Sanitarie è stato
abrogato, a decorrere dal 30.06.2003,
dall’articolo 136, comma 2, lettera a), del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come
modificato dall’articolo 3 del D.L. 20.06.2002, n. 122.
L’attuale disciplina del certificato di
agibilità è contenuta agli artt. 24, 25 e 26
del T.U. 380/2001, e la giurisprudenza, come
chiarito al capo precedente della presente
sentenza, è in parte orientata nel ritenere
che il rilascio dell’agibilità debba aver
riguardo non solo alla regolarità
igienico-sanitaria dell’edificio, ma anche
alla sua conformità urbanistico-edilizia
(Cons. St., sez. V, 30.04.2009, n. 2760;
id., 03.02.2000, n. 592; Tar Calabria,
sez. II, 22.11.2011 n. 1398 e 09.07.2011 n. 1009).
Pur dando atto dell’esistenza di
giurisprudenza, anche recente, di segno
opposto (cfr., tra le più recenti, Tar
Lazio, sez. II-bis, 23.11.2011 n.
9212), il collegio rileva come sia la stessa
legge ad individuare, nella necessaria
conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie, il presupposto
indispensabile per il legittimo rilascio del
suddetto certificato.
In tal senso depongono sia l'art. 24, comma
3, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (“... il
soggetto titolare del permesso di costruire
... (è) tenut(o) a chiedere il certificato
di agibilità”) sia, con specifico
riferimento alla normativa sul condono,
l'art. 35, comma 20, della L. 28.02.1985, n. 47 (“A seguito della concessione
... in sanatoria viene altresì rilasciato il
certificato di ... agibilità”).
Ancor prima della logica giuridica è
d'altronde la ragionevolezza ad escludere
che possa essere utilizzato, per qualunque
destinazione, un fabbricato non conforme
alla normativa urbanistico-edilizia e, come
tale, in potenziale contrasto con la tutela
degli interessi collettivi alla cui
protezione quella disciplina è preordinata
(corretto uso del suolo, difesa
dell'ambiente, salubrità degli abitati,
sicurezza e stabilità delle costruzioni,
ecc.).
Tali ragionamenti possono perfettamente
applicarsi anche al tempo in cui il ricorso
è stato presentato, e, quindi, vigente
l’art. 221 T.U. Leggi Sanitarie.
Pertanto non coglie nel segno il motivo
rivolto a censurare il provvedimento di
autotutela, sotto il profilo della mancanza
di collegamento tra il certificato di
agibilità e l’assenza dei presupposti di
legittimità urbanistico-edilziia del
fabbricato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’omessa
pubblicità delle operazioni si pone in
radicale antitesi all’indirizzo
giurisprudenziale, da ultimo recepito dal
diritto positivo (art. 12 d.l. 07.05.2012 n.
52 integrativo dell’art. 120, comma 2,
d.P.R. 05.10.2010 n. 207) che, per un verso,
ha esteso la pubblicità delle operazioni
della Commissione all’apertura dei plichi
contenenti le offerte tecniche; e, per
l’altro, ha ribadito che la pubblicità delle
sedute, posta a presidio dei principi di
correttezza e imparzialità, va osservata per
tutte le fasi in cui s’articola la procedura
di gara specie se conformata al criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
---------------
La Commissione di gara che non ha adottato
alcuna misura idonea ad assicurare la
segretezza e l’integrità degli atti di gara
e la generica affermazione del presidente
della Commissione, riprodotta nei verbali
delle sedute, che “la segreteria tecnica è
incaricata della custodia”, non garantisce
affatto l’adozione di specifiche cautele
idonee ex ante ed in astratto.
Risulta per tabulas, ossia dagli atti
di gara depositati in giudizio, che
l’apertura delle offerte, avvenuta il
20.09.2011, è stata effettuata da tre
funzionari comunali, prima dell’insediamento
e della costituzione della Commissione di
gara di cui alla deliberazione del
14.11.2011.
Vero è che la relativa seduta concerneva
l’esame delle richieste d’invito formulate
dalle imprese aspiranti, nondimeno l’art. 84
d.Lgs. n. 163/2006 demanda la totalità delle
operazioni di gara, relative
all’aggiudicazione con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
alla Commissione giudicatrice, non già ai
funzionari incardinati nell’organigramma
della stazione appaltante (cfr., Cons. St.,
sez. V, 13.10.2010 n. 7470; Tar Piemonte,
sez. I, 09.04.2009 n. 986).
Del resto, sulla scorta del verbale della
seduta, s’evince che i funzionari hanno
proceduto alla verifica dell’integrità ed
all’apertura dei plichi contenti, oltre la
richiesta d’invito, le dichiarazioni sul
possesso dei requisiti per l’ammissione alla
gara.
Ossia un’attività propedeutica ed essenziale
della procedura di gara non solo non è stata
effettuata dalla Commissione, vale a dire da
organo terzo ed imparziale appositamente
costituito nella composizione necessaria ad
assicurare il possesso delle competenze
tecniche richieste in capo ai singoli
membri, ma, per quel che più rileva, non è
avvenuta in seduta pubblica.
L’omessa pubblicità delle operazioni si pone
in radicale antitesi all’indirizzo
giurisprudenziale, da ultimo recepito dal
diritto positivo (art. 12 d.l. 07.05.2012 n.
52 integrativo dell’art. 120, comma 2,
d.P.R. 05.10.2010 n. 207) che, per un verso,
ha esteso la pubblicità delle operazioni
della Commissione all’apertura dei plichi
contenenti le offerte tecniche; e, per
l’altro, ha ribadito che la pubblicità delle
sedute, posta a presidio dei principi di
correttezza e imparzialità, va osservata per
tutte le fasi in cui s’articola la procedura
di gara specie se conformata al criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Aggiungasi, venendo ad altra censura che
s’appunta sulle modalità di esecuzione delle
operazioni, riferita all’ulteriore iter
della gara, che la Commissione non ha
adottato alcuna misura idonea ad assicurare
la segretezza e l’integrità degli atti di
gara.
La generica affermazione del presidente
della Commissione, riprodotta nei verbali
delle sedute, che “la segreteria tecnica
è incaricata della custodia”, non
garantisce affatto l’adozione di specifiche
cautele idonee ex ante ed in astratto (cfr.,
sul criterio de quo, perspicuamente,
Tar Liguria, sez. II, 22.10.2009 n. 2955) ad
evitare la manomissione dei plichi (cfr., da
ultimo, Cons. St., sez. V, 28.03.2012 n.
1862).
In definitiva la sussistenza dei due vizi
richiamati inficia alla base le operazioni
di gara: comporta il conseguente
assorbimento dei residui motivi di censura e
l’annullamento degli atti impugnati
(TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 746 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La decorrenza del termine per
ricorrere in sede giurisdizionale avverso
atti abilitativi dell'edificazione per i
soggetti diversi da quelli cui l'atto è
rilasciato, deve essere collegata alla data
in cui sia percepibile dal controinteressato
la concreta entità del manufatto e la
incidenza effettiva sulla propria posizione
giuridica.
Si è pertanto osservato che, eccetto
nell'ipotesi in cui si deduca l'inedificabilità
dell'area, il dies a quo per la decorrenza
del termine di impugnazione va individuato
non tanto nell'inizio dei lavori, quanto nel
loro completamento, con la conseguenza che
l’argomentazione in rito non è accoglibile
trattandosi di opere non ultimate alla data
di spedizione del ricorso.
Quanto alla presunta tardività, deve
rammentarsi che la decorrenza del termine
per ricorrere in sede giurisdizionale
avverso atti abilitativi dell'edificazione
per i soggetti diversi da quelli cui l'atto
è rilasciato, deve essere collegata alla
data in cui sia percepibile dal
controinteressato la concreta entità del
manufatto e la incidenza effettiva sulla
propria posizione giuridica (Consiglio di
Stato, Sez. VI, 23.01.2012 n. 284;
10.12.2010 n. 8705; Sez. V, 24.08.2007 n.
4485).
Si è pertanto osservato che, eccetto
nell'ipotesi in cui si deduca l'inedificabilità
dell'area, il dies a quo per la
decorrenza del termine di impugnazione va
individuato non tanto nell'inizio dei
lavori, quanto nel loro completamento
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.05.2010 n.
3378), con la conseguenza che
l’argomentazione in rito non è accoglibile
trattandosi di opere non ultimate alla data
di spedizione del ricorso (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 23.05.2012 n. 2400 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La mancata quantificazione del
contributo di urbanizzazione non costituisce
un requisito di legittimità del titolo
edilizio, in quanto il procedimento di
determinazione del contributo di
urbanizzazione è diverso e autonomo rispetto
al procedimento di rilascio del titolo
edilizio, sia perché persegue finalità sue
proprie, sia perché si conclude con un
provvedimento diverso da quello concessivo
del titolo a costruire, che è autonomamente
impugnabile e suscettivo di annullamento
senza ripercussioni sulla concessione.
Secondo
condivisibile indirizzo pretorio, la mancata
quantificazione del contributo di
urbanizzazione non costituisce un requisito
di legittimità del titolo edilizio, in
quanto il procedimento di determinazione del
contributo di urbanizzazione è diverso e
autonomo rispetto al procedimento di
rilascio del titolo edilizio, sia perché
persegue finalità sue proprie, sia perché si
conclude con un provvedimento diverso da
quello concessivo del titolo a costruire,
che è autonomamente impugnabile e suscettivo
di annullamento senza ripercussioni sulla
concessione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
21.04.2009 n. 2438 e 31.01.1995 n. 37)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 23.05.2012 n. 2400 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Trattandosi di proprietà
finitime, sussiste una situazione soggettiva
ed oggettiva di stabile collegamento con
l’area coinvolta dalla costruzione che,
qualora illegittimamente assentita, è idonea
ad arrecare un pregiudizio ai valori
urbanistici della zona medesima che
legittima la proposizione del ricorso.
Pertanto, nel caso di specie, la qualifica
giuridica di proprietario di un bene
immobile confinante deve di per sé ritenersi
idonea a creare la legittimazione e
l'interesse al ricorso, non occorrendo
altresì la verifica della concreta lesione
di un qualsiasi altro interesse di rilevanza
giuridica, riferibile a norme di diritto
privato o di diritto pubblico.
Neppure coglie
nel segno l’eccezione di inammissibilità per
carenza di interesse, considerato che la
Sig.ra Maria Teresa Camerlengo è
comproprietaria confinante dell’area
interessata dal progetto edilizio de quo.
Trattandosi quindi di proprietà finitime,
sussiste una situazione soggettiva ed
oggettiva di stabile collegamento con l’area
coinvolta dalla costruzione che, qualora
illegittimamente assentita, è idonea ad
arrecare un pregiudizio ai valori
urbanistici della zona medesima che
legittima la proposizione del ricorso.
Non resta quindi che fare applicazione del
consolidato orientamento giurisprudenziale,
da cui il Collegio non ritiene di
discostarsi, secondo cui la qualifica
giuridica di proprietario di un bene
immobile confinante deve di per sé ritenersi
idonea a creare la legittimazione e
l'interesse al ricorso, non occorrendo
altresì la verifica della concreta lesione
di un qualsiasi altro interesse di rilevanza
giuridica, riferibile a norme di diritto
privato o di diritto pubblico (Consiglio di
Stato, Sez. IV, 23.01.2012 n. 284;
05.01.2011 n. 18; 04.05.2010 n. 2565;
29.07.2009 n. 4756; 31.05.2007 n. 2849; TAR
Campania Napoli, Sez. VIII, 08.04.2011 n.
2028)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 23.05.2012 n. 2400 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Lavoro, cartellini marcatempo,
falsa attestazione, reato, non
configurabilità.
Non integra il delitto di falso ideologico
in atto pubblico la falsa attestazione del
pubblico dipendente circa la sua presenza in
ufficio riportata nei cartellini marcatempo
o nei fogli di presenza, in quanto documenti
che non hanno natura di atto pubblico, ma di
mera attestazione del dipendente inerente al
rapporto di lavoro, soggetto a disciplina
privatistica, documenti che, peraltro, non
contengono manifestazioni dichiarative o di
volontà riferibili alla P.A. (1)
---------------
(*) Riferimenti normativi: art. 479 c.p.
(1) Cfr. Cass. Pen., SS.UU., sentenza
11.04.2006 n. 15983 (Corte di
Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 21.05.2012 n. 19299 - link a
www.altalex.com).
---------------
Pausa pranzo senza
timbrare? Dipendente pubblico non commette
reato.
La questione sottoposta all'esame della
presente pronuncia (se, cioè, integri il
reato di falso ideologico in atto pubblico
la mancata timbratura, da parte del
dipendente pubblico, del cartellino
segnatempo in occasione di brevi
allontanamenti dal luogo di lavoro),
comporta l'esame e la soluzione di altra,
preliminare questione e, cioè, se il
cartellino marcatempo (che meccanicamente
annota gli orari di ingresso e di uscita dal
luogo di lavoro) ed i fogli di presenza (che
assolvono ad analoga funzione) dei pubblici
dipendenti abbiano o meno natura di atto
pubblico.
La prevalente giurisprudenza di legittimità
si è al riguardo positivamente orientata,
sulla considerazione che tali atti
svolgerebbero la loro funzione non solo in
riferimento al rapporto di lavoro tra
impiegati pubblici e pubblica
amministrazione, ma anche in relazione alla
organizzazione stessa di quest'ultima, con
riflessi sulla sua funzionalità, essendo,
perciò, essi "destinati a produrre
effetti per la stessa pubblica
amministrazione", anche in ordine al "controllo
dell'attività e regolarità dell'ufficio";
tali attestazioni, quindi, sarebbero "preordinat(e)
ad attestare la certezza dello svolgimento
della pubblica funzione da parte di coloro
che ne sono preposti", non rilevando al
riguardo la natura privatistica del rapporto
di lavoro tra pubblico dipendente e pubblica
amministrazione (Cass. pen., sez. V, n. 5676
del 2005; Cass. pen., sez. V, n. 16503 del
2004; Cass. pen., sez. V, n. 43844 del 2004;
Cass. pen., sez. V, n. 42245 del 2004).
L'opposto minoritario indirizzo
giurisprudenziale fa leva, in sostanza,
sulla considerazione che siffatte
attestazioni rilevano "in via diretta ed
immediata unicamente ai fini della
retribuzione e comunque del regolare
svolgimento della prestazione di lavoro e
solo indirettamente, e mediatamente, ai fini
del regolare svolgimento del servizio"
(Cass. pen., sez. V, n. 44689 del 2005).
Posto, difatti, che la condotta di
falsificazione ideologica del pubblico
ufficiale ipotizzata dall’art. 479 c.p.
(come quella materiale di cui all’art. 476
c.p.) deve sostanziarsi in una attività
svolta "nell'esercizio delle sue funzioni"
pubblicistiche, appare ineludibile
distinguere, nell'attività del pubblico
impiegato -ed in un contesto in cui il
rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti
ha assunto connotazioni privatistiche (a
seguito della disciplina introdotta con il
D.Lgs. 29/1993, modificata dal D.Lgs.
80/1998, ora trasfusa nel D.Lgs. 165/2001)-
"gli atti che sono espressione della
pubblica funzione e/o del pubblico servizio
e che tendono a conseguire gli obiettivi
dell'ente pubblico" da quelli "strettamente
attinenti alla prestazione" di lavoro, "ed
aventi, perciò, esclusivo rilievo sul piano
contrattuale e non anche su quello
funzionale" (Cass. pen., Sez. V, n.
12789 del 2003).
Premesso, invero, che secondo la costante
giurisprudenza di Cass. pen., 8151/1976 e la
prevalente dottrina, "agli effetti delle
norme sul falso documentale, il concetto di
atto pubblico è più ampio rispetto a quello
che si desume dalla definizione contenuta
nell'art. 2699 c.c., in quanto comprende non
soltanto quei documenti che sono redatti con
le richieste formalità da un notaio o da un
altro pubblico ufficiale autorizzato ad
attribuirgli pubblica fede, ma anche i
documenti formati dal pubblico ufficiale o
dal pubblico impiegato incaricato di
pubblico servizio nell'esercizio delle sue
funzioni, attestanti fatti da lui compiuti o
avvenuti in sua presenza ed aventi
attitudine ad assumere rilevanza giuridica",
rimane che -come si esprime autorevole
dottrina- "la falsa rappresentazione
della realtà che viene documentata deve
essere rilevante in relazione alla specifica
attività del pubblico ufficiale ... e ciò
significa che la falsità deve investire un
fatto che, in relazione al concreto
esercizio della funzione o attribuzione
pubblica, abbia la potenzialità di produrre
effetti giuridici".
Deve, allora, convenirsi che, la falsa
attestazione della propria presenza in
ufficio (cui può essere equiparata la omessa
segnalazione della assenza) da parte di un
Pubblico ufficiale non configura il delitto
di falso ideologico in atti pubblici ex art.
479 c.p.. |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
foglio di presenza degli impiegati pubblici
ha natura di atto pubblico, in quanto il
dipendente che dichiara la sua presenza in
ufficio assume il ruolo di pubblico
ufficiale chiamato ad attestare un fatto
rilevante non soltanto in funzione delle
competenze retributive, ma anche di tutto
ciò che possa inerire al regolare
svolgimento del pubblico servizio.
Considerato in diritto:
Il ricorso è fondato; non integra, infatti,
il delitto di falso ideologico in atto
pubblico la falsa attestazione del pubblico
dipendente circa la sua presenza in ufficio
riportata nei cartellini marcatempo o nei
fogli di presenza, in quanto documenti che
non hanno natura di atto pubblico, ma di
mera attestazione del dipendente inerente al
rapporto di lavoro, soggetto a disciplina
privatistica, documenti che, peraltro, non
contengono manifestazioni dichiarative o di
volontà riferibili alla P.A. (Sez. U, n.
15983 del 11/04/2006, Sepe, cui si è
conformata la successiva giurisprudenza: La
falsa attestazione del pubblico dipendente,
circa la presenza in ufficio riportata sui
cartellini marcatempo o nei fogli di
presenza, è condotta fraudolenta, idonea
oggettivamente ad indurre in errore
l'amministrazione di appartenenza circa la
presenza su luogo di lavoro, ed è dunque
suscettibile di integrare il reato di truffa
aggravata, ove il pubblico dipendente si
allontani senza far risultare, mediante
timbratura del cartellino o della scheda
magnetica, i periodi di assenza, sempre che
siano da considerare economicamente
apprezzabili; cfr. sez. 2, n. 34210 del
06/10/2005, Buttiglieri) (tratto da
www.diritto.it - Corte di Cassazione, Sez. V
penale, sentenza 21.05.2012 n. 19299). |
EDILIZIA PRIVATA: L’Amministrazione
comunale fonda le proprie pretese su
porzione della fascia di rispetto
controversa sulla presunzione di proprietà
pubblica delle strade ex art. 22 della legge
n. 2248/1865, All. F, di cui in particolare
per quanto qui rileva, sono considerati
parte integrante –testualmente- “i fossi
laterali che servono unicamente o
principalmente agli scoli..”; e per vincere
tale presunzione -iuris tantum- è necessario
fornire –piena- prova contraria del
carattere privato dell’area.
Il punto che resta controverso è dunque la
natura pubblica o privata di una porzione
tale area (si ribadisce quella sulla quale
insisterebbe il canale di scolo), il cui
accertamento rileva ai fini del
dimensionamento della volumetria
edificabile. L’atto impugnato contiene un
chiaro riferimento alla “...discrepanza
derivante dalla non corrispondenza tra la
realtà e la restituzione del rilievo
catastale...” per cui vi sarebbe “...una
consistente quota di suolo che la ditta ha
sostenuto che facesse parte della superificie sulla quale far sorgere
l’immobile privato…”.
La quota mancante, secondo la prospettazione
di parte ricorrente, coinciderebbe con
l’intera fascia di rispetto in discussione.
A riprova dell’assunto, la stessa allega
l’atto di compravendita del 23.05.2006 a
rogito del notaio D’Agosto, dal quale in
effetti emerge l’acquisto di un’area con
superficie reale dichiaratamente più estesa
di quella catastale (mq. 536 a fronte di
mq. 336), ricadente “...nel vigente PdF parte
in zona B1 (zona di completamento) e parte
su fascia di rispetto stradale”.
Tali risultanze sono tuttavia insufficienti
a fornire la prova decisiva della proprietà
privata secondo l’insegnamento della Suprema
Corte (Cass. n. 3568/2002); parallelamente,
tuttavia, non sono dirimenti le risultanze
catastali, le quali hanno semplice valore
indiziario (Cass., Sez. II, 09.07.1980,
n. 4372).
L’Amministrazione comunale fonda invece le
proprie pretese su porzione della fascia di
rispetto controversa -come detto- sulla
presunzione di proprietà pubblica delle
strade ex art. 22 della legge n. 2248/1865, All. F , di cui in particolare per quanto qui
rileva, sono considerati parte integrante
–testualmente- “i fossi laterali che servono
unicamente o principalmente agli scoli..”; e
per vincere tale presunzione -iuris tantum-
è necessario fornire –piena- prova contraria
del carattere privato dell’area (cfr. Cass.
civ., sez. II, 02.03.2007 n. 4975 e 09.11.2009,
n. 23705; in termini Sez. II, 27.05.2002,
n. 7708)
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 18.05.2012 n. 957 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Pozzo chiuso per ordine del sindaco? Decide
il T.S.A.P..
Rientra nella giurisdizione del Tribunale
Superiore delle Acque Pubbliche una
controversia avente a oggetto l'impugnazione
di un'ordinanza, con cui il Sindaco ha
disposto l'immediata chiusura di un pozzo
per l'attingimento di acque di falda ubicato
in proprietà privata e ordinato alla
Provincia di revocare la relativa
concessione.
Il deducente ha impugnato l’ordinanza con
cui il Sindaco del Comune di appartenenza
aveva ingiunto al medesimo la chiusura ad horas del pozzo esistente nella sua
proprietà, con mezzi idonei da non
consentire l'attingimento delle acque di
falda per qualsiasi uso e/o scopo e,
all'Amministrazione provinciale, di
provvedere alla revoca di eventuali
concessioni con chiusura e sigillatura del
pozzo in questione.
Costituitasi in giudizio, la civica P.A. ha
eccepito, in via preliminare, il difetto di
giurisdizione del Giudice amministrativo,
ritenendo sussistente la giurisdizione del
Tribunale Superiore della Acque Pubbliche.
Siffatta eccezione è stata ritenuta fondata.
Sul punto, il TAR capitolino ha
rammentato come, ai sensi dell'art. 143,
comma 1, lett. a), R.D. n. 1775/1933 (T.U.
delle disposizioni di legge sulle acque e
impianti elettrici), appartengono alla
cognizione diretta del Tribunale Superiore
delle Acque Pubbliche tutti "i ricorsi per
incompetenza, eccesso di potere e violazione
di legge avverso i provvedimenti ... presi
dall'amministrazione in materia di acque
pubbliche".
Sicché, in virtù di un consolidato
orientamento, l’adito Tribunale ha precisato
come la menzionata disposizione avrebbe
dovuto intendersi nel senso che rientrano
nella giurisdizione del T.S.A.P. i gravami
contro provvedimenti caratterizzati
dall'incidenza diretta sulla materia delle
acque pubbliche, ancorché adottati da
autorità diverse da quelle specificamente
preposte alla tutela delle acque (ex multis,
Cons. Stato, Sez. V, 12.06.2009, n.
3678; idem, 25.05.2010, n. 3325; TAR
Puglia, Bari, Sez. III, 02.12.2010, n.
4059).
Al riguardo, al fine di una maggiore
compiutezza dell’analisi del gravame, il
giudicante ha richiamato la notoria
decisione della Suprema Corte, secondo cui:
"… sono devoluti alla cognizione del
Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche
tutti i ricorsi avverso i provvedimenti che,
per effetto della loro incidenza sulla
realizzazione, sospensione o eliminazione di
un'opera idraulica riguardante acque
pubbliche, concorrono, in concreto, a
disciplinare le modalità di utilizzazione di
dette acque, onde in tale ambito vanno
ricompresi anche i ricorsi avverso i
provvedimenti che, pur costituendo esercizio
di un potere non strettamente attinente alla
materia delle acque e inerendo a interessi
più generali e diversi ed eventualmente
connessi rispetto agli interessi specifici
relativi alla demanialità delle acque o ai
rapporti concessori di beni del demanio
idrico, riguardino comunque l'utilizzazione
di detto demanio, così incidendo in maniera
diretta e immediata sul regime delle acque.
Per converso, sono escluse dalla
giurisdizione di detto Tribunale le
controversie aventi a oggetto atti solo
strumentalmente inseriti in procedimenti
finalizzati a incidere sul regime delle
acque, le quali non richiedono le competenze
giuridiche e tecniche, ritenute dal
legislatore necessarie -attraverso la
configurazione di uno speciale organo
giurisdizionale, nella particolare
composizione richiesta- per la soluzione
dei problemi posti dalla gestione delle
acque pubbliche" (Cass. Civ., SS. UU., 11.05.2007, n. 10750).
Parallelamente, ha osservato come il
Tribunale Superiore delle Acque avesse
affermato la propria giurisdizione: "…
quando i provvedimenti amministrativi
impugnati siano caratterizzati da incidenza
diretta sulla materia delle acque pubbliche,
concorrendo, in concreto, a disciplinare
direttamente la gestione, l'esercizio delle
opere idrauliche e i rapporti con i
concessionari o a determinare i modi di
acquisto dei beni necessari all'esercizio e
alla realizzazione delle opere stesse o a
stabilire o modificare la localizzazione di
esse o a influire nella loro realizzazione,
mediante sospensione e revoca dei relativi
provvedimenti, come quelli relativi a opere
dirette a trasferire (galleria) e utilizzare
(centrale idroelettrica) acque pubbliche
che, quindi, proprio in relazione ai loro
connotati oggettivi e teleologici, abbiano
effetti immediati e diretti sul regime delle
acque pubbliche" (T.S.A.P., 13.07.2007,
n. 123).
Di tal ché, con riferimento alla vicenda, il
Collegio ha ritenuto che il provvedimento
impugnato avesse spiegato incidenza diretta
sul regime delle acque pubbliche, in quanto
contenente l’ordine, rivolto al ricorrente,
di chiusura dei pozzi esistenti nella sua
proprietà per l’attingimento delle acque di
falda, nonché l’ordine, rivolto
all’Amministrazione provinciale, di
procedere alla revoca di eventuali
concessioni con la chiusura e sigillatura
dei pozzi in questione.
Di conseguenza, ha rilevato come la
cognizione della controversia esulasse dalla
giurisdizione del Giudice amministrativo per
rientrare nella giurisdizione del Tribunale
Superiore della Acque Pubbliche.
Né, ha osservato, a differente conclusione
poteva condurre la circostanza per cui il
gravato provvedimento avesse fatto seguito a
una nota del Commissario di Governo nella
quale era stato ordinato al Sindaco, in
qualità di massima autorità sanitaria
locale, di provvedere a emettere apposita
ordinanza di interdizione all’utilizzo dei
pozzi risultati contaminati, nonché alla
Provincia di provvedere alla revoca delle
concessioni dei pozzi con la chiusura e la
sigillatura degli stessi.
Alla stregua di siffatte argomentazioni, il
TAR di Roma ha pertanto dichiarato il
ricorso inammissibile per difetto di
giurisdizione del G.A., rientrando la
controversia nella giurisdizione del
Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche,
dinanzi al quale la domanda dovrà essere
riproposta a norma dell'art. 11, D.Lgs n.
104/2010
(tratto da www.ipsoa.it - TAR Lazio-Roma,
Sez. I,
sentenza 14.05.2012 n.
4296 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Appalti, il Comune può escludere
l’impresa indagata per turbativa d’asta.
Un comune può escludere dall’elenco delle
imprese di fiducia una ditta il cui titolare
è stato rinviato a giudizio per aver
commesso reati contro la stessa
amministrazione comunale.
Il TAR Palermo ha respinto il ricorso
presentato da una ditta che era stata
esclusa dall’albo delle imprese di fiducia
di un Comune, e a cui in seguito era stata
revocata l’aggiudicazione definitiva di
alcuni lavori, in quanto imputata per
turbativa d’asta.
Il Comune in questione aveva indetto una
gara di appalto, da aggiudicarsi mediante la
procedura di cottimo fiduciario, avente ad
oggetto i lavori di “Manutenzione
straordinaria a contratto aperto della
viabilità cittadina – (strade, marciapiedi,
aree pubbliche e parapetti)”. La
partecipazione alla gara era stata riservata
esclusivamente alle imprese che, all’atto
dell’indizione del bando e della successiva
presentazione delle offerte, risultavano
regolarmente iscritte all’albo delle imprese
di fiducia del Comune stesso. La gara veniva
vinta dall’impresa edile di fiducia Portelli
Antonio.
Successivamente all’aggiudicazione
definitiva dei lavori oggetto di gara,
l’amministrazione appaltante scopriva che il
titolare della ditta aggiudicataria era
stato coinvolto nell’operazione Octopus che
riguardava i reati contro la libertà degli
incanti commesso nel 2003 ai danni del
Comune. Pertanto l’amministrazione dopo aver
escluso la ditta dall’albo delle imprese di
fiducia, le revocava l’aggiudicazione
definitiva dei lavori oggetto dell’appalto.
Decisione questa che dava seguito alla
direttiva comunale “percorso di legalità”
atta ad escludere dall’albo di fiducia le
imprese con carichi pendenti per determinati
reati.
Il titolare della ditta impugnava i
provvedimenti proponendo ricorso al Tar di
Palermo, che lo ha rigettato ritenendolo
infondato.
Per il Tribunale amministrativo infatti, la
revoca dell’aggiudicazione, “è stata
adottata –in via di autotutela– non per
motivi di legittimità bensì per motivi di
opportunità”. Anche se infatti non era
stata accertata con sentenza irrevocabile la
responsabilità penale del titolare, la
circostanza che lo stesso era stato rinviato
a giudizio per fatti penalmente rilevanti, a
lui riferibili, in relazione a gare per
l’affidamento di lavori nello stesso comune,
“è più che sufficiente per giustificare
appieno i provvedimenti di revoca impugnati”.
Riguardo poi, la contestazione che i reati
per i quali il titolare è imputato, “associazione
a delinquere nella forma semplice” (art.
416 c.p.) e “turbata libertà degli
incanti” (art. 353 c.p.), non erano
ricompresi nella determina comunale che
elencava le fattispecie penali ostative
all’inserimento nell’albo delle imprese
fiduciarie, il Tar di Palermo ha ritenuto
illogico che la giunta, secondo il
ricorrente, abbia voluto escludere
determinati titoli di reato pertinenti con
le aggiudicazioni dei lavori.
Per il Tar, dunque, il rinvio a giudizio per
reati commessi contro il comune è stato,
indubbiamente, più che sufficiente a creare
sfiducia nei confronti dell’impresa e a
legittimarne l’esclusione con la conseguente
revoca dell’aggiudicazione definitiva
(commento tratto da www.leggioggi.it - TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 14.05.2012 n. 972 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Limitazione della sanatoria ai
soli reati urbanistici.
Il rilascio in sanatoria del permesso di
costruire, determina l'estinzione dei soli "reati
contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti" e quindi si
riferisce esclusivamente alle
contravvenzioni concernenti la materia che
disciplina l'assetto del territorio sotto il
profilo edilizio, ossia alle violazioni
della stessa legge, in cui sono contemplate
le ipotesi tipiche suscettibili di
sanatoria.
Ne deriva l'inapplicabilità della causa
estintiva agli altri reati che riguardino
altri aspetti delle costruzioni ed aventi
oggettività giuridica diversa rispetto a
quella della mera tutela urbanistica del
territorio, come i reati relativi a
violazioni di disposizioni in materia di
costruzioni in zona sismica, o in materia di
opere in conglomerato cementizio, ovvero in
materia di tutela delle zone di particolare
interesse ambientale (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 11.05.2012 n. 17825 - tratto
da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Materiali provenienti da
demolizioni.
I materiali provenienti da demolizioni
rientrano nei novero dei rifiuti in quanto
oggettivamente destinati all'abbandono;
l'eventuale recupero è condizionato a
precisi adempimenti, in mancanza dei quali
detti materiali vanno considerati, comunque,
cose di cui il detentore ha l'obbligo di
disfarsi.
L'eventuale assoggettamento di detti
materiali a disposizioni più favorevoli che
derogano alla disciplina ordinaria implica
la dimostrazione, da parte di chi lo invoca,
della sussistenza di tutti presupposti
previsti dalla legge (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 11.05.2012 n. 17823 - tratto
da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’articolo 33 (interventi di
ristrutturazione edilizia in assenza di
permesso di costruire o in totale
difformità) comma 2 del t.u. dell’edilizia,
infatti, ammette l’irrogazione di una
sanzione pecuniaria in luogo di quella
ripristinatoria qualora, sulla base di
motivato accertamento dell’ufficio tecnico
comunale, il ripristino dello stato dei
luoghi <<non sia possibile>>.
Trattasi di disposizione, riferita agli
interventi di ristrutturazione edilizia
effettuati in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità, avente
natura eccezionale.
E’ senz’altro possibile che
l’amministrazione fissi dei criteri sulla
base dei quali dovrà poi modellarsi, di
volta in volta, il giudizio di possibilità o
meno, ma, ciò che invece non pare essere
consentito dalla legge, è che la
discrezionalità amministrativa si spinga
oltre la lettera della stessa, fino a
prefigurare un parametro non già di
possibilità/impossibilità, bensì di
“opportunità” o meno di procedere alla
demolizione delle opere abusive.
Non sembra in altri termini che la legge,
all’atto della valutazione relativa alla
sostituibilità della disposta sanzione
ripristinatoria con quella pecuniaria,
ammetta deroghe ispirate a parametri diversi
da quelli della materiale o comunque tecnica
impossibilità di demolire (art. 33, co. 2
cit.) e che per loro natura contraddicono la
sopracitata natura eccezionale della
disposizione. La valutazione sulla
opportunità o meno di demolire -infatti-
muta il profilo stesso della valutazione,
introducendo a pieno titolo un contenuto
discrezionale i cui spazi giustificativi non
appaiono rinvenibili nella norma
considerata.
L’articolo 33 (interventi di
ristrutturazione edilizia in assenza di
permesso di costruire o in totale
difformità) comma 2 del t.u. dell’edilizia,
infatti, ammette l’irrogazione di una
sanzione pecuniaria in luogo di quella
ripristinatoria qualora, sulla base di
motivato accertamento dell’ufficio tecnico
comunale, il ripristino dello stato dei
luoghi <<non sia possibile>>. Come rilevato
in giurisprudenza (cfr. TAR Lazio, II,
24/09/2002 n. 8106; TAR Campania, Napoli, IV
26/10/2001 n. 4703; TAR Marche 29/04/1992 n. 259)
trattasi di disposizione, riferita agli
interventi di ristrutturazione edilizia
effettuati in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità, avente
natura eccezionale.
E’ senz’altro possibile,
ad avviso del collegio, che
l’amministrazione fissi dei criteri sulla
base dei quali dovrà poi modellarsi, di
volta in volta, il giudizio di possibilità o
meno, ma, ciò che invece non pare essere
consentito dalla legge, è che la
discrezionalità amministrativa si spinga
oltre la lettera della stessa, fino a
prefigurare un parametro non già di
possibilità/impossibilità, bensì di
“opportunità” o meno di procedere alla
demolizione delle opere abusive, come
appunto fatto dal comune con la cd.
direttiva, che specifica poi tale criterio
di opportunità nella seguente elencazione
tipologica: <<interventi di modesta entità,
non autonomamente utilizzabili, quali
ampliamenti o sopraelevazioni a fabbricati
conformi, parziali trasformazioni della
destinazione d’uso, tettoie, verande ecc che
non compromettono l’aspetto estetico degli
immobili e il tessuto socio economico del
territorio tipicamente correlato
all’attività edilizia>>.
Non sembra in altri termini al Tribunale che
la legge, all’atto della valutazione
relativa alla sostituibilità della disposta
sanzione ripristinatoria con quella
pecuniaria, ammetta deroghe ispirate a
parametri diversi da quelli della materiale
o comunque tecnica impossibilità di demolire
(art. 33, co. 2 cit.) e che per loro natura
contraddicono la sopracitata natura
eccezionale della disposizione. La
valutazione sulla opportunità o meno di
demolire -infatti- muta il profilo stesso
della valutazione, introducendo a pieno
titolo un contenuto discrezionale i cui
spazi giustificativi non appaiono
rinvenibili nella norma considerata.
Illegittimamente pertanto l’amministrazione,
nella specie, ha dettato la direttiva in
parola, contemplante una serie di interventi
esclusi dalla demolizione (fra cui quello
riconducibile al manufatto “de quo”)
sulla base d’un criterio valutativo estraneo
alla legge (TAR Basilicata,
sentenza 11.05.2012 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
L'adozione dell'ordinanza ex art.
14, comma 3, D.Lg.vo n. 22/1997, trattandosi
di un atto di gestione (più precisamente di
un provvedimento sanzionatorio), rientra
nella competenza del Dirigente comunale e
non del Sindaco.
---------------
Il principio statuito dall'art. 107, comma
5, D.Lg.vo n. 267/2000, secondo cui
dall'entrata in vigore di quest’ultimo
decreto le norme che conferiscono al Sindaco
(od anche al Consiglio Comunale o alla
Giunta Comunale) la competenza ad adottare
atti di gestione amministrativa vanno
interpretate nel senso che tale competenza
spetta ai Dirigenti comunali, si applica
anche alle norme emanate successivamente
all'entrata in vigore del D.Lg.vo n.
267/2000, in quanto ai sensi dell'art. 1,
comma 4, del medesimo "le Leggi della
Repubblica non possono introdurre deroghe al
presente Testo Unico, se non mediante
espressa modificazione delle sue
disposizioni" e l'ultimo periodo dell'art.
192, comma 3, D.Lg.vo n. 152/2006, il quale
riproduce pedissequamente il contenuto
dell'ultima frase del precedente art. 14,
comma 3, D.Lg.vo n. 22/1997, non prevede
espressamente una deroga al menzionato art.
107.
... per l'annullamento dell’ordinanza
sindacale n. 14 del 02/04/2010, di rimozione
e smaltimento rifiuti abbandonati alla
contrada Gaudo, nei pressi della strada
prov.le ex s.s. 93 e la strada vicinale
denominata "Selvaggio".
...
E’ fondato il dedotto vizio di incompetenza,
come da giurisprudenza di questo TAR (cfr.
28/09/2007 n. 620).
Infatti, ai sensi dell'art. 107, comma 5,
D.Lg.vo n. 267/2000 "a decorrere
dall'entrata in vigore del presente Testo
Unico" (cioè ai sensi dell'art. 10,
comma 1, Disp. Prelim. al C.C. dal
13.10.2000: 15° giorno successivo alla
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del
predetto D.Lg.vo n. 267/2000) "le
disposizioni che conferiscono agli organi di
cui al Capo I del Titolo III" (cioè il
Consiglio Comunale, la Giunta Comunale ed il
Sindaco: cfr. artt. 36-54) "l'adozione di
atti di gestione e di atti o provvedimenti
amministrativi si intendono nel senso che la
relativa competenza spetta ai Dirigenti,
salvo quanto previsto dall'art. 50, comma 5,
e dall'art. 54".
Mentre ai sensi dell'art. 50, comma 5,
D.Lg.vo n. 267/2000 spetta al Sindaco "in
caso di emergenze sanitarie o di igiene
pubblica" soltanto l'adozione delle
ordinanze contingibili ed urgenti (come
quelle di "eccezionale ed urgente
necessità di tutela della salute pubblica e
dell'ambiente e non si possa altrimenti
provvedere", previste anche dall'art. 13
D.Lg.vo n. 22/1997, per le quali è prevista
la competenza del Sindaco, quando gli
effetti dell'emergenza sanitaria e/o
ambientale investono il solo territorio
comunale), tra le quali non rientrano quelle
disciplinate dall'art. 14, comma 3, D.Lg.vo
n. 22/1997, in quanto tali ordinanze hanno
un carattere sanzionatorio (cfr. TAR Parma
Emilia Romagna sez. I, 12.07.2011, n. 255),
essendo previste soltanto per le violazioni
imputabili "a titolo di dolo o colpa",
rientrante nell'ordinaria gestione
amministrativa di spettanza dirigenziale.
Mentre l'art. 54, comma 2, D.Lg.vo n.
267/2000 prevede soltanto l'adozione da
parte del Sindaco (nella qualità di
Ufficiale del Governo) di ordinanze
contingibili ed urgenti, al fine di
prevenire ed eliminare gravi percoli che
minacciano l'incolumità dei cittadini, cioè
trattasi di ordinanze contingibili ed
urgenti che riguardano una fattispecie
diversa da quella oggetto della controversia
in esame.
Pertanto, l'adozione dell'ordinanza ex art.
14, comma 3, D.Lg.vo n. 22/1997, trattandosi
di un atto di gestione (più precisamente di
un provvedimento sanzionatorio), rientra
nella competenza del Dirigente comunale e
non del Sindaco, per cui l'Ordinanza
Sindacale impugnata con il presente ricorso
non risulta affetta dal vizio di
incompetenza (cfr. TAR Basilicata Sentenze
n. 878 del 18.09.2003, n. 658 del
20.06.2003, n. 873 dell'11.12.2001 e n. 675
del 27.08.2001; TAR Napoli Sez. I Sentenze
n. 7532 del 12.06.2003, n. 1291 del
12.03.2002 e n. 5324 del 07.12.2001; TAR
Brescia Sent. n. 792 del 25.09.2001).
Al riguardo va pure precisato che il
principio statuito dal suddetto art. 107,
comma 5, D.Lg.vo n. 267/2000, secondo cui
dall'entrata in vigore di quest’ultimo
decreto le norme che conferiscono al Sindaco
(od anche al Consiglio Comunale o alla
Giunta Comunale) la competenza ad adottare
atti di gestione amministrativa vanno
interpretate nel senso che tale competenza
spetta ai Dirigenti comunali, si applica
anche alle norme emanate successivamente
all'entrata in vigore del D.Lg.vo n.
267/2000, in quanto ai sensi dell'art. 1,
comma 4, del medesimo "le Leggi della
Repubblica non possono introdurre deroghe al
presente Testo Unico, se non mediante
espressa modificazione delle sue
disposizioni" e l'ultimo periodo
dell'art. 192, comma 3, D.Lg.vo n. 152/2006,
il quale riproduce pedissequamente il
contenuto dell'ultima frase del precedente
art. 14, comma 3, D.Lg.vo n. 22/1997, non
prevede espressamente una deroga al
menzionato art. 107
(TAR Basilicata,
sentenza 11.05.2012 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
previsione speciale e derogatoria dell’art.
14 del D.Lvo 285 del 1992 è
giustificata dal fatto evidente che <la
pulizia della strada interferisce
direttamente con la stessa funzionalità
dell’infrastruttura e con la sicurezza della
viabilità e non può non fare capo
direttamente al soggetto gestore (proprietario, concessionario o comunque
affidatario della gestione del bene);… del
resto, sarebbe illogico imporre al comune il
dovere di rimuovere i rifiuti accumulati
sulla strada e sue pertinenze, poiché tale
attività implicherebbe l’occupazione della
carreggiata con mezzi pesanti per la
raccolta e il trasporto, il transito di
operatori ecologici e altre attività
incompatibili con il normale flusso della
circolazione stradale, o comunque
interferenti con essa; attività che solo
l’ente gestore della strada può
razionalmente programmare ed attuare “in
sicurezza”, con la contestuale, necessaria
adozione di tutte le misure e le cautele
idonee a garantire la sicurezza della
circolazione e degli operatori addetti alle
pulizie>; si tratta, quindi, della semplice
rilevazione della possibile interferenza
delle attività di raccolta dei rifiuti con
le esigenze di sicurezza della circolazione
stradale e, quindi, di una circostanza che
investe, non solo la raccolta dei rifiuti
abbandonati direttamente sulla sede
stradale, ma anche i rifiuti abbandonati
sulle pertinenze o sulle altre strutture
annesse alla strada.
La competenza dell’ente proprietario della
strada (o del gestore) trova giustificazione
anche nella necessità di evitare la
frammentazione di competenze che deriverebbe
dal semplice fatto che un determinato tratto
stradale attraversa i territori di più
comuni (con il rischio di comportamenti
differenziati); da non trascurare poi
l’ulteriore considerazione, rilevante anche
ai fini dell’analisi economica della
previsione, relativa al fatto che,
attraverso l’art. 14 del D.Lvo 285 del 1992,
si ottiene il risultato di attribuire
chiaramente (e sulla base di una forma di
responsabilità oggettiva) al soggetto
gestore della strada l’obbligo di procedere
alla pulizia della strada e delle pertinenze
(si pensi, a questo proposito, al pericolo
imminente che può derivare dal trasporto
sulla sede stradale, ad opera di agenti
atmosferici, di rifiuti abbandonati sulle
pertinenze stradali), così determinando
benefici effetti sulla sicurezza della
circolazione, sulla base di una
strutturazione complessiva che non preclude
certo la possibile rivalsa dell’ente
proprietario o gestore della strada sul
soggetto autore dell’abbandono dei rifiuti e
quindi la necessità sostanziale di
attribuire (ovviamente, solo ove possibile)
al responsabile dell’inquinamento la
responsabilità finale dell’abuso.
In definitiva, trattandosi indubbiamente di
rifiuti abbandonati sulle immediate
pertinenze (piazzole di sosta e strisce di
terreno comprese tra la carreggiata ed il
confine stradale) di strada in concessione
all’ANAS, la legittimità del provvedimento
impugnato deve essere valutata con
riferimento al parametro costituito
dall’art. 14 del D.Lvo 30.04.1992, n. 285 e
non dall’art. 192 del D.Lvo 03.04.2006, n.
152; ne deriva l’infondatezza delle censure
proposte da parte ricorrente.
---------------
Sul rilievo del mancato accertamento del
dolo o della colpa del proprietario/gestore
della strada devesi far presente che la
previsione dell’art. 14 del D.Lvo 285/1992
individua la responsabilità oggettiva del
gestore della strada e, quindi, una
strutturazione della responsabilità che non
richiede il previo accertamento del dolo o
colpa dello stesso; analogamente, non è
richiesta la previa ricerca dell’autore
dell’abbandono dei rifiuti che è rinviata,
per così dire, alla fase successiva della
rivalsa da parte dell’ente gestore.
... per l'annullamento ordinanza
dirigenziale n. 109 dell'08/09/2010, di
rimozione rifiuti abbandonati lungo la ss 96-bis direzione Bari e lungo la ss 655 "Bradanica"
direzione Matera.
...
Quanto alla prima censura, l’ordinanza
impugnata, se ricorrono i presupposti
previsti dall’art. 14 del D.Lg.vo n.
285/1992, in quanto atto vincolato, non
necessitava di previa comunicazione di avvio
del procedimento; comunque la stessa non
avrebbe potuto comunque assumere diverso
contenuto.
Poi, con specifico riferimento a
quest’ultima previsione di legge (art. 14
cit., che recita: <gli enti proprietari
delle strade, allo scopo di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione,
provvedono: a) alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze
e arredo… Per le strade in concessione i
poteri e i compiti dell’ente proprietario
della strada previsti dal presente codice
sono esercitati dal concessionario>), essa
attribuisce all’ente proprietario della
strada (o al concessionario, nel caso di
strada in concessione) la competenza a
provvedere <alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze
e arredo>; si tratta quindi indubbiamente di
una previsione che centralizza
sostanzialmente nel gestore del servizio
stradale tutte le competenze relative alla
corretta manutenzione, pulizia e gestione
del tratto stradale.
Tra i titolari di diritti personali di
godimento va compresa quindi anche la
società ricorrente, in quanto appunto
concessionaria della gestione e della
manutenzione ordinaria e straordinaria delle
strade e delle autostrade di proprietà dello
Stato (cfr. art. 2, comma 1, lett. a, D.Lg.vo n. 143/1994).
Per effetto soprattutto dell’esplicita
previsione della pulizia della sede stradale
e delle pertinenze, appare poi di tutta
evidenza come si tratti sostanzialmente di
una previsione caratterizzata da un rapporto
di specialità rispetto alle disposizioni del
D.Lgvo 152/2006: <poiché, più che il dato
relativo alla materia dei “rifiuti”, che
costituiscono, per così dire, l’oggetto
dell’attività cui il destinatario
dell’ordine è tenuto, sembra significativo
l’ulteriore dato del contesto spaziale
rispetto a cui l’attività in parola va
svolta: la circostanza che i rifiuti
interessino beni quali le strade, difatti,
per l’evidente peculiarità che le medesime
presentano sul piano strutturale, funzionale
e della sicurezza pubblica, giustifica –anche sul piano costituzionale– la
configurabilità di speciali doveri di
vigilanza, controllo e conservazione in capo
al proprietari o concessionario>.
Del resto, la conclusione sopra richiamata
non può essere contestata sulla base di
generici riferimenti alla natura
cronologicamente successiva delle norme del
D.Lgvo 22 del 1997 o del D.Lgs. 152 del
2006, in quanto le previsioni successive non
recano certamente l’ulteriore elemento
specializzante, costituito dall’attinenza
dell’obbligo di rimozione dei rifiuti alla
sede stradale ed alle pertinenze; del resto,
la strutturazione normativa del settore è
stata ben compresa dalla Corte di Cassazione
(Cass. Civ. sez. II, 24.06.2008, n.
17178) che ha rilevato come la norma cardine
in materia sia l’art. 14 del D.Lgs. 285 del
1992 (proprio in virtù della natura
speciale sopra individuata) e non le
previsioni (art. 192 D.Lgvo 152 del 2006)
successive in materia di rimozione dei
rifiuti che sono destinate a trovare
applicazione solo per quanto (ad es.,
individuazione tipologie di rifiuti;
modalità di smaltimento; ecc.) non
espressamente regolamentato dalla previsione
del Codice della strada.
La ricostruzione sistematica proposta è
contrastata dalla difesa dell’ANAS, con
argomentazioni che portano ad interpretare
la disposizione nel senso di restringere
l’attribuzione di competenza ai soli rifiuti
abbandonati sulla sede stradale, con
esclusione di quelli abbandonati (come nel
caso di specie) nelle immediate pertinenze.
Sennonché il Collegio non può mancare di
rilevare come il riferimento <allo scopo di
garantire la sicurezza e la fluidità della
circolazione> presente nel primo comma
dell’art. 14 del D.Lvo 30.04.1992, n.
285 venga ad individuare semplicemente la
“ratio” di una serie di attribuzioni di
competenze che chiaramente comprendono anche
la pulizia <delle strade, delle loro
pertinenze e arredo, nonché delle
attrezzature, impianti e servizi>; in altre
parole, il chiaro riferimento alle
pertinenze, agli arredi, alle attrezzature,
impianti e servizi annessi alla sede
stradale evidenzia un campo applicativo
della norma che è già tanto ampio da
ricomprendere anche i rifiuti non
direttamente abbandonati sulla sede stradale
e non è certamente ammissibile
un’interpretazione restrittiva che, sulla
base dell’incerto riferimento alla “ratio”
della previsione, approdi ad una lettura
della norma che è certamente in
contraddizione con la volontà del
legislatore.
Del resto, lo stesso riferimento <allo
scopo di garantire la sicurezza e la
fluidità della circolazione> porta a
conclusioni completamente diverse da quelle
prospettate dalla giurisprudenza richiamata;
è stato, infatti, esattamente rilevato in
giurisprudenza (da TAR Campania Napoli, sez.
V 22.06.2006 n. 7428) come la previsione
speciale e derogatoria dell’art. 14 del D.Lvo 285 del 1992 sia, in sostanza,
giustificata dal fatto evidente che <la
pulizia della strada interferisce
direttamente con la stessa funzionalità
dell’infrastruttura e con la sicurezza della
viabilità e non può non fare capo
direttamente al soggetto gestore (proprietario, concessionario o comunque
affidatario della gestione del bene);… del
resto, sarebbe illogico imporre al comune il
dovere di rimuovere i rifiuti accumulati
sulla strada e sue pertinenze, poiché tale
attività implicherebbe l’occupazione della
carreggiata con mezzi pesanti per la
raccolta e il trasporto, il transito di
operatori ecologici e altre attività
incompatibili con il normale flusso della
circolazione stradale, o comunque
interferenti con essa; attività che solo
l’ente gestore della strada può
razionalmente programmare ed attuare “in
sicurezza”, con la contestuale, necessaria
adozione di tutte le misure e le cautele
idonee a garantire la sicurezza della
circolazione e degli operatori addetti alle
pulizie>; si tratta, quindi, della semplice
rilevazione della possibile interferenza
delle attività di raccolta dei rifiuti con
le esigenze di sicurezza della circolazione
stradale e, quindi, di una circostanza che
investe, non solo la raccolta dei rifiuti
abbandonati direttamente sulla sede
stradale, ma anche i rifiuti abbandonati
sulle pertinenze o sulle altre strutture
annesse alla strada.
A quanto già rilevato dalla citata pronuncia
del TAR Campania questo Tribunale deve poi
aggiungere l’ulteriore considerazione
relativa al fatto che la competenza
dell’ente proprietario della strada (o del
gestore) trova giustificazione anche nella
necessità di evitare la frammentazione di
competenze che deriverebbe dal semplice
fatto che un determinato tratto stradale
attraversa i territori di più comuni (con il
rischio di comportamenti differenziati); da
non trascurare poi l’ulteriore
considerazione, rilevante anche ai fini
dell’analisi economica della previsione,
relativa al fatto che, attraverso l’art. 14
del D.Lvo 285 del 1992, si ottiene il
risultato di attribuire chiaramente (e sulla
base di una forma di responsabilità
oggettiva) al soggetto gestore della strada
l’obbligo di procedere alla pulizia della
strada e delle pertinenze (si pensi, a
questo proposito, al pericolo imminente che
può derivare dal trasporto sulla sede
stradale, ad opera di agenti atmosferici, di
rifiuti abbandonati sulle pertinenze
stradali), così determinando benefici
effetti sulla sicurezza della circolazione,
sulla base di una strutturazione complessiva
che non preclude certo la possibile rivalsa
dell’ente proprietario o gestore della
strada sul soggetto autore dell’abbandono
dei rifiuti (possibilità richiamata da Cass.
Civ., sez. II, 24.06.2008, n. 17178) e
quindi la necessità sostanziale di
attribuire (ovviamente, solo ove possibile)
al responsabile dell’inquinamento la
responsabilità finale dell’abuso.
In definitiva, trattandosi indubbiamente di
rifiuti abbandonati sulle immediate
pertinenze (piazzole di sosta e strisce di
terreno comprese tra la carreggiata ed il
confine stradale) di strada in concessione
all’ANAS (profilo fattuale comprovato dalla
documentazione fotografica depositata in
giudizio dalla difesa del Comune che non è
contestato dalla ricorrente), la legittimità
del provvedimento impugnato deve essere
valutata con riferimento al parametro
costituito dall’art. 14 del D.Lvo
30.04.1992, n. 285 e non dall’art. 192 del
D.Lvo 03.04.2006, n. 152; ne deriva
l’infondatezza delle censure proposte da
parte ricorrente.
Sul rilievo del mancato accertamento del
dolo o della colpa del proprietario/gestore
della strada devesi far presente che la
previsione dell’art. 14 del D.Lvo 285/1992
individua la responsabilità oggettiva del
gestore della strada e, quindi, una
strutturazione della responsabilità che non
richiede il previo accertamento del dolo o
colpa dello stesso; analogamente, non è
richiesta la previa ricerca dell’autore
dell’abbandono dei rifiuti che è rinviata,
per così dire, alla fase successiva della
rivalsa da parte dell’ente gestore (Cass.
Civ. sez. II, 24.06.2008, n. 17178)
(TAR Basilicata,
sentenza 11.05.2012 n. 196 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nella specie i rifiuti in questione sono
stati depositati in una piazzola di sosta
che, al pari delle banchine stradali e dei
parcheggi collocati ai bordi delle strade,
rientrano nell’ambito della nozione delle
pertinenze di esercizio, in quanto
costituiscono parte integrante della strada
e ineriscono permanentemente alla sede
stradale; di conseguenza i rifiuti
abbandonati su tali aree, ai sensi del
citato art. 14, comma 1, lett. a), D.Lg.vo
n. 285/1992 devono essere rimossi dall’Ente
proprietario della strada.
... per l'annullamento dell’ordinanza del
28/05/2010 con cui il responsabile dell’area
territorio e ambiente del comune di Melfi ha
ordinato alla ricorrente, compartimento di
Potenza di procedere immediatamente e non
oltre 30 giorni alla rimozione e
all’adozione degli interventi di bonifica
relativamente ai seguenti siti: km. 43+300
della S.S. 658 e ai km. 41+800 e 44+500
della S.S. 655 all’incrocio Melfi-
Monteverde- Monteverde Scalo della S.S. 401.
...
Quanto alla prima censura, l’ordinanza
impugnata, se ricorrono i presupposti
previsti dall’art. 14 del D.Lg.vo n.
285/92, in quanto atto vincolato, non
necessitava di previa comunicazione di avvio
del procedimento; comunque la stessa non
avrebbe potuto comunque assumere diverso
contenuto.
Deve poi essere respinta la censura con cui
si sostiene che il deposito abusivo di
rifiuti relativo alla S.S. 401 ricada nel
territorio (e conseguentemente nella
competenza) del Comune di Rionero in Vulture.
Sul punto la ricorrente non fornisce, come
era suo onere, neppure un minimo principio
di prova oggettiva, né tale può essere la
propria nota del 17/05/2010 rivolta al comune
di Rionero in Vulture in cui la citata
circostanza viene appunto esposta, ma sempre
senza dimostrazione dell’assunto.
Come già evidenziato da questo Tribunale
(cfr. n. 90/2006), poi, ai sensi dell’art. 14,
comma 1, lett. a), D.Lg.vo n. 285/1992 (cd.
Codice della Strada) gli enti proprietari
delle strade hanno l’obbligo di provvedere
alla manutenzione ed alla “pulizia delle
strade e delle loro pertinenze”. Il
successivo art. 24 del medesimo D.Lg.vo:
1) definisce le pertinenze stradali come “le
parti della strada da destinare in modo
permanente al servizio o all’arredo
funzionale” della stessa strada;
2) suddivide le pertinenze stradali in
pertinenze di esercizio ed in pertinenze di
servizio;
3) puntualizza che le pertinenze di
esercizio sono “quelle che costituiscono
parte integrante della strada o ineriscono
permanentemente alla sede stradale”;
4) specifica che le pertinenze di servizio
sono “le aree di servizio con i relativi
manufatti per il rifornimento ed il ristoro
degli utenti, le aree di parcheggio e le
aree ed i fabbricati per la manutenzione
delle strade o comunque destinati dal Ente
proprietario della strada in modo permanente
ed esclusivo al servizio della strada e dei
suoi utenti”.
Nella specie i rifiuti in questione sono
stati depositati in una piazzola di sosta
che, al pari delle banchine stradali e dei
parcheggi collocati ai bordi delle strade,
rientrano nell’ambito della nozione delle
pertinenze di esercizio, in quanto
costituiscono parte integrante della strada
e ineriscono permanentemente alla sede
stradale; di conseguenza i rifiuti
abbandonati su tali aree, ai sensi del
citato art. 14, comma 1, lett. a), D.Lg.vo
n. 285/1992 devono essere rimossi dall’Ente
proprietario della strada.
Priva di pregio è comunque anche la censura
con cui si deduce non essere l’A.N.A.S.
proprietaria del tratto di strada sul quale
sono stati abbandonati i rifiuti ma mero
gestore della stessa.
Invero, la disposizione di legge sopracitata
del nuovo codice della strada imputa al
proprietario la responsabilità relativa alla
pulizia delle strade e delle loro
pertinenze, indipendentemente dall'effettivo
autore dell'abbandono dei rifiuti. Non
rileva, in senso contrario, la circostanza
che l'A.N.A.S., ai sensi dell'art. 2, primo
comma, lett. a), D.L.vo 26.02.1994 n.
143, non sia proprietaria della strada ma
soltanto gestore della stessa. Il terzo
comma dell'art. 14 D.L.vo n. 285 del 1992
precisa infatti che "per le strade in
concessione i poteri e i compiti dell'ente
proprietario della strada, previsti dal
presente codice sono esercitati dal
concessionario, salvo che sia diversamente
stabilito". Incombe quindi sull'A.N.A.S.
l'obbligo di tenere pulite le strade e le
loro pertinenze, salvo poi a rivalersi
sull'autore dell'abbandono (cfr. TAR
Basilicata 10/12/2003 n. 1038).
Non vale nella specie, da parte della
società ricorrente, invocare l’applicazione
della normativa di cui all’art. 192 del
codice ambientale dato che, appunto, l’atto
impugnato, come si evince dal tenore dello
stesso, si basa essenzialmente sul richiamo
al citato articolo del codice della strada.
In ogni caso, va sottolineata l’evidente
specialità della disposizione del codice
della strada rispetto a quella del d.lgs.
n. 152/2006. I riferimenti alla natura
cronologicamente successiva delle norme del
d.lgs. 152 del 2006 vanno respinti in quanto
le previsioni successive non recano
l’elemento specializzante, costituito
dall’attinenza dell’obbligo di rimozione dei
rifiuti alla sede stradale ed alle
pertinenze; la norma cardine in materia è
l’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 (proprio
in virtù della natura speciale sopra
individuata) e non le previsioni (art. 14 d.lgs.
22 del 1997; art. 192 d.lgs. 152 del 2006)
successive in materia di rimozione dei
rifiuti che sono destinate a trovare
applicazione solo in casi non regolamentati
dalla previsione del Codice della strada
(cfr. sul punto TAR Puglia, Lecce, I,
18/11/089 n.2756)
(TAR Basilicata,
sentenza 11.05.2012 n. 193 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra
edifici - Art. 9 del d.m. 1444/1968.
Sull'incostituzionalità di una norma
provinciale che, ai fini dell’isolamento
termico per garantire le prestazioni
energetiche, consente agli edifici già
legalmente esistenti alla data del
12.01.2005 o concessionati prima di tale
data di derogare nella misura massima di 20
centimetri alle distanze tra edifici.
Le norme in materia di
distanze fra edifici costituiscono principio
inderogabile che integra la disciplina
privatistica delle distanze.
In particolare, data la connessione e le
interferenze tra interessi privati e
interessi pubblici in tema di distanze tra
costruzioni, l’assetto costituzionale delle
competenze in materia di governo del
territorio interferisce con la competenza
esclusiva dello Stato a fissare le distanze
minime, sicché le Regioni devono esercitare
le loro funzioni nel rispetto dei principi
della legislazione statale, potendo, nei
limiti della ragionevolezza, fissare limiti
maggiori. Le deroghe alle distanze minime,
poi, devono essere inserite in strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto
complessivo ed unitario di determinate zone
del territorio, poiché la loro legittimità è
strettamente connessa agli assetti
urbanistici generali e quindi al governo del
territorio, non, invece, ai rapporti tra
edifici confinanti isolatamente considerati.
Nel caso di specie, la norma in questione («6.
Ai fini dell’isolamento termico per
garantire le prestazioni energetiche,
definite ai sensi del comma 2, degli edifici
già legalmente esistenti alla data del
12.01.2005 o concessionati prima di tale
data, è permesso derogare nella misura
massima di 20 centimetri alle distanze tra
edifici, alle altezze degli edifici e alle
distanze dai confini previsti nel piano
urbanistico comunale o nel piano di
attuazione, nel rispetto delle distanze
prescritte dal codice civile, salvo quanto
disposto dalla normativa di attuazione della
direttiva 2006/32/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio del 05.04.2006 relativa
all’efficienza degli usi finali dell’energia
e i servizi. La deroga può essere esercitata
nella misura massima da entrambi gli edifici
confinanti.
7. La Giunta provinciale definisce le
caratteristiche tecniche delle verande la
cui costruzione vale come misura per
l’utilizzo di energia solare ai sensi del
comma 5. A tal fine si può derogare alle
distanze tra edifici, alle distanze dai
confini nonché all’indice di area coperta
previsti nel piano urbanistico, nel rispetto
delle distanze prescritte dal codice civile
e purché la distanza dal confine di
proprietà non sia inferiore alla metà
dell’altezza della facciata della veranda»),
attraverso il mero richiamo delle norme del
codice civile, è suscettibile di consentire
l’introduzione di deroghe particolari in
grado di discostarsi dalle distanze di cui
all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444,
emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della
legge 17.08.1942, n. 1150, recante «Legge
urbanistica» (introdotto dall’art. 17 della
legge 06.08.1967, n. 765), avente, per
giurisprudenza consolidata, un’efficacia
precettiva e inderogabile.
In quanto tali deroghe non attengono
all’assetto urbanistico complessivo delle
zone di cui si verte, il mancato richiamo
alle norme statali vincolanti per la
Provincia, determina l’illegittimità
costituzionale delle relative norme per
violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost., avendo invaso la
competenza statale in materia di ordinamento
civile.
8.― Infine, il Presidente del Consiglio dei
ministri ha impugnato l’art. 9, commi 6 e 7
(recte: art. 9, comma 4, alinea 6 e
7, trattandosi dei commi 6 e 7 dell’articolo
127 della legge provinciale 11.08.1997, n.
13, modificato dalla legge impugnata), nella
parte in cui prevedono, ai fini
dell’isolamento termico degli edifici e
dell’utilizzo dell’energia solare, la
possibilità di derogare alle distanze tra
edifici, alle altezze degli edifici ed alle
distanze dai confini previsti nel piano
urbanistico comunale o nel piano di
attuazione, nel rispetto delle distanze
prescritte dal codice civile.
A suo avviso, dette disposizioni, non
prevedendo il rispetto delle altezze e delle
distanze di cui al decreto ministeriale
02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di
densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra
spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde
pubblico o a parcheggi da osservare ai fini
della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli
esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L.
06.08.1967, n. 765), contrasterebbe con
l’art. 117, secondo comma, lettera l), della
Costituzione.
8.1.― La questione è fondata.
8.2.― In linea preliminare, va osservato che
i commi 6 e 7 dell’articolo 127 della legge
provinciale n. 13 del 1997, nel testo
modificato dalle disposizioni impugnate,
così dispongono: «6. Ai fini
dell’isolamento termico degli edifici già
legalmente esistenti alla data del
12.01.2005 o concessionati prima di tale
data, è possibile derogare alle distanze tra
edifici, alle altezze degli edifici e alle
distanze dai confini previsti nel piano
urbanistico comunale o nel piano di
attuazione, nel rispetto delle distanze
prescritte dal codice civile.
7. La Giunta provinciale definisce le
caratteristiche tecniche delle verande la
cui costruzione vale come misura per
l’utilizzo di energia solare ai sensi del
comma 5. A tale fine si può derogare alle
distanze tra edifici, alle distanze dai
confini nonché all’indice di area coperta
previsti nel piano urbanistico o nel piano
di attuazione, nel rispetto delle distanze
prescritte dal codice civile e purché la
distanza verso il confine di proprietà non
sia inferiore alla metà dell’altezza della
facciata della veranda».
Successivamente alla proposizione del
ricorso, l’art. 26, comma 3, della legge
provinciale n. 15 del 2011, ha nuovamente
modificato tali disposizioni, così
sostituendole: «6. Ai fini
dell’isolamento termico per garantire le
prestazioni energetiche, definite ai sensi
del comma 2, degli edifici già legalmente
esistenti alla data del 12.01.2005 o
concessionati prima di tale data, è permesso
derogare nella misura massima di 20
centimetri alle distanze tra edifici, alle
altezze degli edifici e alle distanze dai
confini previsti nel piano urbanistico
comunale o nel piano di attuazione, nel
rispetto delle distanze prescritte dal
codice civile, salvo quanto disposto dalla
normativa di attuazione della direttiva
2006/32/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 05.04.2006 relativa
all’efficienza degli usi finali dell’energia
e i servizi. La deroga può essere esercitata
nella misura massima da entrambi gli edifici
confinanti.
7. La Giunta provinciale definisce le
caratteristiche tecniche delle verande la
cui costruzione vale come misura per
l’utilizzo di energia solare ai sensi del
comma 5. A tal fine si può derogare alle
distanze tra edifici, alle distanze dai
confini nonché all’indice di area coperta
previsti nel piano urbanistico, nel rispetto
delle distanze prescritte dal codice civile
e purché la distanza dal confine di
proprietà non sia inferiore alla metà
dell’altezza della facciata della veranda».
Dal raffronto fra le disposizioni risulta
evidente che l’ultima modifica, dato il suo
carattere sostanzialmente marginale, non
incide in modo significativo sul contenuto
precettivo delle disposizioni impugnate, e
certamente non ha contenuto satisfattivo,
per cui la questione va trasferita sulla
nuova norma, in applicazione del succitato
principio di effettività della tutela
costituzionale.
8.3.― La censura verte sul mancato richiamo
al rispetto delle norme sulle distanze fra
edifici, integrative del codice civile e, in
particolare, dell’art. 9 del citato d.m. n.
1444 del 1968.
In tale ambito, questa Corte ha in più
occasioni precisato che le norme in materia
di distanze fra edifici costituiscono
principio inderogabile che integra la
disciplina privatistica delle distanze.
In particolare, data la connessione e le
interferenze tra interessi privati e
interessi pubblici in tema di distanze tra
costruzioni, l’assetto costituzionale delle
competenze in materia di governo del
territorio interferisce con la competenza
esclusiva dello Stato a fissare le distanze
minime, sicché le Regioni devono esercitare
le loro funzioni nel rispetto dei principi
della legislazione statale, potendo, nei
limiti della ragionevolezza, fissare limiti
maggiori. Le deroghe alle distanze minime,
poi, devono essere inserite in strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto
complessivo ed unitario di determinate zone
del territorio, poiché la loro legittimità è
strettamente connessa agli assetti
urbanistici generali e quindi al governo del
territorio, non, invece, ai rapporti tra
edifici confinanti isolatamente considerati
(sentenza n. 232 del 2005).
Nel caso di specie, la norma in questione,
attraverso il mero richiamo delle norme del
codice civile, è suscettibile di consentire
l’introduzione di deroghe particolari in
grado di discostarsi dalle distanze di cui
all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444,
emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della
legge 17.08.1942, n. 1150, recante «Legge
urbanistica» (introdotto dall’art. 17
della legge 06.08.1967, n. 765), avente, per
giurisprudenza consolidata, un’efficacia
precettiva e inderogabile.
In quanto tali deroghe non attengono
all’assetto urbanistico complessivo delle
zone di cui si verte, il mancato richiamo
alle norme statali vincolanti per la
Provincia, determina l’illegittimità
costituzionale delle relative norme per
violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost., avendo invaso la
competenza statale in materia di ordinamento
civile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1)
(omissis)
2)
dichiara l’illegittimità
costituzionale degli articoli 2, comma 10,
3, commi 1 e 3, 5, comma 1, 9, comma 4,
alinea 6 e 7, della legge della Provincia
autonoma di Bolzano 21.06.2011, n. 4
(Misure di contenimento dell’inquinamento
luminoso ed altre disposizioni in materia di
utilizzo di acque pubbliche, procedimento
amministrativo ed urbanistica);
3)
dichiara l’illegittimità
costituzionale degli articoli 24, comma 2, e
26, comma 3, della legge della Provincia
autonoma di Bolzano 21.12.2011, n. 15
(Disposizioni per la formazione del bilancio
di previsione per l’anno finanziario 2012 e
per il triennio 2012-2014 – Legge
finanziaria 2012);
4)
(omissis) (Corte Costituzionale,
sentenza 10.05.2012 n. 114). |
EDILIZIA PRIVATA: Contro
la dia. Il comune non risponde sempre.
Il comune ha tanto da
fare e non può perdere tempo con le liti fra
vicini di casa. Risulta così legittimo il
silenzio dell'ente locale se non risulta
connotata da un minimo carattere di serietà
la sollecitazione rivolta
all'amministrazione per bloccare presunti
abusi edilizi connessi alla Dia/Scia del
proprietario immobiliare. E la condotta
dell'ufficio pubblico che non dà riscontro
ai rilievi del cittadino non può essere
denunciata davanti al giudice
amministrativo.
È quanto emerge dalla
sentenza 12.04.2012 n. 1075,
pubblicata dalla II Sez. TAR
Lombardia-Milano.
Dovrà rassegnarsi, almeno per ora,
l'avvocato che vede col fumo negli occhi la
ristrutturazione in atto presso un ex
negozio nel fabbricato attiguo al suo: è
inammissibile il suo tentativo di obbligare
l'amministrazione a procedere contro la Dia
del vicino, bloccando i lavori (asseritamente)
abusivi in corso. Nulla c'è, in effetti, da
stoppare. Il professionista s'insospettisce
e avvisa l'amministratore condominiale: i
vigili urbani piombano sul posto per il
sopralluogo, ma dopo non arriva alcun
provvedimento. Ed è giusto così.
La Dia e la Scia non costituiscono
provvedimenti amministrativi taciti
direttamente impugnabili. E la presentazione
della domanda da parte del cittadino,
dunque, non dà luogo ad alcun procedimento
amministrativo: il decorso del termine di
legge di 60 o 30 giorni per l'adozione di
provvedimenti inibitori o repressivi da
parte della pubblica amministrazione non
configura alcuna conclusione di procedimento
amministrativo né alcuna adozione di un
provvedimento tacito o implicito. Il terzo
che si ritiene danneggiato dalla Dia-Scia,
come il nostro avvocato, può ben sollecitare
l'amministrazione a effettuare le verifiche
e, in caso di inerzia dell'ente, proporre
un'azione contro il silenzio.
E si tratta di un'azione sui generis,
visto che la presentazione della Dia-Scia
non dà avvio ad alcun procedimento
amministrativo. Il silenzio
dell'amministrazione presuppone la
sollecitazione del terzo: quest'ultima deve
possedere una serie di requisiti minimi
senza che possa risolversi in una generica
denuncia di abusi. Ove non vi siano
caratteri «di serietà», non si
configura silenzio inadempimento
(articolo ItaliaOggi
del 08.06.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ordinanze contingibili ed
urgenti: presupposti per l’adozione.
Ordinanza sindacale con cui si ingiunge alla
ditta affidataria del servizio di raccolta
rifiuti di svolgere ancora per tre mesi il
servizio interrotto a seguito del recesso
anticipato della ditta stessa dal rapporto
contrattuale.
Illegittimità di una ordinanza contingibile
ed urgente con la quale si proroga una
precedente ordinanza, per mancanza del
presupposto dell’imprevedibilità.
E’ legittima una ordinanza contingibile ed
urgente con la quale il Sindaco di un
Comune, a seguito del recesso unilaterale
dal contratto del servizio di raccolta dei
rifiuti urbani da parte della ditta
affidataria, avvenuto tre anni prima della
scadenza contrattuale, ha ordinato alla
ditta stessa di assicurare continuità di
svolgimento di detto servizio per tre mesi,
al fine di consentire un nuovo affidamento
del servizio. Infatti, l’esigenza di evitare
potenziali gravi pregiudizi per la salute
pubblica in ragione della mancata raccolta
dei rifiuti in attesa della individuazione
di una nuova impresa cui affidare mediante
gara il servizio costituisce un valido
presupposto per la adozione di una ordinanza
contingibile ed urgente ex art. 50 del
T.U.E.L. (1).
Le ordinanze adottate ai sensi dell’art. 50
del T.U.E.L. richiedono, per la loro
legittima adozione, la sussistenza dei
seguenti presupposti: a) la contingibilità;
b) l’imprevedibilità; c) l’urgenza; d) la
temporaneità.
La contingibilità va accertata alla
luce dei canoni della accidentalità, che
sussiste al verificarsi di un evento che
devia dal percorso logico atteso; della
eccezionalità, intesa come eccezione
all’ordine normale degli eventi; della
imprevedibilità, che è predicato di un
evento, il quale, proprio perché
accidentale, eccezionale, non è suscettibile
di previsione o comunque il suo verificarsi
è altamente improbabile. L’urgenza,
invece, si identifica con l’impellente
necessità di provvedere al fine di non
pregiudicare l’interesse pubblico, che può
essere definitivamente danneggiato con il
trascorrere del tempo. La temporaneità
dell’ordinanza è, infine, presupposto
imprescindibile delle ordinanze in discorso,
poiché una stabilizzazione dell’intervento
extra ordinem infliggerebbe un
inammissibile vulnus al rapporto tra
autorità e libertà, in violazione del
principio costituzionale di legalità (artt.
97 e 23 Cost.) che ispira l’intera azione
amministrativa.
Poiché i presupposti per l’adozione
dell’ordinanza ex art. 50 del T.U.E.L. sono
la contingibilità, l’urgenza e la
temporaneità, tale strumento extra
ordinem non può essere utilizzato per
soddisfare esigenze che siano invece
prevedibili ed ordinarie e, in ragione della
atipicità di tali provvedimenti, va esclusa
l’ammissibilità di una stabilizzazione
dell’intervento extra ordinem (2).
E’ illegittimo l’operato di una
amministrazione comunale che, dopo avere
imposto la continuazione del servizio di
raccolta dei rifiuti per tre mesi, in
ragione dell’imprevedibilità del recesso
dell’affidatario del servizio, ha tuttavia
adottato, a distanza di quattro mesi, una
seconda ordinanza con la quale ha prorogato
l’efficacia della prima ordinanza; infatti,
l’inerzia dell’Amministrazione protrattasi
per ben quattro mesi -peraltro, durante il
periodo di proroga del servizio già imposto
ditta affidataria del servizio con la prima
ordinanza- ha determinato ex se il
venir meno dell’esigenza di far fronte ad
una situazione imprevedibile.
---------------
(1) Cfr. TAR Veneto, sez. I, 09.07.2010,
n. 2906.
Ha osservato la sentenza in rassegna che
nella specie, con riferimento alla prima
ordinanza contingibile ed urgente,, essa era
immune dal denunziato vizio del difetto dei
presupposti ai sensi dell’art. 50 del
T.u.e.l., non essendo censurabile l’operato
dell’ente locale che, a fronte del recesso
unilaterale dal contratto di servizio,
avvenuta ben tre anni prima della scadenza
pattuita, si trovava perciò a dover
fronteggiare tale non prevedibile e
contingibile situazione.
E’ stato ritenuto insussistente il dedotto
vizio di eccesso di potere sotto il profilo
della violazione del principio di
proporzionalità. Ciò in quanto il sacrificio
dell’interesse economico del privato è stato
imposto nella misura strettamente necessaria
a garantire la continuità del servizio di
gestione dei rifiuti, fermo restando,
tuttavia, che l’ordinanza impugnata non
incide in alcun modo sull’adeguatezza del
corrispettivo economico stabilito a carico
del Comune (anche per il periodo di proroga)
al medesimo costo previsto nel contratto
oggetto di recesso, restando impregiudicata
l’azionabilità della posizione soggettiva
dell’ interessata tesa ad ottenere la
compensazione monetaria per i maggiori costi
sopportati all’esito dell’accertamento della
eccessiva onerosità sopravvenuta del
contratto.
(2) Ha precisato la sentenza in rassegna che
l’urgenza è condizione necessaria, ma non
sufficiente per l’adozione di provvedimenti
contingibili ed urgenti. In altre parole,
l’urgenza di per sé non può costituire un
valido fondamento per l’adozione delle
ordinanze in discorso, ma deve essere sempre
accompagnata dalla contingibilità.
Ne
consegue che l’imprevidenza
dell’Amministrazione di fronte ad un evento
che è invece ragionevolmente prevedibile
esclude ex se la sussistenza dei legittimi
presupposti per l’adozione di provvedimenti
extra ordinem (tratto da
www.regione.piemonte.it - TAR Basilicata,
Sez. I,
sentenza
06.04.2012 n. 170 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Illegittimità di una Ordinanza
sindacale firmata dal Vice Sindaco, in caso
di omessa indicazione delle ragioni di
impedimento del Sindaco e dello specifico
servizio di competenza dell’ente.
E’ illegittima, per difetto di
legittimazione alla relativa adozione, una
ordinanza comunale con la quale, onde
tutelare la quiete pubblica mediante
riduzione dell’inquinamento acustico, è
stata disposta l’anticipazione della
chiusura di un pubblico esercizio (nella
specie, alle ore 2:00 della notte, in luogo
della chiusura alle ore 4:00), firmata dal
Vice Sindaco, quale responsabile del
servizio, che sia priva sia dell’indicazione
delle ragioni di effettivo impedimento del
Sindaco, che dello specifico servizio di
competenza dell’ente; in tal caso, infatti,
per un verso, l’adozione dell’atto da parte
del sostituto del Sindaco avrebbe richiesto
l’indicazione del titolo legittimante la
sostituzione, a norma dell’art. 53, co. 2,
d.lgs. n. 267 del 2000 (avrebbe dovuto
essere indicato, cioè, che il Sindaco era
assente, o temporaneamente impedito, o
sospeso dall’esercizio delle sue funzioni:
situazioni senza le quali non può
configurarsi una sostituzione secondo la
legge); per altro verso, la dicitura "Responsabile
del Servizio" rimane del tutto priva di
contenuto, atteso che non è indicato di
quale "servizio" si trattasse; con la
conseguenza che la medesima ordinanza deve
ritenersi priva di qualsivoglia motivazione
idonea a giustificare il presunto titolo di
legittimazione, né per l’una né per l’altra
ipotesi (1).
-------------
(1) Ha osservato, in particolare, la
sentenza in rassegna che elementari regole
di trasparenza amministrativa imponevano, al
contrario, di indicare con precisione quale
servizio comunale si trovasse, in quel
momento, ad agire, al fine di conferire
certezza ai destinatari dell’atto circa un
elemento fondamentale (quello soggettivo)
del provvedimento (tratto da
www.regione.piemonte.it - TAR Piemonte, Sez.
II,
sentenza
03.04.2012 n. 396 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1. Ricorso giurisdizionale - Rinuncia al
risarcimento in forma specifica - Rinuncia
alla domanda di annullamento - Equivalenza.
2. Servizi pubblici locali - Gara per la
scelta del socio prodromica all'affidamento
del servizio - Pubblicità delle sedute -
Necessità.
3. Criteri di aggiudicazione - Offerta
economicamente più vantaggiosa -
Attribuzione di punteggi in forma numerica -
Indicazione di parametri precisi -
Necessità.
1. La dichiarazione, fatta dal ricorrente,
di non avere più interesse al risarcimento
in forma specifica equivale alla rinuncia
alla domanda di annullamento degli atti
impugnati; ciò in quanto la pronuncia di
risarcimento del danno per equivalente non
presuppone più la previa caducazione dei
provvedimenti lesivi. La rinuncia alla
domanda di reintegrazione in forma specifica
comporta altresì il venir meno
dell'interesse alla pronuncia sul ricorso
incidentale proposto dal controinteressato.
2. Qualora un'operazione di cessione di
quote di una società a capitale
prevalentemente pubblico non si esaurisca in
una mera dismissione di quote societarie, ma
è volta alla costituzione di una partnership
tra gli enti pubblici titolari del servizio
pubblico locale e l'imprenditoria privata il
cui apporto non è limitato al mero acquisto
di quote del capitale sociale, ma è
finalizzato alla gestione del servizio, è
necessario il rispetto del principio di
pubblicità delle sedute di gara.
Alle gare
per la scelta del socio privato si
applicano, infatti, le norme che riguardano
gli appalti di servizi; la cogenza del
principio sussiste anche per gli appalti di
servizi nei settori speciali posto che
l'art. 226 D.Lgs. n. 163/2006 non esclude il
rispetto del principio di pubblicità, atteso
che la ratio ispiratrice della pubblicità
delle sedute di gara è comune in ogni
procedura concorsuale di scelta del
contraente relativa a qualsiasi contratto
pubblico di lavori, servizi e forniture ed è
rivolta a tutelare le esigenze di
trasparenza e imparzialità che devono
guidare l'attività amministrativa e che
caratterizzano tutta la disciplina
dell'evidenza pubblica (Consiglio Stato,
sez. V, 05.10.2011, n. 5454).
In altri
termini, l'esigenza di consentire ai
partecipanti il controllo delle operazioni
di gara nel momento della apertura delle
buste e dell'esame dell'offerta economica
costituisce una regola di base di ogni
procedura ad evidenza pubblica che non può
soffrire eccezioni di sorta.
3. Nella valutazione della componente
tecnica dell'offerta economicamente più
vantaggiosa da parte di una commissione di
gara, l'attribuzione dei punteggi in forma
soltanto numerica è consentita quando il
numero delle sottovoci, con i relativi
punteggi, entro i quali ripartire i
parametri di valutazione di cui alle singole
voci, sia sufficientemente analitico da
delimitare il giudizio della commissione
nell'ambito di un minimo e di un massimo,
rendendo così evidente l'iter logico seguito
nel valutare i singoli progetti sotto il
profilo tecnico, essendo altrimenti
necessaria una puntuale motivazione del
punteggio attribuito (Consiglio Stato, sez.
III, 11.03.2011, n. 1583; Consiglio Stato,
sez. V, 03.12.2010, n. 8410)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
23.02.2012 n.
599 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1. Concessione Servizi - Termine ricezione
offerte - Non applicabilità.
2. Progetto definitivo - Sottoscrizione
professionista abilitato - Necessità.
1. L'art. 70 del Codice dei Contratti
Pubblici non si applica alle concessioni di
servizi il cui affidamento è soggetto
solamente al rispetto dei principi di
pubblicità, trasparenza, non
discriminazione, proporzionalità e mutuo
riconoscimento, posti dal Trattato ed alle
regole essenziali di procedura previste
dall'art. 30, comma 3, D.Lgs. n. 163/2006
(Consiglio Stato, sez. V, 11.05.2009, n.
2864); pertanto, la stazione appaltante non
è tenuta al rispetto dei termini di cui al
primo dei citati articoli, anche nel caso in
cui il disciplinare di gara richieda la
presentazione di un progetto definitivo.
2. A mente dell'art. 90 del D.Lgs. n.
163/2006, la progettazione preliminare,
definitiva ed esecutiva dei lavori è
espletata esclusivamente da professionisti
abilitati interni o esterni
all'amministrazione; di conseguenza,
l'affidamento da parte di un ente pubblico
della progettazione di opere ad un
professionista non abilitato deve
considerarsi illegittimo (TAR Calabria
Catanzaro, sez. II, 09.04.2008, n. 354).
Analogamente, qualora la progettazione
definitiva sia demandata ai concorrenti,
essi devono presentare in gara, a
prescindere da prescrizioni del bando in tal
senso, elaborati progettuali sottoscritti da
un professionista abilitato, pena
l'inammissibilità del progetto (Consiglio
Stato, sez. VI, 14.12.1991, n. 1083)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
23.02.2012 n.
595 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1.
Verifica di congruità
dell'offerta - Può essere effettuata dal RUP.
2. Giudizio di anomalia - Spese
generali - Non possono risultare di valore
irrisorio.
3. Giudizio di anomalia - Spese
generali - Devono raccordarsi con i bilanci
dell'impresa.
4. Giudizio di anomalia - Costo
del lavoro - Giustificazione minor tasso di
assenteismo per infortuni - In caso di nuove
assunzioni .
5. Giudizio di anomalia - Costo
del lavoro - Coordinatori.
1. La verifica di anomalia può essere
effettuata dal responsabile del procedimento
anziché dalla Commissione nominata per la
valutazione delle offerte, qualora il
responsabile del procedimento sia dotato di
adeguate competenze tecniche (TAR Lombardia,
Brescia, sez. II, 17.05.2011, n. 732;
TAR Lazio, Roma, sez. III, 21.01.2011,
n. 643).
Ciò, anche in considerazione del fatto che,
come avviene nel caso di specie (in cui la
Commissione risulta composta quasi
esclusivamente da personale medico), la
Commissione potrebbe non avere le competenze
tecniche richieste per effettuare le
valutazioni di tipo economico-aziendale
necessarie a stabilire la congruità
dell'offerta.
2. Le spese generali non possono essere pari
a zero o di valore irrisorio, in quanto tale
voce di costo tiene conto degli oneri
generali sostenuti da un'impresa per
l'esecuzione della commessa, i quali, anche
a prescindere dalla prescrizione oggi
contenuta nell'art. 32 del D.P.R. n.
207/2010, devono necessariamente figurare
nel suo conto economico, essendo impensabile
che un operatore economico di un certo
rilievo non debba sostenere costi per
dotarsi di una sede amministrativa, per
l'amministrazione del personale e per ogni
altro onere di carattere generale.
3. Qualora l'Amministrazione, attraverso
l'esame dei bilanci, rilevi l'incompletezza
delle spese generali indicate dall'impresa
in offerta, la concorrente non può limitarsi
ad affermare che le relative voci del conto
economico del suo bilancio si riferirebbero
ad altre commesse, trattandosi di
affermazioni apodittiche e indimostrate.
L'impresa deve invece fornire tutti i
riscontri documentali necessari a far
comprendere come i costi indicati in offerta
possano raccordarsi con le risultanze di
bilancio.
4. Qualora l'impresa indichi -in sede di
giustificazione del costo del lavoro- un
minor tasso di assenteismo per malattie,
infortuni o maternità rispetto a quello
risultante dalle tabelle ministeriali,
l'attendibilità del dato dichiarato non può
essere riscontrata analizzando il registro
infortuni e l'elenco del personale
dipendente prodotto in sede procedimentale,
qualora l'esecuzione della commessa richieda
l'assunzione di un certo numero di nuove
unità (nella specie 40).
In tal caso, infatti, il tasso di
assenteismo, evidentemente, non può emergere
dalle statistiche relative al personale già
in servizio (sul punto Cons. Stato, V, 28.06.2011, n. 3865).
5. Con riguardo ai costi relativi ai
coordinatori dell'appalto, la
giustificazione dell'Impresa secondo cui il
coordinamento del servizio avviene
attraverso personale già assunto, a tal fine
debitamente incentivato, risulta generica.
L'Impresa deve, infatti, dimostrare quale
sia la percentuale di utilizzo della forza
lavorativa dei coordinatori da essa
dipendenti in relazione alla situazione
precedente all'acquisizione della commessa
in oggetto e la conseguente disponibilità
residua per effettuare il coordinamento del
nuovo servizio, in relazione all'aumento del
personale previsto per l'esecuzione
dell'appalto (nel caso di 40 unità). Deve
inoltre dimostrare la sufficienza della
somma indicata a compensare l'impegno dei
coordinatori, per come risultante
dall'offerta
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
23.02.2012 n.
594 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti della PA - Proroga -
Ammissibilità.
In via di principio, l'amministrazione che,
esaurita l'esecuzione di un determinato
contratto, abbia ancora necessità di
avvalersi delle specifiche prestazioni
oggetto del vincolo scaduto è tenuta ad
effettuare una nuova gara.
Peraltro, nel
caso in cui gli atti indittivi la procedura
conclusasi con la stipula del contratto ed
il contratto stesso prevedessero
espressamente la facoltà di proroga, la
stazione appaltante può, prima della
scadenza del vincolo contrattuale, disporne
la proroga esclusivamente per il tempo
strettamente necessario all'indizione di una
nuova procedura ad evidenza pubblica.
Al ricorrere di tali presupposti, il
contraente privato è tenuto alla
prosecuzione del rapporto
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
23.01.2012 n.
251 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
- Atti e documenti di immobile commerciale
di nuova costruzione - Interesse.
La domanda di accesso agli atti relativi
alla costruzione di un edificio destinato ad
ospitare una struttura di vendita da parte
del titolare di un'attività di impresa
esercitata in prossimità della nuova
struttura di vendita deve ritenersi fondata.
È evidente l'interesse della ricorrente a
vigilare sul legittimo esercizio delle
potestà pubbliche in materia di urbanistica,
edilizia e commercio, in forza delle quali è
stato o potrà essere autorizzato
l'insediamento di una nuova struttura di
vendita operante nel settore non alimentare
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.01.2012 n.
107 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1.
Gara - Cause di esclusione - Negligenza o
malafede - Valutazione di gravità -
Necessità.
2. Gara - Cause di esclusione -
Dichiarazioni soggetti cessati dalla carica
- Inciso "per quanto a mia conoscenza" non
integra limitazione di responsabilità.
1. L'esclusione dalla gara pubblica
dell'impresa che sia incorsa in grave
negligenza o malafede nell'esecuzione di
lavori affidati dalla stazione appaltante
postula una valutazione di gravità fatta
dalla stessa amministrazione; ciò in quanto
l'esclusione non ha carattere sanzionatorio,
costituendo invece presidio dell'elemento
fiduciario destinato a connotare, sin dal
momento genetico, i rapporti contrattuali
con la P.A..
Invero, tale valutazione può
consistere nel semplice richiamo per relationem dell'atto con cui, in un
precedente rapporto contrattuale,
l'amministrazione aveva provveduto alla
risoluzione per inadempimento.
2. Le dichiarazioni riguardanti i soggetti
cessati dalla carica nel triennio, rese ai
sensi dell'art. 38, comma 1, lett. c),
D.Lgs. n. 163/2006 e contenenti l'inciso "per
quanto a mia conoscenza" non devono
ritenersi viziate; tale inciso, del resto,
sarebbe giustificato proprio dal fatto che
riguarda gli amministratori cessati dalla
carica ai quali non può essere imposto il
rilascio di dichiarazioni personali ed in
riferimento ai quali chi rappresenta
l'impresa può attestare quanto è a sua
conoscenza, salvo ovviamente possibili
richieste integrative da parte della
stazione appaltante (Consiglio Stato, sez.
V, 30.06.2011, n. 3926)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 10.01.2012 n.
57 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1. Giudizio di anomalia - Limiti
del sindacato giurisdizionale -
Discrezionalità tecnica - Cognizione piena
del giudice amministrativo
sull'attendibilità dei giudizi e
apprezzamenti espressi dalla commissione
giudicatrice.
2. Giudizio di anomalia - Costo
delle attrezzature - Possibilità di
giustificare mediante i bilanci e i libri
dei cespiti.
1. In materia di giudizio di anomalia,
l'area della riserva amministrativa non è
violata, ove si contesti l'esistenza di
errori di apprezzamento da parte della
stazione appaltante, che involgono fatti
anche tecnici che a detta area sono
palesemente estranei.
Una volta distinta l'area della
discrezionalità tecnica da quella del merito
amministrativo, il giudice amministrativo ha
infatti cognizione piena non solo sulle
modalità (di formazione), ma anche
sull'attendibilità dei giudizi e degli
apprezzamenti espressi dalla commissione
giudicatrice nell'ambito di una gara di
appalto (TAR Lombardia, Milano, Sez. I,
10.01.2011, n. 11).
La verificazione disposta dal Giudice sul
procedimento di verifica dell'anomalia non
deve pertanto limitarsi ad un controllo
meramente formale ed estrinseco sul
procedimento amministrativo seguito dalla
stazione appaltante.
2. Qualora l'impresa abbia presentato i
bilanci e i libri dei cespiti, la mancata
formale indicazione -in sede di
giustificazione dell'offerta- del parco
delle attrezzature impiegate per l'appalto,
comunque aliunde desumibile, non è
circostanza che renda di per sé anomala
l'offerta della ricorrente
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 14.12.2011 n.
3162 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1. Procedimento di verifica della congruità
dell'offerta - Termini per il deposito di
giustificazioni - Non perentorietà.
2. Subappalto - Individuazione
subappaltatori - Può essere rimandata al
momento di costituzione del rapporto
contrattuale.
3. Giudizio di anomalia - In caso di
prestazione già integralmente eseguita -
Affidabilità dell'offerta è confermata da
avvenuta esecuzione a regola d'arte.
1. Nell'ambito del procedimento di verifica
della congruità dell'offerta condotto dalla
stazione appaltante, i termini per il
deposito delle giustificazioni richieste in
detta sede non sono qualificati come
perentori, mentre il termine di 10 giorni,
previsto dall'art. 88 del D.Lgs. n.
163/2006, integra il termine minimo che
l'Amministrazione deve concedere per dar
modo al concorrente di redigere e produrre
le proprie giustificazioni (cfr. TAR Lazio,
Roma, sez. III, 09.12.2010, n. 35952).
2. L'art. 118 del D.lgs. n. 163/2006, nel
prevedere che tutte le lavorazioni sono
subappaltabili e che all'atto della
predisposizione dell'offerta il concorrente
debba partecipare l'intenzione di
subappaltare a soggetti qualificati, va
interpretato nel senso che è rimandata al
momento della costituzione del rapporto
contrattuale l'individuazione di questi
ultimi, nonché la specificazione della loro
qualificazione e del possesso dei requisiti
generali di partecipazione; salvo che la lex
specialis non disponga diversamente (TAR
Lazio, Latina, sez. I, 04.06.2009, n.
541).
3. Qualora la prestazione oggetto di appalto
risulti già integralmente eseguita nei
termini contrattuali, risulta
definitivamente preclusa la possibilità di
effettuare, ora per allora, valutazioni
prognostiche di presunta anomalia
dell'offerta; risultando la prestazione
eventualmente suscettibile solo di una
valutazione diagnostica, ossia ex post, di
corretta esecuzione.
La realizzazione dell'opera a regola d'arte
conferma la globale affidabilità
dell'offerta
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 14.12.2011 n.
3160 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1. Costi per la sicurezza - Rischi
da interferenza e rischi relativi
all'organizzazione dell'appaltatore -
Soggetti obbligati alla quantificazione.
2. Attribuzione al seggio di gara
del compito di aprire le buste contenenti
offerte tecniche ed economiche e di
esaminare le offerte economiche -
Legittimità.
1. I costi concernenti la sicurezza sul
lavoro negli appalti di servizi si
distinguono in due gruppi. Da un lato, essi
debbono corrispondere ai cosiddetti rischi
da interferenza derivanti dallo svolgimento
del servizio presso la stazione appaltante,
previsti dall'art. 26 del D.Lgs. 81/2008:
tali costi vanno quantificati dalla stazione
appaltante, a pena di illegittimità della
procedura. Dall'altro, vi sono i costi
relativi all'organizzazione interna
dell'appaltatore, che questi è invece tenuto
ad indicare ex lege, quand'anche il
capitolato non lo preveda espressamente.
2. E' legittima la previsione del capitolato
che attribuisce al Seggio di Gara, e non
alla Commissione Tecnica, il compito di
aprire le buste contenenti offerte tecniche
ed economiche e di esaminare le offerte
economiche.
La giurisprudenza ha già precisato che,
nell'ipotesi di aggiudicazione secondo il
criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, nulla impedisce che il
disciplinare di gara attribuisca al Seggio,
e non alla Commissione, il compito di
applicare meccanicamente i criteri di
attribuzione matematica del punteggio
relativo al prezzo offerto, atteso che in
tale operazione non si esercita alcuna
discrezionalità (Tar Lombardia, Brescia, 10.02.2011, n. 244).
Tale conclusione è valida anche con riguardo
alla fase di mera apertura della busta
contenente la documentazione amministrativa
e l'offerta tecnica, al solo scopo di
verificare, con operazione altrettanto priva
di discrezionalità, l'inserimento di quanto
richiesto dal capitolato speciale. Ciò che
invece è necessario riservare alla
Commissione è la sola valutazione
dell'offerta, in quanto espressiva di
discrezionalità tecnica
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 14.12.2011 n.
3154 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di falsità ideologica,
configura il reato di cui all’art. 479 c.p.
la falsa attestazione di aver pregiato
servizio compiuta dal dipendente di
un'azienda sanitaria locale (nella
fattispecie: tecnico di radiologia alle
dipendenze dell'Azienda di Alta
specializzazione della Regione Sicilia)
sottoscrivendo il foglio di presenza e
facendo timbrare il proprio cartellino da
terzi, attesa la funzione pubblica
esercitata dall'imputato (non esclusa dal
rapporto privatistico di lavoro) e in
ragione del carattere di atti pubblici di
tali documenti finalizzati anche a
consentire il controllo sulle modalità in
cui si esplica l'assistenza sanitaria,
funzione essenziale dello Stato e della
Regione
(tratto da www.diritto.it - Corte di
Cassazione, Sez. V penale, sentenza
07.07.2004 n. 42245). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La sottoscrizione, da parte del
dirigente di un ufficio pubblico (nella
specie Conservatoria del Registro - Archivio
Notarile), dei fogli di presenza dei
dipendenti, effettuata in assenza di un
effettivo controllo del personale in
ufficio, non integra il reato di falso
ideologico in atto pubblico (art. 479 c.p.),
posto che il momento perfezionativo
dell'atto pubblico costituito dal foglio di
presenza coincide con la sottoscrizione
dell'interessato, il quale autocertifica un
fatto produttivo di effetti giuridici
rilevanti, sul versante sia dei rapporti
interni che di quelli esterni, mentre non
sussiste alcun obbligo di controllo,
positivamente sancito, che gravi sul
dirigente in ordine all'apposizione della
firma dei dipendenti in sua presenza, con la
conseguenza che egli si limita ad una mera
attestazione della regolarità estrinseca
dell'atto, assolvendo così ad un onere
procedimentale che è presupposto ai fini
della liquidazione delle competenze
retributive
(tratto da www.diritto.it - Corte di
Cassazione, Sez. V penale, sentenza
28.04.2004 n. 32445). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il cartellino orario e la scheda
magnetica contenenti l'attestazione
dell'attività prestata in un presidio
ospedaliero dal personale sanitario
costituiscono, a tutti gli effetti, atti
pubblici, con equiparazione al foglio di
presenza sottoscritto dal pubblico
dipendente.
I suddetti documenti, infatti, rientrano
nell'attività certificativa che determina
effetti giuridici rilevanti per la pubblica
amministrazione, sia per quanto riguarda la
prova della presenza sul posto di lavoro del
sanitario, sia per consentire il controllo
dell'attività di assistenza fornita
dall'ente ospedaliero, anche al fine di
garantire un sufficiente livello di
prestazioni sanitarie nell'ambito di una
funzione considerata essenziale dallo Stato
e dalla regione.
Da queste premesse, è stato rigettato il
ricorso dell'imputato, primario di un
ospedale, cui era stato contestato il reato
previsto dall'articolo 479 del c.p., perché,
attraverso non veridiche timbrature e/o
smarcature delle schede marcatempo degli
orari di entrata e/o di uscita, aveva
attestato falsamente la sua presenza in
ospedale in orari in cui era invece assente,
essendo impegnato nello svolgimento di
prestazioni libero-professionali in una casa
di cura privata
(tratto da www.diritto.it - Corte di
Cassazione, Sez. V penale, sentenza
17.06.2003 n. 39065). |
PUBBLICO IMPIEGO:
I cartellini segnatempo e i fogli
di presenza del personale pubblico, in
quanto consistono nella documentazione di
attività direttamente compiute dal pubblico
ufficiale e volte alla produzione di effetti
giuridici nell'ambito di situazioni
soggettive di rilievo pubblicistico sono
atti pubblici.
In particolare, ciò deve dirsi con riguardo
ai cartellini di presenza e ai fogli di
presenza dei medici convenzionati con le
aziende sanitarie, che hanno non solo lo
scopo "privato" di stabilire il numero delle
ore lavorate in relazione al calcolo degli
onorari spettanti, ma anche e soprattutto
quello "pubblico" che emerge dalla normativa
in materia, e cioè di consentire il
controllo dell'attività di assistenza
sanitaria fornita e di evitare disservizi
nello svolgimento di quella che è una
funzione essenziale dello Stato e della
regione.
Deve conseguentemente ritenersi che
l'attestazione apposta dal medico sia
espressione di potere certificativo e che,
quindi, effettuando tale attestazione,
questi riveste la qualità di pubblico
ufficiale.
Fattispecie in cui è stato ritenuto il reato
previsto dall’art. 479 c.p. a carico di un
medico di turno presso la guardia medica
comunale che aveva falsamente attestato nel
foglio di presenza di aver prestato regolare
servizio, mentre in realtà era stato assente
(tratto da www.diritto.it - Corte di
Cassazione, Sez. V penale, sentenza
09.10.2002 n. 38831). |
PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di reati contro la fede
pubblica, il cartellino orario e la scheda
magnetica costituiscono, a tutti gli
effetti, atto pubblico, contenendo
l'attestazione della attività prestata nel
presidio ospedaliero, e vanno equiparati al
foglio di presenza sottoscritto dal pubblico
dipendente.
I suddetti documenti, di conseguenza, sono
suscettibili di produrre effetti giuridici
per la p.a., sia per quanto riguarda la
prova della presenza sul posto di lavoro del
sanitario, sia per consentire il controllo
della attività di assistenza fornita dalla
USL, anche allo scopo di evitare disservizi
nell'ambito di una funzione essenziale dello
Stato e della regione
(tratto da www.diritto.it - Corre di
Cassazione, Sez. V penale, sentenza
10.12.1998 n. 2898). |
AGGIORNAMENTO AL 04.06.2012 |
ã |
S.O.S.
TERREMOTO EMILIA ROMAGNA:
e se capitasse a te ?? |
E’ attivo dalle 19.00 di ieri martedì 29 maggio e
fino al 26 giugno il numero solidale 45500 per la
Campagna di raccolta fondi straordinaria a favore
delle popolazioni della Regione Emilia Romagna
duramente colpite dagli eventi sismici, il cui
ricavato verrà versato sul Fondo della Protezione
Civile.
Il valore della donazione sarà di:
Þ
2 euro per ciascun SMS inviato da cellulari: TIM,
Vodafone, WIND, 3, Poste Mobile, CoopVoce, Tiscali e
Noverca;
Þ
2 euro per ciascuna chiamata fatta allo stesso
numero da rete fissa di: Telecom Italia, Infostrada,
Fastweb, TeleTu e Tiscali. |
Quindi, non perdere
tempo:
telefona
oppure invia un SMS al 45500 e fai la Tua
generosa offerta per
quella povera gente che ha perso tutto ... non
restare indifferente perché l'indifferenza uccide
più del terremoto !! |
E non dire: "Sì,
un attimo ... lo faccio dopo ...". |
Telefona ora,
adesso, subito !! |
04.06.2012 - LA SEGRETERIA
PTPL |
* * * * * |
|
IN EVIDENZA |
APPALTI
SERVIZI - LAVORI PUBBLICI:
Il comune, che paga regolarmente la
fornitura di un servizio ovvero la realizzazione di
un'opera pubblica, deve pagare due volte laddove
l'impresa non versa lo stipendio ai propri
lavoratori e, men che meno, i contributi
previdenziali e i premi assicurativi.
Se è ovvio che il comune non è un imprenditore, è
altrettanto incontestabile che sia datore di lavoro
del personale assunto nelle forme del rapporto di
pubblico impiego: tanto basta per affermare la
responsabilità del comune, in solido con l'impresa
..., per i trattamenti retributivi dovuti da questa
ai suoi dipendenti impegnati nell'appalto per le
opere di ristrutturazione della "Casa Paolo VI"
del comune convenuto, entro il limite di due anni
dalla cessazione dell'appalto, ai sensi dell'art.
29, comma 2, D.Lgs. 276/2003 (TRIBUNALE di Milano,
Sez. lavoro,
sentenza 24.05.2012 n. 2167).
---------------
D.Lgs.
10.09.2003 n. 276 - Attuazione delle deleghe in
materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui
alla legge 14.02.2003 n. 30
* * *
Art. 29 - Appalto
1. (omissis)
2. In caso di appalto di opere o di servizi, il
committente imprenditore o datore di lavoro è
obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con
ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il
limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a
corrispondere ai lavoratori i trattamenti
retributivi, comprese le quote di trattamento di
fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i
premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di
esecuzione del contratto di appalto, restando
escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di
cui risponde solo il responsabile
dell'inadempimento. Ove convenuto in giudizio per il
pagamento unitamente all'appaltatore, il committente
imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella
prima difesa, il beneficio della preventiva
escussione del patrimonio dell'appaltatore medesimo.
In tal caso il giudice accerta la responsabilità
solidale di entrambi gli obbligati, ma l'azione
esecutiva può essere intentata nei confronti del
committente imprenditore o datore di lavoro solo
dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio
dell'appaltatore. L'eccezione può essere sollevata
anche se l'appaltatore non è stato convenuto in
giudizio, ma in tal caso il committente imprenditore
o datore di lavoro deve indicare i beni del
patrimonio dell'appaltatore sui quali il lavoratore
può agevolmente soddisfarsi. Il committente
imprenditore o datore di lavoro che ha eseguito il
pagamento può esercitare l'azione di regresso nei
confronti del coobbligato secondo le regole
generali. |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di responsabilità per il parere di
regolarità contabile su una spesa non
istituzionale, equiparando il concetto di
regolarità contabile alla legittimità della
spesa, secondo quanto previsto dal principio
di contabilità pubblica contenuto nell'art.
20 T.U. Corte dei conti.
La figura del
responsabile del servizio finanziario e di
ragioneria ha delle prerogative funzionali
di controllo sugli atti amministrativi che
comportano impegni di spesa; tale potere si
esprime attraverso l’espressioni di pareri,
visti e attestazioni, per i quali ai sensi
del art. 53 essi sono rilevanti ai fini
della responsabilità amministrativa dei
funzionari che li hanno resi.
---------------
E' infondata l'affermazione che il visto di
regolarità contabile attestante la copertura
finanziaria sulla determinazione del
responsabile del servizio interessato si
limita alla sola verifica della copertura
finanziaria, la corretta imputazione al
capitolo di spesa, alla competenza
dell’organo che l’ha assunta, al rispetto
dei principi contabili ed alla completezza
della documentazione.
La figura del responsabile del servizio
economico-finanziario è disciplinata
dall’art. 153, comma 3, del TUEL, il quale
distingue la possibilità di una figura unica
o articolata, sulla base di apposita
regolamentazione contabile, ciò significa
che è possibile ove il regolamento lo
preveda, -consentendolo la legge- che tale
figura sia scissa tra soggetti diversi,
poiché sono finalisticamente diverse le due
tipologie di controllo finanziario e
contabile, esercitate rispettivamente dal
responsabile del servizio finanziario e di
ragioneria; ovviamente nulla vieta, come
nella maggior parte dei casi, che tali
funzioni siano riunite in una unica figura,
ma questo non smentisce la relativa
diversità delle due funzioni, delle
corrispondenti posizioni organizzative e
delle conseguenti responsabilità
amministrativo-contabili ed organizzative.
Difatti, il parere di cui all’art. 53 della
legge 142/1990 richiesto al responsabile di
ragioneria è atto sostanzialmente diverso
dall’"attestazione” che il medesimo o altro
funzionario è chiamato a rilasciare, ed
invero mentre il primo consiste in una
valutazione in ordine alla regolarità
contabile della deliberazione sottoposta ad
esame, la seconda si concreta in una
verificazione più specifica, concernente la
copertura finanziaria del relativo impegno.
Tali pareri svolgono una funzione consultiva
di controllo sebbene non vincolante per gli
organi rappresentativi: invero, i pareri ex
art. 53 l. 08.06.1990 n. 142 (oggi, art. 49
t.u.e.l.) resi dal responsabile del
servizio, dal responsabile del settore
ragioneria e dal segretario comunale sui
progetti di deliberazioni spettanti ai corpi
rappresentativi del comune, non pongono
alcun limite alla potestà deliberante di
questi ultimi -i quali ben possono
liberamente disporre del contenuto delle
deliberazioni una volta resi detti pareri-
perché, diversamente argomentando, si
finirebbe con l'attribuire agli organi
consultivi l'effettivo potere
d'amministrazione attiva, lasciando ai corpi
rappresentativi la funzione di mera ratifica
di determinazioni altrui. Essi, pertanto,
sono unicamente preordinati
all'individuazione sul piano formale, dei
funzionari che li formulano, della
responsabilità eventualmente in solido con i
componenti degli organi politici in via
amministrativa e contabile.
In relazione alla ritenuta differenza tra
parere di regolarità contabile previsto per
le deliberazioni degli organi
rappresentativi, in quanto atti collegiali,
e visto di regolarità contabile, come nel
caso che ci occupa, sulle determinazioni dei
responsabili dei servizi e degli altri
soggetti abilitati (es. determinazioni del
sindaco), in quanto atti monocratici, può
certamente affermarsi che essa è solamente
apparente e relativa ad una visione
formalistica, non rispondente alla realtà
giuridica sostanziale, come confermato dalla
giurisprudenza costituzionale, in cui si è
affermato che lessicalmente il termine
deliberazione “sin dall’antichità” può
riferirsi indifferentemente sia ad atti
collegiali che monocratici, visto che spesso
il legislatore stesso riferisce tale
definizione in termini indifferenziati agli
uni o agli altri. La parola "deliberazione",
designa, da sempre, le risoluzioni adottate
sia da organi collegiali sia da organi
monocratici, nell'intento di rendere
pubblici tutti gli atti degli enti locali di
esercizio del potere deliberativo,
indipendentemente dalla natura collegiale o
meno dell'organo emanante.
Con la semplice differenza prevista dagli
artt. 55, comma 5, e 151, comma 4 del TUEL,
che il visto di regolarità contabile
congiunto alla attestazione di copertura
finanziaria è requisito di esecutività
dell’atto amministrativo, ossia della sua
efficacia giuridica, ciò significa che in
sua assenza, anche in presenza della sola
attestazione di copertura finanziaria,
l’atto non è esecutivo e conseguentemente è
nullo o inefficace.
Deve a questo punto chiarirsi cosa si
intenda per controllo contabile e
finanziario; la giurisprudenza contabile
prevalente ha ritenuto e ritiene che
regolarità contabile significhi controllo di
legittimità della spesa: “Nel parere di
“regolarità contabile” infatti, è da
comprendere, oltre che la verifica
dell’esatta imputazione della spesa al
pertinente capitolo di bilancio ed il
riscontro della capienza dello stanziamento
relativo, anche la valutazione sulla
correttezza sostanziale della spesa
proposta”.
Anche la giurisprudenza contabile più
recente ha confermato questo orientamento
con più approfondite precisazioni: “il
parere di regolarità contabile investe anche
e soprattutto la legittimità della spesa”
Corte conti sez. Puglia 207/2006, confermata
di recente anche da Corte conti sez. Toscana
114/2010.
---------------
Nelle suddette pronunce a sostegno di tale
tesi, si evidenziano ragioni normative di
natura sistematica.
in primo luogo deve essere testualmente
richiamato l’art. 147, lett. a), del TUEL
ove si prevede che nell’ambito del sistema
dei propri controlli interni l’ente locale
deve garantire attraverso il controllo di
regolarità amministrativa e contabile, la
legittimità, correttezza e regolarità
dell’azione amministrativa; quindi con tale
norma si finalizza rendendolo equivalente,
il controllo di regolarità contabile ad un
controllo sulla legittimità, correttezza e
regolarità dell’azione amministrativa.
Nonché l’art. 184, comma 4, del TUEL, il
quale nella fase di controllo da parte
dell’ufficio economico finanziario delle
determinazioni di impegno e liquidazione di
spesa, prevede che esso effettua i controlli
ed i riscontri amministrativi e contabili
secondo i principi della Contabilità
Pubblica, ed è quindi necessario individuare
quali siano, tali principi.
Orbene, se nello stesso TUEL sono codificati
solamente i principi del bilancio e non vi è
alcun riferimento preciso ai principi del
controllo; la detta giurisprudenza ha
individuato quale principio fondamentale per
i responsabili di ragioneria l’art. 27 del
R.D. 2440/1923 il quale prevede che: le
ragionerie centrali vigilino perché siano
osservate le leggi………c) per la regolare
gestione dei fondi di bilancio.
Ma la norma che individua il vero principio
fondamentale in materia, individuando e
distinguendo il controllo finanziario
relativo nel nostro caso all’attestazione
della copertura finanziaria, da quello
contabile, è l’art. 20 del R.D. 1214/1934 TU
Corte dei conti, ove si prevede: La Corte
vigila perché le spese non superino le somme
stanziate nel bilancio e queste si
applichino alle spese prescritte, perché non
si faccia trasporto di somme non consentite
per legge, e perché la liquidazione e il
pagamento delle spese siano conformi alle
leggi e ai regolamenti.
Tale norma che si applica all’attività di
controllo della Corte dei conti e definisce
il concetto di contabilità pubblica, per la
sua ampia definizione, si configura come
riferimento fondamentale per i concetti di
regolarità finanziaria e contabile, tale
che, per la sua generalità è estensibile a
qualsiasi organo pubblico che svolga tali
funzioni; e dunque per regolarità contabile
deve intendersi legittimità della spesa,
ossia conformità di essa alle leggi ed ai
regolamenti.
In conclusione, la verifica ai fini
dell’attestazione del responsabile del
servizio finanziario coincide
sostanzialmente con la prima parte dell’art.
20 cit., riferita al controllo finanziario,
il cui egli deve verificare la copertura
finanziaria, confrontando l’impegno di spesa
con lo stanziamento contenuto nello
specifico capitolo o intervento del bilancio
di previsione, la corretta imputazione
dell’impegno rispetto all’oggetto del
capitolo di spesa, che non si siano fatte
variazioni di bilancio non autorizzate,
oltre la scontata competenza dell’organo che
ha emesso il provvedimento, la quale attiene
piuttosto alla legittimità dell’atto
amministrativo che all’aspetto finanziario;
diversa funzione conseguentemente, ha il
parere o visto di regolarità contabile
riferito alla seconda parte dell’art. 20,
che si configura come un vero e proprio
controllo di legittimità della spesa
rispetto alla legge e alle altre fonti
normative, quindi trattasi di due funzioni
ben distinte.
In attuazione dell’art. 153, comma 3 e 5,
del TUEL, l’art. 30 del regolamento di
contabilità del comune di Palagonia prevede
che l’attestazione di copertura finanziaria
è apposta dal responsabile di ragioneria:
1. Qualsiasi atto che comporti spese a
carico dell’ente è nullo di diritto se privo
dell’attestazione della copertura
finanziaria da parte del responsabile di
ragioneria…3. Con l’attestazione viene
garantita la disponibilità finanziaria sul
pertinente stanziamento di bilancio; e
con l’art. 31 il parere di regolarità
contabile viene espresso previa verifica:
…… b) della corretta imputazione della
entrata e della spesa; c) dell’esistenza del
presupposto dal quale sorge il diritto della
obbligazione; e) (rectius: d) del rispetto
del’ordinamento contabile degli enti locali
e delle norme del presente regolamento.
L’art. 184 del TUEL prevede: ……2. La
liquidazione compete all’ufficio che ha dato
esecuzione al provvedimento di spesa ed è
disposta sulla base della documentazione
necessaria a comprovare il diritto del
creditore a seguito del riscontro operato
sulla regolarità della fornitura o della
prestazione e sulla rispondenza della stessa
ai requisiti quantitativi e qualitativi,ai
termini o alle condizioni pattuite.
3. L’atto di liquidazione sottoscritto dal
responsabile del servizio proponente, con
tutti i relativi documenti giustificativi ed
i riferimenti contabili è trasmesso al
servizio finanziario per i conseguenti
adempimenti.
4. Il servizio finanziario effettua,secondo
i principi e le procedure di contabilità
pubblica,i controlli ed i riscontri
amministrativi, contabili e fiscali sugli
atti di liquidazione.
Infine, per la posizione di tutti i
convenuti assume rilevanza l’art. 105 dell’Orel,
L.R. 16/1963, avente ad oggetto le spese del
comune, ove si prevede: 1. I comuni sono
tenuti ad assumere le spese indispensabili
per la conservazione del patrimonio,per gli
uffici, e gli archivi comunali, per il
trattamento economico o di quiescenza del
personale, per i servizi di interesse
strettamente locale, ed in genere, per
adempiere le funzioni ad essi attribuite
dalla legge. 2. Ove le condizioni del
bilancio lo consentono, essi possono
assumere anche altre spese per i servizi ed
uffici di utilità pubblica connessi con
l’interesse locale.
Dal quadro si qui delineato non si può
negare che la figura del responsabile del
servizio finanziario e di ragioneria abbia
delle prerogative funzionali di controllo
sugli atti amministrativi che comportano
impegni di spesa; tale potere si esprime
attraverso l’espressioni dei suddetti
pareri, visti e attestazioni, per i quali ai
sensi del art. 53 essi sono rilevanti ai
fini della responsabilità amministrativa dei
funzionari che li hanno resi.
Perciò, le deduzioni del convenuto M.,
responsabile del servizio finanziario e di
ragioneria del comune di Palagonia, ove egli
afferma che il visto di regolarità contabile
attestante la copertura finanziaria sulla
determinazione del responsabile del servizio
interessato si limitava alla sola verifica
della copertura finanziaria, la corretta
imputazione al capitolo di spesa, alla
competenza dell’organo che l’ha assunta, al
rispetto dei principi contabili ed alla
completezza della documentazione, sono
infondate.
La figura del responsabile del servizio
economico-finanziario è disciplinata
dall’art. 153, comma 3, del TUEL
sopraccitato, il quale distingue la
possibilità di una figura unica o
articolata, sulla base di apposita
regolamentazione contabile, ciò significa
che è possibile ove il regolamento lo
preveda, -consentendolo la legge- che tale
figura sia scissa tra soggetti diversi,
poiché, come vedremo, sono finalisticamente
diverse le due tipologie di controllo
finanziario e contabile, esercitate
rispettivamente dal responsabile del
servizio finanziario e di ragioneria,
ovviamente nulla vieta, come nella maggior
parte dei casi, che tali funzioni siano
riunite in una unica figura, ma questo non
smentisce la relativa diversità delle due
funzioni, delle corrispondenti posizioni
organizzative e delle conseguenti
responsabilità amministrativo-contabili ed
organizzative.
Difatti, ciò è stato percepito e confermato
dalla giurisprudenza amministrativa e
contabile sin dalla emanazione della legge
142/1990: “il parere di cui all’art. 53
della legge 142/1990 richiesto al
responsabile di ragioneria è atto
sostanzialmente diverso dall’ “attestazione”
che il medesimo o altro funzionario è
chiamato a rilasciare, ed invero mentre il
primo consiste in una valutazione in ordine
alla regolarità contabile della
deliberazione sottoposta ad esame, la
seconda si concreta in una verificazione più
specifica, concernente la copertura
finanziaria del relativo impegno” TAR Pa
sez. II 231/1994.
Tali pareri svolgono una funzione consultiva
di controllo sebbene non vincolante per gli
organi rappresentativi: “i pareri ex art.
53 l. 08.06.1990 n. 142 (oggi, art. 49
t.u.e.l.) resi dal responsabile del
servizio, dal responsabile del settore
ragioneria e dal segretario comunale sui
progetti di deliberazioni spettanti ai corpi
rappresentativi del comune, non pongono
alcun limite alla potestà deliberante di
questi ultimi -i quali ben possono
liberamente disporre del contenuto delle
deliberazioni una volta resi detti pareri-
perché, diversamente argomentando, si
finirebbe con l'attribuire agli organi
consultivi l'effettivo potere
d'amministrazione attiva, lasciando ai corpi
rappresentativi la funzione di mera ratifica
di determinazioni altrui. Essi, pertanto,
sono unicamente preordinati
all'individuazione sul piano formale, dei
funzionari che li formulano, della
responsabilità eventualmente in solido con i
componenti degli organi politici in via
amministrativa e contabile” TAR NA, sez.
III, 7878/2007.
In relazione alla ritenuta differenza tra
parere di regolarità contabile previsto per
le deliberazioni degli organi
rappresentativi, in quanto atti collegiali,
e visto di regolarità contabile, come nel
caso che ci occupa, sulle determinazioni dei
responsabili dei servizi e degli altri
soggetti abilitati (es. determinazioni del
sindaco), in quanto atti monocratici, può
certamente affermarsi che essa è solamente
apparente e relativa ad una visione
formalistica, non rispondente alla realtà
giuridica sostanziale, come confermato dalla
giurisprudenza costituzionale, in cui si è
affermato che lessicalmente il termine
deliberazione “sin dall’antichità”
può riferirsi indifferentemente sia ad atti
collegiali che monocratici, visto che spesso
il legislatore stesso riferisce tale
definizione in termini indifferenziati agli
uni o agli altri; si veda Corte
costituzionale 38 e 39/1979, e confermato
anche dalla giurisprudenza amministrativa
Cons. di Stato sez. IV 1129/1977 e 701/1978,
più recentemente Cons. di Stato sez. V
8400/2009: “la parola "deliberazione",
designa, da sempre, le risoluzioni adottate
sia da organi collegiali sia da organi
monocratici, nell'intento di rendere
pubblici tutti gli atti degli enti locali di
esercizio del potere deliberativo,
indipendentemente dalla natura collegiale o
meno dell'organo emanante”.
Con la semplice differenza prevista dagli
artt. 55, comma 5, e 151, comma 4, sopra
citati, che il visto di regolarità contabile
congiunto alla attestazione di copertura
finanziaria è requisito di esecutività
dell’atto amministrativo, ossia della sua
efficacia giuridica, ciò significa che in
sua assenza, anche in presenza della sola
attestazione di copertura finanziaria,
l’atto non è esecutivo e conseguentemente è
nullo o inefficace.
Deve a questo punto chiarirsi cosa si
intenda per controllo contabile e
finanziario; la giurisprudenza contabile
prevalente ha ritenuto e ritiene che
regolarità contabile significhi controllo di
legittimità della spesa: “Nel parere di
“regolarità contabile” infatti, è da
comprendere, oltre che la verifica
dell’esatta imputazione della spesa al
pertinente capitolo di bilancio ed il
riscontro della capienza dello stanziamento
relativo, anche la valutazione sulla
correttezza sostanziale della spesa proposta”
Corte conti, sez. II, 104/1994.
Anche la giurisprudenza contabile più
recente ha confermato questo orientamento
con più approfondite precisazioni: “il
parere di regolarità contabile investe anche
e soprattutto la legittimità della spesa”
Corte conti sez. Puglia 207/2006, confermata
di recente anche da Corte conti sez. Toscana
114/2010.
In queste pronunce a sostegno di tale tesi,
si evidenziano ragioni normative di natura
sistematica.
in primo luogo deve essere testualmente
richiamato l’art. 147, lett. a), del TUEL
ove si prevede che nell’ambito del sistema
dei propri controlli interni l’ente locale
deve garantire attraverso il controllo di
regolarità amministrativa e contabile, la
legittimità, correttezza e regolarità
dell’azione amministrativa; quindi con tale
norma si finalizza rendendolo equivalente,
il controllo di regolarità contabile ad un
controllo sulla legittimità, correttezza e
regolarità dell’azione amministrativa.
Nonché l’art. 184, comma 4, del TUEL sopra
citato, il quale nella fase di controllo da
parte dell’ufficio economico finanziario
delle determinazioni di impegno e
liquidazione di spesa, prevede che esso
effettua i controlli ed i riscontri
amministrativi e contabili secondo i
principi della Contabilità Pubblica, ed è
quindi necessario individuare quali siano,
tali principi.
Orbene, se nello stesso TUEL sono codificati
solamente i principi del bilancio e non vi è
alcun riferimento preciso ai principi del
controllo; la detta giurisprudenza ha
individuato quale principio fondamentale per
i responsabili di ragioneria l’art. 27 del
R.D. 2440/1923 il quale prevede che: le
ragionerie centrali vigilino perché siano
osservate le leggi………c) per la regolare
gestione dei fondi di bilancio.
Ma ad avviso di questo collegio, la norma
che individua il vero principio fondamentale
in materia, individuando e distinguendo il
controllo finanziario relativo nel nostro
caso all’attestazione della copertura
finanziaria, da quello contabile, è l’art.
20 del R.D. 1214/1934 TU Corte dei conti,
ove si prevede: La Corte vigila perché le
spese non superino le somme stanziate nel
bilancio e queste si applichino alle spese
prescritte, perché non si faccia trasporto
di somme non consentite per legge, e perché
la liquidazione e il pagamento delle spese
siano conformi alle leggi e ai regolamenti.
Tale norma che si applica all’attività di
controllo della Corte dei conti e definisce
il concetto di contabilità pubblica, per la
sua ampia definizione, si configura come
riferimento fondamentale per i concetti di
regolarità finanziaria e contabile, tale
che, per la sua generalità è estensibile a
qualsiasi organo pubblico che svolga tali
funzioni; e dunque per regolarità contabile
deve intendersi legittimità della spesa,
ossia conformità di essa alle leggi ed ai
regolamenti.
E d’altro canto, ciò trova riscontro
nell’art. 31 del regolamento di contabilità
del Comune di Palagonia sopra evidenziato,
ove si prevede che il responsabile di
ragioneria deve verificare l’esistenza del
presupposto dal quale sorge il diritto della
obbligazione e il rispetto dell’ordinamento
contabile degli enti locali.
In conclusione sul punto, la verifica ai
fini dell’attestazione del responsabile del
servizio finanziario coincide
sostanzialmente con la prima parte dell’art.
20 cit., riferita al controllo finanziario,
il cui egli deve verificare la copertura
finanziaria, confrontando l’impegno di spesa
con lo stanziamento contenuto nello
specifico capitolo o intervento del bilancio
di previsione, la corretta imputazione
dell’impegno rispetto all’oggetto del
capitolo di spesa, che non si siano fatte
variazioni di bilancio non autorizzate,
oltre la scontata competenza dell’organo che
ha emesso il provvedimento, la quale attiene
piuttosto alla legittimità dell’atto
amministrativo che all’aspetto finanziario;
diversa funzione conseguentemente, ha il
parere o visto di regolarità contabile
riferito alla seconda parte dell’art. 20,
che si configura come un vero e proprio
controllo di legittimità della spesa
rispetto alla legge e alle altre fonti
normative, quindi trattasi di due funzioni
ben distinte.
Dunque, sotto il profilo della regolarità
contabile il M. nella sua qualità di
responsabile di ragioneria non ha verificato
l’esistenza dei presupposti di fatto e di
diritto dai quali avrebbe dovuto scaturire
l’obbligazione, in concreto l’inerenza della
spesa da rimborsare, con le funzioni
istituzionali esercitate dal sindaco e dagli
assessori con la partecipazione alla
manifestazione “settimana della lingua
italiana nel mondo” svoltasi a Ginevra
da 21 al 24.10.2005. Contrariamente da
quanto affermato, egli non ha dimostrato, né
allegato alcun documento da cui risulti tale
inerenza e l’eventuale utilità della spesa,
e questo, sebbene dalla lettura dalla
deliberazione di giunta comunale n.
276/2005, egli, nella sua qualità di
responsabile del servizio finanziario ha
ritenuto contabilmente regolare la spesa,ed
anche alla luce dalla rassegna stampa della
manifestazione, allegata al fascicolo dal PM
e in possesso del comune, non vi è alcuna
traccia di collegamenti con l’attività
istituzionale del comune di Palagonia, di
cui il convenuto nella sua qualità di organo
di controllo interno doveva tenere conto, in
conformità alla previsione dell’art. 105
della L.R. 16/1963, in quanto spesa non
connessa con l’interesse locale (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Sicilia,
sentenza 24.04.2012 n. 1337
- link a www.corteconti.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Documento Unico di Regolarità
Contributiva (circolare
31.05.2012 n. 6/2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto:
Ambito di applicazione dell'art. 40, comma
2, d.P.R. n. 445 del 2000 (circolare
23.05.2012 n. 5/2012). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
M. Zortea e E. V. Zeni,
Abbandono di veicoli fuori uso. Stato
dell’arte: norme e giurisprudenza (31.05.2012
- link a www.tuttoambiente.it). |
APPALTI: L.
Bellagamba,
La dichiarazione di subappalto in sede di
gara e la suggestiva tesi della sezione VI
del Consiglio di Stato
(link a www.linobellagamba.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI: Puniti
dal 2014 i mini-enti che sforano il Patto.
I comuni tra 1.001 e 5.000 abitanti che, dal
2013, saranno chiamati a osservare le regole
del patto di stabilità per effetto della
manovra bis del 2011 (il dl n. 138/2011),
qualora inadempienti, potranno essere
penalizzati con le sanzioni previste dal dl
n. 112/2008 soltanto a decorrere dall'anno
2014, in quanto la natura sanzionatoria
sopra richiamata restringe l'ambito
soggettivo ai soli enti già chiamati al
rispetto degli obiettivi imposti dal Patto.
In tema di personale, però, per i mini enti
resta comunque fissato il limite assunzionale nella misura del quaranta per
cento della spesa corrispondente alle
cessazioni dell'anno precedente, in quanto,
da un lato, nessuna norma derogatoria è oggi
prevista per tali enti e poi perché gli
stessi possono sempre riorganizzare le
risorse umane disponibili facendo leva sulle
previste forme di associazionismo comunale.
Sono queste le indicazioni fornite dalla
Sez. autonomie della Corte dei conti, nel
testo della recente
deliberazione
11.05.2012 n. 6,
con cui è stata fatta chiarezza su alcuni
aspetti di interesse per i piccoli comuni
alla luce del loro prossimo ingresso tra gli
enti cui si applicheranno le severe regole
del Patto di stabilità interno.
Il sindaco di
Arsié (Bl), comune con 2.600 abitanti
chiedeva l'intervento della Corte veneta per
sapere se, prospettandosi la cessazione di
un'unita di personale nel corso di
quest'anno, poteva avviare o meno le
procedure di reclutamento di un'altra unità
da assumere, con effetto 2013, tenuto conto
che, ai sensi dell'articolo 16, comma 31, del
dl n. 138/2011, le disposizioni del Patto di
stabilità interno avranno effetto nei
riguardi di tutti i comuni con popolazione
superiore a 1.000 abitanti e che, con
l'assunzione di detta unità, il predetto
comune sforerà i vincoli del patto (con le
conseguenti sanzioni previste dal citato dl
n. 112/2008).
La Corte veneta ha così
rimesso l'istanza alla sezione autonomie
affinché la stessa si pronunci con un
orientamento di carattere generale, stante
la massima rilevanza della questione nata
dalla scelta del legislatore di estendere il
Patto di stabilità «ad un considerevole
numero di enti» e per le implicazioni
pratiche cui saranno tenuti i mini-enti,
rilevando a tal fine che il rispetto del
rigido contenimento della spesa pubblica
potrebbe sollevare problemi in ordine alla
decorrenza delle disposizioni limitative.
Per la sezione autonomie, il limite imposto
dall'articolo 76, comma 4, del dl n. 112/2008
agli enti locali inadempienti, ovvero il
divieto assoluto di procedere a nuove
assunzioni di personale, è ricollegabile
all'inosservanza dei vincoli imposti dal
Patto. Quindi, la sua operatività si
indirizza ai soli enti che già lo devono
osservare. In pratica, se il mancato
rispetto del Patto «nell'esercizio
precedente» costituisce il presupposto per
l'irrogazione della sanzione, allora il
divieto sopra evidenziato non può essere
applicato agli enti che, per la prima volta,
ne sono soggetti. Ovvero, dal 2013, i comuni
da 1.000 a 5.000 abitanti. Ne consegue che
tali enti, eventualmente, incorreranno nel
regime sanzionatorio soltanto a decorrere
dal 2014 senza che possa ipotizzarsi
un'applicazione retroattiva della predetta
sanzione, poiché ciò violerebbe i principi
di ragionevolezza, di certezza del diritto e
di leale collaborazione.
Ma i mini enti, prosegue il documento delle
autonomie, devono però rispettare il vincolo
assunzionale nella misura del 40% della
spesa corrispondente alle cessazioni
avvenute nell'esercizio finanziario
precedente (art. 76, comma 7, del dl n.
112/2008). In primo luogo, perché
l'estensione del Patto a tutti i comuni con
più di 1.000 abitanti «non presenta
particolari incompatibilità» o ragioni
particolari che portino a sottrarre alcuni
di essi all'applicazione uniforme delle
misure di contenimento della spesa pubblica
in un particolare momento di crisi
finanziaria. Se in tale prospettiva, i
piccoli enti temono di non poter garantire i
servizi essenziali, la sezione autonomie
ricorda loro che possono sempre far leva
sulle forme di associazionismo comunale,
quale modulo organizzativo più flessibile,
economico e efficiente (articolo ItaliaOggi
del 30.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: Come
si redige un DUVRI (Documento Unico di
Valutazione di Rischi Interferenti): ecco un
modello completo e versatile.
La redazione del DUVRI, come previsto dal
Testo Unico per la Sicurezza (D.Lgs.
81/2008), è sempre obbligatoria in caso di
affidamento di lavori, servizi e forniture
all’impresa appaltatrice o a lavoratori
autonomi. Anche nel caso in cui non siano
presenti rischi dovuti a interferenze il
DUVRI va redatto, in quanto la compilazione
di tale modello testimonia l’avvenuta
valutazione dei rischi.
Questo indica le misure preventive da
adottare per la cooperazione e il
coordinamento dei lavoratori, nel caso in
cui i lavori vengano affidati a più imprese,
al fine di prevenire e ridurre i rischi
dovuti alle interferenze presenti sul luogo
di lavoro.
L’INAIL ha prodotto uno schema di
elaborazione del DUVRI, utile a tutti i
tecnici e agli addetti ai lavori, in
particolare ai datori di lavoro committenti
cui spetta il compito di informare i
lavoratori dell’impresa appaltatrice circa i
rischi e di verificare l’idoneità tecnico
professionale dell’impresa appaltatrice
stessa.
La guida dell’INAIL è così strutturata:
►
Descrizione del modello DUVRI
►
Modalità operative
►
Ipotesi A: assenza di rischi dovuti
all’interferenza
►
Ipotesi B: presenza di rischi dovuti
all’interferenza
►
Ipotesi C: caso in cui NON deve essere
redatto il DUVRI
►
Esemplificazione con diagramma di flusso
►
Il quadro normativo
►
Determinazione AVCP n. 3 del 05.03.2008
►
Definizioni
►
Allegati
Oltre alla guida, in allegato a questo
articolo anche il modello di DUVRI relativo
ai contratti di appalto, d'opera o di
somministrazione adottato dall’Inail
(31.05.2012 - link a www.acca.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Dal
Consiglio Nazionale degli Architetti il “Secondo
Contributo” sul calcolo dei compensi per
l’affidamento di servizi.
Il Consiglio Nazionale degli Architetti ha
inviato all’AVCP il “Secondo Contributo”
per l'aggiornamento delle linee guida in
merito all'affidamento dei servizi (per la
prima Circolare del CNAPPC si rinvia il
lettore all’art. “Dal Consiglio Nazionale
degli Architetti un esempio su come
calcolare i compensi dei professionisti”).
Il nuovo documento del Consiglio degli
Architetti contiene chiarimenti in merito a:
● criteri di determinazione dell’importo a
base di gara dei servizi attinenti
all’architettura e all’ingegneria
● requisiti speciali
● verifica di congruità delle offerte
● soglie di affidamento
● concorsi sottosoglia
● interpretazione servizi di punta
● organico medio annuo
● rivalutazione importi lavori progettati
● problemi pratici derivanti
dall’applicazione dell’art. 10 della legge
n. 183/2011
(31.05.2012 - link a www.acca.it). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Piano
attuativo di iniziativa privata e
realizzazione, da parte dello stesso
soggetto attuatore, delle opere di
urbanizzazione a scomputo degli oneri
concessori, sia per l’ambito della
lottizzazione che per la realizzazione della
scuola materna comunale.
Il Comune di ... ha ritenuto di rimettere al
titolare del PdC la procedura di
aggiudicazione dei lavori per la costruzione
della scuola materna, individuando ed “imponendo”
nel contempo, come evidenziato dal
responsabile del Settore LL.PP., sia un RUP
per l’attuazione del PUA, sia un
collaudatore tecnico amministrativo in corso
d’opera.
Questa Autorità ha più
volte evidenziato che è da ritenersi
inammissibile, da parte del titolare del
permesso di costruire, la partecipazione
indiretta ad una gara mediante soggetti con
i quali sussistono rapporti di controllo ai
sensi dell’art 2359 c.c. (Società
controllate e Società collegate) o tali da
configurare un unico centro decisionale. Ciò
a salvaguardia del generale principio di
imparzialità che deve essere anche a
fondamento dell’azione del privato titolare
del Permesso di Costruire il quale, in
quanto “altro soggetto attuatore” rispetto
alla P.A., è tenuto ad appaltare opere
pubbliche a terzi nel rispetto della
disciplina dei contratti pubblici come
prevista dal D.lgs 163/06. Il TAR
Puglia–Bari ha evidenziato, inoltre, che le
situazioni di conflitto di interesse possono
essere rinvenute allorquando esistano
contrasto e incompatibilità anche solo
potenziali tra il soggetto e le funzioni che
gli vengono attribuite.
---------------
L’art. 57, co. 6, dlgs 163/2006 attribuisce
alla stazione appaltante l’onere di
individuare gli operatori economici sulla
base di informazioni riguardanti le
caratteristiche di qualificazione
economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa desunte dal mercato.
L’AVCP ha chiarito che la ratio della norma
dell’art. 57, co. 6, è di garantire che le
caratteristiche di qualificazione
economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa richieste dalla
stazione appaltante coincidano con quelle
necessarie per la partecipazione alle
procedure selettive e che, nel caso di
lavori, sia necessario fare riferimento al
possesso della qualificazione SOA.
La scelta delle imprese da invitare, dunque,
deve essere compiuta mediante una preventiva
acquisizione di informazioni dal mercato e
sempre nel rispetto dei principi di
concorrenza e trasparenza al fine
individuare operatori economici le cui
caratteristiche siano proporzionate al tipo
di intervento; ciò anche nell’ottica della
salvaguardia dell’interesse pubblico,
soprattutto in caso di adozione di procedure
di selezione, quali quella negoziata senza
bando, che rappresentano di fatto una
sottrazione degli appalti alla libera
concorrenza.
A tal proposito, proprio a garanzia dei
principi di concorrenza e trasparenza,
questa Autorità ha evidenziato che, anche se
la pubblicità preventiva non è obbligatoria
per le procedure semplificate, sarebbe
auspicabile che, oltre alla doverosa
esplicitazione nella determina a contrarre
dei criteri da utilizzare per
l’individuazione delle imprese da invitare,
venissero considerate necessarie, sia la
pubblicazione del cosiddetto avviso di
post-informazione contenente i dati dei
soggetti aggiudicatari degli affidamenti,
sia l’adozione di tutti gli strumenti che
consentano di adeguare la pubblicità
all’importanza dell’appalto per il mercato
interno, utilizzando come parametri il
valore effettivo della commessa e la sua
"appetibilità" per i potenziali concorrenti
(es. pubblicazione dell’avviso sul sito
internet della stazione appaltante); sia,
infine la predisposizione di “opportuni
elenchi aperti di operatori economici”.
Nel caso in questione, l’aver invitato un
operatore economico non in possesso di
qualificazione adeguata al tipo di
prestazione richiesta, indica che la
stazione appaltante quantomeno non ha agito
con la dovuta accortezza nella selezione dei
concorrenti; inoltre, la circostanza sopra
esaminata induce ragionevolmente a ritenere
che ci sia stato un comportamento volto a
favorire tale Ditta rispetto ad altre più
idonee sul mercato a garantire il
soddisfacimento della prestazione richiesta;
in ciò non rispettando, quindi, il principio
di parità di trattamento che vieta non solo
le discriminazioni palesi ma anche quelle
dissimulate.
--------------
Si ribadisce che, specie in casi come quello
in esame, in cui, in vece
dell’amministrazione pubblica, il privato
assume le funzioni di altro soggetto
aggiudicatore di opere pubbliche, è di
indiscutibile necessità l’azione di
vigilanza da parte dell’amministrazione, al
fine di garantire la regolarità delle varie
fasi dell’appalto.
Come già espresso da questa Autorità, anche
se nel caso di opere a scomputo degli oneri
concessori è applicabile al privato il
concetto di mandato quale conferimento dei
poteri relativi all’espletamento delle gare,
rimangono in capo all’amministrazione quelli
relativi alla sorveglianza, al controllo ed
alla direzione nella realizzazione delle
opere.
* * *
Considerato in fatto:
In data 11/10/2010 è giunto all’Autorità
l’esposto prot. 70497 con cui gli esponenti
-consiglieri comunali di opposizione- hanno
denunciato presunte irregolarità
nell'affidamento dell'appalto in argomento,
aggiudicato ai sensi dell'art. 122, comma 8,
dalla Società San Giorgio S.a.s., soggetto
attuatore privato del Piano Urbanistico
Attuativo (in seguito PUA) "San Giorgio".
Fra le clausole previste nella convenzione
stipulata con il Comune di Lazise, infatti,
era previsto che il soggetto attuatore
provvedesse alla realizzazione delle opere
di urbanizzazione a scomputo degli oneri
concessori, sia per l’ambito della
lottizzazione che per la realizzazione della
scuola materna in argomento, da costruire
nella frazione di Colà.
Come stabilito dal sopracitato articolo, la
società San Giorgio s.a.s.., assumendo le
funzioni di stazione appaltante, ha
provveduto ad invitare, con procedura
negoziata senza previa pubblicazione del
bando, n. 5 operatori economici per
l'affidamento dei lavori.
Gli esponenti hanno segnalato che la
commissione giudicatrice, composta dal RUP,
scelto dall'amministrazione comunale in una
terna di professionisti proposta dal
soggetto attuatore, e da due tecnici
comunali, ha aggiudicato i lavori alla ditta
individuale Lonardi Francesco, primo marito
della titolare della Società San Giorgio Sas.
Hanno segnalato, inoltre, che la ditta
aggiudicataria è priva di attestazione SOA e
che è ricorsa all’istituto dell’avvalimento.
...
Ritenuto in diritto:
La tematica delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria a scomputo degli oneri
concessori stabilita dall’art. 16 del DPR
380/2001 (Testo unico sull’edilizia) è stata
oggetto di varie discussioni e
pronunciamenti in sede comunitaria e
nazionale che sono confluiti in una serie di
provvedimenti di aggiornamento del Codice
dei contratti pubblici. Il problema di base
emerso nella normativa italiana riguarda,
infatti, la facoltà data dal succitato
articolo del Testo Unico sull’edilizia alle
Amministrazioni locali di affidare
l’esecuzione di opere pubbliche direttamente
al soggetto privato titolare del Permesso di
Costruire. Con il D.Lgs 152/2008 è stata
stabilita una disciplina che prevede, sia
per importi sopra che sotto soglia
comunitaria, l’ipotesi che l’affidamento di
tali opere possa avvenire con gara svolta
sia direttamente dall’Amministrazione
pubblica sia dal privato, che assume in tal
modo la veste di altro soggetto
aggiudicatore.
Attualmente, dunque, l’art. 122, co. 8, del
D.gs 163/2006, rinviando all’art. 32 del
medesimo Decreto, richiama anche per gli
appalti sottosoglia comunitaria le due
distinte modalità di affidamento delle opere
di urbanizzazione a scomputo degli oneri
concessori, ossia la prima, che prevede da
parte dell’Amministrazione pubblica
l’acquisizione dal privato titolare del PdC
del progetto preliminare e la successiva
selezione dell’appaltatore con la procedura
prevista dall’art. 57, co. 6, del Codice dei
contratti pubblici; la seconda che sposta
sul privato la responsabilità di tale
operazione, fermo restando in capo
all’Amministrazione pubblica l’onere della
vigilanza sulle procedure attuate. In tal
caso, infatti, il soggetto privato, in virtù
della convenzione onerosa stipulata con
l’Amministrazione che rilascia il PdC,
assume il ruolo di altro soggetto
aggiudicatore di opere pubbliche, ossia di
opere che, una volta ultimate, sono
acquisite al patrimonio del Comune, ossia
della collettività. Si comprende, quindi,
l’importanza di garantire il rispetto della
correttezza delle procedure poste in essere
al fine di tutelare gli interessi pubblici.
Nel caso in questione, il Comune di Lazise
ha ritenuto di rimettere al titolare del PdC
la procedura di aggiudicazione dei lavori
per la costruzione della scuola materna di
Colà, individuando ed “imponendo” nel
contempo, come evidenziato dal responsabile
del Settore LL.PP., sia un RUP per
l’attuazione del PUA, sia un collaudatore
tecnico amministrativo in corso d’opera.
In merito alla problematica che investe la
ditta aggiudicataria dei lavori, si
sollevano le seguenti osservazioni.
Innanzitutto, come peraltro evidenziato alla
stessa amministrazione comunale, i controlli
effettuati sulla Società San Giorgio Sas
hanno potuto appurare che il sig. Lonardi,
titolare della ditta individuale
aggiudicataria dei lavori, solo in data
20/10/2009, si è dimesso dalla carica di
socio accomandante della società San Giorgio
S.a.s. ed al suo posto sono subentrati tre
figli (uno in qualità di socio
accomandatario e due in qualità di soci
accomandanti). Pertanto, in virtù della sua
partecipazione al capitale sociale e,
soprattutto, del suo ruolo di socio
accomandante, non solo poteva essere a
conoscenza prima degli altri concorrenti
dell’imminente avvio di una procedura di
selezione, nonché dell’oggetto e delle
modalità con la quale la stessa sarebbe
stata espletata, ma avrebbe potuto
condizionare anche le scelte in merito alle
predette modalità, alla tempistica o agli
operatori economici da invitare.
Infatti, da quanto si è potuto constatare,
l’invio delle lettere di invito alla
procedura negoziata ai cinque operatori
economici individuati dalla Stazione
Appaltante è avvenuto il 23/10/2009, ossia
appena tre giorni dopo la data di cessazione
del Sig. Lonardi dalla carica di socio
accomandante della San Giorgio Sas; fatto
che non può che destare il ragionevole
dubbio che l’uscita di Lonardi dalla società
sia stata artatamente studiata per poter
partecipare alla selezione.
Sul punto questa Autorità ha più volte
evidenziato (es. Determinazioni n. 7 del
16/07/2009 e n. 4 del 02/04/2008), che è da
ritenersi inammissibile, da parte del
titolare del permesso di costruire, la
partecipazione indiretta ad una gara
mediante soggetti con i quali sussistono
rapporti di controllo ai sensi dell’art 2359
c.c. (Società controllate e Società
collegate) o tali da configurare un unico
centro decisionale. Ciò a salvaguardia del
generale principio di imparzialità che deve
essere anche a fondamento dell’azione del
privato titolare del Permesso di Costruire
il quale, in quanto “altro soggetto
attuatore” rispetto alla P.A., è tenuto
ad appaltare opere pubbliche a terzi nel
rispetto della disciplina dei contratti
pubblici come prevista dal D.lgs 163/06. Il
TAR Puglia–Bari, con la Sentenza 1909 del
22/07/2009, ha evidenziato, inoltre, che le
situazioni di conflitto di interesse possono
essere rinvenute allorquando esistano
contrasto e incompatibilità anche solo
potenziali tra il soggetto e le funzioni che
gli vengono attribuite.
Vi è, inoltre, un ulteriore aspetto da porre
in evidenza. E’ stato rilevato che la Ditta
del sig. Lonardi è l’unica delle cinque
invitate a non essere in possesso di
attestazione SOA; infatti, come riscontrato
nella documentazione inviata dal Comune, la
Ditta, per la partecipazione alla gara
(importo base pari ad € 1.000.000,00), ha
dichiarato di ricorrere all’istituto dell’avvalimento
per la categoria OG1 cl. II (tramite
l’impresa Eurocostruzioni D/G Srl). Si
rappresenta al riguardo che l’art. 57, co.
6, attribuisce alla stazione appaltante
l’onere di individuare gli operatori
economici sulla base di informazioni
riguardanti le caratteristiche di
qualificazione economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa desunte dal mercato.
L’AVCP, nella Determinazione n. 2/2011, ha
chiarito che la ratio della norma
dell’art. 57, co. 6, è di garantire che le
caratteristiche di qualificazione
economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa richieste dalla
stazione appaltante coincidano con quelle
necessarie per la partecipazione alle
procedure selettive e che, nel caso di
lavori, sia necessario fare riferimento al
possesso della qualificazione SOA.
La scelta delle imprese da invitare, dunque,
deve essere compiuta mediante una preventiva
acquisizione di informazioni dal mercato e
sempre nel rispetto dei principi di
concorrenza e trasparenza al fine
individuare operatori economici le cui
caratteristiche siano proporzionate al tipo
di intervento; ciò anche nell’ottica della
salvaguardia dell’interesse pubblico,
soprattutto in caso di adozione di procedure
di selezione, quali quella negoziata senza
bando, che rappresentano di fatto una
sottrazione degli appalti alla libera
concorrenza.
A tal proposito, proprio a garanzia dei
principi di concorrenza e trasparenza, nella
medesima Determinazione n. 2/2011, questa
Autorità ha evidenziato che, anche se la
pubblicità preventiva non è obbligatoria per
le procedure semplificate, sarebbe
auspicabile che, oltre alla doverosa
esplicitazione nella determina a contrarre
dei criteri da utilizzare per
l’individuazione delle imprese da invitare,
venissero considerate necessarie, sia la
pubblicazione del cosiddetto avviso di
post-informazione contenente i dati dei
soggetti aggiudicatari degli affidamenti,
sia l’adozione di tutti gli strumenti che
consentano di adeguare la pubblicità
all’importanza dell’appalto per il mercato
interno, utilizzando come parametri il
valore effettivo della commessa e la sua "appetibilità"
per i potenziali concorrenti (es.
pubblicazione dell’avviso sul sito internet
della stazione appaltante); sia, infine la
predisposizione di “opportuni elenchi
aperti di operatori economici”.
Nel caso in questione, l’aver invitato un
operatore economico non in possesso di
qualificazione adeguata al tipo di
prestazione richiesta, indica che la
stazione appaltante quantomeno non ha agito
con la dovuta accortezza nella selezione dei
concorrenti; inoltre, la circostanza sopra
esaminata induce ragionevolmente a ritenere
che ci sia stato un comportamento volto a
favorire tale Ditta rispetto ad altre più
idonee sul mercato a garantire il
soddisfacimento della prestazione richiesta;
in ciò non rispettando, quindi, il principio
di parità di trattamento che vieta non solo
le discriminazioni palesi ma anche quelle
dissimulate (cfr. Sentenza Corte di
Giustizia CE 03.06.1992, causa C-360/89).
Si ribadisce che, specie in casi come quello
in esame, in cui, in vece
dell’amministrazione pubblica, il privato
assume le funzioni di altro soggetto
aggiudicatore di opere pubbliche, è di
indiscutibile necessità l’azione di
vigilanza da parte dell’amministrazione, al
fine di garantire la regolarità delle varie
fasi dell’appalto. Come già espresso da
questa Autorità, anche se nel caso di opere
a scomputo degli oneri concessori è
applicabile al privato il concetto di
mandato quale conferimento dei poteri
relativi all’espletamento delle gare,
rimangono in capo all’amministrazione quelli
relativi alla sorveglianza, al controllo ed
alla direzione nella realizzazione delle
opere.
Alla luce di quanto sopra, dunque, non può
che rilevarsi l’inadeguadezza e
l’inefficacia dell’azione di controllo e
sorveglianza da parte dell’Amministrazione
comunale sia per quanto riguarda la fase di
scelta degli operatori economici invitati
alla procedura negoziata, sia, soprattutto,
per ciò che concerne i rapporti fra la
Società San Giorgio Sas e la ditta Lonardi (deliberazione
25.01.2012 n. 7 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
QUESITI &
PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Invio del certificato di malattia:
disciplina telematica.
Domanda
Come funziona il sistema di invio a mezzo
internet del certificato di malattia per il
lavoratore dipendente?
Risposta
Dall'01.02.2011 è pienamente operativa la
disciplina dell'invio telematico dei
certificati di malattia. Da tale data,
infatti, sono applicabili le sanzioni
disciplinari a carico dei medici in caso di
violazione dell'obbligo di inviare la
certificazione di malattia del lavoratore in
via telematica all'INPS. In ogni caso
l'obbligo dell'invio telematico è in vigore
dal mese di luglio 2010.
La nuova procedura di rilascio e
trasmissione dei certificati di assenza per
malattia riguarda sia i lavoratori del
settore privato che pubblico (riguardo il
settore pubblico sono esclusi solo i
dipendenti in regime di diritto pubblico ad
esempio magistrati, personale militare,
forze di polizia di stato...).
Il medico curante acquisisce ed invia
all'INPS le informazioni relative alla
certificazione di malattia telematicamente
attraverso un apposito sistema (SAC/SAR). La
trasmissione del certificato di malattia
telematico comprende obbligatoriamente
l'inserimento da parte del medico curante
dei seguenti dati: il codice fiscale del
lavoratore, la residenza o il domicilio
abituale, l'eventuale domicilio di
reperibilità durante la malattia (se diverso
dalla residenza o dal domicilio abituale al
fine di permettere i controlli medico
fiscali), il codice di diagnosi, la data di
dichiarato inizio malattia, la data di
rilascio del certificato, la data di
presunta fine malattia (nei casi di
accertamento successivo al primo deve essere
indicata la prosecuzione o ricaduta della
malattia), la modalità ambulatoriale o
domiciliare della visita eseguita).
Dopo l'invio all'INPS il sistema informativo
restituisce il numero di protocollo al
medico il quale lo comunica al lavoratore e
rilascia, su sua richiesta, una copia
cartacea del certificato e dell'attestato di
malattia (quest'ultimo è la parte per il
datore di lavoro priva della diagnosi).
L'INPS mette a disposizione dei datori di
lavoro le attestazioni di malattia relative
ai certificati ricevuti con accesso al
servizio informatico. Tale possibilità di
accesso è possibile anche da parte dei
lavoratori attraverso l'assegnato codice
PIN.
I certificati di malattia rilasciati dalle
strutture di pronto soccorso e i documenti
elaborati dagli ospedali al momento del
ricovero e della dimissione, in attesa della
loro informatizzazione, possono essere
redatti in forma cartacea da parte dei
medici ospedalieri. In questo caso il
lavoratore dipendente dovrà recapitare o
consegnare tempestivamente i certificati e
gli attestati secondo le precedenti modalità
direttamente all'INPS e al datore di lavoro
(31.05.2012 - tratto da
www.ispoa.it). |
APPALTI:
In quali casi si richiede il DURC.
Domanda
Il DURC deve essere richiesto per qualsiasi
tipo di fornitura e/o prestazioni di
servizio, e quindi anche per incarichi
professionali?
Deve essere richiesto dall'Amministrazione
Pubblica d'ufficio, o si può ritenere valida
l'autocertificazione o un DURC presentato
dalla ditta?
Risposta
Il DURC non deve essere richiesto per gli
affidamenti di incarichi professionali,
trattandosi di certificazione che mira a
sanzionare, attraverso l'esclusione dalla
gara pubblica, gli imprenditori -datori di
lavoro- non in regola con i versamenti
contributivi verso i propri dipendenti, e,
quindi, in ultima analisi, a scongiurare il
lavoro nero. Il DURC non ha nulla a che
vedere nei confronti dei liberi
professionisti, i quali, peraltro, non solo
prestano la loro opera professionale
personalmente a favore dell'Ente, diventando
del tutto indifferente la presenza di
eventuali collaboratori, e, inoltre, non
hanno posizioni né INPS né INAIL e, quindi,
il DURC non può essere rilasciato.
L'art. 14, comma 6-bis, D.L. 09-02-2012, n.
5 conv. in L. 04-04-2012, n. 35 stabilisce
che "Nell'ambito dei lavori pubblici e
privati dell'edilizia, le amministrazioni
pubbliche acquisiscono d'ufficio il
documento unico di regolarità contributiva
con le modalità di cui all'articolo 43 del
testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di documentazione
amministrativa, di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 28.12.2000,
n.445, e successive modificazioni".
In ambito lavori pubblici e privati
dell'edilizia, il DURC deve essere acquisito
d'ufficio dall'Amministrazione procedente e
non può più essere oggetto di dichiarazione
sostitutiva, in base all'esplicita
disposizione di cui all'art. 14, comma
6-bis, D.L. 09-02-2012, n. 5 conv. in L.
04-04-2012, n. 35. La norma rinvia all'art.
43, D.P.R. 28-12-2000, n. 445, al solo fine
delle modalità di acquisizione d'ufficio di
predetta certificazione.
Quindi, la disposizione è derogatoria del
regime generale che continua a trovare
applicazione per gli appalti pubblici
diversi dai lavori pubblici e privati
dell'edilizia, rappresentato dall'art. 43,
comma 1, D.P.R. 28-12-2000, n. 445 secondo
cui "1. Le amministrazioni pubbliche e i
gestori di pubblici servizi sono tenuti ad
acquisire d'ufficio le informazioni oggetto
delle dichiarazioni sostitutive di cui agli
articoli 46 e 47, nonché tutti i dati e i
documenti che siano in possesso delle
pubbliche amministrazioni, previa
indicazione, da parte dell'interessato,
degli elementi indispensabili per il
reperimento delle informazioni o dei dati
richiesti, ovvero ad accettare la
dichiarazione sostitutiva prodotta
dall'interessato" in combinato disposto
con l'art. 46, D.P.R. 28-12-2000, n. 445 che
sotto la rubrica "Dichiarazioni
sostitutive di certificazioni" dispone "1.
Sono comprovati con dichiarazioni, anche
contestuali all'istanza, sottoscritte
dall'interessato e prodotte in sostituzione
delle normali certificazioni i seguenti
stati, qualità personali e fatti: p)
assolvimento di specifici obblighi
contributivi con l'indicazione
dell'ammontare corrisposto" (29.05.2012
- tratto da www.ipsoa.it). |
NEWS |
VARI: Mail
selvaggia, imprese senza tutela.
Imprese ed enti pubblici senza tutela contro
telefonate, fax e mail selvaggi. La modifica
dell'articolo 4 del codice della privacy
lascia sguarnite persone giuridiche, enti e
associazioni. E non basta sostenere che le
tutele sono appannaggio del contraente o
dell'utente del servizio di comunicazioni.
Dunque difficile sanzionare per trattamento
illecito dei dati delle persone giuridiche.
Queste le conseguenze da trarre anche a
seguito dei decreti legislativi 69 e
70/2012, pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale
del 31.05.2012.
A questo punto si rischia che venga
contestato all'Italia un procedimento di
infrazione per violazione della direttiva
2000/58, che tutela l'abbonato, anche se è
persona giuridica.
Nel frattempo il Garante interviene in
materia di telemarketing e precisa che chi
acquista dati deve verificare che gli
abbonati contattati abbiano espresso il loro
consenso (provvedimento 136 del 05.04.2012).
IMPRESE E P.A. INDIFESE
L'articolo 121 del dlgs 196/2003 (codice
sulla protezione dei dati), apre la sezione
dedicata alla privacy nei servizi di
telecomunicazione e descrive l'ambito di
applicazione delle norme lì contenute (tra
cui l'articolo 130 sulle forme di tutela
contro le comunicazioni indesiderate).
L'articolo 121 limita, dunque, l'ambito
d'applicazione al trattamento di «dati
personali» connesso ai servizi
telecomunicazioni. Se si confronta questa
disposizione con l'articolo 4 del codice
della privacy (dopo le modifiche apportate
dal dl 201/2011) si scopre che per «dato
personale» si intende qualunque
informazione relativa alla sola persona
fisica.
In sostanza rimangono fuori persone
giuridiche, enti e associazioni. Rimane,
quindi, almeno, un'ambiguità legislativa,
con la conseguenza che il trattamento dei
dati relativi a enti collettivi sarebbe
sfornito di tutela e potrebbe essere
utilizzato e conservato addirittura senza
limiti di tempo. Inoltre diventa difficile
applicare sanzioni penali o amministrative
per trattamento illecito dei dati degli enti
collettivi. Eppure la direttiva 2000/58
prevede tutele per gli abbonati (sia persone
fisiche sia persone giuridiche, si veda il «considerando»
n. 12 della direttiva): di qui il rischio di
sanzioni europee all'Italia per inosservanza
della direttiva.
TELEMARKETING
L'azienda che per attività di telemarketing
acquisisce da società specializzate banche
dati con numeri telefonici, deve accertarsi
che gli abbonati abbiano espresso il loro
consenso a ricevere telefonate
pubblicitarie. La responsabilità sull'uso
illecito dei dati potrebbe infatti ricadere
non solo sulla società che li ha venduti, ma
anche sull'azienda che li ha acquistati, che
è da considerare titolare di trattamento,
con le conseguenti responsabilità connesse
al ruolo.
Il Garante privacy è intervenuto, con il
provvedimento n. 136/2012, non ha tra
l'altro ritenuto valida la clausola di
garanzia del fornitore dei dati, che pure ha
dichiarato di tenere indenne la società
acquirente da sanzioni o condanne: si tratta
di clausole ritenute illecite, in quanto
elusive delle norme imperative del Codice
che disciplinano, appunto, obblighi, oneri e
responsabilità del titolare del trattamento.
Il Garante, in conclusione, non solo ha
vietato alla società fornitrice l'ulteriore
utilizzo di numeri telefonici senza un
valido consenso, ma ha anche dichiarato
illecito il trattamento dei dati effettuato
dalla società acquirente, disponendo per
entrambe l'avvio di procedimenti
sanzionatori
(articolo ItaliaOggi
del 02.06.2012). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Regolarità
contributiva sul web. Gli uffici possono
rendere pubblico il Durc che (per ora) ha
validità trimestrale.
Le pubbliche
amministrazioni acquisiscono d'ufficio il
documento unico di regolarità contributiva (Durc),
sia per i contratti pubblici che per i
lavori nel privato. Questa semplificazione
deriva dalla decreto legge 5/2012, articolo
14, comma 6. Tuttavia i privati possono
sempre chiedere il documento unico di
regolarità contributiva per verificare, per
esempio, l'idoneità professionale di
un'impresa.
Il chiarimento arriva dal Ministero del
Lavoro, con una circolare firmata ieri. Alla
stessa conclusione arriva, peraltro, la
circolare 31.05.2012
n. 6/2012 del ministro per la
Pubblica amministrazione.
Il documento destinato ai privati dovrà
essere contrassegnato –a pena di nullità–
dalla dicitura «il presente certificato
non può essere prodotto agli organi della
Pubblica amministrazione o ai privati
gestori di pubblici servizi».
Nella circolare del ministero del Welfare
non hanno trovato risposta le criticità
sollevate durante il Forum lavoro,
organizzato mercoledì dal Sole 24 Ore, dal
Consiglio nazionale dei consulenti e dalla
Fondazione studi di categoria (si veda Il
Sole 24 Ore di giovedì). In particolare,
resta confermato il periodo di validità del
Durc circoscritto a tre mesi. I consulenti
del lavoro, invece, chiedono l'estensione
temporale in modo che le aziende abbiano a
disposizione un periodo maggiore per
regolarizzare in modo spontaneo eventuali
irregolarità nei versamenti, dovute per
esempio a scarsa liquidità o ad altre
difficoltà temporanee. Il direttore generale
per l'Attività ispettiva, Paolo Pennesi, che
ha partecipato al Forum insieme con il
collega Fabrizio Nativi, ha condiviso la
richiesta dei consulenti.
Tuttavia, la circolare di ieri ha scelto di
confermare l'orientamento già espresso dal
ministero nel 2010. Probabilmente si è
arrivati alla conclusione che un documento
dell'amministrazione non è adeguato a
prolungare la validità del Durc. Per altro,
già durante il Forum era emersa
l'impossibilità di modificare per circolare
l'importo oltre il quale il documento di
regolarità contributiva è negativo: oggi il
limite è 100 euro. La cifra –per consulenti
e aziende– è troppo contenuta; un limite un
po' più alto cancellerebbe probabilmente i
documenti di irregolarità collegati a
piccole mancanze o distrazioni.
Quanto al periodo di validità, il ministero
del Lavoro, sulla base della circolare
35/2010, ha ribadito che per le procedure di
selezione del contraente il Durc attesta la
regolarità al momento del rilascio e ha
validità trimestrale rispetto alla gara: è
possibile far riferimento allo stesso
documento anche per aggiudicazione e firma
del contratto purché la certificazione non
sia anteriore a tre mesi. Per ogni fase di
avanzamento lavori o per lo stato finale di
regolare esecuzione occorre il relativo Durc:
su questo si può "appoggiare" il
pagamento, purché nell'arco dei tre mesi.
Nella circolare firmata ieri un capitolo è
dedicato alla «dematerializzazione»:
per risparmiare, ma anche per rendere più
efficiente la comunicazione tra
amministrazioni si dovrà utilizzare sempre
più la posta elettronica certificata, che
comunque diventerà obbligatoria dal 2013.
Infine, la circolare del ministero del
Lavoro spiega come le richieste e i
contenuti del Durc possano essere «accessibili
via web a chiunque abbia un interesse
qualificato, ivi comprese le Casse edili
abilitate». Dunque le amministrazioni
potranno organizzarsi per pubblicare sul web
le verifiche di regolarità contributiva. Il
presupposto è costituito da una previsione
contenuta nel decreto legge 201/2011, che ha
escluso (articolo 40, comma 2) le persone
giuridiche dal campo di applicazione della
privacy. La "pubblicità" riferita a
chiunque abbia un interesse qualificato
potrebbe preludere a una consultazione del
Durc anche da parte di aziende private
(articolo Il Sole 24
Ore
del 02.06.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Stop
regali e più etica nella p.a..
Niente regali agli statali («in connessione
con l'espletamento delle proprie funzioni»),
e disco verde al codice comportamentale per
dirigenti e impiegati che, in caso di
violazioni, rischiano sanzioni fino al
licenziamento. Congelato, invece, lo stop di
tre anni a ex politici e candidati che
aspirano a ricoprire incarichi di vertice
nelle amministrazioni pubbliche.
Fa due
passi avanti e uno indietro il disegno di
legge per la lotta alla corruzione (C 4434-A
e abb.), in votazione nell'aula della
camera, dove tornerà lunedì 4 giugno,
malgrado il Pdl, in disaccordo con alcune
norme governative, avesse chiesto un rinvio.
Via libera ieri a un emendamento del
ministro della funzione pubblica, Filippo
Patroni Griffi, che impone l'adozione di un
regolamento ispirato ai principi
costituzionali di «diligenza, lealtà,
imparzialità e servizio esclusivo alla cura
dell'interesse» generale, secondo cui se
verrà arrecato un danno economico per
condotta scorretta, sarà il dipendente a
doverlo rimborsare di tasca sua; codice
valido anche per le magistrature, toccherà
alle associazioni di categoria o, in caso di
loro inerzia, agli organi di autogoverno
varare le norme di condotta, la cui
violazione comporterà responsabilità
disciplinare. Sì, poi, a dati su opere e
appalti raccolti in file «aperti» ai
cittadini, ma l'esecutivo finisce sotto
quando passa con i voti di Pd, Idv, Lega,
Api e Mpa una proposta che prevede che un
pubblico impiegato che abbia percepito soldi
in maniera indebita sia sottoposto al
giudizio sulla responsabilità erariale da
parte della Corte dei conti.
Stand-by sul divieto di ricorso agli
arbitrati, sulle regole antimafia nelle gare
pubbliche, sul veto di conferire ruoli
dirigenziali per un triennio a chi ha svolto
incarichi politici, o è stato in lizza per
cariche elettive: il governo, riferisce a
ItaliaOggi uno dei relatori Angela Napoli (Fli)
«sta tentando una mediazione coi partiti,
soprattutto con il Pdl. Capisco la posizione
dell'esecutivo, che vuole approvare un testo
così importante con un'ampia maggioranza, ma
il pericolo è che possa essere annacquato».
Lunedì nuovo vertice con i ministri Patroni
Griffi e Paola Severino (Giustizia) e i
rappresentanti dei partiti, per cercare di
superare lo stallo
(articolo ItaliaOggi
dell'01.06.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Sì al cedolino
elettronico.
Possibile la consegna per e-mail, anche
senza Pec. Le precisazioni del ministero in
risposta a un interpello dei consulenti.
Sì al cedolino elettronico. Può essere
consegnato per e-mail, e non necessariamente
posta elettronica certificata (Pec), e può
anche essere reso disponibile in un'area
riservata di un sito web a cui i lavoratori
hanno accesso con password.
Lo precisa il
Ministero del Lavoro nell'interpello
30.05.2012 n.
13/2012.
Il cedolino elettronico. Il ministero
risponde ai consulenti del lavoro che hanno
chiesto di sapere se è possibile, per il
datore di lavoro privato (nella p.a. il
cedolino elettronico è già una realtà),
assolvere agli obblighi della legge n.
4/1953 in merito alla consegna del prospetto
paga, oltre che mediante l'utilizzo della
posta elettronica certificata (soluzione che
ha già ottenuto l'ok del ministero
nell'interpello n. 1/2008, si veda ItaliaOggi del 12.02.2008), anche
attraverso un sito web, dotato di un'area
riservata con accesso consentito al proprio
personale mediante password individuale.
In
particolare, i consulenti chiedono se possa
ritenersi sufficiente la semplice
collocazione dei prospetti di paga di volta
in volta elaborati (contestuale al pagamento
mensile della retribuzione con bonifico
bancario e/o con altro mezzo), nell'apposita
area riservata del sito web, prospetti
consultabili e scaricabili esclusivamente da
parte del lavoratore interessato con una
password individuale.
I chiarimenti.
La risposta è affermativa. Il ministero
richiama i chiarimenti forniti
nell'interpello n. 1/2008 prima di tutto per
ribadirli ma soprattutto per precisare la «legittimità
della consegna del documento anche mediante
posta elettronica non certificata», cioè
a un comune indirizzo e-mail. Analogamente a
quanto avviene in tema di obblighi di
certificazione fiscale del sostituto
d'imposta, spiega il ministero, la legge n.
4/1953 fa riferimento a un obbligo di «consegnare»
il prospetto paga senza alcun richiamo alla
necessità che sia consegnata in forma
cartacea, con la conseguenza che non si
ravvisa uno specifico divieto di trasmettere
al lavoratore il documento per posta
elettronica anche non certificata.
Ciò, aggiunge il ministero, a condizione che
sia garantita al dipendente la possibilità
di entrare nella disponibilità del prospetto
e di poterlo materializzare. Il ministero
precisa poi di «ritenere possibile
l'assolvimento degli obblighi di cui agli
articoli 1 e 3, della legge n. 4/1953 da
parte del datore di lavoro privato anche
mediante la collocazione dei prospetti di
paga su sito web dotato di un'area riservata
con accesso consentito al solo lavoratore
interessato, mediante utilizzabilità di
postazione internet dotata di stampante e
l'assegnazione di apposita password o codice
segreto personale».
Il ministero, inoltre, per garantire la
verifica immediata da parte del lavoratore,
ritiene necessario che della collocazione
mensile dei cedolini risulti traccia nello
stesso sito
(articolo ItaliaOggi
dell'01.06.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Simboli, sì alle variazioni.
Mani libere al gruppo consiliare sulla
modifica. La linea da seguire in
assenza di disciplina statutaria o
regolamentare.
In assenza di una specifica disciplina
statutaria e regolamentare, un gruppo
consiliare di opposizione può modificare o
sostituire il simbolo col quale la lista si
era presentata al corpo elettorale?
La materia concernente la costituzione dei
gruppi consiliari è interamente demandata
allo statuto e al regolamento del consiglio,
nell'ambito della propria autonomia
funzionale ed organizzativa (art. 38, comma
3, dlgs n. 267/2000).
Ne deriva che le problematiche relative alla
costituzione e al funzionamento dei gruppi
consiliari dovrebbero essere valutate alla
stregua delle specifiche norme statutarie e
regolamentari di cui l'ente locale si è
dotato. Pertanto soltanto il consiglio
comunale, nella sua sovranità ed in quanto
titolare della competenza a dettare le norme
cui uniformarsi in tale materia, è abilitato
a fornire un'interpretazione autentica delle
norme statutarie e regolamentari,
pronunciandosi in merito a quanto richiesto.
Nel caso di specie, se lo statuto comunale e
il regolamento non dettano specifiche
disposizioni in materia ma prevedono che i
consiglieri si costituiscano «di regola» nei
Gruppi individuati nelle liste che si sono
presentate alle elezioni e stabiliscono che
i consiglieri possano costituire gruppi non
corrispondenti alle liste elettorali nelle
quali sono stati eletti, sembra di poter
ritenere ammissibile la facoltà di operare
variazioni all'interno degli schieramenti
che possono, dunque, non corrispondere alla
composizione scaturente dalle elezioni.
Il principio generale del divieto di mandato
imperativo sancito dall'art. 67 della
Costituzione, pacificamente applicabile ad
ogni assemblea elettiva, assicura ad ogni
consigliere l'esercizio del mandato ricevuto
dagli elettori, pur conservando verso gli
stessi la responsabilità politica, con
assoluta libertà, ivi compresa quella di far
venir meno l'appartenenza dell'eletto alla
lista od alla coalizione di originaria
appartenenza (Tar Trentino-Alto Adige, sez.
di Trento sent. n. 75 del 2009)
In linea con il principio generale secondo
cui, all'elemento «statico» dell'elezione in
una lista si sovrappone quello «dinamico»,
fondato sull'autonomia politica dei
consiglieri, sono da ritenere in genere
ammissibili anche eventuali mutamenti,
all'interno delle forze politiche, che
comportano altrettanti cambiamenti nei
gruppi consiliari.
Pertanto, la denominazione dei gruppi
consiliari, con eventuale variazione dei
simboli (contrassegni) a cui tali gruppi
fanno riferimento, in assenza di una
specifica disposizione statutaria o
regolamentare, appare rientrare nelle scelte
proprie delle formazioni politiche presenti
in consiglio
(articolo ItaliaOggi
dell'01.06.2012). |
COMPETENZE GESTIONALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Ordinanza
del comandante.
Quesito: il comandante della polizia
municipale può adottare un'ordinanza con la
quale vengono apportate modifiche alla
viabilità urbana?
Il Piano urbano del traffico (Put) –da cui
dovrebbero derivare le eventuali
modificazioni alla viabilità- secondo
quanto previsto dall'art. 36, comma 5, del Cds viene aggiornato ogni due anni. Il
predetto Put, essendo uno strumento di
programmazione e, dunque, a valenza
generale, è demandato all'approvazione degli
organi collegiali del Comune.
Occorre tenere
presente, tuttavia, che l'art. 107, comma 5
del dlgs n. 267/2000 prevede che «le
disposizioni che conferiscono agli organi di
cui al capo I titolo III (consiglio, giunta
e sindaco) l'adozione di atti di gestione e
di atti o provvedimenti amministrativi, si
intendono nel senso che la relativa
competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto
previsto dall'art. 50, comma 3, e dall'art.
54» dello stesso decreto legislativo.
Talché, le competenze assegnate, in
particolare dal codice della strada, al
sindaco (fuori dei casi di cui ai citati
articoli 50 e 54 del dlgs n. 267/2000) si
intendono oggi demandate al dirigente. Sul
punto la giurisprudenza (Tar Lombardia,
sentenza 13/01/2003, n. 904) ha
specificato che «al di fuori dei
provvedimenti contingibili e urgenti, il
sindaco non può adottare un'ordinanza in
materia di viabilità ordinaria, esercitando
altrimenti un atto di gestione che compete
in via esclusiva al dirigente».
In particolare il Tar Lombardia –sezione di
Brescia- con la sentenza 08.01.2011, n. 10
ha ribadito tale principio affermando che
l'art. 7 del codice della strada, che
assegna al sindaco il potere di
regolamentare la circolazione dei veicoli,
va coordinato con la posteriore norma del
già citato art. 107. La competenza del
sindaco in tema di limitazioni della
circolazione deve, quindi, ritenersi
attratta nella competenza propria del
dirigente di settore, in quanto si tratta di
funzioni di gestione ordinaria
(articolo ItaliaOggi
dell'01.06.2012). |
ENTI LOCALI: Patto solo per le società in house.
Obiettivo: evitare aggiramenti delle norme
sulle assunzioni. La recente disciplina dei
servizi pubblici locali palesa una spinta
verso logiche di mercato.
La recente disciplina in materia di servizi
pubblici locali (artt. 3-bis e 4 dl
n. 138/2011 convertito in legge n. 148/2011)
pone un tema di estremo interesse e viva
preoccupazione, non soltanto dal punto di
vista teorico e concettuale ma prim'ancora
sotto il profilo pratico e operativo, per
tutto il mondo delle società pubbliche
operanti nelle public utilities: quello
relativo all'assoggettamento delle «società
cosiddette in house affidatarie dirette
della gestione di servizi pubblici locali
(_) al patto di stabilità interno (...)»
nonché alle «disposizioni che stabiliscono a
carico degli enti locali divieti o
limitazioni alle assunzioni di personale,
contenimento degli oneri contrattuali e
delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per le consulenze anche degli
amministratori»
Senza voler entrare nel merito della scelta
legislativa, riteniamo tuttavia opportuna
una riflessione circa la portata della
disposizione in commento, anche a fronte di
alcuni orientamenti volti a estenderne
l'applicazione anche al di là del dato
letterale.
Non sfugge, infatti, che la norma in
commento riferisce la sua portata precettiva,
non già genericamente alle società a
capitale pubblico (totalitario e/o
maggioritario), bensì solo a una particolare
e specifica categoria di esse: le cosiddette
società in house, in quanto tali affidatarie
dirette di servizi pubblici locali.
Al di là delle valutazioni di merito, ci
sembra piuttosto chiara la ratio antielusiva
della norma: evitare che gli enti locali,
per il tramite della costituzione delle
cosiddette società in house alle quali
affidino direttamente i relativi servizi,
possano aggirare i limiti posti dal Patto di
stabilità e/o dalle norme relative al
cosiddetto blocco delle assunzioni.
Sennonché in taluni casi, è stata
prospettata l'applicazione della
disposizione in commento anche al di là dei
limiti letterali della norma: dunque, alle
società a totale capitale pubblico che
operano non già in via di affidamento
diretto bensì a seguito dell'aggiudicazione
di gare pubbliche ovvero alle società miste
pubblico-private il cui socio privato sia
stato selezionato a seguito di una regolare
procedura di evidenza pubblica.
Ebbene, tale interpretazione non convince
affatto: vuoi perché contrasta con il dato
letterale della norma; vuoi perché i citati
artt. 3-bis e 4 distinguono in modo molto
attento le disposizioni applicabili alle
sole società in house da quelle che invece
hanno una portata più ampia, riferendosi in
generale alle società a partecipazione
pubblica (totalitaria e/o maggioritaria).
Non sfugge, infatti, che lo stesso art. 4
mentre, da un lato, limita l'assoggettamento
al Patto di stabilità alle sole società in
house, dall'altro lato prevede che «le
società a partecipazione pubbliche che
gestiscono servizi pubblici locali (_)»,
indipendentemente dalla natura giuridica e
dal titolo di affidamento, «(_) adottano,
con propri provvedimenti, criteri e modalità
per il reclutamento del personale e per il
conferimento degli incarichi nel rispetto
dei principi di cui all'art. 35, 3°, dlgs
165/2001» o ancora estende l'obbligo di
applicazione del Codice dei contratti
pubblici, oltreché alle società in house
anche «alle società a partecipazione mista
pubblica/privata».
Al di là delle predette, non v'è dubbio che
con l'intervento riformatore in commento, il
legislatore abbia inteso traguardare il
sistema delle società pubbliche verso
logiche di mercato e concorrenziali
(costringendole, sostanzialmente, ad
abbandonare il vecchio alveo delle gestioni
esclusive e protette degli affidamenti
diretti secondo il modulo in house providing):
sul punto basta pensare al favor legislativo
verso la liberalizzazione dei spl e dunque
per la concorrenza nel mercato (in luogo di
quella per il mercato); alla scadenza
anticipata ope legis degli affidamenti non
conformi ai nuovi modelli; al regime dei
divieti per le società affidatarie dirette
di spl.
In questo contesto sarebbe oltremodo
contraddittorio e persino discriminatorio
porre tali vincoli nei confronti di quelle
società la cui stessa sopravvivenza
dipenderà dalla capacità di confrontarsi sul
mercato concorrenziale con tutti gli altri
operatori (pubblici e/o privati).
Sarà, dunque, il mercato l'arbitro ultimo
della virtuosità dell'intero sistema e della
capacità delle attuali società pubbliche di
cambiare passo, abbandonando logiche ormai
anacronistiche per adeguarsi a un assetto
nuovo che tuttavia potrebbe, nell'attuale
panorama delle public utilities italiane,
offrire loro significative prospettive di
crescita industriale.
Una strada, per quanto opinabile (come tutte
le cose della vita), è stata tracciata in
modo abbastanza netto e preciso: sarà
necessario mantenerla e verificare la
capacità di risposta del sistema pubblico
(articolo ItaliaOggi
dell'01.06.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO: Al
bando i regali ai dipendenti pubblici.
Niente regali ai dipendenti pubblici se
connessi all'espletamento delle loro
funzioni, a meno che non siano di valore
modesto e rientrino nei limiti di cortesia.
Lo prevede un emendamento al ddl corruzione
delle commissioni Affari costituzionali e
Giustizia della Camera, stabilendo di
inserire nel codice etico previsto dal
governo «il divieto per tutti i dipendenti
pubblici di chiedere o accettare a qualsiasi
titolo, compensi regali o altre utilità in
connessione con l'espletamento delle proprie
funzioni o dei compiti affidati, fatti salvi
i regali d'uso, purché di modico valore e
nei limiti delle relazioni di cortesia».
La
Camera ha approvato l'art. 1 con cui si
stabilisce la nascita dell'autorità
nazionale anticorruzione. Disco verde anche
all'emendamento che prevede che «ai
magistrati ordinari, amministrativi,
contabili e militari, agli avvocati e
procuratori dello Stato e ai componenti
delle commissioni tributarie è vietata, pena
la decadenza dagli incarichi e la nullità
degli atti compiuti, la partecipazione a
collegi arbitrali o l'assunzione di arbitro
unico».
Un altro emendamento del governo
prevede di disciplinare i casi di non conferibilità
di incarichi dirigenziali ai soggetti
estranei alle amministrazioni che, per un
adeguato periodo di tempo, non inferiore ai
tre anni, antecedente al conferimento,
abbiano fatto parte di organi di indirizzo
politico, abbiano rivestito incarichi
pubblici elettivi o siano stati candidati
agli stessi incarichi, escludendo in ogni
caso il conferimento di incarichi
dirigenziali a coloro che presso le medesime
amministrazioni abbiano svolto incarichi di
indirizzo politico o incarichi pubblici
elettivi, nel periodo immediatamente
precedente al conferimento dell'incarico,
comunque non inferiore ai tre anni
(articolo ItaliaOggi
del 31.05.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Scarichi,
bollino blu fuorigioco.
Dal 10 febbraio scorso il tradizionale
bollino blu è andato definitivamente
fuorigioco. Non può più essere ne richiesto
ne rilasciato agli utenti stradali in quanto
il controllo obbligatorio dei dispositivi di
combustione e scarico degli autoveicoli e
motoveicoli è effettuato esclusivamente al
momento della revisione periodica del mezzo.
Sono state infatti abrogate dal dl 5/2012
tutte le diverse disposizioni locali che
impongono operazioni tecniche ulteriori sul
controllo dello smog dei veicoli.
Lo ha
messo nero su bianco il Ministero dei
Trasporti con la
circolare
30.05.2012 n. 15241 di prot..
L'art. 11, comma 8, del decreto legge
09.02.2012, n. 5, convertito nella legge
04.04.2012, n. 35, ha specificato
chiaramente che a decorrere dall'anno 2012 «il
controllo obbligatorio delle emissioni dei
gas di scarico degli autoveicoli e dei
motoveicoli è effettuato esclusivamente al
momento della revisione obbligatoria
periodica del mezzo».
Per chiarire definitivamente la portata
della semplificazione in relazione alla
vigenza delle diverse e a volte contrastanti
indicazioni locali è però dovuto intervenire
il ministero dei trasporti. La formulazione
della disposizione a parere dell'organo
tecnico centrale lascia spazio a poche
incertezze applicative. Dal 10.02.2012, data
di entrata in vigore del dl semplificazione,
l'unica verifica obbligatoria relativa al
rispetto delle emissioni dei gas di scarico
dei veicoli a motore è quella che si
effettua in occasione della revisione
periodica dei mezzi in conformità all'art.
80 del codice stradale.
In buona sostanza la novella ha tacitamente
abrogato ogni diversa disposizione comunale,
provinciale o regionale inerente al
controllo programmato dello smog prodotto
dai veicoli a combustione. La verifica
periodica del rispetto dei limiti di
emissione, prosegue la circolare a firma del
direttore generale del dipartimento per i
trasporti terrestri, Maurizio Vitelli, si
effettua solo in occasione della revisione
periodica del veicolo.
Qualsiasi operazione tecnica, diversa da
quella di revisione, finalizzata al
controllo delle emissioni di scarico a
parere del ministero deve considerarsi
arbitraria. E pure inefficace il relativo
titolo. In buona sostanza il bollino blu non
ha neppure alcun valore in caso di controllo
stradale
(articolo ItaliaOggi
del 31.05.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti pubblici, codice etico.
Previsto anche il licenziamento per chi non
rispetta i doveri. Emendamenti del governo
al ddl sulla corruzione. Condannati fuori
dalle commissioni d'esame.
Sanzioni che vanno fino al licenziamento per
il dipendente statale che non rispetterà i
doveri costituzionali di «diligenza, lealtà,
imparzialità e servizio esclusivo alla cura
dell'interesse» collettivo. E, se arrecherà
danni patrimoniali all'amministrazione, li
risarcirà di tasca sua.
Una vera e propria
rivoluzione il codice etico per i lavoratori
della p.a. contenuto negli emendamenti del
governo al disegno di legge contro la
corruzione (C. 4434-A e abb.) presentati
ieri, e in votazione da questo pomeriggio
nell'aula della Camera.
Il regolamento,
depositato dal ministro per la Funzione
pubblica, Filippo Patroni Griffi, si rivolge
a impiegati e dirigenti, individuando norme
improntate all'onestà di carattere generale,
ma anche doveri «articolati in relazione
alle funzioni attribuite» alla persona.
L'insieme di principi dovrà essere approvato
con decreto del presidente della repubblica
(previa deliberazione di palazzo Chigi, e
d'intesa con la conferenza Stato-Regioni),
pubblicato in Gazzetta Ufficiale e
consegnato al dipendente, tenuto a
sottoscriverlo all'atto dell'assunzione.
Una
violazione delle norme rappresenterà «fonte
di responsabilità disciplinare», ma sarà
«altresì rilevante ai fini della
responsabilità civile, amministrativa e
contabile ogni volta le stesse
responsabilità siano collegate alla
violazione di doveri, obblighi, leggi o
regolamenti» di cui i lavoratori statali
saranno tenuti all'osservanza. Inoltre,
violazioni gravi o reiterate comporteranno
«l'applicazione delle sanzioni di cui
all'articolo 55-quater, comma 1» (del dlgs
n. 165 del 2001 sull'ordinamento del lavoro
pubblico), ossia il licenziamento
disciplinare; ci sarà anche un codice per
gli appartenenti alla magistratura, e
all'avvocatura dello stato, predisposto
dagli organi di categoria.
E non è tutto. Un'altra norma redatta dal
ministro fissa paletti importanti, poiché
non potranno fare parte, anche con compiti
di segreteria, delle commissioni per
l'accesso o la selezione di pubblici
impieghi, i condannati, anche con sentenza
non passata in giudicato, per reati contro
la pubblica amministrazione (peculato,
malversazione a danno dello stato,
concussione, corruzione, abuso d'ufficio
ecc). Altolà, poi, al loro ingresso negli
uffici preposti alla gestione delle risorse
finanziarie, all'acquisizione di beni,
servizi e forniture, nonché alla concessione
o erogazione di sovvenzioni, contributi,
sussidi, ausili finanziari.
Per Angela Napoli (Fli), relatore del ddl,
sono iniziative «utilissime soprattutto sul
versante della prevenzione dei fenomeni. Mi
auguro il parlamento le approvi, così la
politica potrebbe finalmente segnare una
pagina positiva, dimostrando al paese di
avere senso di responsabilità», dice a ItaliaOggi. Il Pdl chiede che sulla
corruzione per atto contrario al dovere
d'ufficio si torni all'idea governativa di
pena da 3 a 7 anni (in commissione è stata
alzata da 4 a 8) e ripresenta la «salva-Ruby»
(c'è concussione solo se vi è passaggio di
denaro, o altra utilità patrimoniale), poi
ritirata in serata. L'Udc, invece,
«ammorbidisce» il testo di Roberto Giachetti
(Pd) sui limiti ai «fuori ruoli» (ItaliaOggi
di ieri) dei giudici, escludendo incarichi
presso presidenza della Repubblica, Camera,
Senato e Consulta
(articolo ItaliaOggi
del 30.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La firma elettronica diventa
avanzata. Le novità del Codice
dell'amministrazione digitale.
Chi avrebbe mai pensato che con quegli
stessi tablet che oramai «piovono dal cielo»
(come ci ha suggestivamente mostrato la
pubblicità di un importante gestore
telefonico) fosse possibile firmare «a mano
libera» i documenti informatici, con pieno
valore legale ai sensi dell'art. 2702 del
codice civile, senza più vincoli di
smart-cart, certificati che scadono, pin
dimenticati, rischi di furti o smarrimenti,
e utilizzi impropri da parte di terzi contro
i quali sarebbe ben difficile fare
opposizione?
È una delle novità più importanti contenute
nel codice dell'amministrazione digitale
(Cad), disciplinato dal decreto legislativo
n. 82 del 07/03/2005, recentemente
modificato dal dlgs n. 235 del 30/12/2010,
che ha uniformato il sistema della
sottoscrizione elettronica al quadro
comunitario per le firme elettroniche
tracciato dalla direttiva 1999/93/CE,
introducendo la nuova tipologia di Firma
elettronica avanzata.
Le nuove soluzioni di firma «a mano libera»,
che prende il nome di firma «grafometrica»,
sono già in fase avanzata di
sperimentazione. Alcuni Caf e
professionisti, con il supporto tecnico di
software house associate ad Assosoftware,
stanno utilizzando in questi mesi tablet con
standard di sicurezza molto elevati (per
esempio con certificato digitale integrato)
per far apporre ai contribuenti la propria
firma autografa a video direttamente sui pdf
dei modelli 730 e Unico.
Le soluzioni saranno disponibili sul mercato
dopo la pubblicazione del decreto contenente
le regole tecniche del Cad (atteso per fine
giugno) a prezzi assolutamente accessibili.
Per far chiarezza su questa e sulle altre
importanti novità contenute nel nuovo Cad,
sugli scenari che si prospettano anche in
relazione agli adempimenti nei confronti
della pubblica amministrazione, in
particolare dell'Agenzia delle entrate e del
ministero del lavoro, Assosoftware ha
organizzato un convegno dal taglio tecnico
che si terrà a Bologna il 22.06.2012,
presso l'Hotel NH Bologna De La Gare, dal
titolo «Il nuovo cad e le regole tecniche
per la formazione del documento informatico
e per la gestione documentale: analisi
dell'impatto del provvedimento sui sistemi
di conservazione sostitutiva e gestione
documentale. Il confronto con DigitPA,
Agenzia delle entrate e gli esperti del
settore».
Tipologie di firma e valenza probatoria.
Nell'attuale scenario normativo sono
previste quattro tipologie di firma del
documento informatico, che assicurano
diversi livelli sicurezza, cui sono
riconosciuti differenti effetti giuridici la
cui valenza probatoria è espressamente
disciplinata dall'art. 21 del Cad.
Firma elettronica. È la cosiddetta «firma
debole», permette l'identificazione
informatica dell'autore senza l'utilizzo di
un dispositivo fisico di firma.
Valore giuridico: il valore probatorio è
basso ed è liberamente valutabile dal
giudice in fase di giudizio in base a
caratteristiche oggettive di qualità e
sicurezza. I casi di applicazione pratica
sono pochissimi e di solito correlati a
specifiche realtà aziendali.
Firma elettronica avanzata. È un particolare
tipo di firma costituita da un insieme di
dati che, connessi o allegati ad un
documento informatico (es. Pdf), permettono
di garantire l'autenticità del documento,
l'integrità rispetto a successive modifiche
e che assicura il controllo esclusivo dello
strumento fisico di firma e quindi la
paternità giuridica del documento. Valore
giuridico: è quello previsto dall'art. 2702
del codice civile per la scrittura privata.
A livello probatorio l'utilizzo del
dispositivo di firma si presume
riconducibile al titolare, salvo che questi
dia prova contraria.
Firma elettronica qualificata. È un
particolare tipo di Firma elettronica
avanzata basata su un certificato
qualificato, realizzata mediante un
dispositivo sicuro per la creazione della
firma (SSCD), che garantisce
l'identificazione univoca del titolare.
Valore giuridico: il documento è
riconosciuto valido a tutti gli effetti di
legge e soddisfa sia i requisiti dall'art.
2702 del codice civile per la scrittura
privata, che quelli dell'art. 1350, comma 1,
nn. 1-12, del codice civile, per la forma
scritta. È prevista l'inversione dell'onere
della prova, per cui chi intende
disconoscere la sottoscrizione di un
documento deve provare che l'apposizione
della firma è riconducibile ad altri e che
detta apposizione non è imputabile a sua
colpa. Firma digitale.
La Firma digitale è
anch'essa un particolare tipo di Firma
elettronica avanzata, che garantisce
l'identificazione univoca del titolare. Si
basa su un certificato qualificato e su un
sistema di chiavi crittografiche, una
pubblica e una privata, correlate tra loro,
che consente al titolare tramite la chiave
privata e al destinatario tramite la chiave
pubblica, di garantire e verificare la
provenienza e l'integrità di un documento
informatico o di un insieme di documenti
informatici. Grazie a questa caratteristica
il Cad non prevede espressamente l'utilizzo
di un dispositivo sicuro (art. 1, comma 1,
lettera s).
Valore giuridico:
è il medesimo della Firma elettronica
qualificata
(articolo ItaliaOggi
del 30.05.201). |
PUBBLICO IMPIEGO: Giustizia.
Emendamento presentato da Patroni Griffi.
Corruzione, anonimato garantito al
dipendente-spia.
PROCESSO RUBY/
Il Pd punta il dito contro la norma ad
personam del Pdl che ribatte: voi vi siete
rimangiati l'abrogazione della concussione.
L'un contro l'altro armati, ma con un
obiettivo comune: non arretrare (o avanzare,
secondo i punti di vista) rispetto alla
mediazione-Severino. Così si presenta la
«strana» maggioranza alla vigilia del voto
in aula sul ddl anticorruzione: il Pd
presenta emendamenti per aumentare le pene e
la prescrizione, il Pdl per diminuirle e
cancellare alcuni reati, come il traffico di
influenze illecite e la (ex) concussione per
induzione (o per restringerne il campo).
Il
Pd accusa il Pdl di «non perdere il vizio di
norme ad personam» a causa dell'emendamento-Sisto
sulla concussione "patrimoniale" e delle sue
ricadute sul processo-Ruby; il Pdl accusa il
Pd di «incoerenza» perché si è rimangiato un
emendamento «soppressivo» della concussione
che era «in linea con le esigenze europee».
L'opposizione, con Federico Palomba (Idv),
dice che l'emendamento-Sisto è «indecente»
ma «strumentale» perché mira a «deviare
l'attenzione dell'opinione pubblica dal vero
obiettivo: alzare una cortina fumogena sulla
scomparsa della concussione per induzione e
sulla sua trasformazione in un reato meno
grave che porterà all'estinzione molti
processi, compresi quelli a carico di
imputati eccellenti dei partiti di governo
(Berlusconi, Penati ecc. - ndr). Aspettiamo
ancora una risposta del ministro Severino».
Da oggi l'aula della Camera comincia a
votare: i primi 12 articoli riguardano la -non meno importante- prevenzione della
corruzione e (articolo 12) il delicato tema
del rientro in servizio dei magistrati
"fuori ruolo", su cui l'Udc propone di
correggere l'emendamento Giachetti (Pd)
passato in commissione, così da escludere le
toghe in servizio presso il Quirinale, il
Csm e la Consulta dai vincoli sul doppio
mandato.
La vera novità di ieri sono stati
gli 8 emendamenti del governo, più volte
annunciati dal ministro della Pubblica
amministrazione Filippo Patroni Griffi per
rafforzare la prevenzione. Tra questi,
quello sulla garanzia di anonimato
riconosciuta al dipendente pubblico che
segnalerà gli illeciti consumati nella Pa
(sempre che sia in grado di fornire una
prova inconfutabile).
Patroni Griffi propone
poi varie deleghe al governo, per esempio
sui criteri di incompatibilità di dirigenti
e dipendenti con altri incarichi e sul
codice di comportamento dei dipendenti.
Prevede che i bilanci delle diverse
istituzioni e i costi unitari di
realizzazione delle varie opere siano
pubblicati on-line, comprese le informazioni
sui titolari degli incarichi dirigenziali
della pa; l'attuazione del «Piano di
prevenzione della corruzione»; l'esclusione
dei condannati (anche se non definitivi) da
commissioni per l'accesso o la selezione a
posti di pubblico impiego.
Sui primi 11 articoli dovrebbe andare tutto
liscio. Sul 12 potrebbe già sorgere qualche
problema. Ma le scintille sono in programma
sull'articolo 13 (reati e pene). E con il
voto segreto (se richiesto) potrebbero
esserci sorprese per tutti. Di qui
l'ipotesi-fiducia. Gli emendamenti sono meno
numerosi di quelli presentati in
commissione, ma sulla carta molto distanti,
anche dalle posizioni del ministro Severino.
Ieri l'attenzione si è focalizzata sul Pdl,
poiché Francesco Sisto ha ripresentato la "norma-Ruby"
che restringe la nuova concussione per
induzione (creata dal governo in
contrapposizione alla concussione per
costrizione) ai casi in cui vi sia un
«vantaggio» o «un'utilità patrimoniale».
Sisto, però, propone prima di «sopprimere»
la nuova «induzione».
E a chi gli fa notare
che così il colpo di spugna sarebbe
garantito, risponde: «È solo una
provocazione politica, un pretesto per
dimostrare in aula l'incoerenza del Pd che,
con un emendamento poi ritirato, cancellava
del tutto la concussione. Io voglio parlare
di come si è arrivati alla norma-Severino e
mettere in risalto le contraddizioni
politiche rispetto alle esigenze tecniche e
europee. Ma sia chiaro: nessun sabotaggio».
Insomma, per difendere il testo Severino,
bisogna attaccarlo.
---------------
GLI EMENDAMENTI
L'anonimato
Tra gli emendamenti depositati dal ministro
per la Pa Patroni Griffi al Ddl
anticorruzione, quello che prevede la
garanzia del totale anonimato per il
dipendente pubblico che segnalerà gli
illeciti che accadono nella pubblica
amministrazione
Il codice di comportamento
Tra le proposte di modifica di Patroni
Griffi, da segnalare le deleghe al Governo
ad adottare, tra l'altro, un decreto
legislativo sulla Trasparenza nella Pa o per
la creazione di un codice di comportamento
dei dipendenti pubblici
Bilanci online
Tutti i bilanci delle diverse istituzioni e
i costi unitari di realizzazione delle varie
opere dovranno essere pubblicati online.
Comprese le informazioni sui titolari degli
incarichi dirigenziali nelle Pa
(articolo Il Sole 24
Ore
del 30.05.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ai sensi dell’articolo 14 del
Codice della strada, spetta agli enti
proprietari (e ai concessionari delle
autostrade) provvedere alla loro
manutenzione, gestione e pulizia, comprese
le loro pertinenze e arredo, nonché
attrezzature, impianti e servizi e, quindi,
non limitatamente al solo nastro stradale,
ma anche alle piazzole di sosta, onde siano
garantite la sicurezza e la fluidità della
circolazione.
Seppure per un verso non può negarsi
che l’articolo 14 del D.Lgs. 05.02.1997, n.
22, oggi sostituito dall’art. 192 del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152, preveda la
corresponsabilità solidale del proprietario
o del titolare di diritti personali o reali
di godimento sull’area ove sono stati
abusivamente abbandonati o depositati
rifiuti, con il conseguente suo obbligo di
provvedere allo smaltimento ed al
ripristino, solo in quanto la violazione sia
imputabile anche a quei soggetti a titolo di
dolo o colpa, per altro verso
“esigenze di tutela ambientale sottese alla
predetta norma rendono evidente che il
riferimento è a chi è titolare di diritti
reali o personali di godimento va inteso in
senso lato, essendo destinato a comprendere
qualunque soggetto si trovi con l’area
interessata in un rapporto, anche di mero
fatto, tale da consentirgli -e per ciò
stessa imporgli– di esercitare una funzione
di protezione e custodia finalizzata ad
evitare che l’area medesima possa essere
adibita a discarica abusiva di rifiuti
nocivi per la salvaguardia dell’ambiente”;
inoltre, “…il requisito della colpa
postulato da detta norma ben può consistere
proprio nell’omissione degli accorgimenti e
delle cautele che l’ordinaria diligenza
suggerisce per realizzare un’efficacia
custodia e protezione dell’area, così
impedendo che possano essere indebitamente
depositati rifiuti nocivi”.
---------------
Qualora sulla piazzola di sosta di una
strada sia accertato l’abbandono di
materiale (nel caso di specie: eternit
mischiato a terriccio) non può negarsi che
l'ente proprietario della medesima strada
debba adottare tutte le misure e cautele
opportune e necessarie quanto meno per
eliminare tali rifiuti, di cui peraltro non
può neppure negarsi la pericolosità oltre
che per l’ambiente, anche per la stessa
circolazione stradale, tale obbligo
derivando direttamente dall’obbligo di
custodia connesso alla
proprietà/appartenenza della strada, oltre
che dalla previsione dell’art. 14 del D.Lgs.
30.04.1992, n. 285, secondo cui gli enti
proprietari delle strade devono provvedere,
tra l’altro, alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze
e arredo, nonché delle attrezzature,
impianti e servizi.
Secondo un condivisibile indirizzo giurisprudenziale, ai sensi
dell’articolo 14 del Codice della strada,
spetta agli enti proprietari (e ai
concessionari delle autostrade) provvedere
alla loro manutenzione, gestione e pulizia,
comprese le loro pertinenze e arredo, nonché
attrezzature, impianti e servizi e, quindi,
non limitatamente al solo nastro stradale,
ma anche alle piazzole di sosta, onde siano
garantite la sicurezza e la fluidità della
circolazione (C.d.S., sez. IV, 04.05.2011, n. 2677; 13.01.2010, n. 84).
E’ stato del resto puntualmente osservato
(Cass. SS.UU. 25.02.2009, n. 4472)
che, seppure per un verso non può negarsi
che l’articolo 14 del D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, oggi sostituito dall’art. 192
del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, preveda
la corresponsabilità solidale del
proprietario o del titolare di diritti
personali o reali di godimento sull’area ove
sono stati abusivamente abbandonati o
depositati rifiuti, con il conseguente suo
obbligo di provvedere allo smaltimento ed al
ripristino, solo in quanto la violazione sia
imputabile anche a quei soggetti a titolo di
dolo o colpa (in termini, C.d.S., sez. V, 26.01.2012, n. 333; 22.03.2011, n.
4673; 16.07.2010, n. 4614), per altro
verso “esigenze di tutela ambientale sottese
alla predetta norma rendono evidente che il
riferimento è a chi è titolare di diritti
reali o personali di godimento va inteso in
senso lato, essendo destinato a comprendere
qualunque soggetto si trovi con l’area
interessata in un rapporto, anche di mero
fatto, tale da consentirgli -e per ciò
stessa imporgli– di esercitare una funzione
di protezione e custodia finalizzata ad
evitare che l’area medesima possa essere
adibita a discarica abusiva di rifiuti
nocivi per la salvaguardia dell’ambiente”;
è stato poi sottolineato che “…il
requisito della colpa postulato da detta
norma ben può consistere proprio
nell’omissione degli accorgimenti e delle
cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce
per realizzare un’efficacia custodia e
protezione dell’area, così impedendo che
possano essere indebitamente depositati
rifiuti nocivi”.
...
Nel caso di specie, non essendo stato
contestata l’appartenenza
all’Amministrazione Provinciale di Benevento
della strada denominata “Circumlacuale” (che
collega la S.P. Morcono–Cuffiano S.P. ex
S.S. 625, espressamente classificata quale
strada provinciale ai sensi del decreto
dirigenziale n. 142 del 21.07.2009 della
Regione Campania), sulla cui piazzola di
sosta il Comune di Morcone ha accertato
l’abbandono di materiale, precisamente
eternit mischiato a terriccio, non può
negarsi che la predetta Amministrazione
provinciale avrebbe dovuto adottare tutte le
misure e cautele opportune e necessarie
quanto meno per eliminare tali rifiuti, di
cui peraltro non può neppure negarsi la
pericolosità oltre che per l’ambiente, anche
per la stessa circolazione stradale, tale
obbligo derivando direttamente dall’obbligo
di custodia connesso alla
proprietà/appartenenza della strada, oltre
che dalla previsione dell’art. 14 del D.Lgs.
30.04.1992, n. 285, secondo cui gli enti
proprietari delle strade devono provvedere,
tra l’altro, alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze
e arredo, nonché delle attrezzature,
impianti e servizi (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 31.05.2012 n. 3256 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
Ancorché un impianto di
trattamento di rifiuti ricada in altro
vicino comune, non può negarsi che esso
arrechi (o sia astrattamente in grado di
arrecare) disagi e danni non solo agli
appartenenti del comune di ubicazione, ma
anche ai cittadini dei comuni limitrofi:
deve essere pertanto riconosciuta la
legittimazione e l’interesse ad agire anche
al comune limitrofo (a quello in cui è
ubicata o deve essere ubicata una discarica
di rifiuti), quale ente esponenziale della
collettività stanziata sul proprio
territorio e portatore in via continuativa
degli interessi diffusi radicati sul proprio
territorio, non potendo la legittimazione ad
agire essere subordinata alla prova di una
concreta pericolosità dell’impianto.
Secondo un condivisibile indirizzo
giurisprudenziale, da cui la Sezione non
ritiene di doversi discostare, ancorché un
impianto di trattamento di rifiuti ricada in
altro vicino comune, non può negarsi che
esso arrechi (o sia astrattamente in grado
di arrecare) disagi e danni non solo agli
appartenenti del comune di ubicazione, ma
anche ai cittadini dei comuni limitrofi:
deve essere pertanto riconosciuta la
legittimazione e l’interesse ad agire anche
al comune limitrofo (a quello in cui è
ubicata o deve essere ubicata una discarica
di rifiuti), quale ente esponenziale della
collettività stanziata sul proprio
territorio e portatore in via continuativa
degli interessi diffusi radicati sul proprio
territorio (C.d.S., sez. V, 03.05.2006,
n. 2471; 20.02.2006, n. 695), non
potendo la legittimazione ad agire essere
subordinata alla prova di una concreta
pericolosità dell’impianto (C.d.S., sez. VI,
20.05.2004, n. 3262)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.05.2012 n. 3254 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
La valutazione di impatto
ambientale non si sostanzia in una mera
verifica di natura tecnica circa la astratta
compatibilità ambientale dell’opera, ma
implica una complessa e approfondita analisi
comparativa tesa a valutare il sacrificio
ambientale imposto rispetto all’utilità
socio–economica, tenuto conto anche delle
alternative possibili e dei riflessi sulla
stessa c.d. opzione–zero.
In particolare, è stato evidenziato che “la
natura schiettamente discrezionale della
decisione finale (e della preliminare
verifica di assoggettabilità), sul versante
tecnico ed anche amministrativo, rende
allora fisiologico ed obbediente alla ratio
su evidenziata che si pervenga ad una
soluzione negativa ove l’intervento proposto
cagioni un sacrificio ambientale superiore a
quello necessario per il soddisfacimento
dell’interesse diverso sotteso
all’iniziativa; da qui la possibilità di
bocciare progetti che arrechino vulnus non
giustificato da esigenze produttive, ma
suscettibile di venir meno, per il tramite
di soluzioni meno impattanti in conformità
al criterio dello sviluppo sostenibile e
alla logica della proporzionalità tra
consumazione delle risorse naturali e
benefici per la collettività che deve
governare il bilanciamento di istanze
antagoniste.
Non può sostenersi, pertanto, che la
valutazione di impatto ambientale sia un
mero atto (tecnico) di gestione ovvero di
amministrazione in senso stretto, rientrante
come tale nelle attribuzioni proprie dei
dirigenti, trattandosi piuttosto di un
provvedimento con cui viene esercitata una
vera e propria funzione di indirizzo
politico–amministrativo con particolare
riferimento al corretto uso del territorio
(in senso ampio), attraverso la cura ed il
bilanciamento della molteplicità dei
(contrapposti) interessi, pubblici
(urbanistici, naturalistici, paesistici,
nonché di sviluppo economico–sociale) e
privati, che su di esso insistono, come tale
correttamente affidata all’organo di
governo, nel caso di specie la Giunta
regionale.
Com’è
stato recentemente ribadito (C.d.S., sez. IV,
05.07.2010, n. 4246; sez. V, 22.06.2009, n. 4206; VI, 17.05.2006, n. 2851),
alla stregua dei principi comunitari e
nazionali, oltre che delle sue stesse
peculiari finalità, la valutazione di
impatto ambientale non si sostanzia in una
mera verifica di natura tecnica circa la
astratta compatibilità ambientale
dell’opera, ma implica una complessa e
approfondita analisi comparativa tesa a
valutare il sacrificio ambientale imposto
rispetto all’utilità socio–economica,
tenuto conto anche delle alternative
possibili e dei riflessi sulla stessa c.d.
opzione–zero; in particolare (C.d.S., sez. IV,
05.07.2010, n. 4245, cit.), è stato
evidenziato che “la natura schiettamente
discrezionale della decisione finale (e
della preliminare verifica di
assoggettabilità), sul versante tecnico ed
anche amministrativo, rende allora
fisiologico ed obbediente alla ratio su
evidenziata che si pervenga ad una soluzione
negativa ove l’intervento proposto cagioni
un sacrificio ambientale superiore a quello
necessario per il soddisfacimento
dell’interesse diverso sotteso
all’iniziativa; da qui la possibilità di
bocciare progetti che arrechino vulnus non
giustificato da esigenze produttive, ma
suscettibile di venir meno, per il tramite
di soluzioni meno impattanti in conformità
al criterio dello sviluppo sostenibile e
alla logica della proporzionalità tra
consumazione delle risorse naturali e
benefici per la collettività che deve
governare il bilanciamento di istanze
antagoniste (cfr. Cons. St., sez. VI, 22.02.2007, n. 933)”.
Non può sostenersi pertanto che la
valutazione di impatto ambientale sia un
mero atto (tecnico) di gestione ovvero di
amministrazione in senso stretto, rientrante
come tale nelle attribuzioni proprie dei
dirigenti, trattandosi piuttosto di un
provvedimento con cui viene esercitata una
vera e propria funzione di indirizzo
politico–amministrativo con particolare
riferimento al corretto uso del territorio
(in senso ampio), attraverso la cura ed il
bilanciamento della molteplicità dei
(contrapposti) interessi, pubblici
(urbanistici, naturalistici, paesistici,
nonché di sviluppo economico–sociale) e
privati, che su di esso insistono, come tale
correttamente affidata all’organo di
governo, nel caso di specie la Giunta
regionale.
La normativa regionale indicata dal comune
appellante si sottrae pertanto al dubbio di
legittimità costituzionale, in relazione
agli articoli 3 e 97 della Costituzione, per
la prospettata violazione del principio di
separazione della funzione di indirizzo
politico–amministrativo da quella
gestionale–amministrativo di attuazione
della prima, come delineata dall’art. 3 del d.lgs.
03.02.1993, n. 29 e dall’art. 4
del d.lgs. 30.03.2001, n. 165
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.05.2012 n. 3254 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: In
base all'art. 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, “i consiglieri
comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di
minoranza, hanno un diritto di accesso
incondizionato -purché non invada l'ambito
riservato all'apparato amministrativo e non
integri un abuso del diritto- a tutti gli
atti che possano essere "utili"
all'espletamento del loro mandato, anche al
fine di permettere di valutare con piena
cognizione la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'amministrazione, nonché
per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio e per
promuovere, anche nell'ambito del Consiglio
stesso, le iniziative che spettano ai
singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale; sul consigliere comunale, inoltre,
non può gravare alcun onere di motivare le
proprie richieste di accesso atteso che,
diversamente opinando, sarebbe introdotta
una sorta di controllo dell'ente, attraverso
i propri uffici, sull'esercizio del mandato
del consigliere comunale".
---------------
Non appare ostativo all’esercizio del
diritto di accesso dei consiglieri comunali
eventuale norma del regolamento comunale,
dovendo disapplicarsi ogni norma che si
ponga in contrasto con l’interpretazione
dell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000.
Osserva il Collegio che i
ricorrenti sono senz'altro titolari di una
situazione giuridica soggettiva, che li
legittima a domandare l'accesso ai documenti
richiesti, posto che detti atti appaiono
funzionali all'esercizio delle prerogative
connesse al loro mandato di consiglieri
comunali di Cornegliano Laudense.
Ai sensi del primo comma dell'art. 22 della
l. 241/1990, “l'accesso va riconosciuto a
tutti coloro che vantano un interesse
differenziato e qualificato all'ostensione,
finalizzato alla tutela di situazioni
giuridiche soggettive anche soltanto future"
(così. tra le altre, TAR Campania
Napoli, sez. VI, 14.07.2010, n. 16722).
Con specifico riferimento alla posizione del
consigliere comunale, inoltre, appare
espressione di principi consolidati la
massima per cui, in base all'art. 43 del
d.lgs. 18.08.2000 n. 267, “i consiglieri
comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di
minoranza, hanno un diritto di accesso
incondizionato -purché non invada l'ambito
riservato all'apparato amministrativo e non
integri un abuso del diritto- a tutti gli
atti che possano essere "utili"
all'espletamento del loro mandato, anche al
fine di permettere di valutare con piena
cognizione la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'amministrazione, nonché
per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio e per
promuovere, anche nell'ambito del Consiglio
stesso, le iniziative che spettano ai
singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale; sul consigliere comunale, inoltre,
non può gravare alcun onere di motivare le
proprie richieste di accesso atteso che,
diversamente opinando, sarebbe introdotta
una sorta di controllo dell'ente, attraverso
i propri uffici, sull'esercizio del mandato
del consigliere comunale" (cfr. TAR
Lazio Latina, sez. I, 29.04.2011, n.
389; così anche, più di recente, TAR
Campania, Salerno, sent. n. 1840/2011).
Nel caso di specie, la richiesta di accesso
appare adeguatamente circostanziata (facendo
riferimento alla documentazione inerente a
tre specifiche gare di appalto) e le
informazioni derivanti dall’accesso si
connotano come intrinsecamente utili
all’espletamento del mandato di consigliere
comunale, in quanto uno dei tre appalti
indicati, per stessa ammissione
dell’amministrazione resistente, era stato
aggiudicato nel corso del corrente mandato
amministrativo, e gli altri due, per gli
interessi coinvolti (scuola elementare e
centro sportivo comunale), sono direttamente
ricollegabili al generico sindacato
ispettivo riconosciuto ai ricorrenti,
nell’ambito della carica dagli stessi
ricoperta. Né appare ostativo all’esercizio
del diritto di accesso de quo l’art. 21 del
regolamento comunale, dovendo disapplicarsi
ogni norma che si ponga in contrasto con
l’interpretazione dell’art. 43 del d.lgs. n.
267/2000 in questa sede fornita (cfr. Cons.
di Stato, Sez. V, sent. n. 5264 del
09-10-2007).
Peraltro, in relazione alla possibile
elevata mole di documenti da esaminare,
l’Amministrazione potrà regolare le modalità
dell’accesso richiesto al fine di fornire
integralmente le informazioni richieste e
contestualmente concordare con i ricorrenti,
a seguito di visione degli atti, quali siano
gli specifici documenti di cui fornire copia
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 31.05.2012 n. 1505 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il lottizzatore risponde dell'abuso
dell'acquirente.
Responsabilità prolungata.
L'INDICAZIONE/
Per il venditore-lottizzatore il reato cessa
solo con l'interruzione delle ultime
condotte altrui o con il sequestro
preventivo.
Gli autori della lottizzazione abusiva
rispondono anche degli interventi edilizi
illeciti che gli acquirenti possono fare sui
singoli lotti dopo l'acquisto.
Nel mirino
della Corte di Cassazione, con la sentenza
n. 20671/2012,
finiscono 30 anni di speculazione che ha
portato l'isola di Pantelleria a cambiare
faccia fino a trasformare in agglomerato
urbano alcune aree a ridosso del mare, con
la creazione di 120 dammusi totalmente
abusivi.
Interventi fatti malgrado l'esistenza di un
divieto di edificabilità assoluto, di
vincoli paesaggistici e di una dichiarazione
di interesse pubblico a tutela della zona.
A far ricorso in Cassazione, dopo il mancato
accoglimento della richiesta di dissequestro
davanti al Tribunale del riesame, il legale
rappresentante di una società immobiliare
che chiedeva la restituzione di alcune
particelle situate in una vasta area oggetto
della misura cautelare.
Secondo il ricorrente, il reato che gli era
stato contestato (aver partecipato alla
lottizzazione abusiva), doveva considerarsi
prescritto o comunque i suoi effetti
ritenersi esauriti con la vendita degli
immobili o, ancora prima, con la richiesta
di concessione in sanatoria.
Secondo il ricorrente, andavano dunque
esclusi i presupposti per il sequestro delle
proprietà della società e in particolare il
periculum in mora, affermato dal tribunale
di primo grado sulla base delle
caratteristiche di un reato che conservava
attualità per essersi protratto per
lunghissimo tempo.
In linea con l'impostazione dei colleghi di
merito, la Corte di cassazione nega che con
la vendita del dammuso o l'istanza per
ottenere la licenza edilizia si esaurisca
individualmente la responsabilità penale per
gli illeciti commessi dal
lottizzatore-venditore.
Impostazione che, secondo la difesa, farebbe
scattare la prescrizione.
La Suprema corte, invece, sostiene che, nel
caso di una lottizzazione così rilevante e
protratta nel tempo, si è di fronte a un
reato plurimo, cioè posto in atto da più
soggetti, tutti attivi a vario titolo nella
commissione degli illeciti. La Cassazione
ascrive a tutti i partecipanti alla
lottizzazione le azioni, fatte anche da
terzi, per realizzare strade, fognature o
servizi.
Ma, urbanizzazione a parte, la
responsabilità, ai fini della prescrizione,
segue due strade diverse a seconda che si
tratti del lottizzatore-venditore o
dell'acquirente. Il primo è chiamato a
rispondere anche per gli interventi fatti
dai singoli compratori, cosi che il reato
cessa solo quando termina l'illecito altrui
o c'è un sequestro preventivo. Dal punto di
vista della graduazione della
responsabilità, vita più facile per
l'acquirente, che risponde solo di ciò che
fa in prima persona sul proprio lotto. E
linea dura per tutti coloro che in varia
veste concorrono a deturpare il paesaggio
con spericolate operazioni speculative (articolo
Il Sole 24 Ore del 30.05.201). |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE PROGETTUALI:
La progettazione di una villa in cemento
armato e in zona sismica deve ritenersi
rientrare nella competenza professionale di
ingegneri e architetti.
L’atto di convalida –pur costituendo un
nuovo e autonomo provvedimento
amministrativo, come tale impugnabile– non
si sostituisce all’atto convalidato, ma ad
esso si ricollega “al fine di mantenerne
fermi gli effetti fin dal momento in cui
esso venne emanato (c.d. efficacia ex tunc
della convalida); gli effetti giuridici,
pertanto, si imputano all'atto convalidato,
rispetto al quale quello convalidante si
pone soltanto come causa ostativa
all'eventuale annullamento per
illegittimità, sempreché l'amministrazione
non abbia già perso la disponibilità
dell'effetto”.
---------------
Non condivisibile è l'assunto della
sanabilità dei soli vizi formali; ed infatti
il tradizionale orientamento sfavorevole
alla sanabilità dei vizi sostanziali
-fondato sulla disposizione dell'articolo 6
della legge 18.03.1968, n. 249- può
ritenersi superato dall'articolo 21-nonies
della legge n. 241 che non pone limitazioni
in materia, riferendosi genericamente al
provvedimento amministrativo annullabile (e
non ai soli atti viziati da incompetenza o
comunque da vizi di forma), con conseguente
ammissibilità della convalida di vizi
sostanziali, ovviamente allorché il vizio
sia in concreto eliminabile; non può quindi
in linea di principio escludersi che anche
il vizio consistente nella progettazione da
parte di un tecnico non abilitato -che è
vizio non formale ma sostanziale perché la
progettazione ad opera di professionisti
laureati mira a tutelare la sicurezza delle
opere in funzione di tutela di coloro che le
utilizzeranno una volta ultimate- possa
essere convalidato a seguito della verifica
della idoneità del progetto da parte di un
professionista laureato con specifica
assunzione da parte di quest'ultimo della
relativa responsabilità; ed infatti la
giurisprudenza è orientata a ritenere che i
limiti di competenza dei tecnici non
laureati nella progettazione di opere civili
in cemento armato sono inderogabilmente
stabiliti dalla legge non in funzione della
buona qualità dell'edificio dal punto di
vista estetico-funzionale, bensì
dell'esigenza di assicurare l'incolumità
delle persone che lo utilizzeranno una volta
ultimato.
Ciò che conta è, quindi, che i calcoli
relativi alle strutture siano esatti e che
tutte le soluzioni tecniche finalizzate alla
sicurezza degli esseri umani siano idonee;
la circostanza che -anche in via successiva-
vi sia un intervento con cui un tecnico
dotato di adeguata qualificazione verifichi
ed asseveri la sussistenza di queste
condizioni non può pertanto essere escluso.
Di conseguenza la convalida deve essere
annullata e ciò impone l'esame del motivo
proposto con il primo ricorso con cui si è
dedotta la esorbitanza dalle competenze
professionali del geometra della
progettazione dell'immobile in
contestazione.
---------------
Costituisce giurisprudenza assolutamente
pacifica e consolidata che "a norma
dell'art. 16, lett. m), del r.d. 11.02.1929
n. 274, e come si desume anche dalle leggi
05.11.1971 n. 1086 e 02.02.1974 n. 64, che
hanno rispettivamente disciplinato le opere
in conglomerato cementizio e le costruzioni
in zone sismiche, nonché dalla legge
02.03.1949 n. 144 (recante la tariffa
professionale), esula dalla competenza dei
geometri la progettazione di costruzioni
civili con strutture in cemento armato,
trattandosi di attività che, qualunque ne
sia l'importanza, è riservata solo agli
ingegneri ed architetti iscritti nei
relativi albi professionali".
Né questo principio è reso inapplicabile
dalla circostanza che la progettazione del
geometra era accompagnata da una relazione
di calcolo a firma di un ingegnere: infatti
la giurisprudenza ha considerato anche
questa evenienza ribadendo che "i geometri
possono progettare e dirigere lavori
relativi ad opere di cemento armato purché
si tratti di piccole costruzioni accessorie
di costruzioni rurali e di edifici per
industrie agricole che non richiedano
particolari operazioni di calcolo e che per
la loro destinazione non implicano comunque
pericolo per l'incolumità delle persone, a
nulla rilevando che i calcoli di cemento
armato siano stati fatti da ingegnere,
giacché è il professionista incaricato della
generale progettazione e della direzione dei
lavori che si assume la responsabilità anche
dei calcoli delle strutture armate".
... per l'annullamento, quanto al ricorso n.
1124 del 2004, del permesso di costruire n.
93 del 06.05.2004 rilasciato alle
controinteressate per la realizzazione di un
villino unifamiliare;
...
Il Collegio rileva in proposito che l’atto
di convalida –pur costituendo un nuovo e
autonomo provvedimento amministrativo, come
tale impugnabile– non si sostituisce
all’atto convalidato, ma ad esso si
ricollega “al fine di mantenerne fermi
gli effetti fin dal momento in cui esso
venne emanato (c.d. efficacia ex tunc della
convalida); gli effetti giuridici, pertanto,
si imputano all'atto convalidato, rispetto
al quale quello convalidante si pone
soltanto come causa ostativa all'eventuale
annullamento per illegittimità, sempreché
l'amministrazione non abbia già perso la
disponibilità dell'effetto” (così TAR
Lazio, Latina, 05.05.2006, n. 311).
...
Con il primo ricorso (RG 1124/04) la
ricorrente denuncia che il progetto
assentito dal comune è stato redatto da un
geometra in violazione della disciplina
dell’articolo 16 del r.d. 11.02.1929 n. 274
che, per quanto qui interessa, limita la
competenza professionale dei geometri alla
progettazione di “piccole costruzioni
accessorie in cemento armato, che non
richiedono particolari operazioni di calcolo
e per la loro destinazione non possono
comunque implicare pericolo per la
incolumità delle persone”; la tesi della
ricorrente è che nella fattispecie, venendo
in rilievo un edificio di due piani da
adibire a residenza e da realizzare nel
centro di Formia, che ricade in zona
sismica, il limite sopra indicato è
chiaramente superato, cosicché il progetto
avrebbe dovuto essere redatto da un
professionista laureato (cioè un ingegnere o
un architetto).
Come già accennato, il permesso di costruire
impugnato, relativamente al profilo
all’esame, è stato convalidato dal comune su
istanza delle controinteressate: queste
infatti hanno presentato al comune tutti gli
elaborati del progetto originariamente
assentito “timbrati, controfirmati e
asseverati” da un ingegnere e chiesto al
comune la convalida; in data 11.07.2006 il
comune a sua volta –facendo applicazione
dell’articolo 21-nonies della legge
07.08.1990, n. 241– ha operato la convalida
del permesso di costruire “considerato
che, nella legittimità del titolo ad
edificare, e nella considerazione che
l’immobile è stato già realizzato e quasi
completato, sussiste l’interesse pubblico
alla conservazione degli atti”.
Come pure accennato, la ricorrente ha
impugnato la vista convalida con il ricorso
successivo (RG 1233/06).
Le suesposte censure vanno accolte.
Il Collegio condivide infatti, sotto il
profilo difetto d’istruttoria e della
motivazione, l’assunto secondo cui
illegittimamente il comune non ha fornito
una motivazione persuasiva in punto di
interesse pubblico alla convalida né in
alcun modo considerato gli interessi della
ricorrente.
Invero la necessità di ponderare l'interesse
dei controinteressati si deduce
dall'articolo 21-nonies della legge
07.08.1990, n. 241 che, nel disciplinare il
cd. annullamento d'ufficio -che costituisce,
al pari della convalida, uno dei possibile
esiti del procedimento cd. di riesame-
impone, oltre alla sussistenza di ragioni di
interesse pubblico, che si tenga conto degli
interessi dei destinatari e dei
controinteressati.
Non condivisibile è invece l'assunto della
sanabilità dei soli vizi formali; ed infatti
il tradizionale orientamento sfavorevole
alla sanabilità dei vizi sostanziali
-fondato sulla disposizione dell'articolo 6
della legge 18.03.1968, n. 249- può
ritenersi superato dall'articolo 21-nonies
della legge n. 241 che non pone limitazioni
in materia, riferendosi genericamente al
provvedimento amministrativo annullabile (e
non ai soli atti viziati da incompetenza o
comunque da vizi di forma), con conseguente
ammissibilità della convalida di vizi
sostanziali, ovviamente allorché il vizio
sia in concreto eliminabile; non può quindi
in linea di principio escludersi che anche
il vizio consistente nella progettazione da
parte di un tecnico non abilitato -che è
vizio non formale ma sostanziale perché la
progettazione ad opera di professionisti
laureati mira a tutelare la sicurezza delle
opere in funzione di tutela di coloro che le
utilizzeranno una volta ultimate- possa
essere convalidato a seguito della verifica
della idoneità del progetto da parte di un
professionista laureato con specifica
assunzione da parte di quest'ultimo della
relativa responsabilità; ed infatti la
giurisprudenza è orientata a ritenere che i
limiti di competenza dei tecnici non
laureati nella progettazione di opere civili
in cemento armato sono inderogabilmente
stabiliti dalla legge non in funzione della
buona qualità dell'edificio dal punto di
vista estetico-funzionale, bensì
dell'esigenza di assicurare l'incolumità
delle persone che lo utilizzeranno una volta
ultimato.
Ciò che conta è, quindi, che i calcoli
relativi alle strutture siano esatti e che
tutte le soluzioni tecniche finalizzate alla
sicurezza degli esseri umani siano idonee;
la circostanza che -anche in via successiva-
vi sia un intervento con cui un tecnico
dotato di adeguata qualificazione verifichi
ed asseveri la sussistenza di queste
condizioni non può pertanto essere escluso.
Di conseguenza la convalida deve essere
annullata e ciò impone l'esame del motivo
proposto con il primo ricorso con cui si è
dedotta la esorbitanza dalle competenze
professionali del geometra della
progettazione dell'immobile in
contestazione.
Tale motivo è fondato dato che costituisce
giurisprudenza assolutamente pacifica e
consolidata che "a norma dell'art. 16,
lett. m), del r.d. 11.02.1929 n. 274, e come
si desume anche dalle leggi 05.11.1971 n.
1086 e 02.02.1974 n. 64, che hanno
rispettivamente disciplinato le opere in
conglomerato cementizio e le costruzioni in
zone sismiche, nonché dalla legge 02.03.1949
n. 144 (recante la tariffa professionale),
esula dalla competenza dei geometri la
progettazione di costruzioni civili con
strutture in cemento armato, trattandosi di
attività che, qualunque ne sia l'importanza,
è riservata solo agli ingegneri ed
architetti iscritti nei relativi albi
professionali" (Consiglio di Stato, sez.
IV, 22.05.2006, n. 3006).
Né questo principio è reso inapplicabile
dalla circostanza -evidenziata dalle
resistenti- che la progettazione del
geometra era accompagnata da una relazione
di calcolo a firma di un ingegnere: infatti
la giurisprudenza ha considerato anche
questa evenienza ribadendo che "i
geometri possono progettare e dirigere
lavori relativi ad opere di cemento armato
purché si tratti di piccole costruzioni
accessorie di costruzioni rurali e di
edifici per industrie agricole che non
richiedano particolari operazioni di calcolo
e che per la loro destinazione non implicano
comunque pericolo per l'incolumità delle
persone, a nulla rilevando che i calcoli di
cemento armato siano stati fatti da
ingegnere, giacché è il professionista
incaricato della generale progettazione e
della direzione dei lavori che si assume la
responsabilità anche dei calcoli delle
strutture armate" (TAR Abruzzo, Pescara,
02.11.1995, n. 463, TAR Emilia Romagna,
Bologna, II Sez., 17.02.1995 n. 71).
Di conseguenza -venendo nella fattispecie in
rilievo la progettazione di una villa in
cemento armato e in zona sismica- deve
ritenersi che il progetto rientrasse nella
competenza professionale di ingegneri e
architetti (TAR Lazio-Latina, Sez. I,
sentenza 30.05.2012 n. 415 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: a) le amministrazioni preposte alla tutela
del paesaggio e dell’ambiente esercitano una
discrezionalità amplissima, in quanto
correlata a valori primari di rango
costituzionale ed internazionale, sia pure
sindacabile per profili di eccesso di
potere;
b) la ponderazione degli interessi privati
non deve essere giustificata neppure allo
scopo di dimostrare che il sacrificio
imposto sia stato contenuto al minimo
possibile, perché tale giudizio si colloca
all’interno della tutela costituzionale del
paesaggio;
c) l’avvenuta edificazione, il degrado,
l’antropizzazione di una determinata area
non costituiscono ragioni sufficienti per
recedere dall’intento di proteggere i valori
estetici e culturali ad essa legati.
---------------
La sostituzione, da parte del giudice
amministrativo, della propria valutazione a
quella riservata alla discrezionalità
amministrativa costituirebbe ipotesi di
sconfinamento vietato della giurisdizione di
legittimità nella sfera riservata alla p.a.;
conseguentemente, il sindacato sulle
motivazioni delle valutazioni discrezionali
deve rigorosamente svolgersi extrinsecus,
nei limiti della rilevabilità ictu oculi del
vizio di legittimità e mantenuto sul piano
della verifica della non pretestuosità degli
elementi di fatto acquisiti; esso deve,
inoltre, tener distinti i profili
accertativi da quelli valutativi a più alto
tasso di opinabilità.
E’ da premettere, sulla scorta della
consolidata giurisprudenza (cfr. da ultimo
Cons. St., sez. V, 22.03.2012, n. 1640;
sez. IV, 05.07.2010, n. 4246; sez. V, 12.06.2009, n. 3770, Corte giust., 25.07.2008, C-142/07; Corte cost.,
07.11.2007, n. 367), che:
a) le amministrazioni preposte alla tutela
del paesaggio e dell’ambiente esercitano una
discrezionalità amplissima, in quanto
correlata a valori primari di rango
costituzionale ed internazionale, sia pure
sindacabile per profili di eccesso di
potere;
b) la ponderazione degli interessi privati
non deve essere giustificata neppure allo
scopo di dimostrare che il sacrificio
imposto sia stato contenuto al minimo
possibile, perché tale giudizio si colloca
all’interno della tutela costituzionale del
paesaggio (arg. anche dall’art. 1, comma 2,
d.l. n. 5 del 2012);
c) l’avvenuta edificazione, il degrado,
l’antropizzazione di una determinata area
non costituiscono ragioni sufficienti per
recedere dall’intento di proteggere i valori
estetici e culturali ad essa legati.
Conseguentemente sono inammissibili tutte le
censure sollevate dalla ricorrente nella
parte in cui impingono il merito degli
apprezzamenti tecnici discrezionali rimessi
all’autorità di settore: invero, al di fuori
dei tassativi casi in cui si esercita
giurisdizione di merito (art. 134 cod. proc.
amm.), la sostituzione, da parte del giudice
amministrativo, della propria valutazione a
quella riservata alla discrezionalità
amministrativa costituirebbe ipotesi di
sconfinamento vietato della giurisdizione di
legittimità nella sfera riservata alla p.a.;
conseguentemente, il sindacato sulle
motivazioni delle valutazioni discrezionali
deve rigorosamente svolgersi extrinsecus,
nei limiti della rilevabilità ictu oculi del
vizio di legittimità e mantenuto sul piano
della verifica della non pretestuosità degli
elementi di fatto acquisiti; esso deve,
inoltre, tener distinti i profili
accertativi da quelli valutativi a più alto
tasso di opinabilità (cfr. da ultimo, sempre
in materia di tutela paesaggistico
ambientale, Cons. St., sez. V, 22.03.2012, n. 1640; sez. IV,
05.07.2010, n.
4246; più in generale, Cass. sez. un., 17.02.2012, n. 2312 e 2313; Corte cost.,
03.03.2011, n. 175)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.05.2012 n. 3213 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere repressivo, in materia edilizia, ha
natura vincolata e come tale non richiede
(salvo ipotesi eccezionali, una specifica
motivazione a salvaguardia delle aspettative
(inconfigurabili) dei privati, nonché
garanzie partecipative procedimentali
anteriori agli atti repressivi.
Il
collegio non intende discostarsi dal
consolidato indirizzo giurisprudenziale in
forza del quale il potere repressivo, in
materia edilizia, ha natura vincolata e come
tale non richiede (salvo ipotesi eccezionali
non ricorrenti nella specie), una specifica
motivazione a salvaguardia delle aspettative
(inconfigurabili) dei privati, nonché
garanzie partecipative procedimentali
anteriori agli atti repressivi (cfr. da
ultimo Cons. St., sez. V, 11.01.2011,
n. 79; sez. VI, 24.09.2010, n. 7129;
sez. IV, 12.03.2010, n. 1469, sez. II,
19.03.2008, n. 3702/2006)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.05.2012 n. 3213 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’impugnazione di un’ordinanza di
demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali
sia necessario instaurare un
contraddittorio, anche nel caso in cui sia
palese la posizione di vantaggio che
scaturirebbe per il terzo dall’esecuzione
della misura repressiva ed anche quando il
terzo avesse provveduto a segnalare
all’amministrazione l’illecito edilizio da
altri commesso.
Tale orientamento si fonda sulla
considerazione che la qualità di
controinteressato, cui il ricorso deve
essere notificato, va riconosciuta non già a
chi abbia un interesse, anche legittimo, a
mantenere in vita il provvedimento impugnato
e tanto meno a chi ne subisca conseguenze
soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi
dal provvedimento stesso riceva un vantaggio
diretto e immediato, ossia un positivo
ampliamento della propria sfera giuridica.
Va da sé, inoltre, che il riconoscimento di
una posizione di controinteressato non opera
in relazione ad esigenze processuali, ma
deve essere condotto sulla scorta del
cosiddetto elemento "sostanziale", cioè
sulla base dell’individuazione della
titolarità di un interesse analogo e
contrario alla posizione legittimante del
ricorrente, ovvero del cosiddetto elemento
"formale", cioè sulla base della indicazione
nominativa nel provvedimento di colui che ne
abbia un interesse qualificato alla
conservazione.
Traslando tali principi in materia edilizia
-ed in particolare con riguardo a
provvedimenti di natura repressiva di
illecito edilizio,- consegue che i
proprietari confinanti dell’area nella quale
è stato realizzato un manufatto abusivo del
quale è stata ordinata la demolizione
dall’Autorità competente, non rivestono la
posizione giuridica di controinteressati nel
giudizio instaurato per l'annullamento del
provvedimento demolitorio.
---------------
Il principio suddetto non sembra estensibile
al caso non già di un “generico vicino di
casa”, ma di un soggetto il cui diritto di
proprietà risulta direttamente leso da
un’opera edilizia abusiva, come nel caso di
sopraelevazione di un muro in violazione
delle norme sulle distanze tra edifici, che
sia soggetto denunciante nel procedimento
amministrativo, contemplato nel procedimento
e nel provvedimento finale, e che sarebbe
legittimato a impugnare una ipotetica
concessione edilizia che autorizzasse
l’opera, e che pertanto è direttamente
avvantaggiato dal diniego di concessione
edilizia e dall’ordine di demolizione.
In tale prospettiva, un’altra giurisprudenza
ha infatti osservato che il vicino
danneggiato dall’esecuzione di opere
edilizie abusive è soggetto che ha un
interesse qualificato a difendere la propria
posizione giuridica di titolare di un
diritto di proprietà su parti comuni (tetto
condominiale) dell’immobile in cui sono
stati realizzati i lavori, sicché questi
riveste la posizione di controinteressato
rispetto all’impugnazione del provvedimento
di revoca della concessione edilizia in
sanatoria.
Tale giurisprudenza, pur condividendo in
linea di principio l’orientamento secondo
cui in linea di principio il denunciante un
abuso edilizio, o il vicino di casa, non
sono controinteressati nel giudizio proposto
avverso un ordine di demolizione o un atto
di ritiro di un precedente titolo
abilitativo edilizio, osserva che occorre
distinguere, rispetto alla generica
posizione del denunciante o del vicino di
casa, quella del soggetto specificamente e
direttamente danneggiato dall’abuso
edilizio.
Si osserva in tale pronuncia che “il vicino,
sebbene abbia provocato interventi
repressivi o in via di autotutela, non
assume la veste di controinteressato nei
ricorsi che il titolare della concessione
edilizia promuove avverso provvedimenti di
revoca e/o di annullamento di ufficio“.
Tuttavia, secondo tale pronuncia, rispetto
al “vicino che, a motivo della sua
sensibilità civica e culturale, vuole
intraprendere azioni giudiziarie per la
tutela di beni vincolati”, diversa è la
posizione del “vicino che è stato
danneggiato dalla esecuzione delle opere
edilizie realizzate (…). Non si tratta,
quindi, di un vicino qualunque, ma di un
soggetto che ha un interesse qualificato a
difendere la propria posizione giuridica di
titolare di un diritto di proprietà (…)”.
Nella stessa prospettiva si è affermato che
il vicino è controinteressato quando
l’adozione del provvedimento di demolizione,
recante comunque il nominativo del
controinteressato, è stata non solo
sollecitata da un esposto del vicino, ma è
stata anche preceduta da atto prodromico
(comunicazione di avvio di procedimento, a’
sensi dell’art. 7 e ss. della l. 07.08.1990,
n. n. 241) parimenti comunicante il
nominativo del controinteressato predetto,
dovendosi comunque distinguere tra la
posizione di colui che è titolare di un
generico interesse a mantenere efficace il
provvedimento impugnato e la posizione di
colui che dal provvedimento medesimo
viceversa riceve un vantaggio diretto e
immediato (nel caso di specie, il ripristino
delle distanze d’obbligo tra il proprio
edificio e quello del ricorrente), con la
conseguente individuazione della posizione
obbligatoriamente inclusa nel
contraddittorio sia procedimentale che
processuale.
Rilevano pertanto sia il c.d. elemento
“sostanziale” (titolarità di un interesse
analogo e contrario alla posizione
legittimante del ricorrente), sia il c.d.
elemento “formale” (indicazione nominativa
nel provvedimento di colui che ne abbia un
interesse qualificato alla conservazione).
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale, espresso
dal Consiglio di Stato, secondo cui
“nell’impugnazione di un’ordinanza di
demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali
sia necessario instaurare un
contraddittorio, anche nel caso in cui sia
palese la posizione di vantaggio che
scaturirebbe per il terzo dall’esecuzione
della misura repressiva ed anche quando il
terzo avesse provveduto a segnalare
all’amministrazione l’illecito edilizio da
altri commesso” (Cons. St., sez. IV, 06.06.2011 n. 3380; Id., sez. V,
03.07.1995, n. 991).
Tale orientamento si fonda sulla
considerazione che la qualità di
controinteressato, cui il ricorso deve
essere notificato, va riconosciuta non già a
chi abbia un interesse, anche legittimo, a
mantenere in vita il provvedimento impugnato
e tanto meno a chi ne subisca conseguenze
soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi
dal provvedimento stesso riceva un vantaggio
diretto e immediato, ossia un positivo
ampliamento della propria sfera giuridica.
Va da sé, inoltre, che il riconoscimento di
una posizione di controinteressato non opera
in relazione ad esigenze processuali, ma
deve essere condotto sulla scorta del
cosiddetto elemento "sostanziale", cioè
sulla base dell’individuazione della
titolarità di un interesse analogo e
contrario alla posizione legittimante del
ricorrente, ovvero del cosiddetto elemento
"formale", cioè sulla base della indicazione
nominativa nel provvedimento di colui che ne
abbia un interesse qualificato alla
conservazione.
Traslando tali principi in materia edilizia
-ed in particolare con riguardo a
provvedimenti di natura repressiva di
illecito edilizio,- consegue che i
proprietari confinanti dell’area nella quale
è stato realizzato un manufatto abusivo del
quale è stata ordinata la demolizione
dall’Autorità competente, non rivestono la
posizione giuridica di controinteressati nel
giudizio instaurato per l'annullamento del
provvedimento demolitorio.
Tuttavia il principio suddetto non
sembra estensibile al caso non già di un
“generico vicino di casa”, ma di un soggetto
il cui diritto di proprietà risulta
direttamente leso da un’opera edilizia
abusiva, come nel caso di sopraelevazione di
un muro in violazione delle norme sulle
distanze tra edifici, che sia soggetto
denunciante nel procedimento amministrativo,
contemplato nel procedimento e nel
provvedimento finale, e che sarebbe
legittimato a impugnare una ipotetica
concessione edilizia che autorizzasse
l’opera, e che pertanto è direttamente
avvantaggiato dal diniego di concessione
edilizia e dall’ordine di demolizione.
In tale prospettiva, un’altra giurisprudenza
ha infatti osservato che il vicino
danneggiato dall’esecuzione di opere
edilizie abusive è soggetto che ha un
interesse qualificato a difendere la propria
posizione giuridica di titolare di un
diritto di proprietà su parti comuni (tetto
condominiale) dell’immobile in cui sono
stati realizzati i lavori, sicché questi
riveste la posizione di controinteressato
rispetto all’impugnazione del provvedimento
di revoca della concessione edilizia in
sanatoria (Cons. St., sez. VI, 29.05.2007, n. 2742).
Tale giurisprudenza, pur condividendo in
linea di principio l’orientamento secondo
cui in linea di principio il denunciante un
abuso edilizio, o il vicino di casa, non
sono controinteressati nel giudizio proposto
avverso un ordine di demolizione o un atto
di ritiro di un precedente titolo
abilitativo edilizio, osserva che occorre
distinguere, rispetto alla generica
posizione del denunciante o del vicino di
casa, quella del soggetto specificamente e
direttamente danneggiato dall’abuso
edilizio.
Si osserva in tale pronuncia che “il vicino,
sebbene abbia provocato interventi
repressivi o in via di autotutela, non
assume la veste di controinteressato nei
ricorsi che il titolare della concessione
edilizia promuove avverso provvedimenti di
revoca e/o di annullamento di ufficio“. Tuttavia, secondo tale pronuncia, rispetto
al “vicino che, a motivo della sua
sensibilità civica e culturale, vuole
intraprendere azioni giudiziarie per la
tutela di beni vincolati”, diversa è la
posizione del “vicino che è stato
danneggiato dalla esecuzione delle opere
edilizie realizzate (…). Non si tratta,
quindi, di un vicino qualunque, ma di un
soggetto che ha un interesse qualificato a
difendere la propria posizione giuridica di
titolare di un diritto di proprietà (…)”.
Nella stessa prospettiva si è affermato che
il vicino è controinteressato quando
l’adozione del provvedimento di demolizione,
recante comunque il nominativo del
controinteressato, è stata non solo
sollecitata da un esposto del vicino, ma è
stata anche preceduta da atto prodromico
(comunicazione di avvio di procedimento, a’
sensi dell’art. 7 e ss. della l. 07.08.1990, n. n. 241) parimenti comunicante il
nominativo del controinteressato predetto,
dovendosi comunque distinguere tra la
posizione di colui che è titolare di un
generico interesse a mantenere efficace il
provvedimento impugnato e la posizione di
colui che dal provvedimento medesimo
viceversa riceve un vantaggio diretto e
immediato (nel caso di specie, il ripristino
delle distanze d’obbligo tra il proprio
edificio e quello del ricorrente), con la
conseguente individuazione della posizione
obbligatoriamente inclusa nel
contraddittorio sia procedimentale che
processuale.
Rilevano pertanto sia il c.d. elemento
“sostanziale” (titolarità di un interesse
analogo e contrario alla posizione
legittimante del ricorrente), sia il c.d.
elemento “formale” (indicazione nominativa
nel provvedimento di colui che ne abbia un
interesse qualificato alla conservazione)
(Cons. St., sez. IV, 13.07.2011, n. 4233) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.05.2012 n. 3212 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’A.V.C.P., quando viene a
conoscenza del provvedimento di esclusione
disposto dalla stazione appaltante e
dell’eventuale dichiarazione non veritiera
resa dall’operatore economico, procede alla
puntuale e completa annotazione dei
contenuti nel casellario informatico, «salvo
il caso che consti l’inesistenza in punto di
fatto dei presupposti o comunque l’inconferenza
della notizia comunicata dalla stazione
appaltante».
Tuttavia, prima di disporre l’iscrizione nel
casellario, l’Autorità procede (rectius:
deve procedere) alle verifiche del caso». Ed
il potere dell’Autorità è esclusivamente
quello di rilevare la «pertinenza della
notizia segnalata dalle stazioni appaltanti»
al fine di evitare «il cosiddetto falso
innocuo, cioè la falsa dichiarazione su
fatti e circostanze irrilevanti ai fini
della assegnazione della gara».
Con la determinazione del 10.01.2008, n. 1, il cui contenuto è
stato ribadito nella successiva
determinazione del 21.05.2009, n. 5,
l’Autorità ha affermato che –quando viene a
conoscenza del provvedimento di esclusione
disposto dalla stazione appaltante e
dell’eventuale dichiarazione non veritiera
resa dall’operatore economico– procede alla
puntuale e completa annotazione dei
contenuti nel casellario informatico, «salvo
il caso che consti l’inesistenza in punto di
fatto dei presupposti o comunque l’inconferenza
della notizia comunicata dalla stazione
appaltante».
Questo Consiglio, con recenti orientamenti,
ha condiviso questa interpretazione
riconsiderando «la tesi del carattere
meramente consequenziale e necessitato
dell’iscrizione nel casellario informatico»
e stabilendo che «prima di disporre
l’iscrizione nel casellario, l’Autorità
procede (rectius: deve procedere) alle
verifiche del caso» (Cons. Stato, sez. VI,
05.07.2010, n. 4243; nello stesso senso
Cons. Stato, sez. VI, 03.02.2011, n.
782).
La stessa giurisprudenza, con
affermazione che questo Collegio condivide,
ha, però, puntualizzato che il potere
dell’Autorità è esclusivamente quello di
rilevare la «pertinenza della notizia
segnalata dalle stazioni appaltanti» al fine
di evitare «il cosiddetto falso innocuo,
cioè la falsa dichiarazione su fatti e
circostanze irrilevanti ai fini della
assegnazione della gara» (Cons. Stato, Sez. VI,
06.05.2011, n. 3361) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.05.2012 n. 3200 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sul potere dell'Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici di rilevare
la pertinenza della notizia segnalata dalle
stazioni appaltanti al fine di evitare il
cosiddetto falso innocuo.
Sui presupposti richiesti ai fini
dell'iscrizione nel casellario informatico.
L'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici quando viene a conoscenza del
provvedimento di esclusione disposto dalla
stazione appaltante e dell'eventuale
dichiarazione non veritiera resa
dall'operatore economico procede alla
puntuale e completa annotazione dei
contenuti nel casellario informatico, "salvo
il caso che consti l'inesistenza in punto di
fatto dei presupposti o comunque l'inconferenza
della notizia comunicata dalla stazione
appaltante".
Il potere dell'Autorità, però, è
esclusivamente quello di rilevare la
"pertinenza della notizia segnalata dalle
stazioni appaltanti" al fine di evitare "il
cosiddetto falso innocuo, cioè la falsa
dichiarazione su fatti e circostanze
irrilevanti ai fini della assegnazione della
gara".
---------------
L'art. 4 del d.l. n. 70/2011 -oltre ad avere
modificato l'art. 38, c. 1, lett. g),
stabilendo che le violazioni ivi indicate
devono essere gravi- ha introdotto il c.
1-ter nell'art. 38 del d.lgs. n. 163 del
2006, il quale prevede che l'Autorità
dispone l'iscrizione soltanto se ritiene che
la falsa dichiarazione (o falsa
documentazione) sia stata resa con dolo o
colpa grave "in considerazione della
rilevanza o della gravità dei fatti oggetto
della falsa dichiarazione o della
presentazione di falsa documentazione".
La nuova previsione -cambiando la natura dei
poteri di verifica dell'Autorità mediante
una chiara e netta differenziazione tra
requisiti di partecipazione alle procedure
di gara e presupposti richiesti ai fini
dell'iscrizione nel casellario informatico-
ha confermato che prima di tale modifica il
potere dell'Autorità avesse una portata
limitata (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.05.2012 n. 3200 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1) qualsiasi installazione su suolo
pubblico, compresa la collocazione di
cartelli pubblicitari, è soggetta al
preventivo rilascio di un atto concessorio.
Nel caso dei cartelli pubblicitari –la cui
disciplina non è
regolata soltanto alle disposizioni del
Codice della Strada, ma anche da diverse norme (artt. 3, 12) del
D.lgs. 15.11.1993, n. 507– non può
quindi ammettersi la sufficienza di una
domanda di installazione (sia pure corredata
dalla documentazione tecnica prescritta
dalla legge), dovendosi, di contro,
pienamente esplicare da parte
dell’Amministrazione un’attività valutativa
secondo canoni di discrezionalità tecnica.
La rilevanza di tale momento valutativo è
comprovata dall’inammissibilità di un
provvedimento concessorio per silentium e dalla necessaria
verifica sulla concedibilità del suolo
pubblico;
2) L’installazione di impianti pubblicitari
–ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. 15.11.1993, n. 507– è da ritenere
attività “contingentata” e, come
tale, è pretermessa dalla disciplina
liberistica di cui all’art. 19 della legge 07.08.1990,
n. 241.
Il Collegio osserva quanto
segue:
1) qualsiasi installazione su suolo
pubblico, compresa la collocazione di
cartelli pubblicitari, è soggetta al
preventivo rilascio di un atto concessorio.
Nel caso dei cartelli pubblicitari –la cui
disciplina, contrariamente a quanto
sostenuto dalla società ricorrente, non è
regolata soltanto alle disposizioni del
Codice della Strada, ma anche, come si vedrà
appresso, da diverse norme (artt. 3, 12) del
D.lgs. 15.11.1993, n. 507– non può
quindi ammettersi la sufficienza di una
domanda di installazione (sia pure, come ha
affermato la società ricorrente, corredata
dalla documentazione tecnica prescritta
dalla legge), dovendosi, di contro,
pienamente esplicare da parte
dell’Amministrazione un’attività valutativa
secondo canoni di discrezionalità tecnica.
La rilevanza di tale momento valutativo è
comprovata dall’inammissibilità di un
provvedimento concessorio per silentium
(cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV, 23.01.2009, n. 208) e dalla necessaria
verifica sulla concedibilità del suolo
pubblico (in tal senso cfr. TAR Lombardia-Milano, sez. IV, 12.11.2007, n. 6242;
id., sez. III, 19.11.2004, n. 6048);
2) L’installazione di impianti pubblicitari
–ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. 15.11.1993, n. 507– è da ritenere
attività “contingentata” (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 29.04.2009 n. 2723) e, come
tale, è pretermessa dalla disciplina
liberistica di cui all’art. 19 della legge 07.08.1990,
n. 241
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.05.2012 n. 1474 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: E'
configurabile un obbligo generale di
astensione dei membri di collegi
amministrativi o dei titolari di organi
monocratici che si vengano a trovare in
posizione di conflitto di interessi perché
portatori di interessi personali, diretti o
indiretti, in contrasto anche potenziale con
l’interesse pubblico.
Il conflitto d’interessi, nei suoi termini
essenziali valevoli per ciascun ramo del
diritto, si individua nel contrasto tra due
interessi facenti capo alla stessa persona,
uno dei quali di tipo «istituzionale» ed un
altro di tipo "personale".
La ratio di tale obbligo va ricondotta al
principio costituzionale dell’imparzialità
dell’azione amministrativa sancito dall’art.
97 Cost., a tutela del prestigio
dell’amministrazione che deve essere posta
al di sopra del sospetto, e costituisce
regola tanto ampia quanto insuscettibile di
compressione alcuna.
Tale principio deve essere però coordinato
con quello, parimenti ricorrente, secondo
cui la presentazione di denunce, querele o
altre analoghe iniziative da parte del
dipendente (ovvero, come nel caso di specie,
da parte del datore di lavoro nei confronti
del dipendente), nei confronti dei soggetti
incaricati del procedimento disciplinare
(ovvero della parte nei confronti del
giudice investito per legge della
controversia), non sostanzia ex se una
situazione di grave inimicizia o di
incompatibilità personale, financo
nell’ipotesi in cui il capo dell’ufficio
giudiziario sia chiamato a giudicare
l’imputato dipendente per fatti commessi
nella medesima sede giudiziaria; in tutti
questi casi, onde evitare di lasciare
l’amministrazione (e gli interessi pubblici
ad essa affidati), in balia di iniziative
unilaterali, dilatorie e strumentali, non si
ravvisa l’interesse privato e personale del
titolare dell’organo, che è indispensabile
affinché si configuri il presupposto
dell’obbligo di astensione.
La Comunità Montana "Alto Molise" ha
sospeso cautelarmente dal servizio il signor
A.P. –segretario generale dell’ente– a
seguito della comunicazione, effettuata ex
art. 129 disp. att. c.p.p. dalla procura
della Repubblica presso la pretura
circondariale di Isernia, relativa alla
citazione a giudizio del signor P. per il
reato di oltraggio a pubblico ufficiale
(art. 342 c.p. nel testo ratione temporis
vigente), commesso in danno del presidente e
di alcuni degli assessori presenti alla
seduta di giunta del 05.01.1993 (cfr.
determinazione del presidente della Comunità
prot. n. 3532 del 14.09.1993).
...
In linea generale, secondo la consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da
ultimo Cons. St., sez. IV, 28.01.2011, n.
693; sez. V, 16.11.2010, n. 8059; sez. V,
13.06.2008, n. 2970), è configurabile un
obbligo generale di astensione dei membri di
collegi amministrativi o dei titolari di
organi monocratici che si vengano a trovare
in posizione di conflitto di interessi
perché portatori di interessi personali,
diretti o indiretti, in contrasto anche
potenziale con l’interesse pubblico.
Il conflitto d’interessi, nei suoi termini
essenziali valevoli per ciascun ramo del
diritto, si individua nel contrasto tra due
interessi facenti capo alla stessa persona,
uno dei quali di tipo «istituzionale»
ed un altro di tipo "personale" (cfr.
Cass., 18.05.2001, n. 6853 in materia
condominiale; Cass. 28.12.2000, n. 16205, su
casi di conflitto di interessi relativi a
titolari di cariche pubbliche).
La ratio di tale obbligo va
ricondotta al principio costituzionale
dell’imparzialità dell’azione amministrativa
sancito dall’art. 97 Cost., a tutela del
prestigio dell’amministrazione che deve
essere posta al di sopra del sospetto, e
costituisce regola tanto ampia quanto
insuscettibile di compressione alcuna.
Tale principio deve essere però coordinato
con quello, parimenti ricorrente, secondo
cui la presentazione di denunce, querele o
altre analoghe iniziative da parte del
dipendente (ovvero, come nel caso di specie,
da parte del datore di lavoro nei confronti
del dipendente), nei confronti dei soggetti
incaricati del procedimento disciplinare
(ovvero della parte nei confronti del
giudice investito per legge della
controversia), non sostanzia ex se
una situazione di grave inimicizia o di
incompatibilità personale, financo
nell’ipotesi in cui il capo dell’ufficio
giudiziario sia chiamato a giudicare
l’imputato dipendente per fatti commessi
nella medesima sede giudiziaria (cfr. Cass.
pen., sez. VI, 01.12.2010, n. 44644; Cons.
St., sez. IV, 12.06.2007, n. 3308; Cass. pen.,
sez. III, 18.06.2003, n. 30443; Cons. St.,
sez. VI, 14.05.1997, n. 718); in tutti
questi casi, onde evitare di lasciare
l’amministrazione (e gli interessi pubblici
ad essa affidati), in balia di iniziative
unilaterali, dilatorie e strumentali, non si
ravvisa l’interesse privato e personale del
titolare dell’organo, che è indispensabile
affinché si configuri il presupposto
dell’obbligo di astensione.
Facendo applicazione dei su esposti principi
al caso di specie non emerge che il
presidente dell’ente, in occasione della
emanazione del provvedimento di sospensione
cautelare, abbia preso un interesse privato;
invero:
a) l’esercizio del potere è stato attivato a
seguito della conoscenza dell’avvenuto
rinvio a giudizio del segretario generale
per un fatto attribuito a quest’ultimo
nell’esercizio delle proprie funzioni;
b) investito formalmente dalla procura della
Repubblica, il titolare dell’organo aveva il
dovere di procedere assumendo una
determinazione formale ai sensi dell’art. 2,
l. n. 241 del 1990 (quale ne fosse il
contenuto, cfr. negli esatti termini in
relazione a sospensione cautelare
facoltativa dal servizio per pendenza del
procedimento penale, Cons. St., sez. IV, n.
6819 del 2007);
c) non è dimostrata l’utilità egoistica che
il titolare dell’organo avrebbe tratto
dall’emanazione del contestato
provvedimento;
d) non risulta che il presidente dell’ente
si sia costituito parte civile nel giudizio
penale (atteso il carattere plurioffensivo
del reato in questione, cfr. Cass. pen.,
sez. VI, 19.01.1993, Pizziconi), ovvero sia
intervenuto come persona offesa, assumendo
così la veste di controparte processuale del
P.
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.05.2012 n. 3133 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L’articolo 28 del dlgs. n. 165/2001 prevede
che l’accesso alla qualifica dirigenziale
avviene mediante procedura pubblica, cui
vanno ammessi concorrenti muniti di laurea.
Tale disposizione, rivolta direttamente alle
amministrazioni statali, risulta applicabile
anche alla dirigenza locale, in virtù
dell’articolo 88 del dlgs. n. 267/2000 che,
entrato in vigore il 13.10.2000, aveva
già esteso il complesso di principi e
disposizioni della legge quadro sul pubblico
impiego (e successive modificazioni) al
mondo delle autonomie con una formula
amplissima «…all'ordinamento degli uffici e
del personale degli enti locali, ivi
compresi i dirigenti e i segretari comunali
e provinciali, si applicano le disposizioni
del decreto legislativo 03.02.1993, n.
29, e successive modificazioni ed
integrazioni…».
Giova osservare che, all’attualità,
l’articolo 28 del dlgs. n. 165/2001 prevede
che l’accesso alla qualifica dirigenziale
avviene mediante procedura pubblica, cui
vanno ammessi concorrenti muniti di laurea.
Tale disposizione, rivolta direttamente alle
amministrazioni statali, risulta applicabile
anche alla dirigenza locale, in virtù
dell’articolo 88 del dlgs. n. 267/2000 che,
entrato in vigore il 13.10.2000, aveva
già esteso il complesso di principi e
disposizioni della legge quadro sul pubblico
impiego (e successive modificazioni) al
mondo delle autonomie con una formula
amplissima «…all'ordinamento degli uffici e
del personale degli enti locali, ivi
compresi i dirigenti e i segretari comunali
e provinciali, si applicano le disposizioni
del decreto legislativo 03.02.1993, n.
29, e successive modificazioni ed
integrazioni…».
Assume rilievo, però, la circostanza che
nessuna delle due disposizioni succedutesi
nel tempo, era vigente per i comuni
all’epoca del bando di concorso interno, per
titoli tesi e colloquio, per la copertura
del posto di dirigente delle attività
finanziarie e contabili, atteso esso che è
stato bandito dal Comune di Formia con
deliberazione della G.M. n. 102 del 12.04.2000.
Il quadro normativo vigente all’epoca di
approvazione del bando in questione era,
invero, indefinito, poiché la dirigenza
locale non disponeva di disciplina
differenziata rispetto al personale
inquadrato nei livelli, né di norme di
rinvio alla disciplina dell’accesso alla
dirigenza statale, salvo un generico
riferimento all’articolo 51, comma 8), della
legge n. 142/1990 («… rimane riservata alla
legge la disciplina dell'accesso al rapporto
di pubblico impiego…»), con riferimento,
nella specie, al DPR n. 487/1994, che
all’art. 1, comma 1, attribuisce alle
singole amministrazioni l’individuazione,
nei bandi, dei «…requisiti soggettivi
generali e particolari per l'ammissione
all'impiego» (articolo 2, comma 3).
Vigeva, inoltre, per gli enti locali, una
disposizione legislativa derogatrice alla
regola del concorso pubblico, rimessa alla
autonomia dell’ente locale: L’articolo 6,
comma 12, della legge 127 del 15.05.1997, legittimava infatti gli enti locali
economicamente sani a prevedere concorsi
interamente riservati al personale
dipendente: «Gli enti locali che non versino
nelle situazioni strutturalmente deficitarie
possono prevedere concorsi interamente
riservati al personale dipendente, solo in
relazione a particolari profili o figure
professionali caratterizzati da una
professionalità acquisita esclusivamente
all'interno dell'ente».
Tale norma era volta ad identificare unità
di personale, per consentire loro uno
speciale sviluppo professionale, interamente
riservato, in relazione ad una
professionalità acquisita tutta all’interno,
per la particolare natura del ruolo
rivestito. .
Dalla disamina effettuata si deve concludere
che la deliberazione n. 102/2000 del comune
di Formia non si presenta di per sé, ratione
temporis, in contrasto con le disposizioni
che regolavano all’epoca della sua adozione
l’accesso alla dirigenza locale, in quanto
la deroga al concorso pubblico trovava
legittimazione nella disposizione
dell’articolo 6, comma 12, della legge n.
127 del 15.05.1997, applicabile anche ai
dirigenti per il suo carattere di principio ordinamentale.
Il divieto alla assunzione di dirigenti, in
deroga al ricorso al pubblico concorso, è
invece divenuto cogente per gli enti locali
solo successivamente al 13.10.2000, a
termini dell’art. 88 del T.U.E.L. approvato
con dlgs. n. 267 del 18.08.2000, che ha
esteso agli stessi le limitazioni imposte
per la dirigenza statale dal dlgs. n. 29 del
03.02.1993 e, successivamente,
dall’articolo del dlgs. n. 165/2001 (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.05.2012 n. 3125 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sul requisito generale della
competenza della commissione di gara.
L'art. 84 del D.Lgs. n. 163/2006, dispone
che i membri della commissione di gara siano
"esperti" nello specifico settore
oggetto del contratto. Il requisito generale
della competenza nello specifico settore al
quale si riferisce l'oggetto del contratto,
richiesta anche per i componenti interni,
tuttavia, deve valutarsi compatibilmente con
la struttura degli enti locali senza
esigere, necessariamente, che l'esperienza
professionale copra tutti gli aspetti
oggetto della gara.
Nel caso di specie, la "ratio" della
norma appare rispettata, atteso che i
componenti della Commissione risultano
appartenenti all'area tecnico-ambientale e a
quella tecnico-amministrativa (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.05.2012 n. 3124 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
In merito ai componenti della
commissione di gara,
il requisito generale della
competenza nello specifico settore al quale
si riferisce l'oggetto del contratto,
richiesta anche per i componenti interni,
deve valutarsi compatibilmente con la
struttura degli enti locali senza esigere,
necessariamente, che l'esperienza
professionale copra tutti gli aspetti
oggetto della gara.
E’ infondato il quarto motivo con il quale,
ai sensi dell'art. 84 del D.Lgs. n.
164/2006, si afferma l'incompetenza dei
componenti della commissione di gara.
Come evidenziato dalla prevalente
giurisprudenza, il requisito generale della
competenza nello specifico settore al quale
si riferisce l'oggetto del contratto,
richiesta anche per i componenti interni,
deve valutarsi compatibilmente con la
struttura degli enti locali senza esigere,
necessariamente, che l'esperienza
professionale copra tutti gli aspetti
oggetto della gara.
Nella fattispecie, la “ratio” della
norma appare rispettata, atteso che i
componenti della Commissione risultano
appartenenti all'area tecnico-ambientale e a
quella tecnico-amministrativa (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.05.2012 n. 3124 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le controversie inerenti la
contestazione degli oneri di urbanizzazione,
solo qualora non vengano dedotte censure
derivanti da atti generali autoritativi di
determinazione degli oneri presupposti di
quello impugnato, attengono a posizioni di
diritto soggettivo azionabili innanzi al
G.A. in sede di giurisdizione esclusiva nel
termine di prescrizione.
Pertanto, quando si intenda contestare
l’applicazione del contributo per vizi
derivanti da atti autoritativi generali,
presupposti di quello impugnato, in
relazione ai quali la posizione
dell’interessato è qualificabile di
interesse legittimo, perché il motivo
dedotto è l’illegittimità
dell’assoggettamento, anche nel quantum,
all’onere di urbanizzazione di una
concessione edilizia, il ricorso deve essere
proposto entro il termine di decadenza.
Come correttamente ritenuto dai giudici di
prime cure, la deliberazione n. 58/1992 del
Consiglio comunale di Sarzana è da
considerarsi un atto autoritativo e, come
tale, soggetto all’ordinario termine di
decadenza ai fini della sua impugnazione.
Le controversie inerenti la contestazione
degli oneri di urbanizzazione, solo qualora
non vengano dedotte censure derivanti da
atti generali autoritativi di determinazione
degli oneri presupposti di quello impugnato,
attengono a posizioni di diritto soggettivo
azionabili innanzi al G.A. in sede di
giurisdizione esclusiva nel termine di
prescrizione.
Pertanto, quando si intenda contestare
l’applicazione del contributo per vizi
derivanti da atti autoritativi generali,
presupposti di quello impugnato, in
relazione ai quali la posizione
dell’interessato è qualificabile di
interesse legittimo, perché il motivo
dedotto è l’illegittimità
dell’assoggettamento, anche nel quantum,
all’onere di urbanizzazione di una
concessione edilizia, il ricorso deve essere
proposto entro il termine di decadenza.
Nella specie l’impugnativa, laddove è stata
proposta in relazione al fatto che la
determinazione degli oneri concessori
avrebbe fatto seguito alla illegittimità
della deliberazione comunale, recante i
criteri di definizione degli oneri stessi,
avrebbe dovuto essere proposta nel
prescritto termine decadenziale (Consiglio
di Stato, Sez. V, 03.05.2006, n. 2463)
E altresì da considerare che l’eventuale
disapplicazione della delibera comunale
avrebbe comportato una violazione di
principi di rango costituzionale, in quanto
avrebbe minato “la certezza dell’azione
amministrativa, esponendola per un lasso di
tempo decennale alla impugnazione di atti
autoritativi e creando disparità di
trattamento in situazioni identiche”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.05.2012 n. 3122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un'area è suscettibile di
ulteriore edificazione soltanto nel caso in
cui la costruzione già realizzata non
esaurisca la volumetria già consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio
dell'ulteriore concessione edilizia.
Il calcolo della volumetria realizzabile su
di un lotto edificabile deve essere operato
detraendo dalla cubatura richiesta quella
relativa al fabbricato preesistente, in modo
da determinare se residui un'ulteriore
volumetria assentibile, a nulla rilevando il
fatto che questa possa insistere su
particelle che erano catastalmente divise.
E' stato significativamente sottolineato che
il diritto di edificare inerisce alla
proprietà dei suoli nei limiti stabiliti
dalla legge e dagli strumenti urbanistici,
tra i quali quelli diretti a regolare la
densità di edificazione ed espressi negli
indici di fabbricabilità, con la conseguenza
che esso è conformato anche da tali indici,
di modo che ogni area non è idonea ad
esprimere una cubatura maggiore di quella
consentita dalla legge e dallo strumento
urbanistico e, corrispondentemente,
qualsiasi costruzione, anche se eseguita
senza il prescritto titolo, impegna la
superficie che, in base allo specifico
indice di fabbricabilità applicabile, è
necessaria per realizzare la volumetria
sviluppata; con la conseguenza che un'area
edificatoria, già utilizzata a fini edilizi,
è suscettibile di ulteriore edificazione,
solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria
consentita dalla normativa vigente al
momento del rilascio dell'ulteriore permesso
di costruire, dovendosi considerare non solo
la superficie libera ed il volume ad essa
corrispondente, ma anche la cubatura del
fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all'intera
superficie dell'area (superficie scoperta
più superficie impegnata dalla costruzione
preesistente), residui l'ulteriore
volumetria di cui si chiede la
realizzazione, a nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto
catastalmente divisa.
---------------
Qualora la normativa urbanistica imponga
limiti di volumetria, il relativo vincolo
sull'area discende ope legis senza necessità
di strumenti negoziali privatistici (atto
d'obbligo, trascrizione, ecc.), che devono
invece sussistere quando il proprietario di
un terreno intenda asservirlo a favore di un
altro proprietario limitrofo, per ottenere
una volumetria maggiore di quella che il suo
solo terreno gli consentirebbe, oppure
quando siffatto asservimento sia, per così
dire, reciproco, nel senso che i proprietari
di più terreni li asservano unitariamente
alla realizzazione di un unico progetto, ai
fini del quale i rispettivi lotti perdono,
dal punto di vista urbanistico-edilizio, la
loro individualità (ipotesi nelle quali il
vincolo rimane cristallizzato nel tempo,
senza che tuttavia possa costituire limite
rispetto alle determinazioni del
pianificatore generale, che resta libero di
dettare una nuova disciplina dell'indice
volumetrico relativamente alla zona alla
quale l'area si riferisce).
Aanche l’Adunanza Plenaria ha sottolineato
che dal provvedimento edilizio abilitativo,
il cui rilascio definisce le potenzialità
edificatorie di un fondo, determinandone
anche la cubatura assentibile in relazione
ai limiti imposti dalla normativa
urbanistica, sorge un vincolo di
asservimento per cui, una volta esaurite le
predette potenzialità, le restanti parti del
fondo sono sottoposte ad un regime di
inedificabilità che discende "ope legis"
dall'utilizzazione del fondo medesimo.
La giurisprudenza ha più volte rilevato che
un'area è suscettibile di ulteriore
edificazione soltanto nel caso in cui la
costruzione già realizzata non esaurisca la
volumetria già consentita dalla normativa
vigente al momento del rilascio
dell'ulteriore concessione edilizia (sez. V,
26.11.1994, n. 1382; 07.11.1990, n. 766;
23.02.1973, n. 178).
E’ stato anche precisato che il calcolo
della volumetria realizzabile su di un lotto
edificabile deve essere operato detraendo
dalla cubatura richiesta quella relativa al
fabbricato preesistente, in modo da
determinare se residui un'ulteriore
volumetria assentibile, a nulla rilevando il
fatto che questa possa insistere su
particelle che erano catastalmente divise
(sez. V, 26.09.2008, n. 4647; 12.05.2008, n.
2177; 23.08.2005, n. 4385; 29.06.1979, n.
442); è stato significativamente
sottolineato che il diritto di edificare
inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti
stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici, tra i quali quelli diretti a
regolare la densità di edificazione ed
espressi negli indici di fabbricabilità, con
la conseguenza che esso è conformato anche
da tali indici, di modo che ogni area non è
idonea ad esprimere una cubatura maggiore di
quella consentita dalla legge e dallo
strumento urbanistico e,
corrispondentemente, qualsiasi costruzione,
anche se eseguita senza il prescritto
titolo, impegna la superficie che, in base
allo specifico indice di fabbricabilità
applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata; con la conseguenza
che un'area edificatoria, già utilizzata a
fini edilizi, è suscettibile di ulteriore
edificazione, solo quando la costruzione su
di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa
vigente al momento del rilascio
dell'ulteriore permesso di costruire,
dovendosi considerare non solo la superficie
libera ed il volume ad essa corrispondente,
ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in
relazione all'intera superficie dell'area
(superficie scoperta più superficie
impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si
chiede la realizzazione, a nulla rilevando
che questa possa insistere su una parte del
lotto catastalmente divisa (C.d.S., sez. V,
27.06.2006, n. 4117; 12.07.2005, n. 3777;
12.07.2004, n. 5039).
Sotto altro concorrente profilo, è stato
osservato (C.d.S., sez. IV, 29.07.2008, n.
3766) che qualora la normativa urbanistica
imponga limiti di volumetria, il relativo
vincolo sull'area discende ope legis
senza necessità di strumenti negoziali
privatistici (atto d'obbligo, trascrizione,
ecc.), che devono invece sussistere quando
il proprietario di un terreno intenda
asservirlo a favore di un altro proprietario
limitrofo, per ottenere una volumetria
maggiore di quella che il suo solo terreno
gli consentirebbe, oppure quando siffatto
asservimento sia, per così dire, reciproco,
nel senso che i proprietari di più terreni
li asservano unitariamente alla
realizzazione di un unico progetto, ai fini
del quale i rispettivi lotti perdono, dal
punto di vista urbanistico-edilizio, la loro
individualità (ipotesi nelle quali il
vincolo rimane cristallizzato nel tempo,
senza che tuttavia possa costituire limite
rispetto alle determinazioni del
pianificatore generale, che resta libero di
dettare una nuova disciplina dell'indice
volumetrico relativamente alla zona alla
quale l'area si riferisce); anche l’Adunanza
Plenaria (23.04.2009, n. 3) ha sottolineato
che dal provvedimento edilizio abilitativo,
il cui rilascio definisce le potenzialità
edificatorie di un fondo, determinandone
anche la cubatura assentibile in relazione
ai limiti imposti dalla normativa
urbanistica, sorge un vincolo di
asservimento per cui, una volta esaurite le
predette potenzialità, le restanti parti del
fondo sono sottoposte ad un regime di
inedificabilità che discende "ope legis"
dall'utilizzazione del fondo medesimo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.05.2012 n. 3120 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Le norme in materia di assunzione
del personale degli enti locali non sono di
ostacolo all'applicabilità dell'art. 2126
c.c. e, quindi, al riconoscimento del
diritto del lavoratore, pur non assunto a
conclusione di una regolare procedura
concorsuale, alle differenze retributive,
all'indennità di fine rapporto e alle altre
prestazioni contributive e previdenziali: ma
questo soltanto quando risulti comprovata,
appunto, la sussistenza degli indici che,
secondo la stessa giurisprudenza
amministrativa, rivelano lo svolgimento di
fatto di un rapporto di impiego, quali la
subordinazione gerarchica, l'esclusività e
la continuità delle prestazioni,
l'osservanza di un orario di lavoro, la
retribuzione in misura fissa e continuativa
e l'inserimento del lavoratore nella
struttura organizzativa dell'ente.
In altre parole, al rapporto nullo possono
essere connesse le conseguenze di cui
all'art. 2126 c.c. unicamente quando lo
stesso, benché costituito senza il rispetto
delle modalità prescritte, sia per il resto
assimilabile al rapporto di lavoro
subordinato costituito nelle forme legali,
del quale presenti tutti i caratteristici
indici rilevatori.
---------------
Ai fini della qualificazione di un rapporto
giuridico non deve aversi riguardo tanto al
nomen juris speso dalle parti per
designarlo, quanto alle caratteristiche da
esso effettivamente assunte nella sua
concreta attuazione.
La Sezione deve infatti rilevare che nel
rapporto sviluppatosi tra le parti non sono
ravvisabili nella loro necessaria
consistenza minima gli indici rivelatori che
la giurisprudenza consolidata considera
caratteristici del rapporto di impiego
pubblico. Ed il punto è determinante per la
reiezione delle rivendicazioni, anche di
taglio meramente economico, avanzate da
parte ricorrente.
La giurisprudenza ha invero da tempo
chiarito (cfr. C.d.S., A.P., nn. 5 e 6 del
1992) che le norme in materia di assunzione
del personale degli enti locali non sono di
ostacolo all'applicabilità dell'art. 2126
c.c., e, quindi, al riconoscimento del
diritto del lavoratore, pur non assunto a
conclusione di una regolare procedura
concorsuale, alle differenze retributive,
all'indennità di fine rapporto e alle altre
prestazioni contributive e previdenziali: ma
questo soltanto quando risulti comprovata,
appunto, la sussistenza degli indici che,
secondo la stessa giurisprudenza
amministrativa, rivelano lo svolgimento di
fatto di un rapporto di impiego, quali la
subordinazione gerarchica, l'esclusività e
la continuità delle prestazioni,
l'osservanza di un orario di lavoro, la
retribuzione in misura fissa e continuativa
e l'inserimento del lavoratore nella
struttura organizzativa dell'ente (C.d.S.,
V, 10.11.2008, n. 5582).
In altre parole, al rapporto nullo possono
essere connesse le conseguenze di cui
all'art. 2126 c.c. unicamente quando lo
stesso, benché costituito senza il rispetto
delle modalità prescritte, sia per il resto
assimilabile al rapporto di lavoro
subordinato costituito nelle forme legali,
del quale presenti tutti i caratteristici
indici rilevatori (C.d.S., VI, 06.06.2008,
n. 2718; V, 24.10.2006, n. 6352, 30.08.2006,
n. 5062 e 06.12.1999, n. 2057).
Orbene, con il corrente appello si assume
che lo Iovine sarebbe stato vincolato alle
direttive impostegli dall’autorità comunale.
Ciò, però, senza che queste siano mai state
precisate, prima ancora che documentate,
essendosi così venuti meno ad un onere di
allegazione e prova che era tanto più
stringente, in concreto, per il fatto che
quasi tutte le deliberazioni di incarico si
erano premurate di puntualizzare di volta in
volta che lo Iovine sarebbe stato, invece,
libero da qualsiasi vincolo di
subordinazione gerarchica, e/o che avrebbe
operato sulla base di un contratto d’opera,
o infine come appaltatore.
Vero è, infatti, che, secondo una pacifica
acquisizione giurisprudenziale, ai fini
della qualificazione di un rapporto
giuridico non deve aversi riguardo tanto al
nomen juris speso dalle parti per
designarlo, quanto alle caratteristiche da
esso effettivamente assunte nella sua
concreta attuazione (cfr. di recente C.d.S.,
V, 18.03.2010, n. 1581; più indietro nel
tempo v. ad es. V, 10.04.2000, n. 2061;
13.06.1998, n. 824; 21.12.1994, n. 1549;
29.10.1991, n. 1281).
Questo non toglie, però, che l’esistenza,
sotto le spoglie degli schemi giuridici
indicati nelle delibere
dell’Amministrazione, della realtà
sostanziale di un rapporto di natura
diversa, costituisce pur sempre un quid che
abbisogna di dimostrazione da parte di chi
vi abbia interesse.
Ciò posto, nella fattispecie concreta non
risulta l’essenziale requisito
dell’esclusività del rapporto, attributo che
le deliberazioni in atti non contemplano, né
mostrano di avere anche solo indirettamente
presupposto. Al contrario, la gran parte
delle delibere di incarico rimarca la
circostanza che l’interessato figurava
titolare di una partita IVA, tanto che in
esse è sistematicamente contemplata anche la
previsione del pagamento del relativo
tributo.
L’impegno lavorativo richiesto
dall’Amministrazione era, d’altra parte,
notevolmente elastico, godendo l’interessato
di una marcata autonomia: sicché ad essere
sfornito di prova non è solo l’estremo
dell’esclusività, ma anche quello della
soggezione ad un compiuto orario di
servizio.
Lo Iovine non era poi soggetto ad alcuna
forma di potere disciplinare
dell’Amministrazione, potere che non era
richiamato dalle delibere di incarico, né si
è comunque dimostrato essere mai emerso sul
piano dei fatti (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.05.2012 n. 3115 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: La
nozione di servizio pubblico va riferita ad
attività che di per sé sono di interesse
pubblico, perché intrinsecamente dotate di
rilevanza pubblicistica, attesa la
generalità degli interessi che sono dirette
a soddisfare, a prescindere dalla
qualificazione del soggetto cui va imputata
tale attività.
---------------
Il servizio pubblico si caratterizza per
essere assoggettato ad una disciplina
settoriale, che assicura costantemente il
conseguimento di fini sociali, i quali non
si limitano a connotare sul versante
teleologico tale genere di attività, ma
costituiscono la ragione della
sottoposizione della stessa ad un regime
giuridico del tutto particolare, sicché, in
definitiva, i fattori distintivi del
pubblico servizio sono, da un lato,
l’idoneità del servizio, sul piano
finalistico, a soddisfare in modo diretto
esigenze proprie di una platea
indifferenziata di utenti, dall'altro, la
sottoposizione del gestore ad una serie di
obblighi, tra i quali quelli di esercizio e
tariffari, volti a conformare l'espletamento
dell'attività a norme di continuità,
regolarità, capacità e qualità, cui non
potrebbe essere assoggettata una comune
attività economica.
La tesi prevalente specifica, inoltre, che
il servizio pubblico attiene ad un’attività
direttamente erogata nei confronti della
generalità degli utenti.
---------------
La Commissione europea ha precisato che sono
servizi di interesse generale quelle
attività di servizio, commerciale o non,
considerate d'interesse generale dalle
pubbliche autorità e per tale ragione
sottoposte ad obblighi specifici di servizio
pubblico, specificando che i compiti
assegnati a tali servizi e i diritti
speciali che possono esservi connessi
“derivano da considerazioni d'interesse
generale, quali, soprattutto, la sicurezza
di approvvigionamento, la protezione
dell'ambiente, la solidarietà economica e
sociale, la gestione del territorio, la
promozione degli interessi dei consumatori”,
fermo restando che possono essere affidati
anche a soggetti privati.
---------------
I tratti distintivi del servizio pubblico
sono ravvisabili nel servizio di
teleriscaldamento.
Difatti, si tratta di un’attività
oggettivamente correlata alla realizzazione
di interessi pubblici, essendo funzionale,
per le sue caratteristiche intrinseche, a
consentire a qualunque interessato di
approvvigionarsi di energia termica, a fini
di riscaldamento e di usi civili per
abitazioni, uffici pubblici etc..
Tale attività, quindi, è oggettivamente
connessa ad essenziali esigenze delle
persone, cui si correla la qualità della
vita e la salvaguardia della salute, che
l’art. 32 della Costituzione individua quale
fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività.
La destinazione dell’attività alla
soddisfazione di interessi generali di rango
primario emerge anche sotto il profilo
ambientale, atteso che le amministrazioni
interessate hanno aderito alla convenzione
anche per finalità di recupero del
patrimonio boschivo e forestale, attraverso
la realizzazione di impianti idonei a
funzionare mediante l’utilizzo come fonte
energetica della biomassa recuperata.
In generale, vale evidenziare che, in
mancanza di un quadro normativo che
definisca in modo puntuale la nozione di
servizio pubblico, la giurisprudenza
prevalente non aderisce alla tesi meramente
soggettiva, derivante dalla tradizione
dottrinale francese, che individuava il
tratto tipico del servizio pubblico
nell’assunzione come propria da parte
dell’amministrazione di una certa attività
che resta quindi ad essa imputabile anche se
esercitata da terzi secondo vari moduli
organizzativi, perché questa ricostruzione
non tiene conto dei caratteri intrinseci del
servizio pubblico, che, ai sensi dell’art.
43 Cost., può direttamente essere attribuito
a soggetti privati.
Ne è derivata l’adesione per lo più ad una
nozione oggettiva di servizio pubblico, pur
nel quadro di una valorizzazione del momento
soggettivo, inteso come individuazione ed
assunzione del servizio da parte
dell’Autorità tra i compiti da realizzare,
perché intrinsecamente connesso
all’interesse pubblico di cui è portatrice
la particolare amministrazione.
L’adesione ad una nozione c.d. oggettiva non
implica che sia definibile come servizio
pubblico ogni attività privata soggetta a
controllo, a vigilanza o a mera
autorizzazione da parte di
un'amministrazione pubblica, perché
altrimenti il servizio pubblico
coinciderebbe con ogni attività privata
rilevante per il diritto amministrativo.
Viceversa, il servizio si qualifica come
"pubblico" perché l'attività in cui esso
consiste si indirizza istituzionalmente al
pubblico, mirando a soddisfare direttamente
esigenze della collettività, in coerenza con
i compiti dell'amministrazione pubblica, che
possono essere realizzati direttamente o
indirettamente, attraverso l'attività di
privati.
Ecco, allora, che il servizio pubblico è
caratterizzato da un elemento funzionale,
ossia il soddisfacimento diretto di bisogni
di interesse generale, che non si rinviene
nell'attività privata imprenditoriale, anche
se indirizzata e coordinata a fini sociali
(cfr. sul punto Cassazione civile, sez. un.,
30.03.2000, n. 71; Cassazione civile,
sez. un., 19.04.2004, n. 7461).
Insomma, la nozione di servizio pubblico va
riferita ad attività che di per sé sono di
interesse pubblico, perché intrinsecamente
dotate di rilevanza pubblicistica, attesa la
generalità degli interessi che sono dirette
a soddisfare, a prescindere dalla
qualificazione del soggetto cui va imputata
tale attività (cfr. sulla necessità di
ravvisare nell'interesse pubblico in quanto
tale l'elemento caratterizzante la nozione
di servizio pubblico si veda, tra le altre,
TAR Lazio Roma, sez. III, 20.06.2006,
n. 4845).
Proprio la correlazione tra siffatte
attività e l’interesse pubblico ne impone la
sottoposizione ad un regime particolare di
tipo garantistico, che riflette l’esigenza
di imparzialità di cui all’art. 97 Cost.,
anche se il servizio viene gestito da
privati.
Si tratta di un regime peculiare,
derogatorio rispetto alle ordinarie regole
che sovrintendono all’attività delle imprese
in regime di concorrenza, connotandosi per
la presenza di elementi di doverosità, che
si traducono nei principi di sussidiarietà,
di uguaglianza, di continuità, di parità di
trattamento, di imparzialità e di
trasparenza, cui si correlano obblighi
tariffari e di esercizio, di regolarità e di
qualità, non riscontrabili in una normale
attività economica.
In tal senso, la giurisprudenza ha precisato
che il servizio pubblico si caratterizza per
essere assoggettato ad una disciplina
settoriale, che assicura costantemente il
conseguimento di fini sociali, i quali non
si limitano a connotare sul versante
teleologico tale genere di attività, ma
costituiscono la ragione della
sottoposizione della stessa ad un regime
giuridico del tutto particolare, sicché, in
definitiva, i fattori distintivi del
pubblico servizio sono, da un lato,
l’idoneità del servizio, sul piano
finalistico, a soddisfare in modo diretto
esigenze proprie di una platea
indifferenziata di utenti, dall'altro, la
sottoposizione del gestore ad una serie di
obblighi, tra i quali quelli di esercizio e
tariffari, volti a conformare l'espletamento
dell'attività a norme di continuità,
regolarità, capacità e qualità, cui non
potrebbe essere assoggettata una comune
attività economica (cfr. Consiglio di stato,
sez. V, 12.10.2004, n. 6574, Consiglio
di stato, sez. IV, 29.11.2000, n.
6325; TAR Lombardia Brescia, 27.06.2005, n. 673).
La tesi prevalente specifica, inoltre, che
il servizio pubblico attiene ad un’attività
direttamente erogata nei confronti della
generalità degli utenti (cfr. Cassazione
civile, sez. un., 12.05.2006, n. 10994;
Cassazione civile, sez. un., 12.11.2001, n. 14032; Cass. civile, sez. un., 30.03.2000, n. 71; TAR Campania Napoli,
sez. I, 11.12.2006, n. 10455; TAR
Lazio Roma, sez. III, 20.06.2006, n.
4845).
La valorizzazione della dimensione oggettiva
del servizio pubblico è coerente con la
disciplina comunitaria, nell’ambito della
quale è il concetto di servizio di interesse
generale quello che più si avvicina alla
nozione di servizio pubblico.
Invero, l’art. 16 del Trattato C.E.
stabilisce che "fatti salvi gli articoli 73,
86 e 87, in considerazione dell'importanza
dei servizi di interesse generale
nell'ambito dei valori comuni dell'Unione,
nonché del loro ruolo nella promozione della
coesione sociale e territoriale, la Comunità
e gli Stati membri, secondo le rispettive
competenze e nell'ambito di applicazione del
presente trattato, provvedono affinché tali
servizi funzionino in base a principi e
condizioni che consentano loro di assolvere
i loro compiti".
In tale contesto assume particolare
rilevanza l’art. 86 del Trattato, che, al
primo comma, precisa che "1. Gli
Stati membri non emanano né mantengono, nei
confronti delle imprese pubbliche e delle
imprese cui riconoscono diritti speciali o
esclusivi, alcuna misura contraria alle
norme del presente trattato, specialmente a
quelle contemplate dagli articoli 12 e da 81
a 89 inclusi”, ma al secondo comma
aggiunge che “2. Le imprese incaricate
della gestione di servizi di interesse
economico generale o aventi carattere di
monopolio fiscale sono sottoposte alle norme
del presente trattato, e in particolare alle
regole di concorrenza, nei limiti in cui
l'applicazione di tali norme non osti
all'adempimento, in linea di diritto e di
fatto, della specifica missione loro
affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve
essere compromesso in misura contraria agli
interessi della Comunità ...."
In argomento, la Commissione europea ha
precisato che sono servizi di interesse
generale quelle attività di servizio,
commerciale o non, considerate d'interesse
generale dalle pubbliche autorità e per tale
ragione sottoposte ad obblighi specifici di
servizio pubblico, specificando che i
compiti assegnati a tali servizi e i diritti
speciali che possono esservi connessi
“derivano da considerazioni d'interesse
generale, quali, soprattutto, la sicurezza
di approvvigionamento, la protezione
dell'ambiente, la solidarietà economica e
sociale, la gestione del territorio, la
promozione degli interessi dei consumatori”,
fermo restando che possono essere affidati
anche a soggetti privati (cfr. sul punto:
comunicazione della Commissione C.E. n.
96-C, in G.U.C.E., 26.09.1996, C-281, nonché Cassazione civile, sez. un., 12.11.2001, n. 14032; TAR Puglia Bari,
sez. I, 12.04.2006, n. 1318; in
argomento si veda anche Corte
costituzionale, 27.07.2004, n. 272).
Il Tribunale ritiene che i tratti distintivi
del servizio pubblico siano ravvisabili nel
servizio di teleriscaldamento, cui si
riferisce la controversia in esame.
Difatti, si tratta di un’attività
oggettivamente correlata alla realizzazione
di interessi pubblici, essendo funzionale,
per le sue caratteristiche intrinseche, a
consentire a qualunque interessato di
approvvigionarsi di energia termica, a fini
di riscaldamento e di usi civili per
abitazioni, uffici pubblici etc..
Tale attività, quindi, è oggettivamente
connessa ad essenziali esigenze delle
persone, cui si correla la qualità della
vita e la salvaguardia della salute, che
l’art. 32 della Costituzione individua quale
fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività.
La destinazione dell’attività alla
soddisfazione di interessi generali di rango
primario emerge anche sotto il profilo
ambientale, atteso che le amministrazione
interessate hanno aderito alla convenzione
anche per finalità di recupero del
patrimonio boschivo e forestale, attraverso
la realizzazione di impianti idonei a
funzionare mediante l’utilizzo come fonte
energetica della biomassa recuperata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.05.2012 n. 1457 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: I
tratti distintivi
della concessione di servizio, che valgono a
distinguerla dal contratto di appalto, sono,
da un lato, l'assunzione del rischio legato
alla gestione del servizio, nel senso che il
concessionario assume il rischio economico
della gestione, perché la remunerazione che
egli percepisce non è legata al versamento
di un prezzo o di un corrispettivo, ma
direttamente alla gestione del servizio;
dall’altro, la circostanza che il
corrispettivo non sia versato
dall'amministrazione, come accade nei
contratti di appalto di lavori, servizi e
forniture, atteso che l’amministrazione
percepisce un canone da parte del
concessionario. Infine, rileva la diversità
della struttura del rapporto, che nella
concessione di servizi è trilaterale,
coinvolgendo l'amministrazione, il gestore e
gli utenti, sui quali in definitiva grava il
costo del servizio, mentre nell'appalto è
bilaterale (stazione appaltante–appaltatore)
e l'obbligazione di compensare l'attività
svolta dal privato grava
sull’amministrazione.
Tale distinzione è stata codificata dalla
direttiva comunitaria 31.03.2004/18/CE e
recepita nel nostro ordinamento dall'art. 3,
comma 12, e dall’art. 30 del d.l.vo 2006 n.
163, ove si definisce la concessione di
servizi come “un contratto che presenta le
stesse caratteristiche di un appalto
pubblico di servizi, ad eccezione del fatto
che il corrispettivo della fornitura di
servizi consiste unicamente nel diritto di
gestire i servizi o in tale diritto
accompagnato da un prezzo…”.
In proposito, si è chiaramente precisato che
negli appalti pubblici di servizi
l'appaltatore presta il servizio in favore
di una pubblica amministrazione, la quale
utilizza tale prestazione ai fini
dell’eventuale erogazione del servizio
pubblico a vantaggio della collettività,
mentre nella concessione di pubblico
servizio il concessionario sostituisce
la pubblica amministrazione nell’erogazione
del servizio, ossia nello svolgimento
dell'attività diretta al soddisfacimento
dell'interesse collettivo.
La
giurisprudenza, interna e comunitaria, ha
precisato che i tratti distintivi della
concessione di servizio, che valgono a
distinguerla dal contratto di appalto, sono,
da un lato, l'assunzione del rischio legato
alla gestione del servizio, nel senso che il
concessionario assume il rischio economico
della gestione, perché la remunerazione che
egli percepisce non è legata al versamento
di un prezzo o di un corrispettivo, ma
direttamente alla gestione del servizio
(cfr. Corte di Giustizia C.E., 18.07.2007, C-382/05; Corte di Giustizia C.E., 13.10.2005, C-458/03; Corte di Giustizia
C.E., 07.12.2000, C 324/98);
dall’altro, la circostanza che il
corrispettivo non sia versato
dall'amministrazione, come accade nei
contratti di appalto di lavori, servizi e
forniture, atteso che l’amministrazione
percepisce un canone da parte del
concessionario (cfr. Consiglio di Stato,
sez. VI, 05.06.2006, n. 3333). Infine,
rileva la diversità della struttura del
rapporto, che nella concessione di servizi è
trilaterale, coinvolgendo l'amministrazione,
il gestore e gli utenti, sui quali in
definitiva grava il costo del servizio,
mentre nell'appalto è bilaterale (stazione
appaltante–appaltatore) e l'obbligazione
di compensare l'attività svolta dal privato
grava sull’amministrazione.
Tale distinzione è stata codificata dalla
direttiva comunitaria 31.03.2004/18/CE e
recepita nel nostro ordinamento dall'art. 3,
comma 12, e dall’art. 30 del d.l.vo 2006 n.
163, ove si definisce la concessione di
servizi come “un contratto che presenta le
stesse caratteristiche di un appalto
pubblico di servizi, ad eccezione del fatto
che il corrispettivo della fornitura di
servizi consiste unicamente nel diritto di
gestire i servizi o in tale diritto
accompagnato da un prezzo…” (cfr. sulla
distinzione tra appalto e concessione si
vedano tra le altre: Consiglio di stato,
sez. V, 05.12.2008, n. 6049; TAR
Puglia Bari, sez. I, 17.02.2009, n.
315)
In proposito, si è chiaramente precisato che
negli appalti pubblici di servizi
l'appaltatore presta il servizio in favore
di una pubblica amministrazione, la quale
utilizza tale prestazione ai fini
dell’eventuale erogazione del servizio
pubblico a vantaggio della collettività,
mentre nella concessione di pubblico
servizio il concessionario sostituisce la
pubblica amministrazione nell’erogazione del
servizio, ossia nello svolgimento
dell'attività diretta al soddisfacimento
dell'interesse collettivo (cfr. sul punto
TAR Sicilia Catania, sez. III, 18.02.2009,
n. 369)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.05.2012 n. 1457 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Agli effetti
dell'individuazione dei soggetti che, in
quanto muniti di poteri di rappresentanza
legale, sono obbligati a rendere le
dichiarazioni di cui all'art. 38, comma 1,
lett. b) e c), d.lgs. 12.04.2006 n. 163, ha
in primo luogo rilevanza la titolarità del
potere, e non il suo esercizio.
Pertanto, i soggetti tenuti a rendere la
dichiarazione vanno individuati
prioritariamente sulla base della qualifica
formale rivestita e poi alla stregua dei
poteri sostanziali attribuiti: la ratio
della disposizione è infatti quella di
verificare la condotta di coloro che
determinano le scelte all’interno
dell’impresa.
Agli effetti
dell'individuazione dei soggetti che, in
quanto muniti di poteri di rappresentanza
legale, sono obbligati a rendere le
dichiarazioni di cui all'art. 38, comma 1,
lett. b) e c), d.lgs. 12.04.2006 n. 163,
ha in primo luogo rilevanza la titolarità
del potere, e non il suo esercizio (Tar
Napoli, sez. I, n. 1544/2011 e Consiglio di
Stato sez. III, n. 4892 del 31.08.2011).
Pertanto, i soggetti tenuti a rendere la
dichiarazione vanno individuati
prioritariamente sulla base della qualifica
formale rivestita e poi alla stregua dei
poteri sostanziali attribuiti: la ratio
della disposizione è infatti quella di
verificare la condotta di coloro che
determinano le scelte all’interno
dell’impresa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.05.2012 n. 1466 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: L’art.
42-bis d.p.r. n. 327/2001 disciplina uno
speciale procedimento ablatorio “ex
post” a fronte del quale, come espressamente
stabilito dal legislatore, al proprietario
spetta un indennizzo (non un risarcimento)
per la perdita del diritto di proprietà, con
la conseguenza che l’adozione del
provvedimento di acquisizione ai sensi del
citato art. 42-bis muta da risarcitoria ad indennitaria la pretesa del soggetto
spogliato del bene.
Da ciò conseguirebbe che il sindacato sui
provvedimenti assunti ai sensi del citato
art. 42-bis è, per quanto attiene
all’indennizzo corrisposto per la perdita
del diritto di proprietà, sottoposto alla
cognizione del giudice ordinario, in quanto
l’art. 133, primo comma, lettera f), cod.
proc. amm. dispone che non sussiste la
giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo quando si tratti della
determinazione e della corresponsione “delle
indennità in conseguenza dell’adozione di
atti di natura espropriativa o ablativa”
(nel cui novero rientra senz’altro quello
emesso ai sensi dell’art. 42-bis).
---------------
L’iniziale occupazione, qualora non siano
stati annullati tutti gli atti a decorrere
dalla dichiarazione di pubblica utilità,
diviene illegittima solo dopo la scadenza
del proprio termine di efficacia ed in
ragione di ulteriori vizi del procedimento,
normalmente collegati alla mancata
tempestiva emanazione del decreto di
esproprio.
Ne consegue che per il periodo di
occupazione legittima spetta al ricorrente,
non il risarcimento del danno, ma
l’ordinaria tutela indennitaria, su cui,
peraltro, sussiste la giurisdizione del
giudice ordinario.
---------------
La scadenza di un provvedimento di
occupazione d’urgenza di un’area non fa
venir meno l’occupazione di fatto della
stessa da parte della Pubblica
Amministrazione, essendo necessario, per far
cessare l’occupazione, un atto di riconsegna
del bene al proprietario, in mancanza del
quale l’occupazione permane e, in quanto
illegittima, costituisce fonte di
responsabilità per l’Amministrazione
occupante.
La detenzione qualificata dell’area da parte
della Pubblica Amministrazione a seguito di
provvedimento di occupazione d’urgenza si
trasforma, infatti, a seguito della scadenza
del termine di efficacia del provvedimento,
in detenzione “sine titulo” e ciò determina
il sorgere in capo all’Amministrazione di un
obbligo di restituzione dell’immobile al
legittimo proprietario.
Per la riconsegna dell’area non si
richiedono le formalità previste per
l’occupazione (redazione di apposito verbale
di immissione in possesso redatto in
contraddittorio con il proprietario o, in
sua assenza, con l’intervento di due
testimoni), atteso che esse sono contemplate
avuto riguardo agli specifici effetti che il
legislatore collega all’immissione nel
possesso dell'immobile (mantenimento
dell’efficacia del decreto, decorrenza
dell’indennità di occupazione, etc.), ma
deve comunque trovare applicazione la
normativa contenuta negli art. 1140 e segg.
cod. civ., secondo la quale, per la perdita
del possesso materiale dell’immobile nel
caso di detenzione qualificata, occorre
quanto meno che venga esteriorizzato, da
chiari ed inequivoci segni, l’“animus
derelinquendi”.
Incombe, peraltro, sull’Amministrazione
l’onere delle prova in ordine
all’intervenuta restituzione del bene
locato, in armonia con quanto ritenuto dalla
Suprema Corte in materia di prova
dell’inadempimento.
In base al principio della persistenza del
diritto desumibile dall’art. 2697 (“chi
eccepisce che il diritto si è modificato o
estinto deve provare i fatti su cui
l’eccezione si fonda”), grava sul debitore
l’onere di dimostrare il fatto estintivo
dell’obbligazione, in quanto, come
sinteticamente espresso dal brocardo
“negativa non sunt probanda”, pretendere che
sia provato un fatto negativo mediante fatti
positivi contrari significa introdurre
un’irrazionale e non agevole tecnica
probatoria e rendere eccessivamente
difficile l’esercizio del diritto del
creditore, per cui si rende necessario far
riferimento all’opposto principio della
riferibilità o della vicinanza della prova,
con la conseguenza che il creditore può
limitarsi ad allegare l’inadempimento,
restando a carico del debitore l’onere di
dimostrare il contrario.
Poiché nel caso di specie l’Amministrazione
non ha dato prova della restituzione
dell’area allo spirare dei tre decreti di
occupazione, deve ritenersi, sulla scorta
delle considerazioni che precedono, che la
detenzione degli immobili si sia protratta
“sine titulo” oltre i termini contemplati
nei decreti stessi.
---------------
Ai fini del risarcimento derivante da
occupazione divenuta “sine titulo”, il
valore venale di riferimento deve essere
quello del bene al tempo della cessazione
dell’occupazione legittima, poiché la
previsione, nel citato art. 43, sesto comma,
lett. b), degli interessi moratori a
decorrere dal giorno in cui il terreno sia
stato occupato (anche tramite imposizione di
servitù senza titolo), dimostra che la sorte
capitale deve essere riferita a quel momento
pregresso per essere poi attualizzata al
tempo della condanna.
In base ai principi generali sulla
liquidazione dell’obbligazione risarcitoria,
alle somme dovute a tale titolo, con
esclusione di quella dovuta a titolo di
indennità di asservimento (già calcolata sul
valore attuale della servitù), vanno
aggiunti la rivalutazione monetaria e gli
interessi legali e che, in particolare, gli
interessi devono essere computati sulle
somme anno per anno rivalutate.
Per quanto attiene il computo degli
interessi, non risulta applicabile né l’art.
5 d.lgs. n. 231/2002, in quanto la norma si
riferisce espressamente al “saggio degli
interessi ai fini del presente decreto” e il
decreto concerne le transazioni commerciali
(non le obbligazioni risarcitorie), né
l’art. 50 d.p.r. n. 327/2003, in quanto la
norma disciplina il calcolo dell’indennità
di occupazione.
Il Consiglio di Stato (Sez. VI,
n. 1438/2012) ha recentemente affermato che
l’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001 disciplina
uno speciale procedimento ablatorio “ex
post” a fronte del quale, come espressamente
stabilito dal legislatore, al proprietario
spetta un indennizzo (non un risarcimento)
per la perdita del diritto di proprietà, con
la conseguenza che l’adozione del
provvedimento di acquisizione ai sensi del
citato art. 42-bis muta da risarcitoria ad indennitaria la pretesa del soggetto
spogliato del bene.
Da ciò conseguirebbe che il sindacato sui
provvedimenti assunti ai sensi del citato
art. 42-bis è, per quanto attiene
all’indennizzo corrisposto per la perdita
del diritto di proprietà, sottoposto alla
cognizione del giudice ordinario, in quanto
l’art. 133, primo comma, lettera f), cod.
proc. amm. dispone che non sussiste la
giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo quando si tratti della
determinazione e della corresponsione “delle
indennità in conseguenza dell’adozione di
atti di natura espropriativa o ablativa”
(nel cui novero rientra senz’altro quello
emesso ai sensi dell’art. 42-bis).
Nel caso in esame si radica, invece, la
giurisdizione del giudice amministrativo sia
in quanto viene in rilievo un provvedimento
adottato, in forza di giudicato, ai sensi
dell’art. 43 d.p.r. n. 327/2001 (il quale,
per quanto attiene alla perdita del diritto
di proprietà, parla espressamente -non di
indennizzo, ma- di risarcimento del danno),
sia perché, come sopra indicato, il gravame
deve qualificarsi come ricorso per ottenere
l’esecuzione di una decisione del giudice
amministrativo, con la conseguenza che la
sussistenza della giurisdizione dipende
anche dal disposto dell’art. 113, primo
comma, cod. proc. amm..
Per le considerazioni che precedono risulta,
quindi, infondata, ad eccezione della
richiesta relativa alle spese di cui al
ricorso n. 15/2004, l’istanza con cui il
ricorrente ha riformulato la propria domanda
ai sensi dell’art. 42-bis d.p.r. n.
327/2001, atteso che il Comune di Siracusa
ha l’obbligo di dare esecuzione al giudicato
formatosi sulla citata sentenza n. 1278 del
07.06.2007, la quale fa riferimento alla
-parzialmente- diversa disciplina di cui
all’art. 43.
Anche se per ragioni in larga misura diverse
da quelle prospettate dal ricorrente, deve,
invece, condividersi la tesi del Gurrieri
secondo cui l’Amministrazione non ha dato
corretta esecuzione alla sentenza di questo
Tribunale n. 1278 in data 07.06.2007.
Al riguardo va, innanzitutto, precisato che,
a differenza di quanto ritenuto dal
ricorrente, nessun risarcimento è dovuto per
il periodo di occupazione legittima del
suolo, in quanto, sebbene il procedimento
espropriativo non sia stato definito nel
termine previsto, la fase relativa
all’occupazione, in difetto di qualsiasi
impugnativa, risulta legittima ed efficace
sino alla scadenza del termine previsto nei
singoli decreti di occupazione.
Come, infatti, affermato dalla
giurisprudenza (cfr. Cons. St., IV, n.
4408/2011), l’iniziale occupazione, qualora
non siano stati annullati tutti gli atti a
decorrere dalla dichiarazione di pubblica
utilità, diviene illegittima solo dopo la
scadenza del proprio termine di efficacia ed
in ragione di ulteriori vizi del
procedimento, normalmente collegati alla
mancata tempestiva emanazione del decreto di
esproprio.
Ne consegue che per il periodo di
occupazione legittima spetta al ricorrente,
non il risarcimento del danno, ma
l’ordinaria tutela indennitaria, su cui,
peraltro, sussiste la giurisdizione del
giudice ordinario.
Ciò premesso, deve ribadirsi che, come
accertato dal verificatore, l’area
effettivamente interessata dal collettore
fognante si estende per metri quadri 410.
In proposito occorre chiarire l’esatto
significato del pronuncia del Tribunale n.
1278 del 07.06.2007.
Il Tribunale ha ordinato al Comune di
Siracusa di provvedere ai sensi del citato
art. 43 d.p.r. n. 327/2001, cioè, in primo
luogo, di emanare “ex post” un provvedimento
di imposizione della servitù.
Il quinto comma dell’art. 43 stabilisce,
infatti, che le disposizioni di cui ai
precedenti commi si applicano, in quanto
compatibili, anche quando sia imposta una
servitù di diritto privato o di diritto
pubblico.
Il successivo sesto comma dispone che, salvi
i casi in cui la legge disponga altrimenti,
nelle ipotesi previste nei precedenti commi
il risarcimento del danno è determinato:
a)
nella misura corrispondente al valore del
bene utilizzato per scopi di pubblica
utilità e, se l’occupazione riguarda un
terreno edificabile, sulla base delle
disposizioni dell’articolo 37, commi 3, 4,
5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi
moratori, a decorrere dal giorno in cui il
terreno sia stato occupato senza titolo.
Nell’ipotesi di imposizione di servitù,
pertanto, l’Amministrazione deve in primo
luogo corrispondere il valore del bene
utilizzato per scopi di pubblica utilità.
Ma, poiché in questo caso ad essere
acquisito per scopi di pubblica utilità non
è il bene nella sua interezza, ma la sola
servitù, il risarcimento del danno va
calcolato con riferimento al valore della
servitù imposta sul fondo, essendo questo il
senso dell’espressione di cui all’art. 43,
quinto comma, secondo cui le disposizioni di
cui ai precedenti commi si applicano, “in
quanto compatibili”, anche quando sia
imposta una servitù di diritto privato o di
diritto pubblico.
Per la determinazione del valore della
servitù occorre, quindi, fare riferimento
alla disciplina di cui all’art. 1038 c.c.
sull’indennità per l’imposizione
dell’acquedotto o dello scarico coattivo.
Come precisato dalla giurisprudenza (per
tutte, cfr. Cass. Civ. Sez. Un., n.
84/2001), il primo comma della norma prevede
che l’indennità sia dovuta in misura
corrispondente all’intero valore del fondo
per il terreno occupato dall’opera idraulica
vera e propria, mentre per le cosiddette
fasce di rispetto si applica il secondo
comma della disposizione indicata (che
prevede un’indennità pari alla metà del
valore del suolo), atteso che tali fasce
possono essere comunque sfruttate
economicamente da parte del proprietario del
fondo servente.
Nel caso in esame, come evidenziato dal
verificatore, deve tuttavia farsi
applicazione del criterio di cui all’art.
1038, secondo comma, c.c. per tutta l’area
interessata dal collettore fognante, in
quanto l’area risulta edificabile e la
volumetria edilizia rimane, quindi, nella
piena disponibilità del proprietario (che
può sfruttarla su altre proprietà o cederla
a terzi).
Ne consegue che, in relazione ai 410 metri
effettivamente interessati dalla presenza
del collettore fognante, il decreto di
asservimento deve prevedere un’indennità
pari al 50% del valore del terreno.
Il valore del terreno, tenendo conto delle
conclusioni del verificatore, dalle quali il
Collegio non ravvisa motivi per discostarsi,
deve essere stabilito con riferimento al
momento di emanazione del decreto di
asservimento, in quanto il risarcimento
dovuto, ai sensi dell’art. 43, sesto comma,
lett. a), per il valore del bene, ovvero
della servitù, non può che riferirsi al
valore del bene, o della servitù, nel
momento in cui il proprietario perde
interamente o parzialmente il proprio
diritto sulla cosa e tale momento non
coincide con quello di ultimazione
dell’opera pubblica, ma con quello in cui
l’Amministrazione adotta il provvedimento di
acquisizione (sul punto cfr. Con. Giust.
Amm. Reg. Sic., n. 52/2009).
Il Comune dovrà, tuttavia, verificare se
l’area di metri quadri 410 interessata dalla
presenza del collettore fognante coincida,
anche in parte, con la superficie di metri
quadri 2693,75 irreversibilmente trasformata
in strade urbane (cioè nelle odierne Vie
Asbesta e Don Puglisi).
Nell’ipotesi di coincidenza con la
superficie irreversibilmente trasformata,
infatti, l’Amministrazione non deve
corrispondere, per la sola parte
coincidente, alcuna indennità a titolo di
servitù, in quanto l’occupazione dell’area
determina la privazione totale del godimento
del bene da parte del proprietario ed è ,
quindi, incompatibile con un provvedimento
di mera limitazione del suo godimento.
Oltre a tale importo, l’Amministrazione, in
esecuzione della sentenza di questo
Tribunale n. 1278 del 07.06.2007, è
tenuta a corrispondere al ricorrente il
risarcimento del danno per l’occupazione
illegittima dell’area di metri quadri
3718,75 occupata per la realizzazione del
collettore fognante.
In realtà, a prescindere dall’insistenza su
un’area di metri quadri 410 delle opere
relative al collettore fognante (e a
prescindere, altresì, come sarà meglio
specificato nel seguito, dalla sopravvenuta
realizzazione della Via Asbesta e della Via
Don Puglisi), non vi è prova che sull’area
in questione l’occupazione del suolo si sia
effettivamente protratta oltre il termine
previsto nei tre decreti di occupazione.
Non vi è prova, cioè, che l’Amministrazione,
una volta scaduti i decreti di occupazione e
a prescindere dall’intervenuta realizzazione
del collettore fognante, abbia continuato ad
occupare l’area con opere e manufatti,
ovvero abbia in qualche modo impedito al
proprietario di rientrare nella legittima
disponibilità degli immobili.
Al riguardo deve, tuttavia, osservarsi che
la scadenza di un provvedimento di
occupazione d’urgenza di un’area non fa
venir meno l’occupazione di fatto della
stessa da parte della Pubblica
Amministrazione, essendo necessario, per far
cessare l’occupazione, un atto di riconsegna
del bene al proprietario, in mancanza del
quale l’occupazione permane e, in quanto
illegittima, costituisce fonte di
responsabilità per l’Amministrazione
occupante (sul punto, cfr. Cass. Civ., Sez.
I, n. 10866/1999).
La detenzione qualificata dell’area (sul
punto, cfr. Cass. Civ., Sez. II, n.
132/1992; Cass. Civ. Sez. I, n. 10686/2005,
Cass. Civ., Sez. I, n. 2952/2003) da parte
della Pubblica Amministrazione a seguito di
provvedimento di occupazione d’urgenza si
trasforma, infatti, a seguito della scadenza
del termine di efficacia del provvedimento,
in detenzione “sine titulo” e ciò determina
il sorgere in capo all’Amministrazione di un
obbligo di restituzione dell’immobile al
legittimo proprietario.
Come chiarito dalla Suprema Corte (Cass.
Civ., Sez. I, n. 2952/2003), per la
riconsegna dell’area non si richiedono le
formalità previste per l’occupazione
(redazione di apposito verbale di immissione
in possesso redatto in contraddittorio con
il proprietario o, in sua assenza, con
l’intervento di due testimoni), atteso che
esse sono contemplate avuto riguardo agli
specifici effetti che il legislatore collega
all’immissione nel possesso dell'immobile
(mantenimento dell’efficacia del decreto,
decorrenza dell’indennità di occupazione,
etc.), ma deve comunque trovare applicazione
la normativa contenuta negli art. 1140 e
segg. cod. civ., secondo la quale, per la
perdita del possesso materiale dell’immobile
nel caso di detenzione qualificata, occorre
quanto meno che venga esteriorizzato, da
chiari ed inequivoci segni, l’“animus derelinquendi”.
Incombe, peraltro, sull’Amministrazione
(come incombe sul conduttore nell’ipotesi di
rilascio per finita locazione: sul punto
cfr. Cass. Civ., Sez. III, n. 7776/2004)
l’onere delle prova in ordine
all’intervenuta restituzione del bene
locato, in armonia con quanto ritenuto dalla
Suprema Corte (Sez. Un., n. 13533/2001) in
materia di prova dell’inadempimento.
In tale ultima pronuncia, la Cassazione ha,
infatti, affermato che, in base al principio
della persistenza del diritto desumibile
dall’art. 2697 (“chi eccepisce che il
diritto si è modificato o estinto deve
provare i fatti su cui l’eccezione si
fonda”), grava sul debitore l’onere di
dimostrare il fatto estintivo
dell’obbligazione, in quanto, come
sinteticamente espresso dal brocardo
“negativa non sunt probanda”, pretendere che
sia provato un fatto negativo mediante fatti
positivi contrari significa introdurre
un’irrazionale e non agevole tecnica
probatoria e rendere eccessivamente
difficile l’esercizio del diritto del
creditore, per cui si rende necessario far
riferimento all’opposto principio della
riferibilità o della vicinanza della prova,
con la conseguenza che il creditore può
limitarsi ad allegare l’inadempimento,
restando a carico del debitore l’onere di
dimostrare il contrario.
Poiché nel caso di specie l’Amministrazione
non ha dato prova della restituzione
dell’area allo spirare dei tre decreti di
occupazione, deve ritenersi, sulla scorta
delle considerazioni che precedono, che la
detenzione degli immobili si sia protratta
“sine titulo” oltre i termini contemplati
nei decreti stessi.
---------------
Come affermato dalla giurisprudenza (Tar
Campania, Salerno II, n. 1539/2001), ai fini
del risarcimento derivante da occupazione
divenuta “sine titulo”, il valore venale di
riferimento deve essere quello del bene al
tempo della cessazione dell’occupazione
legittima, poiché la previsione, nel citato
art. 43, sesto comma, lett. b), degli
interessi moratori a decorrere dal giorno in
cui il terreno sia stato occupato (anche
tramite imposizione di servitù senza
titolo), dimostra che la sorte capitale deve
essere riferita a quel momento pregresso per
essere poi attualizzata al tempo della
condanna.
...
Va, infine precisato che, in base ai
principi generali sulla liquidazione
dell’obbligazione risarcitoria, alle somme
dovute a tale titolo, con esclusione di
quella dovuta a titolo di indennità di
asservimento (già calcolata sul valore
attuale della servitù), vanno aggiunti la
rivalutazione monetaria e gli interessi
legali e che, in particolare, gli interessi
devono essere computati sulle somme anno per
anno rivalutate (cfr., per tutte, Cass.
Civ., I, n. 19510/2005).
Al riguardo va precisato che, per quanto
attiene il computo degli interessi, non
risulta applicabile né l’art. 5 d.lgs. n.
231/2002, in quanto la norma si riferisce
espressamente al “saggio degli interessi ai
fini del presente decreto” e il decreto
concerne le transazioni commerciali (non le
obbligazioni risarcitorie), né l’art. 50
d.p.r. n. 327/2003, in quanto la norma
disciplina il calcolo dell’indennità di
occupazione
(TAR Sicilia-catania, Sez. II,
sentenza 28.05.2012 n. 1350 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Ai
fini della rappresentanza in giudizio del
Comune, l’autorizzazione alla lite da parte
della Giunta Comunale non costituisce più,
in linea generale, atto necessario ai fini
della proposizione o della resistenza
all’azione (o all’impugnazione).
Ciò, innanzitutto, perché alla Giunta sono
state conferite le funzioni di indirizzo e
controllo politico-amministrativo degli
organi di governo che non siano riservate
dalla legge al Consiglio, mentre spettano ai
dirigenti la direzione degli uffici e dei
servizi secondo i criteri e le norme dettati
dagli Statuti e dai regolamenti, nonché
tutti i compiti, compresa l’adozione degli
atti e provvedimenti amministrativi che
impegnano l’Amministrazione verso l’esterno,
non ricompresi espressamente dalla legge o
dallo Statuto tra le menzionate funzioni di
indirizzo (art. 48, 50 e 107 d.p.r. n.
267/2000).
In secondo luogo, perché nel nuovo
ordinamento delle autonomie locali il
Sindaco ha assunto, ancor più con la legge
n. 81/1993, che ne ha previsto l'elezione
diretta, un ruolo politico ed amministrativo
centrale, in quanto titolare di funzioni di
direzione e di coordinamento dell’esecutivo
comunale; onde l’autorizzazione (del
Consiglio prima e poi) della Giunta, se
trovava ragione in un assetto in cui il
Sindaco era eletto dal Consiglio e la Giunta
costituiva espressione del Consiglio stesso,
non ha più ragion d’essere in un sistema in
cui il Sindaco trae direttamente la propria
investitura dal corpo elettorale e
costituisce egli stesso la fonte di
legittimazione degli Assessori che
compongono la Giunta, cui l’art. 48 d.p.r.
n. 267/2000 affida il compito di collaborare
con il capo dell’Amministrazione Municipale
(salva restando, ovviamente, la possibilità
per lo Statuto comunale -competente a
stabilire i modi di esercizio della
rappresentanza legale dell’ente, anche in
giudizio ex art. 6, secondo comma, d.p.r. n.
267/2000- di prevedere l’autorizzazione
della Giunta, ovvero di richiedere una
preventiva determinazione del competente
dirigente, ovvero, ancora, di postulare
l’uno o l’altro intervento in relazione alla
natura o all’oggetto della controversia).
Come, infatti, affermato dalla
giurisprudenza (cfr. Cass. Civ, I, n.
13412/2006, Cass. Civ., Sez. Un., n.
17550/2002 e n. 12868/2005; TAR Sicilia,
Palermo, Sez. I n. 880 del 04.07.2008,
Cons. Stato, sez. VI n. 33 del 07.01.2008), la vigente disciplina regionale non
include più fra le competenze della Giunta
Comunale le delibere aventi ad oggetto le
autorizzazioni alla proposizione delle liti
attive e passive.
La competenza in materia della Giunta
Comunale, come è noto, si fondava, in ambito
nazionale, sull’art. 35, secondo comma,
legge n. 142/1990, secondo cui a tale organo
spettavano le attribuzioni residuali su
tutti gli atti non riservati dalla legge o
dallo Statuto alla competenza del Sindaco o
del Consiglio.
La norma ha trovato applicazione anche nella
Regione siciliana, avente competenza
legislativa esclusiva sull’ordinamento degli
enti locali ai sensi dell’art. 14, lett. p),
dello Statuto Regionale, atteso che, con
legge regionale n. 48/1991, la legge n.
142/1990 è stata recepita nell’ordinamento
regionale senza alcuna modifica.
Il nuovo quadro delle competenze degli
organi del comune, già delineato dalla
menzionata legge n. 142/1990 e completato
dalle disposizioni successive fino
all’approvazione del d.p.r. n. 267 del 2000,
ha indotto, però, le Sezioni Unite della
Corte (Cass., Sez. Un. n. 17550/2002 e n.
12868/2005) a rivedere il precedente
orientamento, anche in considerazione del
fatto che la modifica del titolo V della
Costituzione, nonché la successiva legge n.
131/2003 di adeguamento dell’ordinamento
della Repubblica al nuovo assetto
costituzionale, hanno accentuato l’autonomia
degli enti locali e nell’ambito di essa le
potestà degli Statuti nella gerarchia delle
fonti (ormai da considerarsi quali atti
normativi atipici con caratteristiche di
rango paraprimario o sub-primario).
La Suprema Corte ha, quindi, affermato che,
ai fini della rappresentanza in giudizio del
Comune, l’autorizzazione alla lite da parte
della Giunta Comunale non costituisce più,
in linea generale, atto necessario ai fini
della proposizione o della resistenza
all’azione (o all’impugnazione).
Ciò, innanzitutto, perché alla Giunta sono
state conferite le funzioni di indirizzo e
controllo politico-amministrativo degli
organi di governo che non siano riservate
dalla legge al Consiglio, mentre spettano ai
dirigenti la direzione degli uffici e dei
servizi secondo i criteri e le norme dettati
dagli Statuti e dai regolamenti, nonché
tutti i compiti, compresa l’adozione degli
atti e provvedimenti amministrativi che
impegnano l’Amministrazione verso l’esterno,
non ricompresi espressamente dalla legge o
dallo Statuto tra le menzionate funzioni di
indirizzo (art. 48, 50 e 107 d.p.r. n.
267/2000).
In secondo luogo, perché nel nuovo
ordinamento delle autonomie locali il
Sindaco ha assunto, ancor più con la legge
n. 81/1993, che ne ha previsto l'elezione
diretta, un ruolo politico ed amministrativo
centrale, in quanto titolare di funzioni di
direzione e di coordinamento dell’esecutivo
comunale; onde l’autorizzazione (del
Consiglio prima e poi) della Giunta, se
trovava ragione in un assetto in cui il
Sindaco era eletto dal Consiglio e la Giunta
costituiva espressione del Consiglio stesso,
non ha più ragion d’essere in un sistema in
cui il Sindaco trae direttamente la propria
investitura dal corpo elettorale e
costituisce egli stesso la fonte di
legittimazione degli Assessori che
compongono la Giunta, cui l’art. 48 d.p.r.
n. 267/2000 affida il compito di collaborare
con il capo dell’Amministrazione Municipale
(salva restando, ovviamente, la possibilità
per lo Statuto comunale -competente a
stabilire i modi di esercizio della
rappresentanza legale dell’ente, anche in
giudizio ex art. 6, secondo comma, d.p.r. n.
267/2000- di prevedere l’autorizzazione
della Giunta, ovvero di richiedere una
preventiva determinazione del competente
dirigente, ovvero, ancora, di postulare
l’uno o l’altro intervento in relazione alla
natura o all’oggetto della controversia)
(TAR Sicilia-catania, Sez. II,
sentenza 28.05.2012 n. 1348 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sulla differenza tra
localizzazione di un programma costruttivo
di edilizia residenziale pubblica e piano di
edilizia economica e popolare.
La localizzazione di un programma
costruttivo di edilizia residenziale
pubblica ai sensi dell'art. 51 della legge
22.10.1971, n. 865, a differenza di un piano
di edilizia economica e popolare, non ha
affatto valenza e connotazione
pianificatoria "…giacché non è
finalizzata al soddisfacimento, in un'ottica
temporale ampia, della richiesta di edilizia
residenziale economica e popolare a
beneficio delle esigenze attuali e future di
una determinata fascia di abitanti del
comune, ma ha invece un carattere
immediatamente operativo, in quanto più
limitatamente inteso ad assicurare la
realizzazione di un programma costruttivo
già finanziato e definito in tutte le sue
parti essenziali".
E non è dubbio che essa abbia, invece,
valore ed efficacia di dichiarazione di
pubblica utilità delle opere comprese nel
programma costruttivo localizzato, dovendo
contenere anche l'indicazione dei termini
per l'inizio e il compimento dei lavori e
delle espropriazioni. Ne consegue che,
l'adozione della delibera di localizzazione
deve essere preceduta dalla comunicazione
d'avvio del procedimento da inviare a tutti
i soggetti interessati, e precipuamente ai
proprietari degli immobili assoggettati a
espropriazione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.05.2012 n. 3085 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'interpretazione del disposto
contenuto nell'art. 38, c. 1, lett. f), del
d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti
pubblici).
Ai fini dell'applicazione dell'art. 38, c.
1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006 (codice
dei contratti pubblici), non è necessario un
accertamento della responsabilità del
contraente per l'inadempimento in relazione
ad un precedente rapporto contrattuale,
quale sarebbe richiesto per l'esercizio di
un potere sanzionatorio, ma è sufficiente
una motivata valutazione
dell'amministrazione in ordine alla grave
negligenza o malafede nell'esercizio delle
prestazioni affidate dalla stazione
appaltante che bandisce la gara, che abbia
fatto venir meno la fiducia nell'impresa.
Inoltre, l'esclusione per grave negligenza
non presuppone il definitivo accertamento di
tale comportamento, essendo sufficiente la
valutazione fatta dalla stessa
amministrazione con il richiamo per
relationem all'atto con cui, in altro
rapporto contrattuale di appalto, aveva
provveduto alla risoluzione per
inadempimenti contrattuali (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 25.05.2012 n. 3078 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Non può costituire causa di
esclusione da una gara d'appalto l'arresto
di proprietari o di dirigenti di una società
o anche la sola pendenza di procedimenti
penali.
L'arresto di proprietari o di dirigenti di
una società -o a maggior ragione la sola
pendenza di procedimenti penali- non può
costituire causa di esclusione da una gara,
visto che l'art. 38, lett. c), D.Lgs.
163/2006, stabilisce che essa deve ricorrere
allorché, nel caso di una s.r.l., sia stata
pronunciata sentenza di condanna passata in
giudicato o emesso decreto penale di
condanna divenuto irrevocabile, oppure
sentenza di applicazione della pena su
richiesta, ai sensi dell'art. 444 del codice
di procedura penale, per reati di grave
danno dello Stato o della Comunità che
incidono sulla moralità professionale nei
confronti degli amministratori muniti di
poteri di rappresentanza o del direttore
tecnico o del socio unico persona fisica,
ovvero del socio di maggioranza in caso di
società con meno di quattro soci.
Altrettanto stabilisce lo stesso D.Lgs.
163/2006 nel caso di avvenuta stipulazione
di contratti, per i quali solo l'avvenuto
accertamento di una serie di reati mediante
sentenza passata in giudicato permette la
risoluzione del contratto sottostante
l'aggiudicazione (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 25.05.2012 n. 3063 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
ristrutturazione edilizia, per essere tale e
non finire per coincidere con la nuova
costruzione, deve conservare le
caratteristiche fondamentali dell'edificio
preesistente e la successiva ricostruzione
dell'edificio deve riprodurre le precedenti
linee fondamentali quanto a sagoma e volumi;
diversamente opinando, infatti, sarebbe
sufficiente la preesistenza di un edificio
per definire ristrutturazione qualsiasi
nuova realizzazione eseguita in luogo o sul
luogo di quella preesistente.
Il legame con l’edificio preesistente,
quanto a sagoma e a volumetria, costituisce
il criterio distintivo degli interventi di
recupero del patrimonio edilizio esistente
dalle nuove costruzioni.
Le identità di volume e sagoma del nuovo
edificio rispetto a quello originario
giustificano, inoltre, il differente regime
cui sono soggetti gli interventi di
ristrutturazione edilizia rispetto alle
nuove costruzioni: ove la ristrutturazione
mantenga inalterati i parametri urbanistici
ed edilizi preesistenti, l’intervento non è,
difatti, subordinato al rispetto dei vincoli
posti dagli strumenti urbanistici
sopravvenuti, giacché la legittimazione
urbanistica del manufatto da demolire si
trasferisce su quello ricostruito.
---------------
L'edilizia, anche se non menzionata
esplicitamente nell'art. 117 Cost., rientra,
in base a consolidata giurisprudenza
costituzionale, nell'ambito della materia
del «governo del territorio», di competenza
concorrente.
---------------
L'art. 3 del d.P.R. n.
380 del 2001, recante la definizione degli
interventi edilizi, costituisce un principio
fondamentale non derogabile dal legislatore
regionale, come ricavabile dall'impianto
complessivo del testo unico sull'edilizia e
dal rilievo che in esso assumono le
definizioni degli interventi, nonché dalla
sua prevalenza rispetto alle eventuali
diverse disposizioni contenute negli
strumenti urbanistici generali e nei
regolamenti edilizi.
A fortiori per
la Corte Costituzionale sono principi fondamentali della
materia le disposizioni che definiscono le
categorie di interventi, perché è in
conformità a queste ultime che è
disciplinato il regime dei titoli
abilitativi, con riguardo al procedimento e
agli oneri, nonché agli abusi e alle
relative sanzioni, anche penali.
L'intero corpus normativo statale in ambito
edilizio è costruito sulla definizione degli
interventi, con particolare riferimento alla
distinzione tra le ipotesi di
ristrutturazione urbanistica, di nuova
costruzione e di ristrutturazione edilizia
cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi
di ristrutturazione edilizia cosiddetta
leggera e degli altri interventi (restauro e
risanamento conservativo, manutenzione
straordinaria e manutenzione ordinaria),
dall'altro".
La definizione delle diverse categorie di
interventi edilizi spetta, dunque, allo
Stato.
Con provvedimento del 12.07.2011 il Comune
ha adottato un provvedimento di sostanziale
inibitoria della cit. d.i.a., sul
fondamentale presupposto che l’intervento
progettato dalla Società, in quanto
implicante una modifica della sagoma, non
sarebbe conforme all’art. 3 del d.P.R. n.
380/2001, mentre, quanto alla normativa
regionale (art. 27, co. 1, lett. d, della
legge reg. Lombardia n.12/2005, come
integrato dalla legge reg. n. 7/2010 e art.
103 della legge reg. n. 12/2005), essa
sarebbe attualmente all’esame della Corte
costituzionale, in conseguenza della
sentenza di questo TAR n. 5122, del
07.09.2010, che ha sollevato la relativa
questione di legittimità costituzionale, per
contrasto con il citato art. 3 e, quindi,
con l’art. 117, co. 3, della Costituzione.
...
Come chiaramente emerge dalla documentazione
versata in atti e non oggetto di
contestazione fra le parti, l’intervento in
questione concerne la demolizione di
preesistenti fabbricati, con successiva
attività ricostruttiva senza il rispetto
della sagoma (anzi, con parziale traslazione
del sedime).
In siffatte evenienze, stando alla normativa
nazionale, si è in presenza di un intervento
di nuova costruzione, non potendo
l’intervento medesimo rientrare fra quelli
di ristrutturazione edilizia che, stando
alla lettera dell’art. 3, co. 1, lett. d),
del d.P.R. cit., postula l’identità di
sagoma fra l’immobile demolito e quello
ricostruito.
In tal senso, è utile rammentare come,
secondo la giurisprudenza pressoché unanime,
esigenze di interpretazione
logico-sistematica della succitata normativa
inducano a ritenere che la ristrutturazione
edilizia, per essere tale e non finire per
coincidere con la nuova costruzione, debba
conservare le caratteristiche fondamentali
dell'edificio preesistente e la successiva
ricostruzione dell'edificio debba riprodurre
le precedenti linee fondamentali quanto a
sagoma e volumi; diversamente opinando,
infatti, sarebbe sufficiente la preesistenza
di un edificio per definire ristrutturazione
qualsiasi nuova realizzazione eseguita in
luogo o sul luogo di quella preesistente
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2008, n.
1177; 08.10.2007, n. 5214; 16.03.2007, n.
1276; 22.05.2006, n. 3006; Cass., sez. III,
26.10.2007).
Il legame con l’edificio preesistente,
quanto a sagoma -intendendosi con tale
concetto “la conformazione
planovolumetrica della costruzione ed il suo
perimetro considerato in senso verticale ed
orizzontale”, ovvero il contorno che
viene ad assumere l’edificio, ivi comprese
le strutture perimetrali con gli aggetti e
gli sporti (cfr. Cass. sez. III, 23.04.2004,
n. 19034)- e a volumetria, costituisce,
quindi, per unanime giurisprudenza, il
criterio distintivo degli interventi di
recupero del patrimonio edilizio esistente
dalle nuove costruzioni.
Le identità di volume e sagoma del nuovo
edificio rispetto a quello originario
giustificano, inoltre, il differente regime
cui sono soggetti gli interventi di
ristrutturazione edilizia rispetto alle
nuove costruzioni: ove la ristrutturazione
mantenga inalterati i parametri urbanistici
ed edilizi preesistenti, l’intervento non è,
difatti, subordinato al rispetto dei vincoli
posti dagli strumenti urbanistici
sopravvenuti, giacché la legittimazione
urbanistica del manufatto da demolire si
trasferisce su quello ricostruito (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 14.11.1996, n. 1359;
Cons. Stato, sez. V, 28.03.1998, n. 369;
Cass. civ., sez. II, 12.06.2001, n. 7909;
Tar Calabria, Reggio Calabria, 24.01.2001,
n. 36; TAR Puglia, Bari, sez. III,
22.07.2004, n. 3210) .
Tale essendo il quadro normativo a livello
nazione, sul piano regionale, l'art. 27,
comma 1, lettera d), della legge della
Regione Lombardia n. 12 del 2005 definisce
come interventi di ristrutturazione edilizia
quelli «rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad
un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente. Tali interventi
comprendono il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione parziale o totale nel rispetto
della volumetria preesistente fatte salve le
sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica».
L'art. 103 della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005, intitolato
«Disapplicazione di norme statali», dispone,
al comma 1, che, a seguito dell'entrata in
vigore della medesima legge regionale n. 12
del 2005 «cessa di avere diretta
applicazione nella Regione la disciplina di
dettaglio prevista: a) dagli articoli 3, 4,
5, 10, 11, 12, 13, 14, 16, 19, commi 2 e 3,
20, 21, 22, 23 e 32 del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia
edilizia) (testo A); b) dagli articoli 9,
comma 5, e 19, commi 2, 3 e 4, del d.P.R.
08.06.2001, n. 327 (Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in
materia di espropriazione per pubblica
utilità) (testo A)».
La giurisprudenza che si è sviluppata
all’indomani dell’introduzione di siffatta
normativa regionale, ne ha fornito
un’interpretazione costituzionalmente
orientata, volta a ritenere che la mancata
menzione del rispetto del limite della
sagoma per gli interventi di
ristrutturazione edilizia mediante
demolizione e ricostruzione non dovesse
affatto significare l’abdicazione di tale
requisito da parte del legislatore
regionale, pena la incostituzionalità della
previsione medesima, per contrasto con
quanto previsto dall'art. 3, comma 1,
lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 (che
costituisce espressione di un principio
generale che orienta anche l'interpretazione
della legislazione regionale) e, quindi, con
l’art. 117 Cost. (cfr. TAR Lombardia Milano,
sez. II, 16.01.2009, n. 153; TAR Lombardia,
Brescia, 13.05.2008, n. 504).
L'edilizia, infatti, anche se non menzionata
esplicitamente nell'art. 117 Cost., rientra,
in base a consolidata giurisprudenza
costituzionale, nell'ambito della materia
del «governo del territorio», di
competenza concorrente.
L'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, recante
la definizione degli interventi edilizi,
costituisce, pertanto, un principio
fondamentale non derogabile dal legislatore
regionale, come ricavabile dall'impianto
complessivo del testo unico sull'edilizia e
dal rilievo che in esso assumono le
definizioni degli interventi, nonché dalla
sua prevalenza rispetto alle eventuali
diverse disposizioni contenute negli
strumenti urbanistici generali e nei
regolamenti edilizi.
Sennonché, com’è noto, con l'art. 22 della
legge della Regione Lombardia n. 7 del 2010,
intitolato «Interpretazione autentica
dell'articolo 27, comma 1, lettera d), della
legge regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge
per il governo del territorio"», il
legislatore regionale è nuovamente
intervenuto in subiecta materia,
prevedendo che, nell'ambito degli interventi
di ristrutturazione edilizia, la
ricostruzione dell'edificio che segue a
demolizione «è da intendersi senza
vincolo di sagoma».
Il TAR Lombardia, come già accennato, con
ordinanza del 07.09.2010 (reg. ord. n.
364 del 2010), ha sollevato questione di
legittimità costituzionale degli artt. 27,
comma 1, lettera d), ultimo periodo, e 103
della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), nonché dell'art. 22 della legge
della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7
(Interventi normativi per l'attuazione della
programmazione regionale e di modifica ed
integrazione di disposizioni legislative -
Collegato ordinamentale 2010), in relazione
all'art. 117, terzo comma, della
Costituzione.
La questione è stata ritenuta fondata dalla
Corte Costituzionale che, con la sentenza
sopra citata, ha ribadito la riconducibilità
nell'ambito della normativa di principio in
materia di governo del territorio delle
disposizioni legislative riguardanti i
titoli abilitativi per gli interventi
edilizi (cfr. in precedenza sul tema già la
sentenza C.C. n. 303 del 2003, punto 11.2
del Considerato in diritto).
È utile riportare, al riguardo, il seguente
passaggio motivazionale: “a fortiori per
la Corte sono principi fondamentali della
materia le disposizioni che definiscono le
categorie di interventi, perché è in
conformità a queste ultime che è
disciplinato il regime dei titoli
abilitativi, con riguardo al procedimento e
agli oneri, nonché agli abusi e alle
relative sanzioni, anche penali.
L'intero corpus normativo statale in ambito
edilizio è costruito sulla definizione degli
interventi, con particolare riferimento alla
distinzione tra le ipotesi di
ristrutturazione urbanistica, di nuova
costruzione e di ristrutturazione edilizia
cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi
di ristrutturazione edilizia cosiddetta
leggera e degli altri interventi (restauro e
risanamento conservativo, manutenzione
straordinaria e manutenzione ordinaria),
dall'altro".
La definizione delle diverse categorie di
interventi edilizi spetta, dunque, allo
Stato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.05.2012 n. 1441 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per il concetto di "sagoma" deve intendersi
la conformazione planovolumetrica della
costruzione ed il suo perimetro considerato
in senso verticale ed orizzontale, ovvero il
contorno che viene ad assumere l’edificio,
ivi comprese le strutture perimetrali con
gli aggetti e gli sporti.
Come chiaramente emerge dalla documentazione
versata in atti e non oggetto di
contestazione fra le parti, l’intervento in
questione concerne la demolizione di
preesistenti fabbricati, con successiva
attività ricostruttiva senza il rispetto
della sagoma (anzi, con parziale traslazione
del sedime).
In siffatte evenienze, stando alla normativa
nazionale, si è in presenza di un intervento
di nuova costruzione, non potendo
l’intervento medesimo rientrare fra quelli
di ristrutturazione edilizia che, stando
alla lettera dell’art. 3, co. 1, lett. d),
del d.P.R. cit., postula l’identità di
sagoma fra l’immobile demolito e quello
ricostruito.
In tal senso, è utile rammentare come,
secondo la giurisprudenza pressoché unanime,
esigenze di interpretazione
logico-sistematica della succitata normativa
inducano a ritenere che la ristrutturazione
edilizia, per essere tale e non finire per
coincidere con la nuova costruzione, debba
conservare le caratteristiche fondamentali
dell'edificio preesistente e la successiva
ricostruzione dell'edificio debba riprodurre
le precedenti linee fondamentali quanto a
sagoma e volumi; diversamente opinando,
infatti, sarebbe sufficiente la preesistenza
di un edificio per definire ristrutturazione
qualsiasi nuova realizzazione eseguita in
luogo o sul luogo di quella preesistente
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2008, n.
1177; 08.10.2007, n. 5214; 16.03.2007, n.
1276; 22.05.2006, n. 3006; Cass., sez. III,
26.10.2007).
Il legame con l’edificio preesistente,
quanto a sagoma -intendendosi con tale
concetto “la conformazione
planovolumetrica della costruzione ed il suo
perimetro considerato in senso verticale ed
orizzontale”, ovvero il contorno che
viene ad assumere l’edificio, ivi comprese
le strutture perimetrali con gli aggetti e
gli sporti (cfr. Cass. sez. III, 23.04.2004,
n. 19034)- e a volumetria, costituisce,
quindi, per unanime giurisprudenza, il
criterio distintivo degli interventi di
recupero del patrimonio edilizio esistente
dalle nuove costruzioni
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.05.2012 n. 1441 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
del tutto legittimo l’operato comunale che,
ritenendo l’intervento di
demolizione/ricostruzione prospettato
dall’esponente senza il rispetto della
sagoma incompatibile con la definizione di
ristrutturazione fornita dall’art. 3 del
T.U.ED., lo ha inibito, in attesa
dell’imminente decisione della Corte
costituzionale sulla questione di
legittimità costituzionale della normativa
regionale.
Non si ravvisa, al riguardo, alcun vizio di
eccesso di potere in tale determinazione,
posto che la cura degli interessi pubblici
di cui il Comune è portatore passa anche
attraverso la corretta interpretazione del
quadro normativo vigente, in cui assumono
portata preminente le norme costituzionali.
In tale operazione interpretativa, peraltro,
il Comune ha correttamente fatto leva anche
sul precedente giurisprudenziale specifico,
in relazione al quale è stata sollevata la
q.l.c. delle ridette norme regionali.
Né si ravvisa in tale modus operandi alcuna
violazione dell’art. 136 Cost., poiché -al
contrario– l’atteggiamento prudenziale del
Comune ha concorso a garantire la stabilità
delle situazioni giuridiche soggettive
attraverso l’applicazione della norma
costituzionalmente legittima (art. 3 T.U.ED)
in luogo di quella costituzionalmente
illegittima (art. 27 cit.) in relazione al
rapporto giuridico in questione.
Contrariamente a quanto divisato
dall’esponente, infatti, la pronuncia di
incostituzionalità della Corte, intervenuta
dopo pochi mesi dalla presentazione della
d.i.a., avrebbe ben potuto esplicare i suoi
effetti anche in relazione alla vicenda per
cui è causa, inidonea a rivestire i
caratteri del rapporto giuridico esaurito
(s’intendono per “rapporti esauriti” quelli
che, sorti precedentemente alla pronuncia di
incostituzionalità, abbiano dato luogo a
situazioni ormai consolidate ed inderogabili
per effetto del passaggio in giudicato di
decisioni giurisdizionali, della
definitività di provvedimenti amministrativi
divenuti inoppugnabili, del completo
esaurimento degli effetti di atti negoziali,
del decorso dei termini di prescrizione o
decadenza ovvero del compimento di altri
atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale
o processuale).
Il provvedimento emanato in applicazione di
una norma dichiarata incostituzionale,
infatti, dà luogo ad una fattispecie di
invalidità "sopravvenuta" o "derivata", che
determina “una situazione di precarietà
dell'atto”, connessa alla precarietà della
stessa norma oggetto dello scrutinio di
costituzionalità, cui consegue la
configurazione di un vizio originario quanto
alla decorrenza, vista la retroazione ex
tunc delle sentenze del giudice delle leggi,
ma sopravvenuto quanto alla sua
riconoscibilità.
In sostanza, in assenza dell’inibitoria qui
gravata, la ricorrente si sarebbe trovata
esposta all’esercizio dei poteri di
autotutela da parte comunale, preordinati
proprio all’eliminazione del titolo
contrastante con la normativa vigente.
Anche se con il perfezionarsi della d.i.a.,
si consolida in capo al privato una
posizione di affidamento meritevole di
protezione, tuttavia, “tale affidamento non
è certamente così forte da escludere
qualsiasi potere di intervento da parte
della p.a., anche perché, altrimenti, per
effetto della d.i.a. si andrebbe a
consolidare una posizione più stabile
rispetto a quella che deriva dal
provvedimento autorizzatorio (il quale,
ricorrendo le condizioni di legge, può
essere appunto rimosso in via di
autotutela)”.
Non può, quindi, ritenersi che il decorso
del termine di 30 giorni ingeneri un
affidamento che prevalga, per ciò solo, su
ogni interesse pubblico alla rimozione del
titolo abilitativo perché, se così fosse,
verrebbe negata in radice ogni possibilità
per l’amministrazione di intervenire in
autotutela.
Con provvedimento del 12.07.2011 il Comune
ha adottato un provvedimento di sostanziale
inibitoria della cit. d.i.a., sul
fondamentale presupposto che l’intervento
progettato dalla Società, in quanto
implicante una modifica della sagoma, non
sarebbe conforme all’art. 3 del d.P.R. n.
380/2001, mentre, quanto alla normativa
regionale (art. 27, co. 1, lett. d, della
legge reg. Lombardia n.12/2005, come
integrato dalla legge reg. n. 7/2010 e art.
103 della legge reg. n. 12/2005), essa
sarebbe attualmente all’esame della Corte
costituzionale, in conseguenza della
sentenza di questo TAR n. 5122, del
07.09.2010, che ha sollevato la relativa
questione di legittimità costituzionale, per
contrasto con il citato art. 3 e, quindi,
con l’art. 117, co. 3, della Costituzione.
...
Il Collegio
ritiene del tutto legittimo l’operato
comunale che, ritenendo l’intervento di
demolizione/ricostruzione prospettato
dall’esponente senza il rispetto della
sagoma incompatibile con la definizione di
ristrutturazione fornita dall’art. 3 del T.U.ED., lo ha inibito, in attesa
dell’imminente decisione della Corte
costituzionale sulla questione di
legittimità costituzionale della normativa
regionale.
Non si ravvisa, al riguardo, alcun vizio di
eccesso di potere in tale determinazione,
posto che la cura degli interessi pubblici
di cui il Comune è portatore passa anche
attraverso la corretta interpretazione del
quadro normativo vigente, in cui assumono
portata preminente le norme costituzionali.
In tale operazione interpretativa, peraltro,
il Comune ha correttamente fatto leva anche
sul precedente giurisprudenziale specifico,
in relazione al quale è stata sollevata la
q.l.c. delle ridette norme regionali.
Si tratta, giova ribadire, di un precedente
tutt’altro che isolato in relazione alla
tematica della riconducibilità degli
interventi di demolizione/ricostruzione
senza il rispetto della sagoma nell’ambito
degli interventi di nuova costruzione
piuttosto che in quelli di ristrutturazione
edilizia (cfr. la giurisprudenza già
richiamata).
Né si ravvisa in tale modus operandi alcuna
violazione dell’art. 136 Cost., poiché -al
contrario– l’atteggiamento prudenziale del
Comune ha concorso a garantire la stabilità
delle situazioni giuridiche soggettive
attraverso l’applicazione della norma
costituzionalmente legittima (art. 3 T.U.ED)
in luogo di quella costituzionalmente
illegittima (art. 27 cit.) in relazione al
rapporto giuridico in questione.
Contrariamente a quanto divisato
dall’esponente, infatti, la pronuncia di
incostituzionalità della Corte, intervenuta
dopo pochi mesi dalla presentazione della
d.i.a., avrebbe ben potuto esplicare i suoi
effetti anche in relazione alla vicenda per
cui è causa, inidonea a rivestire i
caratteri del rapporto giuridico esaurito
(su cui cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 09.12.2008, n. 6097; nonché da ultimo
TAR Napoli Campania sez. II, 18.07.2011, n. 3878, secondo il quale s’intendono
per “rapporti esauriti” quelli che, sorti
precedentemente alla pronuncia di
incostituzionalità, abbiano dato luogo a
situazioni ormai consolidate ed inderogabili
per effetto del passaggio in giudicato di
decisioni giurisdizionali, della definitività di provvedimenti amministrativi
divenuti inoppugnabili, del completo
esaurimento degli effetti di atti negoziali,
del decorso dei termini di prescrizione o
decadenza ovvero del compimento di altri
atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale
o processuale).
Il provvedimento emanato in applicazione di
una norma dichiarata incostituzionale,
infatti, dà luogo ad una fattispecie di
invalidità "sopravvenuta" o "derivata", che
determina “una situazione di precarietà
dell'atto”, connessa alla precarietà della
stessa norma oggetto dello scrutinio di
costituzionalità, cui consegue la
configurazione di un vizio originario quanto
alla decorrenza, vista la retroazione ex tunc delle sentenze del giudice delle leggi,
ma sopravvenuto quanto alla sua
riconoscibilità (così Consiglio Stato, sez.
IV, 30.11.2010, n. 8363).
In sostanza, in assenza dell’inibitoria qui
gravata, la ricorrente si sarebbe trovata
esposta all’esercizio dei poteri di
autotutela da parte comunale, preordinati
proprio all’eliminazione del titolo
contrastante con la normativa vigente.
Come già più volte affermato dalla
giurisprudenza, anche se con il
perfezionarsi della d.i.a., si consolida in
capo al privato una posizione di affidamento
meritevole di protezione, tuttavia, “tale
affidamento non è certamente così forte da
escludere qualsiasi potere di intervento da
parte della p.a., anche perché, altrimenti,
per effetto della d.i.a. si andrebbe a
consolidare una posizione più stabile
rispetto a quella che deriva dal
provvedimento autorizzatorio (il quale,
ricorrendo le condizioni di legge, può
essere appunto rimosso in via di
autotutela)” (così, ad es. Cons. Stato, VI,
09.02.2009, n. 717).
Non può, quindi, ritenersi che il decorso
del termine di 30 giorni ingeneri un
affidamento che prevalga, per ciò solo, su
ogni interesse pubblico alla rimozione del
titolo abilitativo perché, se così fosse,
verrebbe negata in radice ogni possibilità
per l’amministrazione di intervenire in
autotutela
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.05.2012 n. 1441 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte effettuate dall'Amministrazione in
sede di pianificazione urbanistica
costituiscono apprezzamento di merito,
sottratte al sindacato di legittimità, salvo
che non siano inficiate da errori di fatto o
da abnormi illogicità.
Esse, inoltre, quando si concretano nella
destinazione di singole aree, non
necessitano di apposita motivazione, oltre
quella che si può evincere dai criteri
generali di ordine tecnico-discrezionale
seguiti nell'impostazione del piano, essendo
necessaria una motivazione specifica
soltanto in presenza di un <<affidamento
qualificato>>.
A tal riguardo, si evidenziano i casi di:
a) superamento
degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 — con l'avvertenza che la
motivazione ulteriore va riferita
esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla
destinazione di zona di determinate aree;
b)
lesione dell'affidamento qualificato del
privato derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, dalle aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di
permesso di costruire o di silenzio-rifiuto
su una domanda di concessione;
c)
modificazione in zona agricola della
destinazione di un'area limitata, interclusa
da fondi edificati in modo non abusivo.
Né si può ritenere che l'obbligo di
motivazione venga rafforzato, imposto o
mutato in base alla sola presentazione delle
osservazioni al piano da parte dei privati;
queste, infatti, sono semplici apporti
collaborativi offerti dai cittadini alla
formazione dello strumento urbanistico ed il
loro rigetto non richiede una specifica
motivazione, essendo sufficiente che siano
state esaminate e ritenute in contrasto con
gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano.
---------------
La giurisprudenza è costante nel ritenere
necessaria la ripubblicazione di un piano
urbanistico allorché vi sia stata una
rielaborazione complessivamente innovativa
del piano stesso, e cioè un mutamento delle
sue caratteristiche essenziali e dei criteri
che alla sua impostazione rispettivamente
hanno presieduto e presiedono.
L’art. 13, co. 9, della l.r. 12/2005,
d’altro canto, espressamente esclude
l’assoggettamento a ripubblicazione della
deliberazione comunale di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali, senza
ulteriori specificazioni.
Secondo l’orientamento
consolidato della giurisprudenza (cfr. ex multis, Cons. giust. amm. Sicilia, sez.
giurisd., 19.03.2012, n. 307; Cons.
Stato, sez. IV, 24.02.2011, n. 1222,
id. 13.02.2009, n. 811; id. 13.03.2008, n. 1095), le scelte effettuate
dall'Amministrazione in sede di
pianificazione urbanistica costituiscono
apprezzamento di merito, sottratte al
sindacato di legittimità, salvo che non
siano inficiate da errori di fatto o da
abnormi illogicità. Esse, inoltre, quando si
concretano nella destinazione di singole
aree, non necessitano di apposita
motivazione, oltre quella che si può
evincere dai criteri generali di ordine
tecnico-discrezionale seguiti
nell'impostazione del piano, essendo
necessaria una motivazione specifica
soltanto in presenza di un <<affidamento
qualificato>> del privato (cfr. a proposito
delle situazioni ritenute meritevoli di
particolare tutela, in quanto caratterizzate
da un affidamento «qualificato»: TAR
Lazio, Roma, sez. II, 02.03.2011, n.
1950, che elenca i casi di:
a) superamento
degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 — con l'avvertenza che la
motivazione ulteriore va riferita
esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla
destinazione di zona di determinate aree;
b)
lesione dell'affidamento qualificato del
privato derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, dalle aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di
permesso di costruire o di silenzio-rifiuto
su una domanda di concessione;
c)
modificazione in zona agricola della
destinazione di un'area limitata, interclusa
da fondi edificati in modo non abusivo).
In nessuna di siffatte situazioni si trova
la ricorrente, la quale vanta una generica
aspettativa alla conservazione della
precedente previsione urbanistica, onde
conseguire un utilizzo, nella sua
prospettiva, più proficuo dell'area in
questione (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 22.12.1999 n. 24; Sez. IV, 25.07.2001
n. 4077; TAR Catania, sez. I, 13.02.2012 n. 386; TAR Salerno, 17.12.2002, n. 2358).
Né si può ritenere che l'obbligo di
motivazione venga rafforzato, imposto o
mutato in base alla sola presentazione delle
osservazioni al piano da parte dei privati;
queste, infatti, sono semplici apporti
collaborativi offerti dai cittadini alla
formazione dello strumento urbanistico ed il
loro rigetto non richiede una specifica
motivazione, essendo sufficiente che siano
state esaminate e ritenute in contrasto con
gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.10.2007,
n. 5357; id. 30.06.2004, n. 4804; TAR
Campania Salerno, sez. I, 08.01.2010,
n. 15).
---------------
Quanto
alla presunta necessità di ripubblicazione
del piano, va ricordato che, nella
interpretazione dell'art. 10 della legge n.
1150 del 1942 (nel testo modificato
dall'art. 3 della legge n. 765 del 1967) e
nello sforzo di delineare il "giusto
procedimento" di perfezionamento di un piano
urbanistico, la giurisprudenza è costante
nel ritenere necessaria la ripubblicazione
del piano allorché vi sia stata una
rielaborazione complessivamente innovativa
del piano stesso, e cioè un mutamento delle
sue caratteristiche essenziali e dei criteri
che alla sua impostazione rispettivamente
hanno presieduto e presiedono (cfr., fra le
tante: Consiglio Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; Consiglio Stato, sez. IV, 25.11.2003, n. 7782).
Questo non è, tuttavia, il caso di specie,
ove si tratta della modifica della
destinazione impressa ad una singola area
(P2), che non appare idonea ad alterare i
criteri d’impostazione del Piano (cfr.
TAR Lombardia, sez. II, sent. 197/2009, per
cui: <<…La modifica apportata dal Comune, in
ottemperanza a tale indicazione, non
richiedeva una nuova pubblicazione della
variante: è stata, difatti, dettata dalla
necessità di assicurare il rispetto delle
finalità di tutela paesaggistiche oggetto
del piano territoriale di coordinamento
provinciale>>).
L’art. 13, co. 9, della legge reg. 12/2005,
d’altro canto, espressamente esclude
l’assoggettamento a ripubblicazione della
deliberazione comunale di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali, senza
ulteriori specificazioni (cfr. Cons. Stato, IV,
09.03.2011 n. 1503; TAR Lombardia,
Milano, II, n. 742/2006).
Anche laddove la modifica fosse da
intendersi quale mera raccomandazione ed
avesse, dunque, carattere facoltativo, non
sussisterebbe, comunque, un obbligo di
ripubblicazione del piano, in quanto
l’ampliamento dell’ambito boschivo della
rete ecologica in relazione all’area
dell’esponente non comporta una
rielaborazione complessiva del piano stesso
o un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali, nei sensi poc’anzi precisati
(cfr. Cons. Stato, IV, 15.07.2008, n. 3518;
id. 05.03.2008 n. 925; id. 31.01.2005 n.
259) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Occorre
indulgere verso una più rigida
interpretazione delle condizioni
dell’azione, ponendo forti limiti alla
configurabilità dell’interesse cd.
strumentale all’impugnazione dello strumento
urbanistico.
Ciò, sul presupposto che, in subiecta
materia, l’interesse al ricorso non può
sostanziarsi in un generico interesse a una
migliore pianificazione dei suoli di propria
spettanza che, in quanto tale, non si
differenzia dall’eguale interesse che
quisque de populo potrebbe nutrire.
Per fondare l’interesse al ricorso in
relazione alle censure afferenti la V.A.S.,
occorre fornire la dimostrazione che i
lamentati vizi della V.A.S. abbiano inciso
in modo diretto e determinante sulle scelte
specificamente riguardanti le aree dei
ricorrenti, traendo da ciò la logica
conseguenza che dette scelte avrebbero
potuto essere differenti ove si fosse
proceduto ad una nuova V.A.S. emendata dei
ridetti vizi.
Nello
specifico, con particolare riguardo ai primi
due motivi, che fanno leva sulla violazione
delle norme in materia di V.A.S., il
Collegio deve ribadirne l’inammissibilità
per difetto di interesse, posto che, secondo
la più recente giurisprudenza, occorre
indulgere verso una più rigida
interpretazione delle condizioni
dell’azione, ponendo forti limiti alla
configurabilità dell’interesse cd.
strumentale all’impugnazione dello strumento
urbanistico.
Ciò, sul presupposto che, in subiecta materia, l’interesse al ricorso non
può sostanziarsi in un generico interesse a
una migliore pianificazione dei suoli di
propria spettanza che, in quanto tale, non
si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire (cfr.
Consiglio di Stato sez. IV 12.01.2011 n.
133; id. 29.12.2010, n. 9537; id.
12.10.2010 n. 7439; 13.07.2010 n. 4542;
06.05.2010 n. 2629; sez. V, 07.09.2009,
n. 5244; sez. IV, 22.12.2007, n. 6613;
TAR Lombardia, Milano, II, 27.01.2012 n.
297; id., 24.11.2011, n. 2901).
Proprio
nella richiamata sentenza del 12.01.2011 n.
133, il Consiglio di Stato ha precisato che,
per fondare l’interesse al ricorso in
relazione alle censure afferenti la V.A.S.,
occorre fornire la dimostrazione che i
lamentati vizi della V.A.S. abbiano inciso
in modo diretto e determinante sulle scelte
specificamente riguardanti le aree dei
ricorrenti, traendo da ciò la logica
conseguenza che dette scelte avrebbero
potuto essere differenti ove si fosse
proceduto ad una nuova V.A.S. emendata dei
ridetti vizi.
Applicando tali coordinate ermeneutiche al
caso di specie, ne deriva che, non soltanto,
non risulta fornita alcuna dimostrazione
dell’incidenza dei vizi afferenti la V.A.S.
rispetto alla pianificazione avente ad
oggetto l’area della ricorrente ma altresì
che, a conferma del predetto assunto, le
censure specificamente volte a contestare il
regime dei suoli di proprietà della Società
sono, come si è già visto e come
s’illustrerà di seguito, tutte destituite di
fondamento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza insegna:
● che costituisce una strada pubblica quel
tratto viario che non è cieco, ma assume una
esplicita finalità di collegamento, essendo
destinato al transito di un numero
indifferenziato di persone;
● che il connotato di interclusione
dell'area servita esclude che vi possa
sorgere un uso stradale in favore di una
collettività indeterminata, e fa invece
concludere per un'utilità limitata ai soli
proprietari frontisti;
● che un'area privata può ritenersi
assoggettata ad uso pubblico di passaggio
quando l'uso avvenga ad opera di una
collettività indeterminata di soggetti
considerati uti cives, ossia quali titolari
di un pubblico interesse di carattere
generale, e non uti singuli, ossia quali
soggetti che si trovano in una posizione
qualificata rispetto al bene gravato;
oppure quando vi sia stato, con la
cosiddetta dicatio ad patriam,
l'asservimento del bene da parte del
proprietario all'uso pubblico, analogamente,
di una comunità indeterminata di soggetti
considerati sempre uti cives, di talché il
bene stesso viene ad assumere
caratteristiche analoghe a quelle di un bene
demaniale;
● che ai fini della dicatio ad patriam
occorre pur sempre il requisito
dell’idoneità intrinseca del bene a
soddisfare un’esigenza comune della
collettività dei consociati uti cives.
In coerenza con gli enunciati appena
esposti, può, dunque, escludersi l'uso
pubblico quando il passaggio venga
esercitato unicamente dai proprietari di
determinati fondi in dipendenza della
particolare ubicazione degli stessi, o da
coloro che abbiano occasione di accedere ad
essi per esigenze connesse alla loro privata
utilizzazione, oppure, infine, rispetto a
strade destinate al servizio di un
determinato edificio o complesso di edifici.
Ad avviso di questo Collegio, a nulla
rileva, conseguentemente, che detta strada
privata sia stata inserita nelle tavole di
piano quale viabilità esistente e che le sia
stata impressa una funzione di viabilità di
servizio e distribuzione per l’area
produttiva di tipo D2, dato che il suo
utilizzo pubblico meramente prospettico, ma
non sicuramente attuale, la rende, allo
stato, priva di quel requisito di pubblica
percorribilità, idonea a soddisfare esigenze
di carattere generale, alla cui tutela è da
ritenersi preordinata la disposizione di cui
all’art. 26.3 delle NTA.
Come recentemente ricordato dalla V Sezione
del Consiglio di Stato (sentenza n. 728 in
data 14.02.2012), “la giurisprudenza
insegna, invero, che costituisce una strada
pubblica quel tratto viario che non è cieco,
ma assume una esplicita finalità di
collegamento, essendo destinato al transito
di un numero indifferenziato di persone:
C.d.S., V, 07.12.2010, n. 8624; che il
connotato di interclusione dell'area servita
esclude che vi possa sorgere un uso stradale
in favore di una collettività indeterminata,
e fa invece concludere per un'utilità
limitata ai soli proprietari frontisti:
C.d.S., V, 18.12.2006, n. 7601; che un'area
privata può ritenersi assoggettata ad uso
pubblico di passaggio quando l'uso avvenga
ad opera di una collettività indeterminata
di soggetti considerati uti cives, ossia
quali titolari di un pubblico interesse di
carattere generale, e non uti singuli, ossia
quali soggetti che si trovano in una
posizione qualificata rispetto al bene
gravato; oppure quando vi sia stato, con la
cosiddetta dicatio ad patriam,
l'asservimento del bene da parte del
proprietario all'uso pubblico, analogamente,
di una comunità indeterminata di soggetti
considerati sempre uti cives, di talché il
bene stesso viene ad assumere
caratteristiche analoghe a quelle di un bene
demaniale: Cassazione civile, sez. II,
21.05.2001, n. 6924; che ai fini della
dicatio ad patriam occorre pur sempre il
requisito dell’idoneità intrinseca del bene
a soddisfare un’esigenza comune della
collettività dei consociati uti cives: Cass.
Civ., II, 13.02.2006, n. 3075”.
In coerenza con gli enunciati appena
esposti, può, dunque, escludersi l'uso
pubblico quando il passaggio venga
esercitato unicamente dai proprietari di
determinati fondi in dipendenza della
particolare ubicazione degli stessi, o da
coloro che abbiano occasione di accedere ad
essi per esigenze connesse alla loro privata
utilizzazione (Cass. Civ., II, 23.05.1995,
n. 5637), oppure, infine, rispetto a strade
destinate al servizio di un determinato
edificio o complesso di edifici (Cass. civ.,
I, 22.06.1985, n. 3761).
Nel caso di specie, manca –come s’è visto-
proprio il requisito dell’idoneità
intrinseca del bene a soddisfare un’esigenza
comune della collettività dei consociati
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 24.05.2012 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Al
fine di conseguire il condono edilizio di un'opera
abusivamente realizzata, ciò che rileva per il completamento funzionale è
che il quid novi -pur se carente nelle finiture- sia
individuabile nei suoi elementi strutturali e presenti
connotati sufficienti ad assolvere la funzione cui è
destinato.
Il completamento funzionale va inteso nel senso che la
costruzione, anche se non completamente ultimata, deve
essere idonea alle funzioni cui l’opera è destinata.
--------------
In tema di condono ex art. 39 della legge n. 724/1994,
spetta al richiedente fornire adeguata documentazione volta
a comprovare, anche in via indiretta, l'intervenuto
completamento funzionale -inteso come realizzazione
dell'opera abusiva avente caratteristiche tecniche
compatibili con la destinazione per la quale è chiesto il
condono- entro la data del 31.12.1993, mentre
sull’amministrazione grava soltanto l'obbligo di controllare
l'attendibilità di quanto dichiarato.
---------------
Costante giurisprudenza esclude la necessità
dell’acquisizione del parere della commissione edilizia
comunale nel caso di diniego di condono edilizio allorquando
non occorra procedere a valutazioni tecniche del progetto
per acclarare la conformità dell'opera alle prescrizioni
normative, ma deve farsi applicazione di valutazioni di
natura giuridica.
Inoltre, in ragione della specialità del procedimento di
condono edilizio rispetto all’ordinario procedimento di
rilascio della concessione edilizia, nonché dell’assenza di
una specifica previsione in ordine alla sua necessità, deve
ritenersi che ai fini del rilascio della concessione
edilizia in sanatoria non sia obbligatorio il parere della
commissione edilizia, ma esso, al più, sia facoltativo.
---------------
In mancanza del completamento funzionale del manufatto,
nessun silenzio-assenso si forma, alla scadenza del biennio,
sulla domanda di condono.
Dal contenuto della domanda di sanatoria ex art. 13 prot.
2935 del 3.06.1992 allegata al fascicolo si ricava che le
opere di completamento per cui era richiesta la sanatoria
avevano ad oggetto l’intero stabile composto da un piano
seminterrato un piano terra, un primo piano ed un
sottotetto. Nella domanda di sanatoria predetta non si
rinviene alcun riferimento alla destinazione ad uso
commerciale del piano terra che ivi viene indicato quale “deposito”.
Dal contenuto della domanda in atti risulta quindi smentita
l’assunta trasformazione del locale sito a piano terra, sin
dalla data di presentazione della istanza ex art. 13 cit.. I
documenti prodotti in giudizio e precisamente l’istanza di
sanatoria unitamente al prospetto relativo al calcolo delle
superfici relative alla richiesta di concessione edilizia
non comprovano che il locale ad uso deposito sito al piano
terra fosse già all’epoca autonomamente utilizzabile per la
destinazione commerciale di cui si discute.
Piuttosto, con la domanda di condono presentata ai sensi
della legge n. 724/1994, il ricorrente ha dichiarato che le
opere di trasformazione d’uso sarebbero consistite
nell’abbattimento della tompagnatura anteriore, ed inoltre
dalla scrittura privata in atti del 02.04.1992 di incarico
lavori si ricava altresì che, oltre alla demolizione della
tompagnatura esterna lato strada, doveva essere altresì
realizzato un bagno con relativo impianto idraulico.
Di qui consegue l’assoluta insufficienza della
documentazione fotografica allegata all’istanza di condono
al fine della dimostrazione del dedotto completamento
funzionale delle opere entro la data del 31.12.2003, dal
momento che il ricorrente avrebbe dovuto altresì comprovare,
entro i termini perentori imposti dalla legge, l’effettiva
ultimazione delle opere interne necessarie a rendere i
locali idonei all’uso commerciale.
Nella specie, dalla documentazione in atti è evidente che
l’immobile in questione, alla data del 31.12.2003, non solo
risultava allo stato grezzo, senza intonacatura e senza
rifiniture di sorta, ma anche senza quelle “opere
indispensabili per renderne possibile l’uso richiesto”,
che il ricorrente, pur affermandone apoditticamente
l’esistenza, non è stato in grado di documentare.
Ed infatti, il ricorrente pur avendo affermato in ricorso
che il locale deposito era stato dotato di autonomi servizi
ed impianti, non ha dimostrato di aver documentato nel corso
del procedimento di condono il dedotto completamento delle
opere interne relative alla realizzazione del servizio
igienico, né di aver dotato i locali degli allacciamenti
idrici e fognati necessari, anche ai fini igenico-sanitari,
per lo svolgimento dell’attività commerciale dichiarata.
Ciò che, infatti, rileva per il completamento funzionale è
che il quid novi -pur se carente nelle finiture- sia
individuabile nei suoi elementi strutturali e presenti
connotati sufficienti ad assolvere la funzione cui è
destinato, cosa che nella specie non è avvenuta. Il
completamento funzionale va inteso nel senso che la
costruzione, anche se non completamente ultimata, deve
essere idonea alle funzioni cui l’opera è destinata (cfr.
Cons. St., sez. V, 20.10.1994, n. 1198).
---------------
Quanto al vizio di omessa istruttoria denunciato, va
rilevato che, in tema di condono ex art. 39 della legge n.
724/1994, spetta al richiedente fornire adeguata
documentazione volta a comprovare, anche in via indiretta,
l'intervenuto completamento funzionale -inteso come
realizzazione dell'opera abusiva avente caratteristiche
tecniche compatibili con la destinazione per la quale è
chiesto il condono- entro la data del 31.12.1993,
mentre sull’amministrazione grava soltanto l'obbligo di
controllare l'attendibilità di quanto dichiarato (cfr.
TAR Valle d'Aosta, 15.02.2002, n. 35).
Di qui
consegue che alcun onere di integrazione istruttoria poteva
imporsi all’amministrazione gravando a carico
dell’interessato l’onere di comprovare il completamento
dell’opera entro il termine indicato.
---------------
Del pari infondata si appalesa la censura di omessa
acquisizione del parere asseritamente obbligatorio della
commissione edilizia comunale.
Costante giurisprudenza
condivisa dalla Sezione, esclude, infatti, la necessità
dell’acquisizione di tale parere nel caso di diniego di
condono edilizio allorquando -come nel caso di specie- non
occorra procedere a valutazioni tecniche del progetto per acclarare la conformità dell'opera alle prescrizioni
normative, ma deve farsi applicazione di valutazioni di
natura giuridica.
Inoltre, in ragione della specialità del
procedimento di condono edilizio rispetto all’ordinario
procedimento di rilascio della concessione edilizia, nonché
dell’assenza di una specifica previsione in ordine alla sua
necessità, deve ritenersi che ai fini del rilascio della
concessione edilizia in sanatoria non sia obbligatorio il
parere della commissione edilizia, ma esso, al più, sia
facoltativo (TAR Campania, sez. VI, 27.01.2010, n.
321; 21.10.2009, n. 6108; 24.09.2009, n. 5068;
14.01.2008, n. 195; 03.08.2007, n. 7258; Cons. Stato
, sez. V, 02.10.2006, n. 5725; Cons. St., sez. IV,
16.10.1998, n. 1306; C.d.S. sez. V, 04.10.2007, n. 5153).
---------------
Sulla base delle predette conclusioni neppure può
ritenersi perfezionata la fattispecie del silenzio assenso
che si viene a formare solo nel caso in cui, quantomeno al
momento dell’istanza, il manufatto, ancorché incompleto, sia
pur sempre riferibile all’abuso per il quale è stato
proposto il condono. In caso contrario, si verificherebbe la
manifesta inammissibilità dell’istanza per indeterminatezza
dell’opera condonata, per cui non si potrebbe mai
legittimamente formare il predetto silenzio-accoglimento.
Ciò esposto, ove si consideri che nella specie il condono è
stato richiesto per locali commerciali e che al momento
dell’istanza i locali si presentavano non diversi dalla
destinazione ad uso deposito originariamente assegnata, si
comprende come in fatto manchi quella riferibilità all’abuso
per il quale è richiesto il condono, che, come detto, deve
ritenersi posto a base della formazione del provvedimento
tacito.
Pertanto, in mancanza del completamento funzionale
del manufatto, nessun silenzio-assenso si forma, alla
scadenza del biennio, sulla domanda di condono (cfr. Cons.
St., sez. V, 25.10.1997, n. 1198) (TAR Campania-Napoli, Sez.
VIII,
sentenza 23.05.2012 n. 2392 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
|
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
27 del t.u. dell'edilizia (ex art. 7 l. n. 47 del 1985) è
applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta
esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia
limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
---------------
L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è
“in re ipsa” e non esige ulteriori specificazioni oltre
quelle del ricadere l’intervento -realizzato senza titoli-
in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, poiché “la
straordinaria importanza della tutela reale dei beni
paesaggistici ed ambientali elide, in radice, qualsivoglia
doglianza circa la pretesa non proporzionalità della
sanzione ablativa.
Tanto premesso, seguendosi per scorrevolezza di
trattazione la ricorrente per come ha inteso proporre i
singoli mezzi di impugnazione, è infondato il primo di essi,
volto a denunciare, in una ad eccesso di potere sotto più
profili, violazione dell’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380
del 2001 e della parte III del d. l.vo n. 42 del 2004
nell’assunto che l’applicabilità della sanzione demolitoria
è assoggettata, da dette previsioni normative, alla
sussistenza di due presupposti: che si sia in presenza di
“inizio” di opere senza titolo e che le stesse ricadano in
zone assoggettate a vincolo di inedificabilità assoluta e
non relativa, come nel caso dato.
Ed invero, a differenza di quanto come innanzi sostenuto
dalla Rizzo, “alla luce della disciplina vigente e della
consolidata giurisprudenza formatasi sul testo normativo
antecedente, l'art. 27 del t.u. dell'edilizia (ex art. 7 l.
n. 47 del 1985) è applicabile sia che venga accertato
l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e
non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta” (così,
ex multis, da ultimo Tar
Campania, questa sesta sezione, sentenza n. 5804 del 14.12.2011; n. 2382 del 28.04.2011; n. 1636 del 23.03.2011; n. 2814 del
06.05.2010; n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010); e ciò avuto conto, quanto
alla disciplina vigente, che la modifica operata al testo
della norma ad opera dell’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269 ha in particolare svalutato proprio il
presupposto dello “stato iniziale dei lavori”, essendo stata
ora espressamente prevista la possibilità di ricorrere alla
demolizione ad horas quando (si) accerti “l'inizio o
l'esecuzione di opere” (cfr. Tar Campania, sezione terza, 11.03.2009, n. 1378, ai cui più ampi contenuti argomentativi
può rinviarsi).
---------------
Migliore sorte non può subire il secondo mezzo volto a
contestare la violazione della medesima normativa
nell’assunto che la sanzione demolitoria è stata comminata
senza operare alcuna verifica in ordine alla sussistenza o
meno del “danno ambientale”, con quanto a conseguirne anche
in ordine ad eventuali diversificazioni della sanzione.
Anche qui il Collegio non ha ragioni per discostarsi dal
costante orientamento della Sezione, secondo cui l’interesse
pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è “in re ipsa”
e non esige ulteriori specificazioni oltre quelle del
ricadere l’intervento -realizzato senza titoli- in zona
assoggettata a vincolo paesaggistico, poiché “la
straordinaria importanza della tutela reale dei beni
paesaggistici ed ambientali (cfr. C. Cost. ord.za 12/20.12.2007 nr. 439, nonché C. Cost.
07.11.2007 nr.
367 sul valore primario ed assoluto del paesaggio) elide, in
radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non
proporzionalità della sanzione ablativa” (così Tar Campania,
questa sesta sezione, sentenza 15.03.2010, n. 1464 e,
ancora richiamando la prima, n. 2076 del 21.04.2010, n.
24015 del 12.11.2010, n. 5804 del 14.12.2011
cit.; n. 1636 del 23.03.2011; n. 2814 del 06.05.2010;
n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e
sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
E tanto a tacere che il principio (secondo cui “l’interesse
pubblico alla demolizione delle opere realizzate senza
titolo è in re ipsa e non abbisogna di alcun altra
valutazione sul punto”) è affermato anche in via generale,
ossia senza far specifica leva sui valori paesaggistici
(così, ex multis, Cons. Stato, sez. quinta, 11.01.2011,
n. 79 e 07.09.2009, n. 5229; sezione quarta, 31.08.2010, n. 3955,
01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007,
n. 6344; Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n.
5200 del 09.11.2011, n. 2382 del 28.04.2011, nn.
2126, 2128, 2129 del 13.04.2011, n. 1338 dell'08.03.2011, n. 160 del 14.01.2011, n. 24017 del 12.11.2010, n. 17238 del 26.08.2010, n. 16996 del 27.07.2010 e n. 2812 del
06.05.2010; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.02.2011, n. 240)
(TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
sentenza 18.05.2012 n. 2291 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
|
EDILIZIA PRIVATA: Deve
affermarsi la necessità di premunirsi del permesso di
costruire, o di far luogo a DIA alternativa, in presenza di
soppalchi di dimensioni non modeste comportanti un
incremento di superfici dell’immobile e quindi anche un
ulteriore carico urbanistico.
L'esecuzione di soppalchi nella ristrutturazione interna di
un edificio, pure se non realizzi un mutamento di
destinazione d'uso, costituisce opera che richiede il
permesso a costruire o, in alternativa, la denuncia d'inizio
di attività, poiché comporta modifica delle superfici
interne, la quale, a norma dell'art. 10, comma 1, lett. c),
T.U. dell'edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) è necessaria e
sufficiente a far sorgere tale obbligo, indipendentemente,
quindi, da una contemporanea modifica della sagoma o del
volume.
---------------
Nel vagliare un intervento edilizio consistente in una
pluralità di opere deve effettuarsi una valutazione globale
delle stesse atteso che “la considerazione atomistica dei
singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva
portata dell'operazione”, ovvero che, nel caso in cui
un'opera consista nella ristrutturazione di un immobile
effettuata tramite la realizzazione di “corposi interventi
edili, essa non è scomponibile in distinte fasi cosicché
possano individuarsi interventi soggetti ad autorizzazione
ed altri soggetti a concessione, ma va valutata nella sua
unitarietà e risulta soggetta al regime concessorio".
---------------
Ove gli interventi ricadano in zona assoggettata a vicolo
paesaggistico, stante l’alterazione dell’aspetto esteriore
(cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004), gli stessi
risultano soggetti alla previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, titolo autonomo non
conseguibile a sanatoria ex combinato disposto fra art. 146
e successivo art. 167, commi 4 e 5 del medesimo decreto, che
esclude sanatorie per interventi non qualificabili come
manutentivi o che abbiano determinato la creazione di
superfici utili o volumi.
Quanto al soppalco ed annessi, rispetto al quale si sostiene
la non necessità del permesso di costruire non incidendo lo
stesso sulla sagoma e sui prospetti della costruzione, il
Collegio non ha ragione di discostarsi dai precedenti della
Sezione e, segnatamente, dalle ampie argomentazioni e
conclusioni contenute nella sentenza n. 908 del 22.02.2011,
cui può per brevità rinviarsi, qui solo ricordandosi che,
per prevalente indirizzo del giudice amministrativo e di
quello penale, deve invece affermarsi la necessità di
premunirsi del permesso di costruire, o di far luogo a DIA
alternativa, in presenza di soppalchi di dimensioni non
modeste comportanti un incremento di superfici
dell’immobile, come nella fattispecie data si trae
visivamente dalla stessa documentazione fotografica versata
in atti dalla Rizzo, e quindi anche un ulteriore carico
urbanistico.
Conclusione, questa, cui non può esser opposta la
legislazione regionale campana (l’art. 2 della legge
regionale della Campania 28.11.2001, n. 19, qui pure
invocato), come sostenuto da Cass. penale, sez. III, 22.09.2006, n. 37705, che, all’esito di una compiuta
ricostruzione della normativa statale e regionale, ha
fissato il principio di diritto, dalla Sezione già condiviso
in seno alla cennata pronuncia n. 908/2011, secondo cui
"l'esecuzione di soppalchi nella ristrutturazione interna di
un edificio, pure se non realizzi un mutamento di
destinazione d'uso, costituisce opera che richiede il
permesso a costruire o, in alternativa, la denuncia d'inizio
di attività, poiché comporta modifica delle superfici
interne, la quale, a norma dell'art. 10, comma 1, lett. c),
T.U. dell'edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) è necessaria e
sufficiente a far sorgere tale obbligo, indipendentemente,
quindi, da una contemporanea modifica della sagoma o del
volume.
Tale disciplina è applicabile pure in presenza della
disposizione dell'art. 2 L.R. Campania, che dichiara
sufficiente la semplice denuncia d'inizio attività in
ipotesi di opere interne di singole unità immobiliari che
non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non
rechino pregiudizio alla statica dell'immobile, risultando
la corrispondente disposizione della legislazione statale
richiamata (l. n. 662 del 1996, art. 2, comma 60) abrogata
dall'art. 36, comma 2, lett. h), dello stesso T.U.”.
---------------
Quanto, poi, all’asserita modesta entità delle
restanti opere, come detto prive di titolo (recte: di
titoli) abilitativo (i) per stessa ammissione attorea, va
ancora richiamato il condiviso orientamento della Sezione
secondo cui nel vagliare un intervento edilizio consistente
in una pluralità di opere, come qui accade, deve effettuarsi
una valutazione globale delle stesse atteso che “la
considerazione atomistica dei singoli interventi non
consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione”
(cfr. in tali sensi, Tar Campania, Napoli, questa sezione
sesta, sentenze n. 1114 del 05.03.2012; n. 26787 del 03.12.2010; 16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010, n.
1155; 09.11.2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano,
sezione seconda, 11.03.2010, n. 584), ovvero che, nel
caso in cui un'opera consista nella ristrutturazione di un
immobile effettuata tramite la realizzazione di “corposi
interventi edili, essa non è scomponibile in distinte fasi
cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad
autorizzazione ed altri soggetti a concessione, ma va
valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al regime concessorio” (così la giurisprudenza sopra riportata e così
già Tar Puglia, Bari, sezione seconda, 16.07.2001, n.
2955).
Ed ancora deve ricordarsi che ove gli interventi ricadano in
zona assoggettata a vicolo paesaggistico, stante
l’alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del
d.l.vo n. 42 del 2004), gli stessi risultano soggetti alla
previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica,
titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ex combinato
disposto fra art. 146 e successivo art. 167, commi 4 e 5 del
medesimo decreto, che esclude sanatorie per interventi non
qualificabili come manutentivi o che abbiano determinato la
creazione di superfici utili o volumi (Tar Campania, questa
sesta sezione, sentenza n. 1114 del 05.03.2012 cit.; n.
26787 del 03.12.2010 cit.; n. 1973 del 14.04.2010) (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
sentenza 18.05.2012 n. 2291 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
|
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
Comune considera la presenza dei cani nelle
aree verdi un rischio di natura igienica per
la salute dei cittadini, oltre che un
problema per il decoro della cittadina a
causa delle deiezioni degli animali, non
raccolte dai proprietari. Pertanto il Comune
si limita ad affermare che la presenza degli
animali potrebbe avere conseguenze dannose
per la salubrità dei cittadini.
Tuttavia, non essendovi dati o accertamenti
medico-veterinari a supportare la decisione
del comune di vietare l'accesso dei cani
alle aree verdi, tale ordinanza appare
viziata da eccesso di potere per carenza di
adeguata istruttoria.
Pertanto se il rischio per la salute
pubblica, come sembra emergere dalla
premessa dell'ordinanza, è relativo alla
mancata raccolta delle deiezioni dei cani da
parte dei proprietari, il Sindaco, anziché
vietare l'ingresso dei cani nelle aree
verdi, avrebbe potuto potenziare il
controllo da parte della polizia municipale,
sanzionando i trasgressori dell'obbligo
predetto.
Conseguentemente, è illegittima e va
annullata l'ordinanza limitatamente alla
statuizione che "vieta l'accesso ai cani
anche se al guinzaglio in tutte le aree
verdi pubbliche".
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 4
del 21.04.2011, in relazione al punto 4 che
"vieta l'accesso ai cani anche se al
guinzaglio in tutte le aree verdi pubbliche".
...
Il ricorso è fondato.
Dal testo dell'ordinanza impugnata si evince
che il Comune di Crodo considera la presenza
dei cani nelle aree verdi un rischio di
natura igienica per la salute dei cittadini,
oltre che un problema per il decoro della
cittadina a causa delle deiezioni degli
animali, non raccolte dai proprietari.
Pertanto il Comune si limita ad affermare
che la presenza degli animali potrebbe avere
conseguenze dannose per la salubrità dei
cittadini.
Non essendovi dati o accertamenti
medico-veterinari a supportare la decisione
del comune di vietare l'accesso dei cani
alle aree verdi, tale ordinanza appare
viziata da eccesso di potere per carenza di
adeguata istruttoria.
Dall'esame degli atti di causa non è dato
rinvenire, infatti, idonea istruttoria volta
a sostenere la decisione di adottare
un'ordinanza quale quella impugnata.
L'esercizio del potere sindacale non può
prescindere dalla sussistenza di una
situazione di effettivo e concreto pericolo
per la salute pubblica, la quale non sia
fronteggiabile con gli ordinari strumenti di
amministrazione attiva, debitamente motivata
a seguito di approfondita istruttoria.
L'unico obbligo imposto dalla legge nella
conduzione dei cani è quello di condurli al
guinzaglio con l'obbligo di idonea
museruola, quando si trovano nelle vie o in
altri luoghi pubblici ( art. 83 D.P.R. n.
320 del 1954).
Pertanto se il rischio per la salute
pubblica, come sembra emergere dalla
premessa dell'ordinanza, è relativo alla
mancata raccolta delle deiezioni dei cani da
parte dei proprietari, il Sindaco, anziché
vietare l'ingresso dei cani nelle aree
verdi, avrebbe potuto potenziare il
controllo da parte della polizia municipale,
sanzionando i trasgressori dell'obbligo
predetto.
Il ricorso va, pertanto accolto e va
annullata l'ordinanza n. 4 del 21.04.2011,
limitatamente alla statuizione di cui al
punto 4 che "vieta l'accesso ai cani
anche se al guinzaglio in tutte le aree
verdi pubbliche"
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 18.05.2012 n. 593 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
J. Cortinovis,
Semplificazione amministrativa per gli
impianti di telecomunicazione: D.Lgs. n.
259/2003 e SCIA.
Con
sentenza 18.05.2012 n. 580 la Sez. I del
TAR Piemonte si è occupata del tema della
sostituzione, ad opera della Legge n. 122
del 2010, della denunzia di inizio attività,
prevista nel Codice delle comunicazioni
elettroniche (D.Lgs. n. 259/2003)
relativamente ad alcune tipologie di
impianti di telefonia, con la segnalazione
certificata di inizio attività.
La vicenda trae origine dal deposito, da
parte di un Operatore, di una DIA ai sensi
dell'art. 87-bis del D.Lgs. n. 259/2003 per
l'installazione di un impianto per la
trasmissione di segnale con tecnologia UMTS
su preesistente infrastruttura di
telecomunicazioni. Il Dirigente competente,
tuttavia, comunicava all'Operatore che, a
seguito dell'avvenuta sostituzione della DIA
ad opera della SCIA, la denuncia presentata
non sarebbe potuta esser presa in
considerazione, non senza considerare che,
trattandosi di impianto con potenza in
antenna superiore a 20 watt, sarebbe stato
necessario richiedere un'autorizzazione ai
sensi dell’art. 87 del D.Lgs. n. 259/2003.
Con la citata pronuncia, il TAR Piemonte ha
evidenziato come il Legislatore, nell’ottica
della semplificazione delle procedure
finalizzate al completamento della rete di
banda larga mobile, abbia introdotto nel
Codice delle comunicazioni elettroniche,
relativamente ad alcune tipologie di
impianti, la possibilità di assentire gli
impianti mediante DIA, indipendentemente
dalla potenza sviluppata in antenna. Se ne
deve dedurre, conseguentemente, l'assentibilità
a mezzo di DIA per tutti gli impianti che
utilizzano tecnologia UMTS o tecnologia
derivata, nonché tutti gli impianti che si
avvalgono di infrastrutture esistenti.
In relazione al rapporto tra la DIA,
contemplata del D.Lgs. n. 259/2003 e la
SCIA, introdotta dalla L. n. 122/2010, il
Collegio ha invece sottolineato di non
aderire all’orientamento giurisprudenziale
secondo il quale la disciplina contenuta nel
codice delle comunicazioni elettroniche
costituirebbe una normativa speciale e
compiuta, nei confronti della quale la SCIA
non troverebbe applicazione. Sottolinea
infatti il Collegio come, la L. n. 122/2010,
pubblicata il 30.07.2010 ed entrata in
vigore il giorno successivo, nel convertire
in legge il D.L. n. 78/2010, abbia previsto
che la disciplina della SCIA vada a
sostituire "in ogni normativa statale e
regionale" la disciplina della DIA,
senza possibili ritagli di spazi di
sopravvivenza della DIA se non laddove
espressamente contemplati. Neppure
l'utilizzo dell'espressione "denuncia di
inizio attività", in luogo a "dichiarazione
di inizio attività", nel Codice delle
comunicazioni elettroniche può portare alla
conclusione che tale "denuncia" (DIA) non
sia stata sostituita dalla SCIA, trattandosi
in tal senso di espressioni equivalenti.
In conclusione, ritiene il Collegio che la
sostituzione della SCIA alla DIA non si pone
in contrasto con il processo di
semplificazione voluto dal Legislatore per
gli impianti di telecomunicazione. Se é vero
che la SCIA sembra imporre all’interessato
l’onere di allegare alla domanda una
documentazione più articolata, si deve
tuttavia rilevare che si tratta pur sempre
di documentazione nella disponibilità della
parte (autocertificazioni, atti di
notorietà), alla quale si accompagna la
possibilità per la stessa di dare immediato
inizio ai lavori (link a http://studiospallino.blogspot.it). |
APPALTI SERVIZI - INCARICHI PROFESSIONALI: La
legittimazione a ricorrere e l'interesse a
ricorrere si radicano in capo ad un
soggetto, nel caso di procedura negoziata,
solo perché imprenditore operante nel
settore interessato, senza che occorra che
abbia presentato apposita domanda di
partecipazione alla gara.
---------------
L’avvenuta esecuzione integrale della
prestazione esclude qualsiasi interesse del
ricorrente all’annullamento degli atti di
gara.
---------------
La scelta del contraente per l'affidamento
di un incarico per lo svolgimento di una
prestazione d'opera intellettuale (art. 2230
cod. civ.), a seguito di una gara formale o
informale, o anche per trattativa privata, è
atto di gestione, privo di qualsiasi
contenuto di indirizzo per gli uffici. Si
risolve, infatti, nella individuazione del
soggetto o dei soggetti che appaiano più
quotati, secondo regole obiettive e
prefissate, per il conseguimento dei fini
della P.A.
L'attività di indirizzo, riservata agli
organi elettivi o politici del Comune, si
risolve, invece, nella fissazione delle
linee generali da seguire e degli scopi da
perseguire con l'attività di gestione. Non
rientra, perciò, in questa attribuzione, la
scelta di un contraente qualsiasi dell'ente.
In questo caso, la scelta spetta ai
dirigenti, secondo l'esplicito disposto
dell'art. 107 del T.U. n. 267/2000 citato, o
ad una commissione composta da soggetti
aventi adeguata esperienza professionale per
condurre una selezione ispirata al
soddisfacimento di siffatte esigenze
tecniche.
---------------
La scelta dei soggetti da invitare alla
gara, effettuata dall’amministrazione
attraverso l’utilizzo dell’albo degli
avvocati di Milano, risponde a criteri di
trasparenza e di proporzionalità rispetto
all’oggetto della gara in quanto la
professionalità richiesta in via principale
era quella di avvocato. Non sussistendo
infatti sul mercato, per i noti limiti
all’esercizio della professione legale in
forma societaria, solo da poco in fase di
superamento, figure professionali complesse
in grado di soddisfare contemporaneamente
requisiti legali e tecnici,
l’amministrazione ha correttamente fatto una
scelta nell’ambito dei professionisti ai
quali era richiesta la prestazione
principale, rimanendo a loro carico il
compito di trovare le modalità organizzative
volte ad associare altri tipi di
professionisti o imprese.
A ciò si aggiunge che la scelta
dell’amministrazione di assoggettare gli
appalti dei servizi legali in questione alla
disciplina degli artt. 20 e 27 del Codice
degli appalti, in quanto rientranti
nell'allegato 2B del D.Lgs. n. 163/2006,
esclude la possibilità di assoggettarli alla
disciplina degli altri contratti di lavoro
autonomo di alta professionalità prevista
dall’art. 7, comma 6 e ss. del D. Lgs.
165/2001.
Infatti il Codice degli appalti detta una
disciplina esaustiva della materia.
---------------
E' legittima la scelta della P.A. di non
prendere in considerazione l’offerta di una
ditta del settore, non invitata ad una
procedura semplificata ed accelerata di
cottimo fiduciario ex art. 125, comma 11,
del D.Lgs. n. 163 del 2006, ma che ha
presentato comunque l’offerta, ove sia stata
motivata con riferimento al fatto che
-nonostante la partecipazione di un solo
concorrente dei cinque formalmente invitati-
la ditta interessata sia stata più volte
invitata in passato a procedure di cottimo
fiduciario, e, in un caso, sia risultata
aggiudicataria.
Analoghe considerazioni valgono per il caso
in questione, avendo il ricorrente già
fruito di plurimi incarichi senza gara, ed
in mancanza di prova del fatto che il
ricorrente fosse l’unico in grado di fornire
il servizio richiesto. L’amministrazione ha
quindi correttamente applicato principi di
parità di trattamento e di concorrenza che
hanno permesso ad altri legali, aventi gli
stessi titoli del ricorrente, di instaurare
una collaborazione con il Comune in una
materia particolarmente complessa come la
redazione di atti di gara e di costituzione
di società.
---------------
L'art. 1, comma 67, della Legge n. 266/2005,
che ha introdotto il contributo a favore
dell'Autorità di Vigilanza sui contratti
pubblici (poi ribadito dall’art. 6, comma 1,
del D.Lgs. n. 163/2006 e dalle successive
deliberazioni dell’Autorità di vigilanza in
data 10/01/2007 e 24.01.2008), tutela un
interesse erariale a contenuto
economico-finanziario, connesso alle
esigenze di copertura delle spese (generali
e di funzionamento) dell’Autorità di
vigilanza, e traduce tale interesse in una
nuova imposizione di carattere fiscale a
carico delle imprese interessate, mediante
la pretesa sostanziale all’ottenimento del
pagamento a pena di esclusione dalla gara.
La previsione della medesima norma,
viceversa, non si traduce né può tradursi,
nella previsione di filtri formali
insuscettibili di regolarizzazione formale e
quindi capaci di causare l’esclusione di
imprese che comunque adempiono al previsto
onere contributivo e che sono inoltre in
possesso dei prescritti requisiti economici
e professionali, e che consentirebbero
dunque di estendere la competizione per la
scelta della migliore offerta.
FATTO e DIRITTO
1. Il ricorrente, in qualità di affidatario
(senza gara) di due precedenti incarichi di
consulenza relativi alla costituzione della
società mista concessionaria della linea 4
della metropolitana milanese, impugna gli
atti della procedura di affidamento del
servizio di consulenza legale relativo alla
linea 4 della metropolitana indetta dal
Comune per i seguenti motivi:
A) incompetenza per violazione dell’art. 48 TUEL, art. 43 dello
Statuto comunale, art. 13 del Regolamento
comunale sull’ordinamento degli uffici e dei
servizi, in relazione ai contenuti del piano
esecutivo di gestione 2009. A suo dire
l’approvazione del bando avrebbe dovuto
essere preceduta dalla previa approvazione
da parte della Giunta comunale, in quanto il
valore dell’appalto era costituito
dall’intero ammontare della spesa e non
dalla sola parte a carico del Comune;
B) violazione dell’art. 7 del D.Lgs. 165/2001, dell’art. 3, comma
56, della L. 244/2007 e dell’art. 31 del
Regolamento comunale, posto che non sarebbe
stata adeguatamente vagliata la mancanza di
adeguate professionalità interne, sia sotto
il profilo legale che sotto quello
ingegneristico;
C) violazione dell’art. 27, comma 10 del Codice dei contratti e
dell’art. 51, comma 5, del regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi
ed eccesso di potere nella selezione dei
professionisti invitati alla procedura
negoziata in quanto non sarebbero stati
invitati soggetti in potenziale possesso dei
requisiti per partecipare alla selezione;
D) illegittimità della preselezione degli invitati alla procedura
negoziata, atteso che non sarebbe stato
invitato il ricorrente, che pur si era già
occupato della costituzione della società in
questione. Il mancato invito del ricorrente,
in particolare, avrebbe violato i principi
di economicità, imparzialità, trasparenza,
buona fede e concorrenzialità;
E) violazione del principio di trasparenza non avendo avuto il
ricorrente alcuna notizia dell’avvio della
procedura;
F) violazione di legge ed eccesso di potere per incoerenza tra
l’oggetto della prestazione e le esigenze
dell’amministrazione, nonché tra il criterio
di preselezione e quello di valutazione
comparativa delle offerte;
G) violazione dell’art. 7, comma 6, del D.Lgs. 165/2001 in quanto
la gara avrebbe per oggetto un contratto
aperto nell’oggetto; indeterminatezza della
durata dell’incarico; violazione
dell’obbligo di predeterminazione del
compenso; contraddizione con precedenti atti
nella previsione della clausola secondo la
quale la durata dell’incarico è “di 12
mesi o comunque fino all’aggiudicazione”;
H) eccesso di potere per travisamento dei fatti nella
determinazione dell’oggetto della gara;
I) violazione dell’art. 1, comma 67, della L. 23/12/2005, n. 266 e
della deliberazione dell’A.V.CC.PP., avendo
il Comune permesso all’aggiudicatario di
regolarizzare il pagamento della tassa
dovuta all’Autorità di vigilanza, benché il
mancato pagamento fosse previsto come causa
di esclusione dalla gara.
Lo stesso ha, infine, chiesto il
risarcimento dei danni per perdita di chance
nella misura del 50% del compenso
contrattuale.
...
E' indirizzo prevalente nella giurisprudenza
amministrativa che la legittimazione a
ricorrere e l'interesse a ricorrere si
radicano in capo ad un soggetto, nel caso di
procedura negoziata, solo perché
imprenditore operante nel settore
interessato (Cons. Stato, sez. V,
18.12.2002, n. 7055; Ad. plen. 07.04.2011,
n. 4), senza che occorra che abbia
presentato apposita domanda di
partecipazione alla gara (cfr. in termini
Cons. Stato V 10.09.2009, n. 5426;
31.12.2007, n. 6797; 27.10.2005, n. 5996;
04.05.2004, n. 2696; Cons. Stato, III,
19.04.2011, n. 2404).
4.
Venendo all’esame delle domande proposte
occorre limitare l’oggetto del giudizio
all’accertamento dell'illegittimità
dell'atto ai soli fini risarcitori in quanto
l’avvenuta esecuzione integrale della
prestazione esclude qualsiasi interesse del
ricorrente all’annullamento degli atti di
gara.
5.
Nel merito va respinto il primo motivo,
in quanto la mancanza dell’atto di indirizzo
della Giunta, previsto dall’art. 43 dello
Statuto comunale per i contratti di valore
superiore alla soglia comunitaria, non ha
inciso sulla legittimazione del dirigente ad
adottare i suddetti atti.
In materia la giurisprudenza ha affermato
che “la scelta del contraente per
l'affidamento di un incarico per lo
svolgimento di una prestazione d'opera
intellettuale (art. 2230 cod. civ.), a
seguito di una gara formale o informale, o
anche per trattativa privata, è atto di
gestione, privo di qualsiasi contenuto di
indirizzo per gli uffici. Si risolve,
infatti, nella individuazione del soggetto o
dei soggetti che appaiano più quotati,
secondo regole obiettive e prefissate, per
il conseguimento dei fini della P.A.
L'attività di indirizzo, riservata agli
organi elettivi o politici del Comune, si
risolve, invece, nella fissazione delle
linee generali da seguire e degli scopi da
perseguire con l'attività di gestione. Non
rientra, perciò, in questa attribuzione, la
scelta di un contraente qualsiasi dell'ente.
In questo caso, la scelta spetta ai
dirigenti, secondo l'esplicito disposto
dell'art. 107 del T.U. n. 267/2000 citato, o
ad una commissione composta da soggetti
aventi adeguata esperienza professionale per
condurre una selezione ispirata al
soddisfacimento di siffatte esigenze
tecniche” (Cons. Stato, sez. V,
09.09.2005, n. 4654).
Nel caso in questione la mancata
sottoposizione dell’atto di indizione della
gara all’esame della Giunta si giustifica
correttamente con la previsione di una spesa
a carico del Comune inferiore alla soglia
comunitaria, indipendentemente dal fatto che
una parte del corrispettivo fosse a carico
del socio privato della costituenda società
mista.
Infatti se è vero, come affermato dal
ricorrente, che il Comune in questo modo ha
promesso l’obbligazione o il fatto del
terzo, è anche vero che in caso di
inadempimento del terzo la prestazione non
resta a carico del promittente, ma sorge a
suo carico esclusivamente un’obbligazione
indennitaria (art. 1381 c.c.). Ne consegue
che non esisteva un’obbligazione
giuridicamente perfezionata a carico del
Comune per l’intero ammontare del valore
dell’incarico e, di conseguenza, non
sussistevano i presupposti per l’assunzione
di un impegno di spesa ai sensi dell’art.
183 del D.Lgs. 267/2000 per l’intera somma
e neppure quelli per la sottoposizione
dell’atto all’indirizzo della Giunta.
A ciò si aggiunge che l’atto di indirizzo,
quale atto integrativo della competenza
dirigenziale, è ampiamente discrezionale, se
rettamente inteso come atto volto a fissare
le linee generali da seguire e gli scopi da
perseguire, con la conseguenza che, da un
lato, non dà titolo al risarcimento del
danno in quanto non è possibile stabilire,
neppure in forma probabilistica, quale
sarebbero state le possibilità di un esito
diverso; dall’altro la sua mancanza si
risolve in un vizio meramente formale, che
può essere sanato mediante ratifica.
6.
Il secondo motivo di ricorso è
inammissibile, essendo evidente che colui
che contesta di non essere stato invitato
alla gara non ha interesse a mettere in
dubbio la necessità dell’affidamento
all’esterno del servizio. Infatti nessun
vantaggio può derivargli dall’accertamento
che l’amministrazione avrebbe potuto trovare
le competenze tecniche necessarie allo
svolgimento dell’incarico al proprio
interno.
7.
Il terzo motivo è egualmente
infondato, non essendo possibile desumere
dal semplice fatto che abbia presentata
domanda uno solo degli invitati, che gli
inviti spediti dal Comune fossero
finalizzati a favorire solo
l’aggiudicatario.
Infatti la scelta dei soggetti da invitare
alla gara, effettuata dall’amministrazione
attraverso l’utilizzo dell’albo degli
avvocati di Milano, risponde a criteri di
trasparenza e di proporzionalità rispetto
all’oggetto della gara in quanto la
professionalità richiesta in via principale
era quella di avvocato. Non sussistendo
infatti sul mercato, per i noti limiti
all’esercizio della professione legale in
forma societaria, solo da poco in fase di
superamento, figure professionali complesse
in grado di soddisfare contemporaneamente
requisiti legali e tecnici,
l’amministrazione ha correttamente fatto una
scelta nell’ambito dei professionisti ai
quali era richiesta la prestazione
principale, rimanendo a loro carico il
compito di trovare le modalità organizzative
volte ad associare altri tipi di
professionisti o imprese.
A ciò si aggiunge che, a differenza di
quanto affermato dal ricorrente, la scelta
dell’amministrazione, non contestata dal
ricorrente, di assoggettare gli appalti dei
servizi legali in questione alla disciplina
degli artt. 20 e 27 del Codice degli
appalti, in quanto rientranti nell'allegato
2B del D.Lgs. n. 163/2006, esclude la
possibilità di assoggettarli alla disciplina
degli altri contratti di lavoro autonomo di
alta professionalità prevista dall’art. 7,
comma 6 e ss. del D. Lgs. 165/2001.
Infatti il Codice degli appalti detta una
disciplina esaustiva della materia (vedi
parere della Corte dei Conti, Sezione delle
Autonomie, del 14.03.2008 "Linee di
indirizzo e criteri interpretativi dell'art.
3, commi 54-57 della L. 244/2007, in materia
di Regolamenti degli Enti Locali per
l'affidamento di incarichi di
collaborazione, studio, ricerca e consulenza").
8.
Il quarto motivo va respinto, essendo
l’amministrazione tenuta, ai sensi dell’art.
27 del Codice, ad osservare il principio di
rotazione nell’assegnazione degli incarichi
di cui all’allegato IIB al Codice.
In materia la giurisprudenza ha affermato
che è legittima la scelta della P.A. di non
prendere in considerazione l’offerta di una
ditta del settore, non invitata ad una
procedura semplificata ed accelerata di
cottimo fiduciario ex art. 125, comma 11,
del D.Lgs. n. 163 del 2006, ma che ha
presentato comunque l’offerta, ove sia stata
motivata con riferimento al fatto che
-nonostante la partecipazione di un solo
concorrente dei cinque formalmente invitati-
la ditta interessata sia stata più volte
invitata in passato a procedure di cottimo
fiduciario, e, in un caso, sia risultata
aggiudicataria (Tar Lombardia, Brescia, II,
21.01.2011 n. 137).
Analoghe considerazioni valgono per il caso
in questione, avendo il ricorrente già
fruito di plurimi incarichi senza gara, ed
in mancanza di prova del fatto che il
ricorrente fosse l’unico in grado di fornire
il servizio richiesto. L’amministrazione ha
quindi correttamente applicato principi di
parità di trattamento e di concorrenza che
hanno permesso ad altri legali, aventi gli
stessi titoli del ricorrente, di instaurare
una collaborazione con il Comune in una
materia particolarmente complessa come la
redazione di atti di gara e di costituzione
di società.
...
13.
Il nono motivo di ricorso va respinto
in quanto la giurisprudenza (TAR LAZIO,
Roma, Sez. II-bis - 07/05/2009, n. 4893) ha
chiarito che l'art. 1, comma 67, della Legge
n. 266/2005, che ha introdotto il contributo
a favore dell'Autorità di Vigilanza sui
contratti pubblici (poi ribadito dall’art.
6, comma 1, del D.Lgs. n. 163/2006 e dalle
successive deliberazioni dell’Autorità di
vigilanza in data 10/01/2007 e 24.01.2008),
tutela un interesse erariale a contenuto
economico-finanziario, connesso alle
esigenze di copertura delle spese (generali
e di funzionamento) dell’Autorità di
vigilanza, e traduce tale interesse in una
nuova imposizione di carattere fiscale a
carico delle imprese interessate, mediante
la pretesa sostanziale all’ottenimento del
pagamento a pena di esclusione dalla gara.
La previsione della medesima norma,
viceversa, non si traduce né può tradursi,
nella previsione di filtri formali
insuscettibili di regolarizzazione formale e
quindi capaci di causare l’esclusione di
imprese che comunque adempiono al previsto
onere contributivo e che sono inoltre in
possesso dei prescritti requisiti economici
e professionali, e che consentirebbero
dunque di estendere la competizione per la
scelta della migliore offerta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.05.2012 n. 1366 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’eventuale precarietà (mobilità) di un
manufatto che rende non necessaria la
concessione edilizia dipende non già dal suo
sistema di ancoraggio, ma dalla sua
inidoneità a determinare una stabile
trasformazione del territorio.
Il carattere di precarietà va quindi
comunque escluso quando trattasi di
struttura destinata a dare un’utilità
prolungata nel tempo.
---------------
Per volumi tecnici, ai fini dell'esclusione
dal calcolo della volumetria ammissibile,
devono intendersi i locali completamente
privi di una autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinati a contenere
impianti serventi di una costruzione
principale, per esigenze tecnico-funzionali
della costruzione stessa ed, in particolare,
quei volumi strettamente necessari a
contenere ed a consentire l'ubicazione di
quegli impianti tecnici indispensabili per
assicurare il comfort degli edifici, che non
possano, per esigenze tecniche di
funzionalità degli impianti, essere
inglobati entro il corpo della costruzione
realizzabile nei limiti imposti dalle norme
urbanistiche.
Infondata è la censura secondo cui il
manufatto oggetto del provvedimento non
sarebbe una veranda con struttura infissa su
di una platea di cemento ma consisterebbe
semplicemente in tre pareti mobili su ruote
usate per il riparo di attrezzi e piante
fiorite durante l’inverno, costituendo
quindi un mero volume tecnico.
La censura non è supportata da alcuna
evidenza probatoria certa e, anzi si pone in
contrasto con il verbale di accertamento
dell’abuso del 24.12..2009 che, per essere
stato redatto da pubblico ufficiale, fa
piena prova sino a querela di falso.
Inoltre, le foto allegate dal ricorrente non
mostrano in modo esauriente l’ancoraggio del
manufatto al suolo ed, in ogni caso,
l’affermata amovibilità dell’opera è
irrilevante al fine di escludere l’esistenza
di un’opera di trasformazione urbanistica
necessitante di titolo abilitativo edilizio
avendo, fra l’altro, la giurisprudenza
precisato che ciò che rileva ai fini della
trasformazione urbanistica è la stabilità
della destinazione dell’opera realizzata.
L’opera in questione pare destinata ad uno
stabile e prolungato utilizzo e non a fini
strettamente temporanei.
L’eventuale precarietà (mobilità) di un
manufatto che rende non necessaria la
concessione edilizia dipende non già dal suo
sistema di ancoraggio, ma dalla sua
inidoneità a determinare una stabile
trasformazione del territorio.
Il carattere di precarietà va quindi
comunque escluso quando trattasi di
struttura destinata a dare un’utilità
prolungata nel tempo (Consiglio Stato, Sez.
V, 30.10.2000, n. 5828; TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 18.02.2005, n. 1182; TAR
Lazio–Roma Sez. II-ter, 05.04.2007, n.
2986).
Il manufatto realizzato poi, consistente in
una veranda in ferro e vetro, coperto da
lamiera zincata posto su una platea di
cemento armato alta circa 30 centimetri,
esulta completamente dalla nozione di volume
tecnico.
Secondo quanto chiarito da giurisprudenza,
difatti, per volumi tecnici, ai fini
dell'esclusione dal calcolo della volumetria
ammissibile, devono intendersi i locali
completamente privi di una autonomia
funzionale, anche potenziale, in quanto
destinati a contenere impianti serventi di
una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione stessa
(Consiglio Stato, sez. IV, 04.05.2010, n.
2565; TAR Sicilia-Palermo Sez. I - sentenza
09.07.2007, n. 1749; TAR Lombardia-Milano,
Sez. II, 04.04.2002, n. 1337) ed, in
particolare, quei volumi strettamente
necessari a contenere ed a consentire
l'ubicazione di quegli impianti tecnici
indispensabili per assicurare il comfort
degli edifici, che non possano, per esigenze
tecniche di funzionalità degli impianti,
essere inglobati entro il corpo della
costruzione realizzabile nei limiti imposti
dalle norme urbanistiche (TAR Puglia-Lecce,
Sez. III - sentenza 15.01.2005 n. 143; TAR
Puglia-Bari sentenza n. 2843/2004).
Nessuna delle caratteristiche indicate
presenta il manufatto in questione, avendo a
una piena indipendenza funzionale, non
essendo destinato a contenere impianti e
presentando dimensioni incompatibili con
l’affermata natura di volume tecnico (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2251 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento di demolizione di una
costruzione abusiva, al pari di tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia, è atto vincolato che non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna
motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di
fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare e non potendo l'interessato
dolersi del fatto che l'Amministrazione non
abbia emanato in data antecedente i dovuti
atti repressivi.
Al riguardo il Collegio rileva come di
affidamento meritevole di tutela si possa
parlare solo ove il privato, il quale abbia
correttamente ed in senso compiuto reso nota
la propria posizione all’Amministrazione,
venga indotto da un provvedimento della
stessa Amministrazione a ritenere come
legittimo il suo operato non già nel caso,
come quello di specie, in cui si commetta un
illecito a tutta insaputa della stessa.
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un
illecito permanente integrato dalla
violazione dell’obbligo, perdurante nel
tempo, di ripristinare in conformità a
diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni
provvedimento repressivo
dell’Amministrazione non è emanato a
distanza di tempo da un illecito ormai
esaurito, bensì interviene su una situazione
antigiuridica che perdura sino a quel
momento.
---------------
La circostanza indicata da parte ricorrente
che il manufatto abusivo non sarebbe
visibile dall’esterno non comporta
l’inapplicabilità delle sanzioni edilizie
che sono comminate per l’assenza del titolo
edilizio, né rende necessaria, per la
sanzione demolitoria, una specifica
motivazione di interesse pubblico ponendosi
anzi, a causa della maggiore difficoltà per
l’autorità di individuazione dell’abuso,
come elemento ostativo al formarsi di un
affidamento in capo al privato, poiché
l’inerzia dell’Amministrazione ben può
ragionevolmente imputarsi alla semplice
maggiore difficoltà nel venire a conoscenza
dell’abuso.
Allo stesso modo infondata è la censura
di carenza di motivazione perché
l’amministrazione non avrebbe indicato le
ragioni di interesse pubblico all’adozione
della misura demolitoria.
Ciò, sostiene il ricorrente, anche tenuto
conto del fatto che dalla realizzazione
degli abusi alla comminazione delle sanzioni
fosse trascorso un notevole lasso di tempo e
che l’opera sarebbe situata all’interno di
un giardino privato e nascosta alla vista
dall’esterno.
In tal senso, parte ricorrente richiama un
filone giurisprudenziale secondo cui la
repressione dell'abuso edilizio, disposta a
distanza di tempo ragguardevole, richiede
una puntuale motivazione sull'interesse
pubblico al ripristino dei luoghi (per tutti
Consiglio Stato, Sez. V, 29.05.2006, n.
3270; Consiglio Stato, Sez. V, 25.06.2002,
n. 3443).
In punto di fatto, il Collegio rileva che
parte ricorrente non ha dato affidabile
prova della notevole risalenza del
manufatto, facendo riferimento nel ricorso
ad una relazione tecnica in realtà mai
depositata, a fotografie non idonee ad
attestare lo stato di risalenza e, infine,
alla comparsa del manufatto in una
planimetria del 1995 che si rivela di dubbia
interpretazione.
In punto di diritto, in ogni caso, la
risalenza del manufatto al 1995 (unica data
per cui vi sarebbe un minimo di elemento
fattuale probatorio) non appare comunque al
Collegio tale da integrare gli estremi del
passaggio di un notevole lasso di tempo ai
fini della possibile applicazione di quel
filone giurisprudenziale richiamato, dalla
parte ricorrente, basato sull’ingenerarsi di
una condizione di affidamento da parte del
privato.
Sempre in punto di diritto poi, il Collegio
ritiene, con argomentazione dirimente, di
non dover comunque seguire l’orientamento
giurisprudenziale suggerito dal ricorrente,
a cui pure alcune volte questa sezione ha
aderito (cfr TAR Campania–Napoli, Sez. IV,
28.12.2009, n. 9620 del; TAR
Campania–Napoli, Sez. IV, 05.05.2009, n.
2357), a fronte dell’orientamento
giurisprudenziale prevalente ormai volto in
senso contrario e della rilevanza delle
argomentazioni che depongono in tal senso.
La giurisprudenza più recente si è espressa,
difatti, nel senso che il provvedimento di
demolizione di una costruzione abusiva, al
pari di tutti i provvedimenti sanzionatori
in materia edilizia, è atto vincolato che
non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né, ancora, alcuna motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare (Cons. Stato Sez. IV,
27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV,
20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V,
27.04.2011, dalla n. 2497 alla n. 2527;
Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79; TAR
Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n.
2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater,
23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli
Sez. III, 16.06.2011, n. 3211; TAR Campania
Napoli Sez. VIII, 09.06.2011, n. 3029; Cons.
Stato Sez. V, 09.02.2010, n. 628) e non
potendo l'interessato dolersi del fatto che
l'Amministrazione non abbia emanato in data
antecedente i dovuti atti repressivi (Cons.
Stato Sez. VI, 11.05.2011, n.2781).
Al riguardo il Collegio rileva come di
affidamento meritevole di tutela si possa
parlare solo ove il privato, il quale abbia
correttamente ed in senso compiuto reso nota
la propria posizione all’Amministrazione,
venga indotto da un provvedimento della
stessa Amministrazione a ritenere come
legittimo il suo operato non già nel caso,
come quello di specie, in cui si commetta un
illecito a tutta insaputa della stessa
(Cons. Stato Sez. IV, 15.09.2009, n.
5509).
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un
illecito permanente integrato dalla
violazione dell’obbligo, perdurante nel
tempo, di ripristinare in conformità a
diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni
provvedimento repressivo
dell’Amministrazione non è emanato a
distanza di tempo da un illecito ormai
esaurito, bensì interviene su una situazione
antigiuridica che perdura sino a quel
momento (TAR Brescia, Sez. I, 22.02.2010, n. 860).
La circostanza, infine, indicata da parte
ricorrente che il manufatto non sarebbe
visibile dall’esterno non comporta
l’inapplicabilità delle sanzioni edilizie
che sono comminate per l’assenza del titolo
edilizio, né rende necessaria, per la
sanzione demolitoria, una specifica
motivazione di interesse pubblico ponendosi
anzi, a causa della maggiore difficoltà per
l’autorità di individuazione dell’abuso,
come elemento ostativo al formarsi di un
affidamento in capo al privato, poiché
l’inerzia dell’Amministrazione ben può
ragionevolmente imputarsi alla semplice
maggiore difficoltà nel venire a conoscenza
dell’abuso (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.05.2012 n. 2251 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
potere di cui il Comune dispone
nell’approvazione di piani urbanistici è
espressione di discrezionalità molto ampia,
sindacabile nella presente sede di
legittimità nei soli casi di esiti illogici
o abnormi.
Ne segue, allora, che il ricorrente il quale
alleghi che una siffatta illogicità sussiste
abbia l’onere indicarla con precisione,
spiegando in cosa essa consista, ovvero
indicando con chiarezza in quali parti le
scelte dell’amministrazione collidano con le
regole tecniche comunemente accettate; non
può invece pretendere di assolvere tale
onere semplicemente contrapponendo alle
scelte progettuali dell’amministrazione
scelte proprie o di tecnici di propria
fiducia.
---------------
Per
il chiaro disposto dell’art. 13 della l.
07.08.1990 n. 241, le norme sulla
partecipazione di cui agli artt. 7 e
seguenti della stessa legge, e in
particolare quella sull’avviso di avvio del
procedimento, non si applicano ai
procedimenti relativi ad atti
“amministrativi generali, di pianificazione
e di programmazione”, fra i quali rientra
senz’altro una modifica alle NTA.
In primo luogo, così come è ben noto –sul
punto, per tutte come più recente C.d.S.
sez. III 15.12.2009 n. 583- il potere di cui
il Comune dispone nell’approvazione di piani
urbanistici è espressione di discrezionalità
molto ampia, sindacabile nella presente sede
di legittimità nei soli casi di esiti
illogici o abnormi.
Ne segue allora, con tutta evidenza, che il
ricorrente il quale alleghi che una siffatta
illogicità sussiste abbia l’onere indicarla
con precisione, spiegando in cosa essa
consista, ovvero indicando con chiarezza in
quali parti le scelte dell’amministrazione
collidano con le regole tecniche comunemente
accettate; non può invece pretendere di
assolvere tale onere semplicemente
contrapponendo alle scelte progettuali
dell’amministrazione scelte proprie o di
tecnici di propria fiducia.
---------------
In primo luogo, per il chiaro
disposto dell’art. 13 della l. 07.08.1990 n.
241, le norme sulla partecipazione di cui
agli artt. 7 e seguenti della stessa legge,
e in particolare quella sull’avviso di avvio
del procedimento, non si applicano ai
procedimenti relativi ad atti “amministrativi
generali, di pianificazione e di
programmazione”, fra i quali rientra
senz’altro una modifica alle NTA. In
secondo luogo, anche ammettendo che
l’amministrazione avesse inteso inviare un
avviso “praeter legem”, lo stesso
secondo logica avrebbe dovuto precedere, e
non seguire, così come avvenuto, l’atto di
modifica da emanare.
Il motivo di ricorso è quindi infondato nel
senso che la comunicazione in esame non ha
alcun rapporto giuridico con l’atto
impugnato, e non lo influenza né in positivo
né in negativo, potendo al più costituire in
fatto un modo attraverso il quali gli
interessati ne sono venuto a conoscenza
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.05.2012 n. 833 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’elenco
delle opere di urbanizzazione secondaria,
tanto nel comma 8 dell’art. 16 T.U. quanto
nell’art. 4 della l. 847/1964, non contiene
alcun riferimento alle “strade”. Tale
tipologia di opere, che peraltro secondo
logica è del tutto essenziale per la
vivibilità, e prima di essa per la stessa
fisica accessibilità, di un qualsiasi
quartiere, alla lettera non è poi
contemplata in via generale nemmeno
dall’elenco delle opere di urbanizzazione
primaria, che si limita a includere le
“strade residenziali”. Sembrerebbe allora
che solo la classificazione di tale presunta
tipologia particolare sia definita, mentre
la classificazione delle altre strade
potrebbe ritenersi libera. Una
interpretazione sistematica ed una analisi
della giurisprudenza edita e della prassi
disponibile, peraltro, inducono a
conclusioni diverse.
In primo luogo, si deve osservare che la
tipologia delle “strade residenziali” non è
in alcun modo definita in via generale dalle
norme dell’ordinamento in materia, ed è in
particolare sconosciuta all’art. 2 del
d.lgs. 30.04.1992 n. 385, che le strade
classifica in via generale, nonché all’art.
2 del regolamento attuativo D.P.R.
16.12.1992, n. 495. Un accenno è contenuto
nell’art. 178 di tale regolamento, che
annovera le “strade residenziali” fra quelle
sulle quali possono essere posati i dossi
rallentatori, ma ancora senza definirne in
generale la tipologia. Non esattamente
pertinente appare infine l’art. 135 del
medesimo regolamento, nella parte in cui
descrive il segnale 318, che indica
propriamente non una “strada residenziale”,
ma una “zona residenziale”, comunque solo ai
fini di particolari restrizioni alla guida.
La tipologia stessa nemmeno è definita in
via generale dalla giurisprudenza edita: un
accenno in tal senso si trova soltanto in
Cass. civ. sez. trib. 23.10.2003 n. 15948,
che si pronuncia su una questione non
strettamente urbanistica, ovvero sulla
applicabilità dell’agevolazione fiscale
prevista ai fini IVA per chi realizza opere
di urbanizzazione, e definisce in tal senso
le strade residenziali come tutte le strade
realizzate in aree destinate ad accogliere
insediamenti abitativi, anche se fuori dal
centro urbano, eccettuandone soltanto le
strade al servizio di aree industriali. E’
però chiaro che in tali termini le strade
considerate dall’annullato comma 8 dell’art.
11 delle NTA di cui si ragiona sarebbero
comunque opere di urbanizzazione primaria,
così come ritenuto dal Comune nell’atto
impugnato.
Significativa è poi la motivazione di C.d.S.
sez. V 25.06.2007 n. 3635, per cui “Non si
può ritenere… che le norme urbanistiche,
nell'inserire le strade residenziali tra le
opere di urbanizzazione primaria,
abbiano fatto riferimento al solo manto
stradale e, per quanto concerne
specificamente i piani per l'edilizia
pubblica, al solo manto stradale
strettamente aderente agli immobili da
realizzare (ovvero circostanti a questi) e,
addirittura, senza collegamenti con la
viabilità preesistente (quale quella… che
permette la comunicazione con la vicina area
lottizzata).” Delle strade in questione,
quindi, si assume un concetto ampio, che
sicuramente coincide con tutte le strade il
cui tratto sia “incluso o prospiciente” una
lottizzazione, avvalorando ancora una volta
l’impostazione del Comune intimato.
Infine, altre decisioni, pur senza
soffermarsi espressamente sul punto,
comprendono senz’altro tutte le strade,
senza distinguerle in alcun modo, fra le
opere di urbanizzazione primaria.
Un orientamento simile si ritrova poi nella
prassi di alcuni enti locali rintracciabile
in rete, e da ritenere quindi fatto notorio:
possono valere per tutti il parere
10.01.2011 prot. n. 599 del Servizio per gli
affari istituzionali e il sistema delle
autonomie locali della Regione Friuli, in
cui, al fine di individuare le strade
suscettibili di accogliere i citati dossi
rallentatori, si dà atto della mancanza di
una definizione generale e si indicano le
“strade ricadenti in una particolare zona
del territorio comunale, formalmente
individuata come zona residenziale”, e
quindi ancora si includono quelle
contemplate nella norma per cui è causa.
Allo stesso modo, la Provincia di Lecce, nel
proprio Servizio di assistenza agli enti
locali, individua come strade residenziali
tutte quelle “realizzate in funzione di un
centro abitato costruito o costruendo“
Gli oneri di
urbanizzazione, che l’art. 11 NTA disciplina
nel Comune di Seriate, sono attualmente
previsti a livello di legge nazionale
dall’art. 16, comma 1, del più volte citato
T.U. 380/2001, secondo il quale il rilascio
del permesso di costruire “comporta la
corresponsione di un contributo”
commisurato, fra l’altro, appunto alla “incidenza
degli oneri di urbanizzazione”; gli
oneri stessi sono poi distinti, dai
successivi commi 7, 7-bis e 8 dell’articolo,
in oneri di urbanizzazione primaria,
relativi a “strade residenziali, spazi di
sosta o di parcheggio, fognature, rete
idrica, rete di distribuzione dell'energia
elettrica e del gas, pubblica illuminazione,
spazi di verde attrezzato”, nonché a “cavedi
multiservizi” e “cavidotti per il
passaggio di reti di telecomunicazioni”,
e oneri di urbanizzazione secondaria,
relativi invece a “asili nido e scuole
materne, scuole dell'obbligo nonché
strutture e complessi per l'istruzione
superiore all'obbligo, mercati di quartiere,
delegazioni comunali, chiese e altri edifici
religiosi, impianti sportivi di quartiere,
aree verdi di quartiere, centri sociali e
attrezzature culturali e sanitarie”.
Come suggerisce anche la comune logica,
quindi, si tratta di contributi economici
che l’ente locale richiede per poter
realizzare tutte quelle attrezzature che
rendono vivibile un quartiere, da quelle
stimate necessarie per un livello minimo di
benessere, coincidenti con le opere di
urbanizzazione primaria, a quelle che invece
ne completano e migliorano l’assetto in modo
consono alle esigenze della vita moderna.
La disciplina del T.U. appena descritta non
è una novità assoluta nel nostro
ordinamento, dato che riproduce l’analogo
disposto di norme precedenti, tuttora in
vigore per la loro sfera di applicazione
particolare. L’istituto degli oneri di
urbanizzazione compare per la prima volta
nell’art. 28 della l. 17.08.1942 n. 1150,
inserito dall’art. 8 della l. 06.08.1967 n.
765, che prevede come necessaria, per
lottizzare un terreno, ovvero per
l’intervento di interesse degli odierni
ricorrenti, l’autorizzazione comunale,
subordinata alla stipula di una convenzione
nella quale il lottizzante, fra l’altro, si
assuma gli “oneri relativi alle opere di
urbanizzazione primaria” nonché una “quota
parte delle opere di urbanizzazione
secondaria relative alla lottizzazione”
ovvero “necessarie per allacciare la zona
ai pubblici servizi”, precisando che “la
quota è determinata in proporzione
all’entità e alle caratteristiche degli
insediamenti delle lottizzazioni”.
L’elenco delle opere di urbanizzazione,
identico a quello dell’art. 16 T.U. citato,
è poi contenuto nella norma dell’art. 4
della l. 29.09.1964 n. 847, cui l’art. 28 fa
rinvio.
Essendo poi, come ben noto, l’urbanistica
materia di competenza regionale,
dell’istituto si occupa anche la relativa
legislazione: per la Lombardia, in
particolare, rileva qui l’art. 44 della pure
citata l. 12/2005, secondo il quale sono
oneri di urbanizzazione primaria quelli
relativi “alle seguenti opere: strade,
spazi di sosta o di parcheggio, fognature,
rete idrica, rete di distribuzione
dell'energia elettrica e del gas, cavedi
multiservizi e cavidotti per il passaggio di
reti di telecomunicazioni, pubblica
illuminazione, spazi di verde attrezzato”
(comma 3); sono invece oneri di
urbanizzazione secondaria quelli
relativi “alle seguenti opere: asili nido
e scuole materne, scuole dell'obbligo e
strutture e complessi per l'istruzione
superiore all'obbligo, mercati di quartiere,
presidi per la sicurezza pubblica,
delegazioni comunali, chiese e altri edifici
religiosi, impianti sportivi di quartiere,
aree verdi di quartiere, centri sociali e
attrezzature culturali e sanitarie, cimiteri”
(comma 4).
Ciò posto, la classificazione di un’opera e
degli oneri ad essa relativi, nell’ambito
della urbanizzazione primaria o secondaria
ha una funzione non meramente
classificatoria, dato che ne comporta un
diverso trattamento in termini economici,
come subito risulterà chiaro. Infatti, il
concreto ammontare degli oneri in parola è
ai sensi dell’art. 16 T.U. 380/2001 in
conformità alla legislazione nazionale, che
per quanto qui interessa, all’art. 44 l.r.
12/2005, attribuisce la competenza relativa
ai Comuni. Gli stessi devono poi conformarsi
alla legislazione nazionale di principio, e
quindi, per le nuove lottizzazioni alla
regola per cui le opere di urbanizzazione
primaria sono per intero a carico del
lottizzante, mentre quelle di
urbanizzazione secondaria lo sono solo
per una quota parte, mentre la residua grava
sulle casse pubbliche.
Nel caso di specie, l’art. 11 delle NTA si
conformava, e si conforma tuttora, a tale
principio: al comma 6 dispone che il
promotore del piano attuativo, ovvero dello
strumento con cui si procede concretamente
alla lottizzazione, “dovrà provvedere
alla realizzazione di tutte le opere di
urbanizzazione primaria… assumendo in
proprio, senza diritto di rimborso o di
rivalsa nei confronti del Comune,
l’eventuale maggiore spese tra l’importo
degli oneri di urbanizzazione primaria ed il
costo delle opere medesime”; al comma 7
invece prevede che lo stesso promotore “dovrà
farsi carico della realizzazione delle opere
di urbanizzazione secondaria” solo per
gli importi risultanti dalla relativa
tabella ivi inserita. In tale contesto, è
allora del tutto ovvio come l’art. 11, comma
8, delle NTA annullato rappresentasse una
norma di favore per il privato, obbligato in
tal senso ad accollarsi solo una parte del
costo relativo alle strade ivi considerate.
Si tratta allora di vedere se tale norma di
favore fosse conforme a legge ovvero, così
come ritenuto dal Comune, contraria alla
stessa.
Il Comune, come si è detto in narrativa, si
è espresso per la seconda ipotesi,
sostenendo che la classificazione di strade
fra le opere di urbanizzazione secondaria e
non primaria sia contraria al riportato art.
44 della l.r. 12/2005, che fa rientrare in
tale ultima categoria tutte le “strade”,
senza restrizioni di sorta. E’ conclusione
che il Collegio ritiene di condividere, in
quanto conforme, come subito si illustrerà,
anche alla descritta normativa nazionale.
Se si esamina la lettera delle norme
nazionali in materia sopra citate, si
osserva infatti che l’elenco delle opere
di urbanizzazione secondaria, tanto nel
comma 8 dell’art. 16 T.U. quanto nell’art. 4
della l. 847/1964, non contiene alcun
riferimento alle “strade”. Tale
tipologia di opere, che peraltro secondo
logica è del tutto essenziale per la
vivibilità, e prima di essa per la stessa
fisica accessibilità, di un qualsiasi
quartiere, alla lettera non è poi
contemplata in via generale nemmeno
dall’elenco delle opere di urbanizzazione
primaria, che si limita a includere le “strade
residenziali”. Sembrerebbe allora che
solo la classificazione di tale presunta
tipologia particolare sia definita, mentre
la classificazione delle altre strade
potrebbe ritenersi libera. Una
interpretazione sistematica ed una analisi
della giurisprudenza edita e della prassi
disponibile, peraltro, inducono a
conclusioni diverse.
In primo luogo, si deve osservare che la
tipologia delle “strade residenziali”
non è in alcun modo definita in via generale
dalle norme dell’ordinamento in materia, ed
è in particolare sconosciuta all’art. 2 del
d.lgs. 30.04.1992 n. 385, che le strade
classifica in via generale, nonché all’art.
2 del regolamento attuativo D.P.R.
16.12.1992, n. 495. Un accenno è contenuto
nell’art. 178 di tale regolamento, che
annovera le “strade residenziali” fra
quelle sulle quali possono essere posati i
dossi rallentatori, ma ancora senza
definirne in generale la tipologia. Non
esattamente pertinente appare infine l’art.
135 del medesimo regolamento, nella parte in
cui descrive il segnale 318, che indica
propriamente non una “strada residenziale”,
ma una “zona residenziale”, comunque
solo ai fini di particolari restrizioni alla
guida.
La tipologia stessa nemmeno è definita in
via generale dalla giurisprudenza edita: un
accenno in tal senso si trova soltanto in
Cass. civ. sez. trib. 23.10.2003 n. 15948,
che si pronuncia su una questione non
strettamente urbanistica, ovvero sulla
applicabilità dell’agevolazione fiscale
prevista ai fini IVA per chi realizza opere
di urbanizzazione, e definisce in tal senso
le strade residenziali come tutte le strade
realizzate in aree destinate ad accogliere
insediamenti abitativi, anche se fuori dal
centro urbano, eccettuandone soltanto le
strade al servizio di aree industriali. E’
però chiaro che in tali termini le strade
considerate dall’annullato comma 8 dell’art.
11 delle NTA di cui si ragiona sarebbero
comunque opere di urbanizzazione primaria,
così come ritenuto dal Comune nell’atto
impugnato.
Significativa è poi la motivazione di C.d.S.
sez. V 25.06.2007 n. 3635, per cui “Non
si può ritenere… che le norme urbanistiche,
nell'inserire le strade residenziali tra le
opere di urbanizzazione primaria,
abbiano fatto riferimento al solo manto
stradale e, per quanto concerne
specificamente i piani per l'edilizia
pubblica, al solo manto stradale
strettamente aderente agli immobili da
realizzare (ovvero circostanti a questi) e,
addirittura, senza collegamenti con la
viabilità preesistente (quale quella… che
permette la comunicazione con la vicina area
lottizzata).” Delle strade in questione,
quindi, si assume un concetto ampio, che
sicuramente coincide con tutte le strade il
cui tratto sia “incluso o prospiciente”
una lottizzazione, avvalorando ancora una
volta l’impostazione del Comune intimato.
Infine, altre decisioni, pur senza
soffermarsi espressamente sul punto,
comprendono senz’altro tutte le strade,
senza distinguerle in alcun modo, fra le
opere di urbanizzazione primaria: così
ad esempio TAR Sicilia Catania sez. III
08.04. 2010 n. 1076 e 12.04.2006 n. 565.
Un orientamento simile si ritrova poi nella
prassi di alcuni enti locali rintracciabile
in rete, e da ritenere quindi fatto notorio:
possono valere per tutti il parere
10.01.2011 prot. n. 599 del Servizio per gli
affari istituzionali e il sistema delle
autonomie locali della Regione Friuli, in
cui, al fine di individuare le strade
suscettibili di accogliere i citati dossi
rallentatori, si dà atto della mancanza di
una definizione generale e si indicano le “strade
ricadenti in una particolare zona del
territorio comunale, formalmente individuata
come zona residenziale”, e quindi ancora
si includono quelle contemplate nella norma
per cui è causa.
Allo stesso modo, la Provincia di Lecce, nel
proprio Servizio di assistenza agli enti
locali, individua come strade residenziali
tutte quelle “realizzate in funzione di
un centro abitato costruito o costruendo“
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.05.2012 n. 833 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Diritto di accesso ad esposti e denunce.
La questione investe il
problema del bilanciamento e del
contemperamento tra il diritto di accesso ai
documenti amministrativi, da un lato, e la
tutela dei terzi i cui dati personali siano
contenuti nella documentazione richiesta,
dall’altro lato, con particolare riferimento
all'esigenza di tutela della riservatezza
dei firmatari di un esposto.
La preordinazione dell'istituto dell’accesso
alla cura ed alla difesa di interessi
giuridici (di cui all’art. 24, comma 7,
della legge n. 241 del 1990), dalla quale
soltanto dipende la prevalenza del diritto
di accesso sul diritto alla riservatezza dei
terzi, non può risolversi in una clausola di
stile, ma deve essere effettiva, in
relazione alla situazione di fatto e di
diritto nella quale la domanda di accesso si
inserisce e che tale effettività deve essere
controllabile dal giudice dell'accesso.
Allorquando l’accertamento di un illecito
amministrativo sia fondato su autonomi atti
di ispezione dell'autorità amministrativa,
l'esposto del privato ha il solo effetto di
sollecitare il promovimento d'ufficio del
procedimento, senza acquisire efficacia
probatoria, con la conseguenza che in tali
evenienze, di regola, per il destinatario
del provvedimento finale non sussiste la
necessità di conoscere gli esposti al fine
di difendere i propri interessi giuridici, a
meno che non siano rappresentate particolari
esigenze: ciò, del resto, corrisponde al
fatto che, di fronte al diritto alla
riservatezza del terzo, la pretesa di
conoscenza dell'esposto da parte del
richiedente, se svincolata dalla
preordinazione all'esercizio del diritto di
difesa, acquista un obiettivo connotato
ritorsivo che l'ordinamento non può
tutelare.
Di conseguenza, non avendo il ricorrente
evidenziato alcun interesse proprio,
giuridicamente rilevante, tale da consentire
il corrispondente sacrificio del diritto
alla riservatezza dei terzi potenzialmente
interessati dalla sua richiesta, la sua
istanza di accesso non poteva e non può
trovare, in base alla legge, favorevole
riscontro.
* * *
Ritenuto:
● che, a seguito di verbale di ispezione n.
286 del 06.07.2011 redatto, presso un
cantiere edile, da funzionari del
Dipartimento di Prevenzione S.O.C.
S.Pre.S.A.L. (Servizio Prevenzione e
Sicurezza negli Ambienti di Lavoro), l’ASL
di Asti ha irrogato al sig. W.S., in qualità
di committente dei lavori, una sanzione
amministrativa pecuniaria di euro 1.200,00 a
causa di rilevate irregolarità contributive
nei confronti dei lavoratori impiegati nel
cantiere, ai sensi dell’art. 90, comma 9,
lett. a, del d.lgs. n. 81 del 2008;
● che il sig. S., dopo aver provveduto al
pagamento della sanzione, ha presentato, in
data 07.10.2011, istanza di accesso agli
atti, istanza che è stata riscontrata
negativamente dall’amministrazione con la
seguente motivazione: “l’oggetto della
richiesta di accesso è costituito da
documenti sottratti all’accesso, ai sensi
dell’art. 24, comma 1, lettera a) della
legge 241/1990, in quanto si è in presenza
di atti di indagine compiuti dalla Polizia
Giudiziaria” (provvedimento
dell’11.11.2011);
● che avverso tale diniego il sig. S. ha
dapprima presentato istanza di riesame al
Difensore civico comunale il quale l’ha
accolta con provvedimento del 20.12.2011;
● che, successivamente, in data 27.01.2012,
il sig. S. ha presentato istanza alla ASL di
Asti, ex art. 7 d.lgs. n. 196 del 2003,
volta a conoscere e ad acquisire, in
relazione al predetto procedimento
ispettivo, gli “atti di pre-iniziativa
(esposto/denuncia) ed autori”;
● che la relativa risposta
dell’amministrazione, nuovamente negativa, è
giunta in data 03.02.2012;
● che il sig. S., con il ricorso in
epigrafe, ha quindi chiesto a questo TAR
l’annullamento del provvedimento di diniego
di accesso agli atti amministrativi inerenti
il procedimento ispettivo de quo,
contestualmente insistendo perché venga
ordinato all’amministrazione l’esibizione di
“tutti gli atti relativi al procedimento
amministrativo/ispettivo, comprensivo di
fotografie dello stato dei luoghi nonché
[de]gli atti di preiniziativa intendendo per
tali esposti e/o denunce, loro contenuto ed
autori”;
● che, con atto depositato in giudizio il
16.04.2012, si è costituita in giudizio
l’Azienda Sanitaria Locale di Asti, in
persona del Commissario pro tempore,
preliminarmente eccependo la carenza di
interesse concreto ed attuale del
ricorrente;
● che alla camera di consiglio del
18.04.2012, dopo breve discussione orale, la
causa è stata trattenuta in decisione;
Considerato:
● che, con riferimento alla richiesta di
accesso ai documenti inerenti il
procedimento ispettivo (e formati dopo il
suo inizio), deve essere dichiarata la
cessazione della materia del contendere, in
quanto l’amministrazione ha spontaneamente
depositato in giudizio tutti i documenti
contenuti nel fascicolo del procedimento
ispettivo;
● che, con riferimento all’ulteriore istanza
di accesso agli “atti di preiniziativa
(esposto/denuncia) ed autori”, il
ricorso deve invece essere rigettato;
● che, al riguardo, la questione investe il
problema del bilanciamento e del
contemperamento tra il diritto di accesso ai
documenti amministrativi, da un lato, e la
tutela dei terzi i cui dati personali siano
contenuti nella documentazione richiesta,
dall’altro lato, con particolare riferimento
all'esigenza di tutela della riservatezza
dei firmatari di un esposto (cfr.,
analogamente, TAR Sardegna, sez. II, n. 2590
del 2010);
● che la preordinazione dell'istituto
dell’accesso alla cura ed alla difesa di
interessi giuridici (di cui all’art. 24,
comma 7, della legge n. 241 del 1990), dalla
quale soltanto dipende la prevalenza del
diritto di accesso sul diritto alla
riservatezza dei terzi, non può risolversi
in una clausola di stile, ma deve essere
effettiva, in relazione alla situazione di
fatto e di diritto nella quale la domanda di
accesso si inserisce e che tale effettività
deve essere controllabile dal giudice
dell'accesso (Cons. Stato, sez. V, n. 1916
del 2000);
● che allorquando, come nella specie,
l’accertamento di un illecito amministrativo
sia fondato su autonomi atti di ispezione
dell'autorità amministrativa, l'esposto del
privato ha il solo effetto di sollecitare il
promovimento d'ufficio del procedimento,
senza acquisire efficacia probatoria, con la
conseguenza che in tali evenienze, di
regola, per il destinatario del
provvedimento finale non sussiste la
necessità di conoscere gli esposti al fine
di difendere i propri interessi giuridici, a
meno che non siano rappresentate particolari
esigenze, il che qui non ricorre: ciò, del
resto, corrisponde al fatto che, di fronte
al diritto alla riservatezza del terzo, la
pretesa di conoscenza dell'esposto da parte
del richiedente, se svincolata dalla
preordinazione all'esercizio del diritto di
difesa, acquista un obiettivo connotato
ritorsivo che l'ordinamento non può tutelare
(così, ancora, Cons. Stato, sez. V, n. 1916
del 2000);
● che, di conseguenza, non avendo il
ricorrente evidenziato alcun interesse
proprio, giuridicamente rilevante, tale da
consentire il corrispondente sacrificio del
diritto alla riservatezza dei terzi
potenzialmente interessati dalla sua
richiesta, la sua istanza di accesso non
poteva e non può trovare, in base alla
legge, favorevole riscontro (TAR Piemonte,
Sez. II,
sentenza 10.05.2012 n. 537 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti,
interdittiva antimafia solo se gli indizi
sono certi.
Per l'interdittiva antimafia a carico
dell'azienda serve un quadro indiziario
preciso fondato su elementi aggiornati. Non
basta infatti un rapporto di subappalto con
un'impresa in odore di camorra a bloccare
gli appalti dell'azienda finita nel mirino
della prefettura. Deve invece essere
approfondita la verifica sullo scambio di
personale tra le ditte, per stabilire se
sia, per esempio, un metodo dei boss per
controllare in qualche modo il presunto
socio impegnato in attività pulite. E se il
clan incriminato pare ormai in disarmo, sono
inutili le vecchie relazioni della direzione
investigativa antimafia: l'ufficio
territoriale del governo è tenuto a
procurarsi notizie più fresche sull'attività
dei presunti criminali in modo da valutare
il rischio-infiltrazioni.
È quanto emerge dalla
sentenza 09.05.2012 n. 2678 della III
Sez. del Consiglio di Stato.
Accolto il ricorso della cooperativa in
terra di Gomorra: annullata l'informativa
antimafia del prefetto di Napoli che aveva
portato alla revoca di appalti aggiudicati
all'azienda. È vero, non può avere che
natura prognostica la valutazione del
prefetto che fa scattare l'inibitoria ai
danni dell'impresa: lo impone la necessità
di evitare che i contratti pubblici
finiscano nelle grinfie di organizzazioni
criminali travestite da imprese legali.
Ma il quadro indiziario su cui si fonda la
decisione dell'ufficio territoriale deve
comunque essere coerente, anche se non
risulta perfezionato. E soprattutto non può
basarsi su supposizioni. In questo caso il
prefetto ha in mano elementi insufficienti:
i presunti camorristi legati in rapporto di
subappalto sono stati assolti anni prima
dall'accusa di cui al 416-bis Cp e nel
frattempo il clan di riferimento è stato
sconfitto.
Ai fini dell'interdittiva antimafia,
infatti, la rilevanza di una organizzazione
camorristica deve presentare il requisito
della idoneità, attuale ed effettiva, del
vincolo associativo a influenzare le
iniziative e le decisioni del soggetto
condizionato. Lo scioglimento della «famiglia»
di appartenenza dei «guaglioni»
finiti nel mirino delle forze dell'ordine
possono consentire di escludere il
potenziale condizionamento dell'azienda
(articolo ItaliaOggi
del 02.06.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti - Deposito temporaneo –
Condizioni.
A seguito dell'entrata in vigore dell’art.
183, lett. m), D.L.vo n. 152/2006 (v. ora
art. 183, lett. bb), il produttore può
decidere di conservare i rifiuti in deposito
per tre mesi in qualsiasi quantità, prima di
avviarli allo smaltimento o al recupero,
privilegiando così il limite temporale,
oppure può scegliere di conservare i rifiuti
in deposito per un anno, purché la quantità
non raggiunga i venti metri cubi (per
effetto delle modifiche apportate dal D.L.vo
n. 205/2010 il limite è stato elevato a
trenta metri cubi), in applicazione dei
limite quantitativo. Pertanto, per
qualificare come irregolare tale deposito è
necessario appurare che entrambe tali
condizioni non siano state rispettate (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.05.2012 n. 16988 - link a
www.tuttoambiente.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Omissioni in relazione al D.Lgs. 81/2008 e
responsabilità di un Sindaco.
Responsabilità di un Sindaco per i reati di
cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 17, lett.
b) e art. 18, lett. a), articolo 43, lett.
b) per non avere nominato il responsabile
del servizio di prevenzione, né il medico
competente per la sorveglianza sanitaria, e
per non avere designato i lavoratori addetti
al primo soccorso.
---------------
La definizione di datore
di lavoro, contenuta nel D.Lgs. n. 81 del
2008, articolo 2, ha dato esclusivo rilievo,
ai fini della individuazione dei soggetti
titolari del debito di sicurezza, al
requisito della organizzazione della
attività, unito, ovviamente, all'esercizio
dei poteri decisionali e di spesa inerenti
la stessa.
Nella sua seconda parte l'articolo 2, comma
1, lettera b), del citato decreto, individua
la figura del datore di lavoro nelle
pubbliche amministrazioni e, a differenza
del D.Lgs. n. 626 del 1994, il vigente
81/2008 recepisce, esplicitandolo, lo
stabile indirizzo giurisprudenziale secondo
il quale è l'organo di vertice delle singole
amministrazioni, ovverosia l'organo di
direzione politica, a dovere individuare il
dirigente, o il funzionario non dirigente,
cui attribuire la qualità di datore di
lavoro.
Mutuate dal predetto orientamento della
Corte di legittimità anche le conseguenze
che secondo il dettato del citato decreto
derivano dalla omessa individuazione
dell'organo politico del dirigente designato
ad assumere il debito di sicurezza: in tali
casi la qualifica di datore di lavoro
continuerà a coincidere con l'organo di
vertice medesimo, quindi con il Sindaco.
La difesa del prevenuto ha interposto
appello, che è stato trasmesso a questa
Corte ex articolo 568 cod. proc. pen. -
Rigetto.
Ad avviso del decidente, le prescrizioni
dettate nelle predette disposizioni
normative sono entrate in vigore il
15/05/2008, mentre dagli atti è emerso, in
modo incontestabile, che fino al 20/03/2009
l'amministrazione comunale non aveva ancora
adempiuto al disposto normativo, rendendo
inconferente, ai fini della integrazione
delle fattispecie contestate,
l'ottemperamento alle prescrizioni de
quibus in data antecedente
all'effettuato controllo da parte della ASL
(Omissis), perché, anche in quella data il
relativo termine era abbondantemente
decorso.
Va osservato, altresì, in punto di affermata
responsabilità del Sindaco, che la
definizione di datore di lavoro, contenuta
nel D.Lgs. n. 81 del 2008, articolo 2, ha
dato esclusivo rilievo, ai fini della
individuazione dei soggetti titolari del
debito di sicurezza, al requisito della
organizzazione della attività, unito,
ovviamente, all'esercizio dei poteri
decisionali e di spesa inerenti la stessa.
Nella sua seconda parte l'articolo 2, comma
1, lettera b), del citato decreto, individua
la figura del datore di lavoro nelle
pubbliche amministrazioni e, a differenza
del Decreto Legislativo n. 626 del 1994, il
vigente 81/2008 recepisce, esplicitandolo,
lo stabile indirizzo giurisprudenziale
secondo il quale è l'organo di vertice delle
singole amministrazioni, ovverosia l'organo
di direzione politica, a dovere individuare
il dirigente, o il funzionario non
dirigente, cui attribuire la qualità di
datore di lavoro.
Mutuate dal predetto orientamento della
Corte di legittimità anche le conseguenze
che secondo il dettato del citato decreto
derivano dalla omessa individuazione
dell'organo politico del dirigente designato
ad assumere il debito di sicurezza: in tali
casi la qualifica di datore di lavoro
continuerà a coincidere con l'organo di
vertice medesimo, quindi con il Sindaco
(Corte dei Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.04.2012 n. 15206 - tratto e
link a http://olympus.uniurb.it).
---------------
J. Cortinovis,
Sicurezza nei luoghi di lavoro ed eventuale
responsabilità del Sindaco.
Con la
sentenza 20.04.2012 n. 15206 la Corte di
Cassazione, Sez. III penale, si pronuncia in
tema di tutela della salute e della
sicurezza nei luoghi di lavoro nelle
pubbliche amministrazioni, ed in particolare
negli Enti Locali. Secondo i Giudici,
considerato che la Pubblica Amministrazione
è soggetta, al pari dell’impresa privata, al
rispetto delle previsioni indicate dal
D.Lgs. n. 81/2008 e ss.mm.ii., ove il
Sindaco, non provveda ad individuazione la
figura del datore di lavoro in seno
all’organigramma dell’ente locale, tale
qualifica continuerà a coincidere con la
figura del Sindaco medesimo.
Nel caso di specie, a seguito di sopralluogo
ispettivo, eseguito ad opera del personale
del Dipartimento prevenzione sicurezza
ambienti di lavoro dell’azienda ASL, presso
una amministrazione comunale, al Sindaco
venivano contestati i reati di cui agli
artt. 17, lettera b), 18, lettera a) e 43,
lettera b) del D.Lgs. n. 81/2008, per non
avere nominato, né il responsabile del
servizio di prevenzione, né il medico
competente per la sorveglianza sanitaria e
per non avere designato i lavoratori addetti
al primo soccorso.
Secondo il Giudice di merito, gli elementi
acquisiti consentivano di ritenere già
chiaramente provata la responsabilità del
Sindaco per le violazioni addebitate, in
quanto, fino alla data dell'ispezione,
l’amministrazione comunale non aveva ancora
adempiuto a quanto previsto dalla vigente
normativa.
Avverso tale sentenza, il Sindaco proponeva
ricorso per Cassazione censurando la non
configurabilità in capo alla figura del
Sindaco della qualifica di ^datore di
lavoro^. Ciò in considerazione del fatto
che, a seguito della chiarita distinzione
tra ^organo politico^ e ^organo
amministrativo^ ad opera del T.U.E.L. (D.Lgs.
267/2000), spetterebbe solo al secondo e mai
al primo la responsabilità per la mancata
attuazione degli obblighi prevenzionistici.
La Suprema Corte non ritiene di accogliere
una tale prospettazione, evidenziando, al
contrario, come la definizione di ^datore di
lavoro^, contenuta all'art. 2 del D.Lgs. n.
81 del 2008, dia esclusivo rilievo, ai fini
della individuazione dei soggetti titolari
dell'obbligo di sicurezza, al requisito
della organizzazione della attività, unito,
ovviamente, all'esercizio dei poteri
decisionali e di spesa inerenti la stessa.
Inoltre, il comma 1, lettera b), del
medesimo articolo 2, individuando nello
specifico la figura del datore di lavoro
nelle pubbliche amministrazioni, recepisce
il consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo il quale è l'organo di vertice delle
singole amministrazioni, ovverosia l'organo
di direzione politica, a dover individuare
il dirigente, o il funzionario non
dirigente, cui attribuire la qualità di
datore di lavoro. Ne consegue che dalla
omessa individuazione la qualifica di datore
di lavoro continuerà a coincidere con
l'organo di vertice dell'amministrazione,
quindi con il Sindaco (link a http://studiospallino.blogspot.it). |
APPALTI:
Spetta al giudice ordinario
dichiarare la nullità o inefficacia, ovvero
l'annullamento del contratto d'appalto.
Nel settore dell'attività negoziale della
p.a. tutte le controversie che attengono
alla fase preliminare -antecedente e
prodromica al contratto- inerente alla
formazione della sua volontà ed alla scelta
del contraente privato in base alle regole
c.d. dell'evidenza pubblica, appartengono al
giudice amministrativo. Mentre quelle che
radicano le loro ragioni nella serie
negoziale successiva che va dalla
stipulazione del contratto fino alle vicende
del suo adempimento, e riguarda la
disciplina dei rapporti che dal contratto
scaturiscono, sono devolute al giudice
ordinario.
Conseguentemente appartengono al giudice
ordinario le controversie concernenti
l'interpretazione dei diritti e degli
obblighi derivanti dal contratto, nonché
quelle rivolte ad accertarne le condizioni
di validità e di efficacia e ad ottenerne la
declaratoria di nullità o inefficacia,
ovvero l'annullamento, posto che anche esse
hanno ad oggetto non già i provvedimenti
riguardanti la scelta dell'altro contraente,
ma il rapporto privatistico discendente dal
negozio; e gli eventuali vizi di questo
devono essere esaminati esclusivamente dal
giudice ordinario competente a conoscerne
l'intera disciplina.
Nell'ambito delle patologie ed inefficacie
negoziali, rientrano non soltanto quelle
inerenti alla struttura del contratto, siano
esse estranee e/o alla stessa sopravvenute,
ma anche quelle derivanti da
irregolarità-illegittimità della procedura
amministrativa a monte, perciò comprendenti
anche le fattispecie di radicale mancanza
del procedimento di evidenza pubblica (o di
vizi che ne affliggono singoli atti): perciò
accertabile incidentalmente da parte di
detto giudice, al quale le parti possono
rivolgersi senza necessità del previo
annullamento "in parte qua" ad opera
del giudice.
Pertanto, poiché nel caso di specie, la
Regione ha dedotto la nullità e comunque
l'invalidità dei contratti di affidamento di
servizi sanitari per cui la società ha
chiesto ed ottenuto il decreto ingiuntivo,
il relativo accertamento rivolto ad
impedirne l'esecuzione e perciò ad escludere
il diritto soggettivo della controparte al
pagamento del corrispettivo spetta al
giudice ordinario (Corte di Cassazione,
SS.UU. civili,
sentenza 05.04.2012 n. 5446 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ordinanze sindacali contingibili
ed urgenti. Presupposti per l’adozione.
La potestà del Sindaco di adottare, quale
Ufficiale di Governo, provvedimenti
contingibili ed urgenti ex art. 54, comma 2,
del D.lgs. n. 267 del 2000, è strettamente
finalizzata a prevenire gravi pericoli che
minacciano l’incolumità dei cittadini;
sicché il potere di urgenza può essere
esercitato solo per affrontare situazioni di
carattere eccezionale ed impreviste,
costituenti concreta minaccia per la
pubblica incolumità, per le quali sia
impossibile utilizzare i normali mezzi
apprestati dall’ordinamento giuridico e
unicamente in presenza di un preventivo
accertamento della situazione che deve
fondarsi su prove concrete e non su mere
presunzioni (1).
E’ illegittima, per mancanza dei
presupposti, l’ordinanza contingibile ed
urgente adottata dal Sindaco del Comune di
Lipari con la quale è stato ordinato ad
alcuni farmacisti di assicurare, mediante
l’attivazione del P.F.E., l’assistenza
farmaceutica nelle Isole di Filicudi ed
Alicudi, nel caso in cui risulti che nelle
predette isole non c’era alcuna situazione
di emergenza farmaceutica -anche in vista
della stagione estiva- tale da costituire
una minaccia incombente per la pubblica
incolumità, ovvero tale da poter
giustificare l’ordine di apertura di un
presidio farmaceutico.
La responsabilità patrimoniale
dell’Amministrazione per gli eventuali danni
che il provvedimento ha potuto causare ai
privati, per come è formulato l’art. 2043
c.c., va esclusa quando non è dato
riscontrare nei comportamenti della P.A.
elementi di colpa grave o di dolo tali da
poter far ragionevolmente presumere
l’intento di voler danneggiare i ricorrenti,
sui quali peraltro incombe l’onere della
prova (2).
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(1) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.12.2007,
n. 6366
(2) In applicazione del principio nella
specie è stata parzialmente riformata la
sentenza di primo grado che, nell’annullare
l’ordinanza contingibile ed urgente del
Sindaco di Lipari, aveva anche accolto la
domanda di risarcimento del danno, atteso
che non sussistevano i presupposti del dolo
o della colpa grave, anche in considerazione
delle circostanze alquanto complesse nelle
quali si era svolta l’intera vicenda
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
C.G.A.R.S.,
sentenza
02.04.2012 n. 370 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Illegittimità della nomina dei componenti
del Nucleo di valutazione adottata dal
Sindaco.
E’ illegittimo, per incompetenza, il
provvedimento di nomina dei componenti del
nucleo di valutazione di un ente locale, nel
caso in cui sia stato adottato dal Sindaco e
non dal Consiglio comunale; infatti, dal
combinato-disposto di cui agli artt. 14,
comma 3, del d.lgs. n. 150 del 2009 e 42,
comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000,
discende la regola che la competenza alla
nomina dei componenti del nucleo di
valutazione spetta al Consiglio comunale, in
qualità di organo di indirizzo
politico-amministrativo dell’ente e non al
Sindaco, che è semplicemente l’organo
responsabile dell’amministrazione generale
del Comune ed il suo massimo rappresentante
(1).
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(1) Ha osservato, in particolare, la
sentenza in rassegna che, se a termini
dell’art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 150 del
2009 l’organismo di valutazione deve essere
nominato "dall’organo di indirizzo
politico-amministrativo", d’altra parte è la
stessa legge, con l’art. 42, comma 1, del
d.lgs. n. 267 del 2000, che qualifica
espressamente come organo di indirizzo
politico-amministrativo il Consiglio
comunale, con la conseguenza di individuare
per le amministrazioni comunali tale organo
come quello competente alla nomina.
Tale esegesi, tra l’altro, è in linea con il
principio secondo cui la competenza
attribuita ai Consigli comunali è
circoscritta agli atti fondamentali di
natura programmatoria o aventi un elevato
contenuto di indirizzo politico (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 09.06.2008 n. 2832 e
31.01.2007 n. 383), se letto alla luce del
chiaro enunciato dell’art. 15 del d.lgs. n.
150 del 2009, che attribuisce appunto
all’organo di indirizzo
politico-amministrativo dell’ente anche
compiti di alta programmazione in materia di
miglioramento della performance (massima
tratta da www.regione.piemonte.it - TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 28.03.2012 n.
1510 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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