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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GIUGNO 2012

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aggiornamento al 25.06.2012

aggiornamento al 18.06.2012

aggiornamento all'11.06.2012

aggiornamento al 04.06.2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 25.06.2012

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NOVITA' NEL SITO

● Inserito il nuovo bottone dossier CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)

● Inserito il nuovo bottone dossier CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Gaboardi, La disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi. Natura giuridica, limiti e modalità di esercizio (link a www.diritto.it).

APPALTI SERVIZI: F. Laurendi, Servizi locali, addio a gare e in house - Cinque elementi, tra cui le necessità delle comunità locali, alla base della verifica necessaria per mettere in concorrenza i servizi. Lo prevede il regolamento attuativo del d.l. 138/2011, che ha avuto l’ok dal Consiglio di Stato (parere 11.06.2012 n. 2805) (link a www.diritto.it).

SINDACATI

APPALTI SERVIZI: La fondazione di partecipazione per la gestione dei servizi pubblici locali (CGIL-FP di Bergamo, nota 18.06.2012).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA - VARIArriva il nuovo Decreto Sviluppo? Tante novità per tecnici, imprese e famiglie.
Dopo tanti rinvii e varie modifiche il Governo ha approvato il pacchetto di misure per la crescita e lo sviluppo del paese.
Il nuovo Decreto Sviluppo introduce tante interessanti novità, tra cui:
● Innalzamento della detrazione per ristrutturazione (dal 36% al 50%)
● Credito di imposta per le nuove assunzioni di profili altamente qualificati
● Tariffe minime nelle gare
● Ripristino Iva sull'invenduto
● Semplificazioni per i titoli abilitativi (SCIA e DIA)
● Sospensione del Sistri
● Finanziamenti green economy
● Possibilità di costituire “Srl semplificata” anche agli over 35
Ricordiamo che il Decreto non è ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale e quindi non è ancora in vigore.
La redazione di BibLus-net mette a disposizione dei propri lettori un documento con la sintesi delle principali novità del Decreto e la bozza “definitiva” del nuovo Decreto Sviluppo (21.06.2012 - link a www.acca.it).

INCARICHI PROGETTUALIDal 13 agosto obbligo di polizza assicurativa per tutti i professionisti. Ecco i termini da conoscere prima di stipulare il contratto.
Dal 13.08.2012 architetti, ingegneri, geometri, notai, avvocati, commercialisti, ossia tutti i liberi professionisti dovranno avere una polizza assicurativa a tutela di errori professionali.
Lo stabilisce la Legge 148/2011 (di conversione del Decreto 138/2011) che prevede:
Þ l’obbligo di stipulare un’assicurazione privata per la responsabilità civile, a partire dal 13.08.2012;
Þ l’obbligo di indicare al cliente i dati della polizza assicurativa al momento del conferimento dell’incarico.
Ma cosa vuol dire franchigia, premio, massimale, claims made?
In allegato a questo articolo, oltre al testo coordinato del Decreto 138/2011, la redazione di BibLus-net propone ai propri lettori un documento contenente le definizioni principali legate ad una polizza, da conoscere assolutamente prima della stipula (21.06.2012 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI: G.U. 21.06.2012 n. 143 "Pagamento dei crediti commerciali connessi a transazioni commerciali per l’acquisizione di servizi e forniture, certi, liquidi ed esigibili, corrispondenti a residui passivi di bilancio, ai sensi dell’articolo 35, comma 1, lettera b) , del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 22.05.2012).

APPALTI: G.U. 21.06.2012 n. 143 "Modalità di certificazione del credito, anche in forma telematica, di somme dovute per somministrazione, forniture e appalti da parte delle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici nazionali" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 22.05.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 25 del 19.06.2012, "Attuazione dell’art. 21 della legge regionale 12.12.2003, n. 26 «Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche», relativamente alle procedure di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati" (regolamento regionale 15.06.2012 n. 2).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi sono i soggetti legittimati al risarcimento del danno ambientale? (link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti pericolosi.
Domanda.
In tema di trasporto non autorizzato di rifiuti pericolosi è obbligatoria la confisca del veicolo e di qualunque altro mezzo utilizzato per il trasporto dei suddetti rifiuti?
Risposta.
L'articolo 260-ter, comma 4, del decreto legislativo numero 152, del 3 aprile 2006, introdotto dall'articolo 36 del decreto legislativo numero 205, del 2010, prevede che, nell'ipotesi di trasporto non autorizzato di rifiuti pericolosi, deve sempre essere disposta la confisca del veicolo e di qualunque altro mezzo utilizzato per il trasporto dei rifiuti, ai sensi dell'articolo 240, secondo comma, del codice penale, salvo che gli stessi appartengano non in modo fittizio a persona estranea al reato.
La predetta disposizione entra senz'altro in interscambio con l'altra disposizione dettata, sempre in materia di confisca in tema di rifiuti, anche se non pericolosi, del mezzo di trasporto, ai sensi dell'articolo 259, comma 2, del summenzionato decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006.
Si ritiene che, in materia, con il conforto di parte della dottrina, la soluzione del problema deve essere trovata nel considerare la disposizione di cui al citato articolo 260-ter, comma 4, del citato decreto legislativo numero 152, del 3 aprile 2006, introdotto dall'articolo 36 del decreto legislativo numero 205, del 2010, come norma speciale rispetto a quella portata dall'articolo 259, comma 2, del summenzionato decreto legislativo numero 152 del 03.04.2006. Infatti, la prima presenta elementi di specifica caratterizzazione rispetto alla seconda.
Infine è da osservare, con buona parte della dottrina e della giurisprudenza, che l'istituto della confisca, a cui fa sempre più ricorso il legislatore, assume, con maggiore frequenza, una natura specificatamente sanzionatoria. Essa, cioè, perde l'originaria caratteristica di essere fonte di controllo sulla pericolosità della cosa. Caratteristica questa che dovrebbe essere propria di una misura di sicurezza patrimoniale (articolo ItaliaOggi Sette del 18.06.2012).

URBANISTICA - VARI: Area edificabile.
Domanda.
In materia di area fabbricabile, con l'introduzione dell'Imposta municipale propria (Imu), è cambiata la normativa?
Risposta.
L'articolo 13, comma 2, del decreto legge del 06.12.2011, numero 201, convertito con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, numero 214, prevede che il presupposto impositivo dell'Imposta municipale propria (Imu) è costituito dal possesso di qualunque immobile, ivi comprese le abitazioni principali e le pertinenze. Detto articolo richiama l'articolo 2, del decreto legislativo numero 504, del 1992 e tale richiamo ha lo scopo di mantenere, anche ai fini dell'Imposta municipale propria (Imu), le definizioni che risultavano già utilizzate ai fini dell'Imposta comunale sugli immobili (Ici).
Ora, alla luce della suddetta normativa, per area fabbricabile si deve intendere l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità.
È bene richiamare, pure, il disposto dell'articolo 36, comma 2, del decreto legge 04.07.2006, numero 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 04.08.2006, numero 248. Detto articolo dispone che un'area è da considerare fabbricabile se essa è utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo.
Non sono considerati fabbricabili i terreni posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali, di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 29.03.2004, numero 99, iscritti alla previdenza agricola, sui quali persiste l'utilizzazione agro-silvo-pastorale mediante l'esercizi di attività dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, alla funghicoltura ed all'allevamento di animali (articolo ItaliaOggi Sette del 18.06.2012).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Convenzionamento tra enti e limiti/vincoli in materia di personale.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, con il parere 15.06.2012 n. 279 risponde a quesiti di un Comune con popolazione superiore ai 5.000 abitanti che intende stipulare convenzione con altro ente avente popolazione inferiore al predetto limite (e tenuto, per legge, all'esercizio condiviso di attività) per lo svolgimento associato di servizi tecnici e per la costituzione di una centrale di committenza.
L'ente istante chiede se sono superabili i limiti di spesa complessiva di personale e, nello specifico, per forme di lavoro flessibile. La Corte, esaminato il quadro normativo di riferimento, formula le seguenti conclusioni:
"... l'ente richiedente, in caso di convenzione con comuni tenuti alla stipula di una convenzione 'obbligatoria' ..., è tenuto alla piena applicazione delle norme recanti limitazioni alla spesa del personale, segnatamente: dell'art. 1, comma 557 della L.F. 2007; dell'art. 76, comma 7, D.L. 112/2008; dell'art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010".

CONSIGLIERI COMUNALI:  Corte dei conti. Più tutela dalla sezione Puglia per chi opera negli enti locali. Rimborso delle spese legali per gli amministratori assolti.
Gli amministratori locali che sono stati assolti in via definitiva hanno il diritto di ricevere il rimborso delle spese legali sostenute in ragione dei loro compiti di ufficio. Si arriva a questa conclusione applicando il principio di carattere generale del nostro ordinamento in base al quale le spese sostenute dal mandatatario sono a carico del mandante. Non osta a tale conclusione il fatto che la Corte di cassazione abbia escluso l'applicabilità in via analogica agli amministratori del diritto al rimborso delle spese legali che il legislatore ed il contratto collettivo riconoscono ai dirigenti ed ai dipendenti delle Pa.
Sono queste le assai innovative conclusioni contenute nella sentenza 14.06.2012 n. 787 della Corte dei conti della Puglia che riapre la possibilità di riconoscere il rimborso delle spese legali agli amministratori; possibilità che la Corte di cassazione ha escluso con la sentenza n. 12645/2010, indicazione a cui si è uniformato anche il ministero dell'Interno. La sentenza è assai coraggiosa, in quanto corregge un orientamento che, sulla scorta di argomentazioni essenzialmente formali, ha determinato una ingiustificata penalizzazione degli amministratori.
Le sue motivazioni risultano peraltro assai convincenti sul terreno delle argomentazioni, perché richiamano l'esistenza di un principio di carattere generale del nostro ordinamento in base al quale nello svolgimento di un mandato (formula che si può estendere all'incarico) non devono essere sopportati oneri ulteriori. E che l'incarico di amministratore possa essere equiparato ad un mandato è innegabile, come anche dimostrato dalla utilizzazione del termine "mandato elettorale" o "mandato amministrativo". La sentenza peraltro sollecita espressamente il legislatore ad una definizione normativa della materia, definizione che appare quanto mai necessaria.
Alla base della pronuncia vi è il richiamo all'articolo 1720 del codice civile nella parte in cui dispone che il mandante deve risarcire i danni che il mandatario ha subito a causa dell'incarico, principio che viene assunto come una indicazione di carattere generale del nostro ordinamento giuridico.
Posta tale premessa si arriva alla conclusione per cui «escludere la fattispecie della rimborsabilità delle spese legali sostenute dagli amministratori dall'ambito di applicazione dell'articolo 67 del Dpr n. 268/1987 nella sua interpretazione estensiva e, contestualmente, negare quel richiamo all'analogia legis per sostenere la rimborsabilità delle spese degli amministratori comunali, con conseguente inapplicabilità della disciplina del mandato alla fattispecie de qua, significherebbe confinare nell'area del giuridicamente irrilevante la stessa con conseguenze, in taluni casi, palesemente in contrasto con quei principi di giustizia sostanziale che è dovere del Giudice ricercare per la disciplina del caso concreto, ove non sia intervenuto direttamente il legislatore» (articolo Il Sole 24 Ore del 19.06.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGOE' illegittimo per contrarietà dell'art. 10, comma 5, del D.lvo n. 163/2006, la disposizione commissariale n. 2/2012 nella parte in cui conferisce l'incarico di R.U.P ad un dipendente con contratto a tempo determinato in presenza di tecnici di ruolo dotati di idonea professionalità e nulla rilevando il carico di lavoro di questi ultimi.
Venendo ai rilievi di merito mossi in sede istruttoria, ritiene il Collegio che il primo di essi, relativo alla circostanza che il soggetto nominato R.U.P. non sia un dipendente di ruolo dell’amministrazione aggiudicatrice, così come previsto dall’art. 10, 5° comma, del D.Lgs. n. 163/2006 (c.d. Codice dei contratti), non possa considerarsi superato, non ritenendo meritevoli di accoglimento le considerazioni prodotte dall’Amministrazione in sede di contraddittorio.
Infatti, la suindicata disposizione, così recita: ”Il responsabile del procedimento deve possedere titolo di studio e competenza adeguati in relazione ai compiti per cui è nominato. Per i lavori e i servizi attinenti all’ingegneria e all’architettura deve essere un tecnico. Per le amministrazioni aggiudicatrici deve essere un dipendente di ruolo . In caso di accertata carenza di dipendenti di ruolo in possesso di professionalità adeguate, le amministrazioni aggiudicatrici nominano il responsabile del procedimento tra i propri dipendenti in servizio” (comma così modificato dall’art. 2 del D.Lgs. 26.01.2007, n. 6).
Il nuovo regolamento sui contratti pubblici, approvato con D.P.R. 05.10.2010, n. 207, all’art. 272, primo comma, ribadisce, altresì, che il responsabile del procedimento debba essere nominato dalle amministrazioni aggiudicatrici fra i propri dipendenti di ruolo, fatto salvo quanto previsto dall’art. 10, comma 5, del codice dei contratti ed, infine, al comma 4, precisa che “il responsabile del procedimento è un funzionario, anche di qualifica non dirigenziale, dell’amministrazione aggiudicatrice.”
Infine, il requisito dell’appartenenza del R.U.P. ai ruoli dell’amministrazione aggiudicatrice, ribadito a chiare lettere dal dettato normativo e regolamentare, trova pacifica conferma tanto nelle deliberazioni dell’AVCP (cfr. deliberazione n. 59 del 27.07.2006; deliberazione n. 24 del 23.02.2011) che nella giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. St., Sez. V, 06.07.2010).
Non è superfluo osservare, inoltre, che il successivo comma 7 dell’art. 10 del codice dei contratti prevede che in caso di carenze accertate in organico ovvero in assenza di soggetti in possesso della professionalità necessaria per lo svolgimento dei compiti di R.U.P., l’incarico di supporto al R.U.P. possa essere affidato a soggetti esterni in possesso di specifiche competenze tecniche che abbiano stipulato adeguata polizza assicurativa, con ciò confermando, indirettamente, la regola che il R.U.P., comunque, debba essere un dipendente di ruolo dell’amministrazione aggiudicatrice.
L’unica eccezione a suddetta regola, pertanto, risulta introdotta con la modifica recata dall’art. 2 del D.lgs. 26.01.2007, n. 6 che ha previsto la possibilità di affidare l’incarico di R.U.P. a dipendenti “in servizio” (tra i quali rientrano i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato ma non già i lavoratori titolari di contratti co.co.co. o co.co.pro.), solamente in caso di “accertata carenza di dipendenti di ruolo in possesso di professionalità adeguate”. La suindicata disposizione, infatti, si era resa necessaria per consentire l’affidamento di lavori anche da parte di enti locali di piccole dimensioni, nei quali la presenza di vuoti di organico, ricoperti con contratti a tempo determinato, non avrebbe consentito il regolare svolgimento dell’attività degli enti.
Ritiene il Collegio, tuttavia, che la circostanza della “accertata carenza” di dipendenti di ruolo debba essere intesa quale assenza tra i dipendenti in organico, di funzionari e/o dirigenti in possesso dei requisiti tecnici necessari (trattandosi di lavori) e non già, come interpretato dal soggetto attuatore – Dirigente generale del Dipartimento regionale della Protezione Civile, quale mera indisponibilità di tecnici per sovraccarico di lavoro.
Nell’articolata memoria depositata nel corso dell’adunanza ed illustrata verbalmente, infatti, risulta enfatizzata la circostanza che l’ufficio provinciale della protezione civile di Agrigento –territorialmente competente– avesse in organico, tra i dipendenti di ruolo, solamente tre ingegneri ed un architetto, tutti impegnati –ovviamente- in incarichi di R.U.P., Direzione Lavori, addetti alla sicurezza etc., ovvero con carichi di lavoro individuali che, a detta del Dirigente generale, non avrebbero consentito un ulteriore aggravio.
In disparte la circostanza che risulta confermata –per tabulas– la presenza in organico di tecnici dei ruoli dell’amministrazione, ad avviso del Collegio non appare ragionevole l’individuazione del novero dei tecnici di ruolo cui affidare l’incarico di R.U.P. circoscritta ai soli dipendenti dell’ufficio provinciale di Agrigento, ancorché logisticamente più vicini al luogo dei lavori da eseguirsi: il soggetto attuatore dei provvedimenti commissariali, infatti, non risulta certamente vincolato all’organizzazione territoriale del proprio ufficio ma può e deve disporre, nell’ambito dei propri poteri di organizzazione, delle risorse umane e strumentali cui è preposto, al precipuo fine di realizzare gli interventi commissariali al meglio, anche individuando i soggetti idonei presso altri uffici periferici e/o centrali ovvero, in ultima analisi, richiedendo al Commissario delegato il distacco di tecnici di ruolo dell’amministrazione regionale presso il dipartimento di protezione civile.
In nessun caso, pertanto, può essere legittimato l’affidamento dell’incarico di R.U.P. a un dipendente a contratto in ipotesi di accertata copertura di posti in organico di tecnici ingegneri e/o architetti con dipendenti di ruolo, apparendo irrilevante il (presunto) eccessivo carico di lavoro.
Lo stesso principio di rotazione degli incarichi, espressamente richiamato dal Dirigente generale del Dipartimento generale della protezione civile quale criterio ribadito nella determinazione n. 2/2009 dell’AVCP, deve essere, certamente, tenuto in considerazione nell’ambito della stessa tipologia di dipendenti ma non è idoneo ad equiparare, ai fini della nomina a R.U.P., i dipendenti di ruolo a quelli comunque “in servizio”.
Priva di pregio, infine, appare al Collegio l’enfatizzazione, operata dal soggetto attuatore, della particolare specializzazione nel campo dell’ingegneria portuale posseduta dall’ing. Lidia Pane (per avere quest’ultima collaborato in studi privati operanti nel settore portuale), ritenuta essenziale per lo svolgimento dell’incarico di R.U.P. nel caso in esame.
Ritiene il Collegio, infatti, che tale requisito possa costituire un quid pluris, rispetto a quanto richiesto per il corretto svolgimento dei compiti e delle funzioni che la legge assegna al R.U.P., idoneo ad assumere rilevanza solamente nell’ambito di una valutazione comparativa tra i requisiti in possesso di due o più ingegneri di ruolo, non già costituire titolo per escludere la sussistenza in capo a questi ultimi della professionalità necessaria per l’espletamento dell’incarico di R.U.P.
Non è ultroneo sottolineare, infatti, che l’art. 273 del nuovo regolamento sui contratti pubblici, il quale elenca le funzioni ed i compiti del responsabile del procedimento, consente di ricondurre la figura del R.U.P. non già a quella di un tecnico superspecializzato, bensì a quella di un tecnico (nell’ipotesi di lavori) con compiti propulsivi e di coordinamento di tutte le attività necessarie e di tutti i soggetti coinvolti affinché il processo realizzativo dell’intervento possa essere condotto nel rispetto dei tempi e dei costi preventivati, costituendo l’interfaccia dell’amministrazione con i privati ed assumendone la relativa responsabilità, anche patrimoniale.
Risulta di tutta evidenza, pertanto, che la ratio della norma che richiede l’appartenenza del R.U.P. ai ruoli dell’amministrazione aggiudicatrice trae fondamento, anche, dalla maggiore garanzia patrimoniale che il dipendente di ruolo offre all’amministrazione di appartenenza, in caso di accertati danni patrimoniali, rispetto al contrattista a tempo determinato: nel caso in esame, peraltro, trattasi di una dipendente c.d. precaria con contratto scaduto la cui proroga , alla data dell’adunanza, non risulta ancora confermata con legge di bilancio.
Il Collegio, tuttavia, tenendo conto che risulta inficiata da illegittimità solamente la disposizione contenuta nell’art. 4 del provvedimento commissariale n. 2 dell’08.02.2012 – relativa alla nomina del R.U.P., ritenendo superate le osservazioni relative alla nomina del geometra Diego Sberna, per il quale risulta allegato il relativo curriculum, ritiene di ammettere al visto ed alla conseguente registrazione la disposizione commissariale n. 2 in esame, al fine di consentire una celere prosecuzione degli interventi, con stralcio dell’art. 4 (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 04.06.2012 n. 148).

INCENTIVO PROGETTAZIONECompensi senza sforare il Ccnl. Vietato autorizzare somme aggiuntive con regolamento. La Corte conti Lombardia ha limitato l'ambito di erogazione degli incentivi ai progettisti.
Le amministrazioni locali possono erogare al proprio personale i compensi previsti da norme legislative solamente nello stretto ambito fissato dai contratti collettivi nazionali di lavoro, senza possibilità di estensione tramite i propri regolamenti. Inoltre, tali compensi devono essere compresi nel fondo per la contrattazione collettiva decentrata integrativa e non possono superare, salve le eccezioni ammesse dalla Corte dei conti e dalla Ragioneria generale dello stato, il tetto del fondo 2010.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Lombardia, con il recente parere 30.05.2012 n. 259 ha limitato l'ambito di erogazione del compenso pari al 30% della tariffa professionale ai soli casi di progettazione degli strumenti urbanistici effettuata direttamente all'interno dell'ente, escludendo la possibilità di erogare tali compensi nel caso in cui gli uffici abbiano svolto una attività di supporto a soggetti esterni.
Viene in particolare escluso che tale risultato possa essere raggiunto attraverso una modifica regolamentare adottata dalle amministrazioni, anche se l'adozione del regolamento sia stata preceduta dalla contrattazione con le organizzazioni sindacali. In particolare, «l'art. 92, comma 6, del dlgs n. 163/2006 (testo unico sugli appalti) non potrebbe costituire titolo per l'erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni». Ed ancora, una tale scelta «contrasterebbe con la natura eccezionale della norma e con il principio della rigidità della struttura retributiva, la cui determinazione è rimessa alla contrattazione collettiva (nazionale e, solo nei limiti di questa, decentrata)».
Dal parere si ricava inoltre una ulteriore conseguenza: questi compensi possono essere erogati solamente se si rientra nell'ambito della progettazione di strumenti urbanistici, oltre che nella realizzazione di opere pubbliche. Ciò vuol dire che le amministrazioni non possono estendere l'ambito di applicazione della possibilità di erogare questi benefici al di là dei limiti strettamente fissati dalla contrattazione collettiva nazionale. Questo principio deve essere applicato in modo assai rigido e vincolante a tutte le deroghe previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Per cui, ad esempio, le amministrazioni locali non possono estendere la possibilità di riconoscere una quota dei recuperi di evasione Ici, neppure previa intesa con le organizzazioni sindacali, ad altri tributi o, addirittura, al recupero di entrate extratributarie. Ed ancora, l'Imu non può essere automaticamente equiparata a questo fine all'Ici.
L'altra indicazione che si deve trarre è che le risorse previste da specifiche norme per la incentivazione del personale e dei dirigenti devono necessariamente essere inserite nel fondo per la contrattazione collettiva decentrata integrativa. In questo senso vanno le previsioni del dlgs n. 165/2001 sulla contrattualizzazione di tutte le forme di salario accessorio e le previsioni dei Ccnl (negli enti locali l'articolo 15, comma 1, lettera k), del contratto dello 01.04.1999 e l'articolo 26 del contratto del 23.12.1999 per i dirigenti).
Il parere ci richiama al rigido rispetto di tale principio, anche ricordando le sentenze con cui la Corte dei conti della Puglia ha più volte stabilito la illegittimità della erogazione di compensi al personale al di fuori del fondo ed ha previsto la maturazione di colpa grave in capo ai dirigenti che liquidano compensi al personale al di fuori di essi.
Le indicazioni contenute nella presa di posizione della sezione di controllo della Lombardia risultano quanto mai opportune perché ancora oggi una parte rilevante degli enti locali eroga questi compensi al di fuori del fondo.
Erogazione che deve essere definita come illegittima, in quanto non consente di avere una trasparenza adeguata, cioè di sapere quante risorse vengono destinate a questo titolo e chi ne sono i beneficiari, potendo semmai disporre misure correttive nella ripartizione delle altre componenti del fondo per la contrattazione collettiva decentrata integrativa (articolo ItaliaOggi del 22.06.2012 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

INCARICHI PROGETTUALIParcelle più leggere per i tecnici. Spese e oneri dell'attività fuori dalla liquidazione dei compensi. Il decreto con i parametri di riferimento riduce gli onorari dei professionisti fino al 30%.
Parcelle più leggere fino al 30% per le prestazioni professionali di area tecnica. Per lo meno nel calcolo degli onorari giudiziari. Anche se, a detta di molti, i nuovi parametri per la liquidazione dei compensi diventeranno implicitamente i nuovi riferimenti tariffari nella contrattazione con i clienti.
Secondo l'atteso decreto che contiene i criteri per la liquidazione degli onorari per le professioni regolamentate (si veda ItaliaOggi di ieri), infatti, sul calcolo dovuto per esempio a un'opera di progettazione o direzione lavori, di verifica o collaudo di un impianto elettrico scompare qualsiasi rimborso delle spese e degli oneri sostenuti per svolgere l'attività. Il che significa una media di circa il 20-30% in meno dei compensi professionali dovuti fino ad ora, quando queste spese venivano calcolate a piè di lista o su base forfettaria fino a un massimo del 60% degli onorari. In sostanza se, per esempio, per una ristrutturazione edilizia del valore di 100 mila euro il professionista fino ad ora avrebbe incassato circa 13 mila euro e a queste, poi, aggiunto tutti i rimborsi e spese sostenute per l'attività, ora queste voci saranno ricomprese nel calcolo totale.
Un passaggio che ha fatto andare su tutte le furie le diverse rappresentanze delle professioni tecniche. Basti pensare, spiega Pasquale Caprio, presidente del dipartimento competenze e compensi professionale del Consiglio nazionale degli architetti, «che secondo le nostre simulazioni effettuate sulla base di questi parametri il compenso, per esempio, su una progettazione di un edificio scolastico, sarà decurtato ancora di più rispetto al criterio tariffario risalente a una vecchia legge del 1949 il cui ultimo aggiornamento risale a oltre 30 anni fa, nel 1987». Ma non solo, perché il regolamento messo a punto dal ministro della giustizia, Paola Severino, lascia anche un margine di discrezionalità nella mani del giudice che, si legge nell'articolo 36 del testo, «in considerazione della natura dell'opera, del pregio della prestazione, dei risultati e dei vantaggi anche economici, può aumentare o diminuire il compenso di regola fino al 60%».
Una norma questa che sono in molti a ritenere addirittura frutto di un svista: «mi sembra un passaggio incongruo», spiega il numero degli ingegneri Armando Zambrano, «perché se c'è una complessità specifica che nel testo è stata ricompresa in una determinata forbice di valore, allora non si capisce questo abbattimento o questa maggiorazione a cosa serva. Se, poi, si tratta di considerare l'eventuale urgenza della prestazione allora la diminuzione non ha alcun senso».
Dito puntato anche per la scomparsa di qualsiasi riferimento di un parametro legato alla prestazione a ora, quella che nei vecchi tariffari era detta a vacazione: «Il mio tempo, in sostanza non vale nulla», tuona ancora Capria, «perché qualora non si possa far riferimento ai parametri ma si debba considerare il fattore tempo, il professionista non potrà essere pagato». In tutto questo i professionisti di area tecnica, dunque, salvano solo un principio: il regolamento in questione una volta entrato in vigore diventerà il nuovo punto di riferimento per le stazioni appaltanti da utilizzare per le gare di progettazione.
«Un passaggio importante», spiega il numero uno dei periti industriali Giuseppe Jogna, «che finalmente porrà fino all'arbitrio delle amministrazioni pubbliche nel calcolo degli onorari dovuto all'assenza di riferimenti per la cancellazione delle tariffe e soprattutto alla tentazione di sottostimarne gli importi. D'ora in poi, quindi, chi determinerà il bando farà importi compatibili con tali parametri e soprattutto con la logica del lavoro» (articolo ItaliaOggi del 23.06.2012).

EDILIZIA PRIVATADECRETO CRESCITA/ Ristrutturazioni legate ai bonifici. Detrazione del 50%: conta il pagamento entro giugno 2013. Il nuovo beneficio scatterà dalla pubblicazione del dl in Gazzetta.
Detrazione al 50% sulle ristrutturazioni edilizie ancorata alla data di pagamento che deve avvenire necessariamente mediante bonifico bancario e/o postale, nell'intervallo tra la data di entrata in vigore del «dl crescita» e il 30.06.2013.
Con l'articolo 11, del decreto citato (si veda ItaliaOggi 16/06/2012), il legislatore è intervenuto a innalzare le soglie di detrazione ai fini Irpef delle ristrutturazioni, in un tempo limitato di circa un anno, prevedendo una nuova percentuale di detrazione (50%) e una nuova soglia (96 mila euro) per ciascuna unità abitativa.La disposizione, come indicato nella relazione illustrativa, tende a favorire le imprese operanti nel comparto edile, attualmente in forte crisi, innescando un maggior interesse da parte dei contribuenti a eseguire interventi di ristrutturazione edilizia; la contrapposizione di interessi tra il committente e il prestatore comporta, inevitabilmente, un incremento di fatturato (e di maggiori imposte) per il prestatore e il contenimento della pressione fiscale a cura del contribuente (detrazione spendibile in un decennio che abbatte, fino a concorrenza, l'Irpef dovuta).
In pratica, dal momento in cui il decreto in commento entra in vigore (la pubblicazione è attesa per i primi giorni della prossima settimana), nonostante la presenza dell'articolo 16-bis, dpr n. 917/1986 che prevede la detrazione del 36% da calcolarsi su un tetto ridotto pari a 48 mila euro, il committente potrà ottenere maggiori benefici. Innanzitutto, la disposizione fissa un criterio di «cassa» per l'applicazione della nuova detrazione (50% su 96 mila euro di spesa), facendo riferimento alle spese «sostenute» dalla data di entrata in vigore del decreto fino al 30.06.2013, per gli interventi di ristrutturazione indicati nel citato art. 16-bis del Tuir (manutenzione, restauro, risanamento conservativo e quant'altro), a prescindere dalla categoria catastale attribuita all'unità abitativa, comprese le rurali, di cui al comma 3, art. 9, dl n. 557/1993.
Se l'unità immobiliare è cointestata, il nuovo limite deve essere suddiviso tra i proprietari, tenendo conto che può utilizzare il bonus anche solo il contribuente che detiene l'unità abitativa, a prescindere dalla proprietà che può essere di altro soggetto (si parla di promittente acquirente, di locatario e di comodatario).
Inoltre, il comma 4, del citato art. 16-bis del Tuir dispone che se gli interventi sono una mera prosecuzione di interventi iniziati in anni precedenti, si deve tenere conto, ai fini del computo della soglia, anche delle spese sostenute nei medesimi (precedenti) anni (Agenzia delle entrate, circ. 9/E/2002 § 7.3 e n. 15/E/2002) mentre il tetto può essere «sbancato» quando i lavori eseguiti in un determinato anno consistono in nuovi interventi di recupero (Agenzia delle entrate, circ. 9/E/2012 § 7.4), con riferimento ai contenuti di ogni concessione, autorizzazione o comunicazione di inizio lavori.
Di conseguenza, se il contribuente nel corso del 2012 ha già iniziato una ristrutturazione, raggiungendo nel corso del mese di maggio la soglia di 48 mila, dopo l'emanazione del decreto in commento potrà arrivare sino a 96 mila euro, detraendo sull'ulteriore quota (48 mila euro) il 50%, in luogo del 36%. Pertanto, il limite di spesa, per il medesimo intervento eseguito nel corso del 2012, passa da 48 mila a 96 mila anche se riferibili alla stessa concessione o autorizzazione, mentre il contribuente dovrà solo preoccuparsi, salvo diverse precisazioni ministeriali, di eseguire il pagamento (bonifico) in data successiva all'entrata in vigore del decreto sviluppo.
Infatti, il beneficiario del bonus, oltre che ottenere la fattura del prestatore emessa nel rispetto delle disposizioni di cui all'art. 6, dpr n. 633/1972 (momento del pagamento o, se in data anteriore, dell'emissione della fattura o del pagamento dell'acconto) deve fare attenzione che i pagamenti siano eseguiti nell'intervallo tra la data di entrata in vigore del decreto sviluppo e quella del 30/06/2013. È necessario, inoltre, eseguire il pagamento mediante bonifico bancario e/o postale, contenente la causale di pagamento, nonché il codice fiscale del destinatario della detrazione e il codice fiscale o la partita Iva del beneficiario del bonifico (Agenzia delle entrate, ris. n. 55/E/2012).
La procedura in commento si rende applicabile, per espressa previsione legislativa (comma 2, dell'art. 11 dl sviluppo) anche alle spese destinate al risparmio energetico (55%) e, pertanto, per quelle sostenute nel corso dell'anno 2012 si avranno due distinte entità di detrazione: sino alla data di entrata in vigore del decreto, infatti, ai bonifici eseguiti per il pagamento delle fatture ricevute sino a tale data, si rende applicabile la detrazione del 36%, mentre per le spese sostenute da tale data sino al 30/06/2013 si renderà applicabile la detrazione del 50%. Ciò in conseguenza della modifica introdotta dal decreto in commento che anticipa l'assorbimento di tali spese tra quelle indicate nell'art. 16-bis del Tuir, a decorrere dall'01/01/2012, anziché dall'01/01/2013 (articolo ItaliaOggi del 22.06.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Pensionati, indennità piena. Metà somma se il lavoratore non chiede aspettativa. L'amministratore comunale ha diritto a percepirla nella misura intera.
Qual è l'esatta corresponsione dell' indennità di funzione dovuta ad un amministratore comunale in quiescenza?
L'art. 82 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 1, prevede il dimezzamento dell'indennità di funzione per i lavoratori dipendenti che non abbiano richiesto di essere collocati in aspettativa non retribuita.
La ratio di tale disposizione è di differenziare il trattamento economico tra i soggetti che si trovano in situazioni diverse, ossia tra quelli cui la legge riconosce il diritto di porsi in aspettativa non retribuita e quelli che non possono avvalersi di tale facoltà, quali i lavoratori autonomi, i disoccupati, gli studenti e, come nel caso di specie, i pensionati.
Pertanto, l'amministratore comunale avrà diritto a percepire l'indennità di funzione nella misura intera (articolo ItaliaOggi del 22.06.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità.
Sussiste un'ipotesi di incompatibilità di cui all'art. 63, comma 1, n. 1, a carico di un consigliere ed assessore di un comune, che riveste la carica di presidente di una società sportiva legata all'ente da una convenzione triennale, dal quale riceve un contributo per la promozione dell'attività sportiva, svolta in ambito comunale, che non supera il 10% del bilancio dell'ente beneficiario?

L'art. 63, comma 1, n. 1 del decreto legislativo n. 267/2000 prevede due ipotesi di incompatibilità con la carica di consigliere alternative fra loro: l'una relativa alla posizione dell'amministratore di un ente soggetto a vigilanza del comune, in cui vi sia almeno il 20% di partecipazione da parte dello stesso; l'altra connessa, invece, alla posizione dell'amministratore di un ente che riceva dal comune, in via continuativa, sovvenzioni facoltative che superino nell'anno il 10% del totale delle proprie entrate.
Il caso in esame ricade nella seconda delle ipotesi sopra indicate, dato che la società sportiva, legata all'ente da una convenzione triennale, riceve un contributo per la promozione dell'attività sportiva svolta nell'ambito comunale; considerato che la sovvenzione non supera il 10% del bilancio dell'ente beneficiario, non sembrerebbero sussistere forme di ingerenza dell'ente nell'attività del sodalizio, tali da consentire al comune di concorrere alla formazione della volontà della società. Una causa ostativa all'esercizio del mandato potrebbe, invece, configurarsi in base all'ipotesi di cui al n. 2 del comma 1 del citato art. 63, qualora la società avesse parte, direttamente o indirettamente, in servizi nell'interesse del comune.
In proposito occorrerebbe accertare se il consiglio comunale si fosse già espresso sulla posizione dell'interessato in sede di convalida degli eletti o, successivamente, in esito alla procedura prevista dall'art. 69 del Tuel. Se il consiglio non si fosse pronunciato, la questione dovrebbe essere posta alla sua attenzione in ottemperanza al principio generale per cui ogni organo collegiale delibera circa la regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti.
Pertanto, le eventuali determinazioni autonomamente assunte dal consiglio comunale possono formare oggetto di ricorso innanzi all'autorità giudiziaria (articolo ItaliaOggi del 22.06.2012).

APPALTIDurc a norma con l'invito. In caso di irregolarità 15 giorni per rimediare. L'Inail ricorda alle proprie sedi che l'avviso è parte integrante dell'iter.
L'irregolarità contributiva ai fini del Durc non può essere dichiarata se prima l'impresa non è stata invitata alla regolarizzazione, assegnando un termine di 15 giorni. Infatti, l'invito è parte integrante del procedimento amministrativo e, come tale, non può essere omesso senza inficiare la regolarità e la legittimità del conseguente certificato unico di regolarità contributivo (Durc) emesso.
Lo precisa, tra l'altro, l'Inail nella nota 14.06.2012 n. 3760 di prot..
Durc e regolarità. I chiarimenti dell'Inail arrivano in seguito a segnalazioni circa il non corretto operato di alcune sedi territoriali dell'istituto le quali, appunto, rilascerebbero l'irregolarità contributiva senza aver prima invitato l'impresa alla regolarizzazione. Quest'ultimo passaggio, invece, come previsto dalle norme vigenti e come ribadito dallo stesso istituto (tra l'altro nella circolare n. 22/2011, si veda ItaliaOggi del 25.03.2011).
Infatti, l'articolo 7, comma 3, del decreto ministeriale 24.10.2007 stabilisce che, nel caso in cui l'impresa, in sede istruttoria, risulti inadempiente, gli enti previdenziali prima di emettere il certificato attestante l'irregolarità hanno l'obbligo di invitarla a regolarizzare la posizione contributiva, assegnando un termine di 15 giorni. In tal caso, l'invito alla regolarizzazione sospende i termini di rilascio del Durc.
I chiarimenti. Alla luce della normativa vigente, precisa l'Inail, tranne le ipotesi di richiesta di Durc per verifica di autodichiarazione, l'invito alla regolarizzazione è un atto dovuto per la correttezza del procedimento amministrativo e la successiva legittimità del certificato emesso. Peraltro, aggiunge l'Inail, l'eventuale rilascio di un Durc irregolare ha delle conseguenze rilevanti, soprattutto nel settore degli appalti, in quanto può essere anche causa di risoluzione del contratto e, dunque, è importante che le sedi territoriali seguano scrupolosamente l'iter previsto per il suo rilascio (per evitare, evidentemente, di essere chiamate direttamente in causa sulla responsabilità di un'eventuale perdita dell'appalto da parte dell'impresa).
Ancora, l'Inail conferma l'opportunità che, in fase di lavorazione dei Durc, le sedi territoriali procedano preliminarmente alle eventuali sistemazioni contabili (quali i giroconto eccedenze, le sistemazione scarti ecc.) in modo da mantenere costantemente aggiornata e monitorata la situazione contributiva delle aziende e così facilitare le relative verifiche di regolarità.
Infine, l'Inail ricorda che, nel caso di Durc richiesto dalla stazione appaltante o dall'amministrazione procedente per verifica dell'autodichiarazione prodotta dall'impresa, la regolarità deve sussistere alla data della stessa dichiarazione sostitutiva (con conseguenze, anche penali, in ordine alla falsità di quanto auto dichiarato dalla ditta) e quindi non può ammettersi la regolarizzazione (articolo ItaliaOggi del 19.06.2012).

EDILIZIA PRIVATA: DECRETO CRESCITA/ Permessi agevolati con le autocertificazioni.
Permessi edilizi più facili. Laddove la normativa richieda l'acquisizione di atti o pareri di enti appositi, oppure l'esecuzione di verifiche preventive, sarà possibile produrre delle autocertificazioni con l'ausilio di un professionista e velocizzare così la procedura. Naturalmente resta salva la possibilità di operare successivamente la verifica da parte delle amministrazioni competenti. Ma tanto nel caso della denuncia di inizio attività (Dia) tanto in quello della segnalazione certificata di inizio attività (Scia) sarà sufficiente, in via generale, l'asseverazione di tecnici abilitati che attestino il rispetto di tutti i requisiti di legge.

È quanto prevede il pacchetto sviluppo con lo scopo di rimuovere gli ostacoli burocratici che spesso rallentano gli interventi edilizi. Lo snellimento, precisa tuttavia il provvedimento, non opererà laddove sull'immobile «sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali» oppure qualora siano interessati edifici preposti «alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione, all'asilo, alla cittadinanza, all'amministrazione della giustizia o delle finanze».
In arrivo con il decreto anche il Piano nazionale per le città. Dedicato sia alla riqualificazione delle aree urbane, in particolare quelle più degradate, sia alla realizzazione di nuove infrastrutture. Sarà il ministro Corrado Passera a definire con decreto la cabina di regia del progetto, che sarà composta da rappresentanti dei vari ministeri interessati, ma anche, tra gli altri, dell'Agenzia del demanio, della Cdp, della Conferenza delle regioni e delle province autonome e dell'Anci.
Saranno proprio i comuni a dover mettere a punto appositi «contratti di valorizzazione urbana», recanti l'insieme degli interventi da effettuare nelle aree degradate, i finanziamenti necessari (sia pubblici sia privati), i soggetti coinvolti e il cronoprogramma. La cabina di regia selezionerà le opere da effettuare sulla base di criteri quali l'immediata cantierabilità, la capacità di far convergere fondi pubblici e privati, la riduzione di fenomeni di tensione abitativa e l'efficientamento dei trasporti urbani.
Per alimentare il Piano nazionale per le città viene attivato un apposito fondo di spesa, che sarà operativo per gli anni dal 2012 al 2017. Complessivamente, gli importi messi subito a disposizione dal governo ammontano a 224 milioni di euro. Uno dei compiti principali della cabina di regia, si legge nella relazione al pacchetto sviluppo, sarà quello di «coordinare i diversi soggetti istituzionali interessati, al fine di ridurre al massimo possibili impedimenti che rallentino l'attuazione degli stessi».
Previste pure norme per consentire la razionalizzazione degli interventi riguardanti i programmi integrati disciplinati dall'articolo 18 del dl n. 152/1991, relativi alla costruzione di alloggi di edilizia sovvenzionata ed agevolata da concedere in locazione al personale delle amministrazioni statali impegnato nella lotta alla criminalità organizzata (articolo ItaliaOggi Sette del 18.06.2012).

EDILIZIA PRIVATA: DECRETO CRESCITA/ Gli interventi in materia di costruzioni varate dal Cdm. Iva e Imu per dare ossigeno alle imprese. Maxidetrazione sui lavori edili. Ristrutturare casa conviene di più.
Iva e Imu per aiutare le imprese edili a uscire dalla crisi. Conferma delle detrazioni Irpef per ristrutturazioni e risparmio energetico per alleggerire le spese delle famiglie e stimolare la domanda.
Sono questi gli interventi in materia di costruzioni varati dal governo con il pacchetto sviluppo approvato venerdì (si veda ItaliaOggi del 16 giugno). Misure che non si limitano all'ambito fiscale, ma che includono anche semplificazioni amministrative in tema di autorizzazioni e pareri per le attività edilizie.
Senza dimenticare il Piano nazionale per le città, finalizzato a riqualificare le aree urbane (specie quelle maggiormente degradate) e a sviluppare una sinergia trasparente ed efficiente tra sistema pubblico e imprese private.
Iva. Una prima importante boccata d'ossigeno per le imprese di costruzione arriva dalla modifica dell'articolo 10, comma 1, numeri 8), 8-bis) e 8-ter) del dpr n. 633/1972. Per effetto della normativa vigente finora, infatti, le cessioni di immobili destinati ad uso abitativo effettuate dalle imprese dopo cinque anni dalla costruzione restavano esenti da Iva. Allo stesso modo la maggior parte delle locazioni effettuate direttamente dal soggetto edificatore oltre il predetto termine quinquennale. In tali ipotesi, gli imprenditori edili non potevano perciò compensare l'Iva pagata per l'acquisto di beni e servizi relativi all'immobile, dovendo semmai restituire all'erario l'Iva a credito portata provvisoriamente in detrazione. Con la modifica introdotta dal pacchetto sviluppo, invece, l'Iva sarà applicata anche decorsi i cinque anni, riportando l'imposta a una condizione di neutralità nei confronti degli imprenditori edili.
Secondo l'Ance, ipotizzando una percentuale di immobili invenduti (o non locati) entro cinque anni dalla costruzione pari al 6%, le risorse economiche che potranno essere «liberate», e quindi reinvestite dalle imprese, ammontano a circa 840 milioni di euro annui, capaci di innescare una ricaduta positiva sul sistema economico di circa 2,8 miliardi, con un aumento dei livelli occupazionali di 14 mila unità.
Imu. Un altro salvagente lanciato da palazzo Chigi a un settore in forte crisi come quello dell'edilizia è rappresentato dall'esenzione Imu sugli immobili invenduti. La norma prevede l'esclusione, per un periodo non superiore a tre anni dall'ultimazione dei lavori, dei fabbricati di nuova costruzione ancora in cerca di un acquirente. La relazione governativa al provvedimento stima in circa 35 milioni di euro all'anno le somme risparmiate dalle imprese. Risorse che potranno essere reinvestite nel sistema produttivo, con una ricaduta complessiva che i calcoli dell'esecutivo quantificano in circa 100 milioni di euro.
Ristrutturazioni edilizie. Il terzo intervento del governo va nella direzione di aiutare sia le famiglie, che potranno beneficiare di uno sgravio maggiore, sia le imprese edili, che saranno investite da una crescente richiesta di interventi di ristrutturazione. Il pacchetto sviluppo, infatti, prevede di elevare le detrazioni Irpef dal 36% al 50%. Aumenta anche il limite massimo di spesa agevolabile per ciascuna unità immobiliare, che raddoppia passando da 48 mila a 96 mila euro.
I costi dovranno essere documentati e sostenuti nel periodo compreso tra la data di entrata in vigore del dl e il 30.06.2013. L'agevolazione sarà ripartita in dieci annualità. Le minori entrate per lo Stato, determinate dall'incremento delle detrazioni, «sono parzialmente compensate dal maggior gettito di imposte che si determinerebbe grazie all'aumento di entrate connesse all'aumento del numero di interventi che si prevede la norma possa generare per l'Iva e Irpef/Ires/Irap», spiega la relazione. L'esecutivo ricorda che l'introduzione di tale tax expenditure nel periodo 1998-2006 ha generato un incremento annuo degli investimenti in ristrutturazioni stimabile in circa 1.150 milioni di euro.
Riqualificazione energetica. Attraverso una novella al testo dell'articolo 1, comma 48, della legge n. 220/2010, viene ammessa anche nel periodo 01.01.2013-30.06.2013 una detrazione d'imposta per le spese per interventi di riqualificazione energetica degli edifici.
La misura dell'aiuto sarà pari al del 50% dei costi sostenuti. Fino al 31.12.2012, tuttavia, resterà valida la detrazione Irpef attualmente in vigore e pari al 55%. Si ricorda che, come già sottolineato dalla relazione tecnica al dl n. 201/2011, lo sconto fiscale concesso dallo stato a chi effettua interventi di risparmio energetico pesa nel complesso per circa 1,1 miliardi di euro all'anno (articolo ItaliaOggi Sette del 18.06.2012).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 31 della L. 17.08.1942 n. 1150, come modificato dalla L. 06.08.1967 n. 765, che consente a “chiunque” di impugnare le concessioni edilizie ritenute illegittime, deve essere inteso nel senso che -con l’ovvia esclusione di ogni azione popolare al riguardo- va riconosciuta una posizione di interesse legittimo in capo al proprietario di un immobile sito nella zona interessata alla costruzione o a chi si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona stessa, senza che, peraltro, debba essere data dimostrazione della sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale, essendo stato “ritenuto che abbia interesse a ricorrere il soggetto che faccia valere un interesse giuridicamente protetto di natura urbanistica, quale è quello all’osservanza delle prescrizioni regolatrici dell’edificazione, senza che occorra procedere in concreto ad alcuna ulteriore indagine al fine di accertare se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione”  e che “lo svolgimento di un’attività commerciale in prossimità dell’insediamento (e nel caso di specie si tratta addirittura delle svolgimento delle medesima attività alberghiera) configuri una situazione giuridica sufficiente a realizzare quello stabile collegamento con la zona che legittima il soggetto a promuovere un’azione giurisdizionale nei confronti della concessione edilizia rilasciata ad un terzo.
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Secondo la giurisprudenza anteriore al nuovo testo unico sull’edilizia, il concetto di ristrutturazione edilizia, come qualificato dall’art. 31, comma 1, lett. d), della L. 05.08.1978 n. 457, comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, con l’unica condizione che la riedificazione assicuri la piena conformità di sagoma, volume e superficie tra il vecchio e il nuovo manufatto, con la conseguente possibilità di pervenire, in tal modo, ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, purché la diversità sia dovuta ad interventi comprendenti il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti, e non già la realizzazione di nuovi volumi o una diversa ubicazione (in quanto, diversamente opinando, sarebbe sufficiente la preesistenza di un edificio per definire ristrutturazione qualsiasi nuova realizzazione eseguita in luogo o sul luogo di quella preesistente.
Tali “acquisizioni giurisprudenziali sono confermate dal D.P.R. 06.06.2001 n. 380, con cui è stato emanato il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. Infatti, l’art. 3, comma 1, lett. d), del predetto testo qualifica espressamente “interventi di ristrutturazione edilizia” quelli volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia la norma ricomprende esplicitamente anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione, purché ciò avvenga con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica. Quindi si conferma anche nel nuovo testo sull’edilizia che la demolizione e ricostruzione è classificabile come ristrutturazione solo a condizione del mantenimento delle caratteristiche planovolumetriche dell’edificio da ricostruire …”.

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La recente giurisprudenza di questo Consiglio ha chiarito che la ricostruzione (dopo la demolizione) di un immobile diverso per volumi o anche solo per la sagoma (a parità di volumi) dall’immobile preesistente comporta la realizzazione di un immobile nuovo con l’applicazione della disciplina urbanistica prevista per le nuove edificazioni e delle conseguenti limitazioni imposte dalle norme urbanistiche in vigore al momento del rilascio del titolo autorizzativi.
Innanzitutto, mediante la decisione di riforma della sentenza resa in primo grado è stata affermata la sussistenza dell’interesse di Hotel Svevo ad impugnare i titoli edilizi rilasciati a Se.Ge.Co., “costituendo punto di giurisprudenza ormai consolidato quello secondo cui l’art. 31 della L. 17.08.1942 n. 1150, come modificato dalla L. 06.08.1967 n. 765, che consente a “chiunque” di impugnare le concessioni edilizie ritenute illegittime, deve essere inteso nel senso che  -con l’ovvia esclusione di ogni azione popolare al riguardo- va riconosciuta una posizione di interesse legittimo in capo al proprietario di un immobile sito nella zona interessata alla costruzione o a chi si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona stessa, senza che, peraltro, debba essere data dimostrazione della sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale (cfr. Cons. Stato, V Sez., 13.07.2000, n. 3904), essendo stato “ritenuto che abbia interesse a ricorrere, come nel caso di specie, il soggetto che faccia valere un interesse giuridicamente protetto di natura urbanistica, quale è quello all’osservanza delle prescrizioni regolatrici dell’edificazione, senza che occorra procedere in concreto ad alcuna ulteriore indagine al fine di accertare se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.09.2003 n. 5172)”  e che “lo svolgimento di un’attività commerciale in prossimità dell’insediamento (e nel caso di specie si tratta addirittura delle svolgimento delle medesima attività alberghiera) configuri una situazione giuridica sufficiente a realizzare quello stabile collegamento con la zona che legittima il soggetto a promuovere un’azione giurisdizionale nei confronti della concessione edilizia rilasciata ad un terzo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 30.01.2002 n. 313)”.
Passando quindi alla disamina del merito di causa, questo giudice di appello ha evidenziato che “il punto nodale è costituito dalla verifica se, nel caso di specie, si sia in presenza di una ristrutturazione edilizia ovvero di una nuova costruzione, come tale soggiacente alle previsioni degli strumenti urbanistici sopravvenuti, come, nel caso di specie, l’art. 20 delle N.T.A.” del vigente strumento edilizio primario del Comune, “che prevede per le zone agricole(E2) indici assai modesti ed incompatibili con le previsioni progettuali”, rilevando che “secondo la giurisprudenza anteriore al nuovo testo unico sull’edilizia, il concetto di ristrutturazione edilizia, come qualificato dall’art. 31, comma 1, lett. d), della L. 05.08.1978 n. 457, comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, con l’unica condizione che la riedificazione assicuri la piena conformità di sagoma, volume e superficie tra il vecchio e il nuovo manufatto, con la conseguente possibilità di pervenire, in tal modo, ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, purché la diversità sia dovuta ad interventi comprendenti il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti, e non già la realizzazione di nuovi volumi o una diversa ubicazione(in quanto, diversamente opinando, sarebbe sufficiente la preesistenza di un edificio per definire ristrutturazione qualsiasi nuova realizzazione eseguita in luogo o sul luogo di quella preesistente (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 19.02.2004 n. 476; 18.09.2003 n. 5310; 08.08.2003 n. 4593; …)” e che tali “acquisizioni giurisprudenziali sono confermate dal D.P.R. 06.06.2001 n. 380, con cui è stato emanato il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. Infatti, l’art. 3, comma 1, lett. d), del predetto testo qualifica espressamente “interventi di ristrutturazione edilizia” quelli volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia la norma ricomprende esplicitamente anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione, purché ciò avvenga con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica. Quindi si conferma anche nel nuovo testo sull’edilizia che la demolizione e ricostruzione è classificabile come ristrutturazione solo a condizione del mantenimento delle caratteristiche planovolumetriche dell’edificio da ricostruire …”.
Nella stessa decisione si legge, quindi, che “per converso, la lett. e) del medesimo articolo classifica come “interventi di nuova costruzione” quelli di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti, procedendo quindi ad una elencazione(evidentemente non esaustiva) per tipologie edilizie… . Quanto al regime giuridico di tali interventi, è da ricordare che il capo II del medesimo testo unico, dedicato al nuovo “permesso di costruire” (già concessione edilizia) individua, con l’art. 10, gli interventi subordinati al predetto permesso, in tal modo riprendendo le previgenti disposizioni della L. 28.01.1977 n. 10, art. 1 e della L. 28.02.1985 n. 47, art. 25, comma 4. Prevede il citato art. 10 che costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso.
A sua volta, l’art. 22, comma 3, del medesimo testo unico stabilisce che, in alternativa al permesso di costruire, possono essere realizzati, mediante semplice denuncia di inizio di attività, in primo luogo gli interventi di ristrutturazione di cui al ricordato art. 10, comma 1, lett. c). Dal combinato disposto delle riportate disposizioni rimane confermato quanto già osservato dalla giurisprudenza nel vigore delle previgente normativa edilizia, cioè che le attività edilizie consistenti nella demolizione e ricostruzione che non avvengano nel rispetto della stessa volumetria e sagoma del manufatto preesistente, sono da qualificare come nuove costruzioni, assoggettate al permesso di costruire.
La recente giurisprudenza di questo Consiglio (V Sez., dec. 07.09.2004, n. 5867) ha, altresì, chiarito che la ricostruzione (dopo la demolizione) di un immobile diverso per volumi o anche solo per la sagoma (a parità di volumi) dall’immobile preesistente comporta la realizzazione di un immobile nuovo con l’applicazione della disciplina urbanistica prevista per le nuove edificazioni e delle conseguenti limitazioni imposte dalle norme urbanistiche in vigore al momento del rilascio del titolo autorizzativi (cfr. V Sez. n. 5867 del 2004 cit.). Ciò che le disposizioni citate non prevedono è il limite in cui possono essere effettuate le modifiche del nuovo fabbricato affinché questo sia compatibile con il criterio di ristrutturazione, senza debordare nella nuova costruzione diversa dalla precedente e come tale soggetta a valutazione alla luce degli strumenti urbanistici vigenti al momento del rilascio del titolo (cfr. dec. V Sez., n. 5867 del 2004). La soluzione della questione riveste una importanza particolare per la diversa ammissibilità di una ristrutturazione rispetto ad una nuova edificazione quando l’intervento riguarda una edificazione già esistente: infatti, nell’ipotesi di ristrutturazione edilizia, trattandosi di un interventi su edifici, non occorre che vi sia la perfetta conformità con il piano regolatore generale e ciò in ragione del fatto che la successione nel tempo degli strumenti urbanistici nel tempo non può interferire sulla legittimità delle opere eseguite in precedenza e con il diritto del proprietario di eseguire quelle opere funzionali al mantenimento e alla conservazione dell’edificio stesso, nonché a renderlo compatibile con le esigenze eventualmente sopravvenute. … La modifica del precedente manufatto deve essere tale da non alterare la sua compatibilità con lo strumento in vigore al momento della demolizione e che la natura di per sé sfumata del concetto di compatibilità dovrebbe essere resa più certa dalla previsione, in sede regionale, dei limiti specifici della ristrutturazione e ciò in quanto, ove si ricada nell’ipotesi di nuova edificazione, deve sussistere necessariamente la conformità con lo strumento urbanistico, con la conseguenza che l’edificio oggetto dell’intervento dovrebbe essere adeguato alle prescrizioni vigenti al tempo dell’intervento medesimo. Nella specie, siffatto limite di compatibilità, ancorché il progetto prevedesse demolizioni parziali, risulta travalicato, secondo quanto risulta dal primo ai seguenti profili:
- considerazione, a fini volumetrici, di un cd. capannone di mc. 818,38, la cui presenza non emerge dall’allegato aerofotogrammetrico con planimetria di zona prodotto da parte appellante a corredo della perizia giurata dell’ing. Oronzo Giordano del 29.12.2005 e con presumibile veridicità coincidente, invece, con la tettoia aperta, poggiante su cinque piloni isolati in muratura lungo la strada provinciale per Santeramo e su muratura sul lato opposto e delimitata, da un lato, da un basso muretto e, dall’altro, dal terrazzo porticato dell’edificio principale. La situazione dei luoghi non è contestata sul punto dalla società resistente, sicché, non essendo la tettoia chiusa su tutti i suoi lati, essa non appare costituire corpo di fabbrica e come tale non è in grado di esprimere volumetria. L’intervento previsto trasforma detta tettoia portandola alla stessa altezza del preesistente porticato e consentendo così di potersi collegare, a livello di copertura della dependance, con il terrazzo –porticato del Molino, con evidente modifica di sagoma e di volumetria;
- la demolizione dell’edificio sala motori e la realizzazione di un collegamento verticale per portatori di handicap, pur se rientrante fra le scelte tecniche consentite, ai fini della speciale disciplina in materia, ancorché fosse preesistente una scala su cui sarebbe stato possibile intervenire alternativamente, comporta tuttavia un apprezzabile aumento volumetrico, che rende l’intervento eccedente rispetto ai criteri che presiedono la mera ristrutturazione;
-la prevista realizzazione di camere da letto al piano al piano seminterrato, destinate aduso abitativo, comporta un incompatibile mutamento di destinazione(esse, peraltro, prive di luce ed areazione naturali e collocate ad una quota inferiore a quella prevista dal regolamento edilizio, non potrebbero comunque avere destinazione abitativa)”.
Pertanto, ad avviso di questo giudice d’appello, tanto è bastato “a ritenere che l’intervento previsto per l’ex Mulino Pagano e autorizzato con il primo provvedimento impugnato, indipendentemente da ogni altra considerazione contenuta nell’appello, non possa essere ricondotto ad un intervento di ristrutturazione edilizia, come previsto dalla normativa vigente, non essendo state rispettate le caratteristiche planovolumetriche, di sagoma e di continuità di destinazione dell’edificio da ristrutturare. Di conseguenza, come nuova edificazione, l’intervento appare incompatibile con le prescrizioni urbanistiche vigenti di cui non è contestata la portata. La circostanza che sul progetto autorizzato si sia intervenuti con un ulteriore progetto in variante, autorizzato con il secondo dei provvedimenti impugnati (n. 25 del 2005) che, ad avviso della società resistente, sanerebbe le eventuali illegittimità registrate nell’originario progetto, stralciando una serie di interventi, non è di supporto alla ipotizzata attività edilizia, in quanto il nuovo provvedimento autorizzativo non segue alla rinnovazione del provvedimento concessorio, ma si avvale di atti e procedimenti (concessione edilizia n. 50/2003 e pareri a supporto) la cui efficacia era stata sospesa dall’ordinanza del TAR della Puglia- Bari, sez. III, n. 1045 del 2004, confermata in secondo grado dalla ordinanza n. 993 del 2005 della Sezione, inidonei, pertanto, a produrre qualsivoglia effetto, in maniera del tutto identica, salvo che per la transitorietà della misura, a quanto sarebbe accaduto se l’atto fosse stato annullato(Cons. Stato, A.P., 01.06.1983 n. 14) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.06.2012 n. 3570 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il potere di pianificazione del territorio non può, per se stante, precludere insediamenti industriali in zone a destinazione agricola se non in via eccezionale, vale a dire nei casi in cui si discuta di assetto agricolo di particolare pregio, consolidato da tempo remoto e magari accompagnato e favorito da opere di bonifica, posto che la destinazione agricola ha -di per sé- lo scopo di impedire gli insediamenti abitativi residenziali e non anche di precludere in via radicale qualsiasi intervento urbanisticamente rilevante.
In tale frangente è stata reputata legittima la realizzazione in area destinata dal vigente strumento urbanistico comunale ad attività agricola di un deposito temporaneo di carbone all’interno di un sito più vasto e già adibito ad attività estrattiva.
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L’area pianificata dal vigente strumento urbanistico primario come “area agricola” non deve essere necessariamente destinata ad attività agricole ma è sufficiente che soddisfi la vocazione del suolo sottraendolo a nuove edificazioni va coniugata comunque con il contenuto di quelle che sono le concrete decisioni assunte dall’Amministrazione Comunale in sede di pianificazione del territorio, laddove soprattutto qualora essa abbia ivi espressamente enunciato la tipologia delle ulteriori attività, rispetto a quelle strettamente agricole, che possono insediarsi nelle aree E di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444: e tanto più che è stata recisamente esclusa dalla stessa giurisprudenza l’insediabilità in area agricola di attività comunque comportanti la realizzazione di opere che in ragione all’uso cui sono preposte recano necessariamente caratteristiche strutturali e tipologiche del tutto inconciliabili con la destinazione agricola e tanto con riferimento non solo all’utilizzo concreto del suolo, ma alla naturale vocazione dei terreni; ovvero che comunque determinano una cementificazione della zona agricola (cfr. in tal senso la stessa sentenza n. 4505 del 2011 che ha affermato l’impossibilità di realizzare in zona agricola E un impianto di frantumazione di inerti).
Va evidenziato che questo stesso giudice d’appello, con decisione n. 4961 dd. 18.09.2007 resa dalla Sezione V proprio con riguardo ad altra fattispecie attinente ad altro Comune ubicato nel territorio della Regione Puglia, ha invero già avuto modo di affermare che il potere di pianificazione del territorio non può, per se stante, precludere insediamenti industriali in zone a destinazione agricola se non in via eccezionale, vale a dire nei casi in cui si discuta di assetto agricolo di particolare pregio, consolidato da tempo remoto e magari accompagnato e favorito da opere di bonifica, posto che la destinazione agricola ha -di per sé- lo scopo di impedire gli insediamenti abitativi residenziali e non anche di precludere in via radicale qualsiasi intervento urbanisticamente rilevante.
In tale frangente è stata reputata legittima la realizzazione in area destinata dal vigente strumento urbanistico comunale ad attività agricola di un deposito temporaneo di carbone all’interno di un sito più vasto e già adibito ad attività estrattiva.
Tuttavia, va pure considerato che questo giudice d’appello è pervenuto a tale conclusione non già forzando con una propria petizione di principio il dato letterale delle norme tecniche di attuazione annesse allo strumento urbanistico comunale, ma interpretandolo anche in correlazione alle risultanze fattuali in quello specifico contesto processuale, posto che –come si legge nella decisione stessa– “la disciplina recata dall'art. 17 delle N.T.A. del Comune di Statte non risulta tale da precludere l'intervento oggetto della domanda di permesso di costruire presentata dalla Italcave. La prescrizione in parola … non impedisce infatti che un sito già vocato a servizio di attività produttive (attività estrattiva, giusta legittimi titoli) possa ospitare al suo interno un deposito temporaneo di carbone. Ciò, appunto, anche perché non è predicabile, nell’area in questione, la preesistenza di un incontaminato e pregiato assetto agricolo ossia quella ipotesi eccezionale che sola avrebbe potuto lasciare ipotizzare una indiscriminata limitazione degli interventi di carattere produttivo in zona agricola. D’altronde, la documentazione in atti dimostra non soltanto la preesistenza della cava ma anche la presenza nella più vasta area limitrofa di altre attività produttive”.
Nell’ipotesi qui in esame, il vigente art. 20 delle N.T.A. del P.R.G. di Gioia del Colle dispone, per quanto qui segnatamente interessa, nel senso che le zone agricole E2 “sono destinate prevalentemente all’esercizio delle attività boschive ed agricole e di quelle connesse alla predetta attività. In tali zone sono consentite: a) case di abitazione, fabbricati rurali quali stalle, porcili, ricoveri per macchine agricole, serbatoi idrici e simili; b) costruzioni adibite alla lavorazione dei prodotti delle attività di queste zone, ed all’esercizio delle necessarie macchine”.
Ben emerge in tal senso, quindi, che la volontà del pianificatore deroga alla vocazione strettamente agricola degli insediamenti programmabili per tale zona soltanto con espresso e tassativo riferimento alle “costruzioni adibite alla lavorazione dei prodotti delle attività di queste zone, ed all’esercizio delle necessarie macchine”, ossia contemplando anche ipotesi di insediamento di attività industriali quale è per certo quella del mulino, ma soltanto poiché all’evidenza costitutive di un indotto di quella agricola, ossia proprio in quanto “adibite alla lavorazione dei prodotti” dell’agricoltura locale.
In tale contesto, pertanto, la tralatizia e ormai del tutto consolidata giurisprudenza di questo giudice secondo cui l’area pianificata dal vigente strumento urbanistico primario come “area agricola” non deve essere necessariamente destinata ad attività agricole ma è sufficiente che soddisfi la vocazione del suolo sottraendolo a nuove edificazioni (cfr., ad es., tra le più recenti Cons. Stato, Sez. , 27.07.2011 n. 4505) va coniugata comunque con il contenuto di quelle che sono le concrete decisioni assunte dall’Amministrazione Comunale in sede di pianificazione del territorio, laddove soprattutto qualora essa abbia ivi espressamente enunciato la tipologia delle ulteriori attività, rispetto a quelle strettamente agricole, che possono insediarsi nelle aree E di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444: e tanto più che è stata recisamente esclusa dalla stessa giurisprudenza l’insediabilità in area agricola di attività comunque comportanti la realizzazione di opere che in ragione all’uso cui sono preposte recano necessariamente caratteristiche strutturali e tipologiche del tutto inconciliabili con la destinazione agricola e tanto con riferimento non solo all’utilizzo concreto del suolo , ma alla naturale vocazione dei terreni; ovvero che comunque determinano una cementificazione della zona agricola (cfr. in tal senso la stessa sentenza n. 4505 del 2011 che ha affermato l’impossibilità di realizzare in zona agricola E un impianto di frantumazione di inerti).
Nel caso in esame, va quindi tenuto conto della circostanza che la vigente strumentazione urbanistica primaria del Comune di Gioia del Colle espressamente contempla la possibilità di realizzare alberghi in altre zone appositamente a ciò destinate e che, pertanto, nella zona agricola di cui trattasi non può essere ragionevolmente assentito l’insediamento di strutture ricettive ulteriori e diverse da quelle destinate all’attività agrituristica, notoriamente complementare a quella agricola: e men che meno può ricavarsi una deroga a ciò nella predetta circostanza che il molino costituiva comunque attività industriale e non agricola e che pertanto ciò ex se legittimerebbe la prosecuzione nel relativo immobile di un’attività comunque diversa da quella strettamente agricola, posto che la deroga accordata dalle N.T.A. del P.R.G. per l’anzidetta attività industriale era ed è fondata sull’espressa enunciazione di un criterio di complementarietà rispetto all’uso agricolo del territorio non applicabile –all’evidenza– per un insediamento alberghiero ben diverso da quello agrituristico (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.06.2012 n. 3570 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oneri di urbanizzazione.
Il beneficio dell’esonero dalla corresponsione del contributo concessorio afferente ai costi di costruzione ed urbanizzazione, previsto per gli immobili nei quali si svolge attività industriale dall’art. 10, comma 1, della Legge n. 10/1977, concerne strettamente i fabbricati complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali, ovvero quelle opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica.
È, pertanto, da escludere l’applicabilità del trattamento contributivo di favore a magazzini per deposito e commercio ove non siano “collegati ad altro stabile adibito alla attività produttiva”.
Conclusivamente, il beneficio dell’esonero dalla corresponsione del contributo così come previsto dall’art. 10, comma 1, della Legge n. 10/1977 per gli immobili nei quali si svolge attività industriale, concerne solo e soltanto i fabbricati complementari e/o asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale o artigianale e non quegli edifici privi di tale nesso sostanziale e suscettibili di essere utilizzati al servizio di qualsiasi attività economica.
Comunque, grava esclusivamente sull’interessato l’onere della dimostrazione dell’esistenza del nesso di complementarietà delle opere da costruire con le esigenze proprie di un impianto industriale.

Invero, l’art. 10, comma 1, della Legge n. 10/1977 (ora art. 19 del T.U. dell’edilizia) dispone espressamente al primo comma che: “Il permesso di costruire relativo a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi comporta la corresponsione di un contributo pari alla incidenza delle opere di urbanizzazione (…)”.
La predetta disposizione pone oggettivamente il problema della corretta individuazione degli impianti o costruzioni riconducibili alla attività industriale o artigianale, in quanto la terminologia utilizzata dal legislatore richiama espressamente la prestazione di servizi e non solo la trasformazione di beni, quest’ultima tipicamente caratterizzante il settore produttivo.
Così, potrebbe ipotizzarsi che un’attività volta esclusivamente ad una prestazione di servizi a terzi, pur scollegata da qualsivoglia attività industriale o artigianale diretta alla trasformazione di beni, rientri nel trattamento contributivo di maggior favore previsto dalla richiamata norma, come prospettato dall’appellante.
Ritiene il Collegio che una siffatta opzione ermeneutica non sia sostenibile.
La norma, infatti, appare oggettivamente orientata a distinguere i due trattamenti contributivi in ragione delle attività svolte.
Ed in questo senso vengono espressamente individuate e distinte le attività industriali o artigianali da quelle turistiche, commerciali e direzionali.
Ne consegue che l’elemento discriminante tra i due regimi contributivi è direttamente incentrato, in principalità, sulla tipologia di attività economica svolta, da cui non può comunque prescindersi ai fini dell’applicazione della norma.
Pertanto, l’applicazione del regime contributivo di maggior favore deve essere necessariamente riconosciuta solo in presenza di un’ attività industriale o artigianale, ovvero di un’ attività ad essa comunque collegata da un nesso di stretta funzionalità o complementarietà.
In questo senso, del resto, si è già espressa più volte la giurisprudenza della Sezione, precisando che il beneficio dell’esonero dalla corresponsione del contributo concessorio afferente ai costi di costruzione ed urbanizzazione, previsto per gli immobili nei quali si svolge attività industriale dall’art. 10, comma 1, della Legge n. 10/1977, concerne strettamente i fabbricati complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali, ovvero quelle opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica (cfr. decisioni 21.10.1998, n. 1512; 05.09.1995, n. 1266; 13.07.1994, n. 752).
È, pertanto, da escludere l’applicabilità del trattamento contributivo di favore a magazzini per deposito e commercio ove non siano “collegati ad altro stabile adibito alla attività produttiva” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.07.1994, n. 752).
Conclusivamente, il beneficio dell’esonero dalla corresponsione del contributo così come previsto dall’art. 10, comma 1, della Legge n. 10/1977 per gli immobili nei quali si svolge attività industriale, concerne solo e soltanto i fabbricati complementari e/o asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale o artigianale e non quegli edifici privi di tale nesso sostanziale e suscettibili di essere utilizzati al servizio di qualsiasi attività economica.
Tanto premesso in via di principio, osserva il Collegio come nel caso di specie l’immobile considerato non sia affatto complementare o comunque strettamente connesso ad uno stabilimento industriale o artigianale. Invero, l’attività economica svolta nel deposito per cui è causa, consistente nell’immagazzinamento, conservazione, movimentazione e deposito di merci e materiali a favore di terzi, non risulta oggettivamente complementare ad un ciclo produttivo di uno specifico impianto industriale o artigianale.
Riprova ne è il fatto che l’appellante, non solo non dimostra minimamente un qualsiasi collegamento tra il deposito per cui è causa ed un’attività industriale o artigianale, ma addirittura riconosce che la società “non svolge alcuna attività complementare”, bensì “un'unica attività corrispondente al suo precipuo ed esclusivo oggetto sociale” che, come emerge dalla visura depositata in giudizio, consiste nel deposito, conservazione, preparazione, movimentazione fisica, distribuzione e trasporto di merci.
E sul punto, la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di precisare che grava esclusivamente sull’interessato l’onere della dimostrazione dell’esistenza del nesso di complementarietà delle opere da costruire con le esigenze proprie di un impianto industriale (cfr. decisione n. 1266 del 05.09.1995).
Ne consegue che l’immobile per cui è causa non può essere soggetto al regime contributivo agevolato previsto dall’art. 10, comma 1, della L. n. 10/1977, come correttamente ritenuto dall’Amministrazione comunale resistente (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.06.2012 n. 3561 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La monetizzazione delle aree standard (la quale trova ordinariamente la sua fonte legittimante nella convenzione urbanistica che disciplina il piano attuativo) è un istituto contemplato dall’ordinamento e applicato nella prassi amministrativa di tutti i Comuni italiani, anche se derogatorio rispetto al principio affermato dall’art. 12 del D.P.R. 380/2001.
Inoltre, la facoltà di richiedere o accettare il controvalore delle opere di urbanizzazione rientra nella sfera di discrezionalità tecnico-amministrativa dell’Ente, come tale non censurabile se non per gravi vizi di irrazionalità.
E’ dunque evidente che la monetizzazione –rispetto alla cessione delle aree– integra un’eccezione alla regola generale (si veda sul punto anche l’art. 12 della L.r. 60/1977 per tempo vigente), e come tale deve poggiare su una solida ragione giustificatrice nell’ambito del procedimento urbanistico, mentre viceversa la cessione non deve essere supportata da una peculiare motivazione configurando l’ipotesi ordinaria prevista dal legislatore.
Quanto alla dedotta disparità di trattamento, si ribadisce che le scelte urbanistiche sono connotate da ampia discrezionalità, e sono censurabili soltanto ove affiorino illogicità abnormi.

La giurisprudenza ha affermato in generale che la monetizzazione delle aree standard (la quale trova ordinariamente la sua fonte legittimante nella convenzione urbanistica che disciplina il piano attuativo) è un istituto contemplato dall’ordinamento e applicato nella prassi amministrativa di tutti i Comuni italiani, anche se derogatorio rispetto al principio affermato dall’art. 12 del D.P.R. 380/2001 (TAR Marche – 23/06/2011 n. 500). Inoltre è stato sottolineato che la facoltà di richiedere o accettare il controvalore delle opere di urbanizzazione rientra nella sfera di discrezionalità tecnico-amministrativa dell’Ente, come tale non censurabile se non per gravi vizi di irrazionalità (Consiglio di Stato, sez. IV – 07/02/2011 n. 824).
E’ dunque evidente che la monetizzazione –rispetto alla cessione delle aree– integra un’eccezione alla regola generale (si veda sul punto anche l’art. 12 della L.r. 60/1977 per tempo vigente), e come tale deve poggiare su una solida ragione giustificatrice nell’ambito del procedimento urbanistico, mentre viceversa la cessione non deve essere supportata da una peculiare motivazione configurando l’ipotesi ordinaria prevista dal legislatore. Quanto alla dedotta disparità di trattamento, si ribadisce che le scelte urbanistiche sono connotate da ampia discrezionalità, e sono censurabili soltanto ove affiorino illogicità abnormi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.06.2012 n. 1089 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Il concetto di servizio analogo deve essere inteso non come identità ma come similitudine tra le prestazioni, tenendo conto che l’interesse pubblico sottostante non è certamente la creazione di una riserva a favore degli imprenditori già attivi sul mercato ma al contrario l'apertura alla concorrenza attraverso l’ammissione alle gare di tutti gli operatori economici per i quali si possa raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità.
Peraltro in presenza di un servizio complesso e delicato –per il quale occorre sviluppare una capacità organizzativa e di coordinamento di prestazioni di differente tipologia– è ragionevole ritenere che la stazione appaltante abbia inteso rimettere alla Commissione di gara l'accertamento della sussistenza della capacità professionale del soggetto che ha partecipato alla procedura di selezione: ad essa era demandata una valutazione discrezionale dell’esperienza maturata in attività analoghe (tesa a selezionare tra i concorrenti coloro che risultano particolarmente qualificati sotto il profilo tecnico-finanziario), con l’apprezzamento dei servizi prestati e la loro comparazione rispetto a quelli specificamente richiesti.
La decisione conclusiva dell’amministrazione può sicuramente essere sindacata quando illogica, abnorme e contraddittoria, ma nel caso di specie il Collegio non ravvisa tali condizioni.

Come già affermato da questo Tribunale il concetto di servizio analogo deve essere inteso non come identità ma come similitudine tra le prestazioni, tenendo conto che l’interesse pubblico sottostante non è certamente la creazione di una riserva a favore degli imprenditori già attivi sul mercato ma al contrario l'apertura alla concorrenza attraverso l’ammissione alle gare di tutti gli operatori economici per i quali si possa raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità (TAR Lombardia Brescia, sez. I – 12/06/2009 n. 1204; sez. II – 10/06/2010 n. 2304).
Peraltro in presenza di un servizio complesso e delicato –per il quale occorre sviluppare una capacità organizzativa e di coordinamento di prestazioni di differente tipologia– è ragionevole ritenere che la stazione appaltante abbia inteso rimettere alla Commissione di gara l'accertamento della sussistenza della capacità professionale del soggetto che ha partecipato alla procedura di selezione: ad essa era demandata una valutazione discrezionale dell’esperienza maturata in attività analoghe (tesa a selezionare tra i concorrenti coloro che risultano particolarmente qualificati sotto il profilo tecnico-finanziario), con l’apprezzamento dei servizi prestati e la loro comparazione rispetto a quelli specificamente richiesti (cfr. sentenza sez. II – 31/08/2011 n. 1290). La decisione conclusiva dell’amministrazione può sicuramente essere sindacata quando illogica, abnorme e contraddittoria, ma nel caso di specie il Collegio non ravvisa tali condizioni
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.06.2012 n. 1088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’avvalimento è un istituto di applicazione generale, individuato dalla giurisprudenza comunitaria, codificato dall’art. 48, commi 3 e 4, della Dir. 31.03.2004 n. 2004/18/CE, e ripreso nell’art. 49 del D.Lgs. 163/2006. In base ad esso gli operatori economici utilizzano requisiti e risorse appartenenti ad altri imprenditori che agiscono nell’ambito della stessa area di mercato.
Il comma 1 stabilisce infatti che “Il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato ai sensi dell’articolo 34, in relazione ad una specifica gara di lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto”.
In termini generali l’impresa “ausiliaria” permette al soggetto che ne sia privo di concorrere alla gara provando, tramite i propri, il possesso dei richiesti requisiti: un’impresa può quindi ricorrere alle referenze tecniche, organizzative economiche e finanziarie di un altro soggetto economico al fine di dimostrare il possesso dei requisiti necessari per partecipare ad una selezione pubblica. Il legislatore ha in definitiva concepito la figura in esame associandola alla specifica ed individuata tipologia di attività che costituisce l’oggetto dell’appalto, per cui nell’ambito del lavoro, fornitura o servizio da affidare l’impresa concorrente beneficia della capacità vantata da altri operatori e colma il deficit che le impedirebbe di prendere parte al confronto comparativo.
Nell’ambito del raggruppamento temporaneo la giurisprudenza ha osservato che la legislazione vigente fissa in tema di A.T.I. i requisiti minimi percentuali di capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale che deve essere posseduta da ciascun componente, ma la disciplina non può essere intesa come limite all’avvalimento, perché così interpretata essa sarebbe contraria al diritto comunitario che non pone vincoli quantitativi né qualitativi, consentendolo espressamente anche nell’ambito dei raggruppamenti di imprese. Pertanto la disciplina nazionale va interpretata non solo nel senso che anche nell’ambito di un’A.T.I. è ammesso l’utilizzo dell’avvalimento, ma anche nel senso che persino la quota minima di requisiti che ciascun componente di un’A.T.I. deve possedere (anche quelli richiesti dalla legge per il singolo mandante o mandatario) può essere dimostrata mediante ricorso a tale meccanismo.
In buona sostanza l’art. 49, comma 8, del Codice dei contratti pubblici (secondo cui non è consentito, a pena di esclusione, che partecipino alla gara sia l’impresa ausiliaria sia l’impresa che si avvale dei requisiti) va interpretato alla stregua della normativa comunitaria di riferimento (artt. 47 e 48 della Direttiva 2004/18/CE, per i settori ordinari; artt. 53 e 54 della Direttiva 2004/17/CE, per i settori speciali) e va inteso nel senso che è vietata la partecipazione dell’avvalente e dell’ausiliaria alla medesima gara solo allorché tali imprese siano in concorrenza l’una con l’altra, e non quando esse facciano capo ad un medesimo centro d’interessi.

Osserva il Collegio che l’avvalimento è un istituto di applicazione generale, individuato dalla giurisprudenza comunitaria (v. Corte di Giustizia – Sez. V, 02.12.1999 C-176/98 Holst), codificato dall’art. 48, commi 3 e 4, della Dir. 31.03.2004 n. 2004/18/CE, e ripreso nell’art. 49 del D.Lgs. 163/2006. In base ad esso gli operatori economici utilizzano requisiti e risorse appartenenti ad altri imprenditori che agiscono nell’ambito della stessa area di mercato.
Il comma 1 stabilisce infatti che “Il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato ai sensi dell’articolo 34, in relazione ad una specifica gara di lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto”.
In termini generali l’impresa “ausiliaria” permette al soggetto che ne sia privo di concorrere alla gara provando, tramite i propri, il possesso dei richiesti requisiti (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 03/12/2009 n. 7592; sez. VI – 18/09/2009 n. 5626): un’impresa può quindi ricorrere alle referenze tecniche, organizzative economiche e finanziarie di un altro soggetto economico al fine di dimostrare il possesso dei requisiti necessari per partecipare ad una selezione pubblica. Il legislatore ha in definitiva concepito la figura in esame associandola alla specifica ed individuata tipologia di attività che costituisce l’oggetto dell’appalto, per cui nell’ambito del lavoro, fornitura o servizio da affidare l’impresa concorrente beneficia della capacità vantata da altri operatori e colma il deficit che le impedirebbe di prendere parte al confronto comparativo (cfr. sentenza Sezione 05/05/2010 n. 1675, che non risulta appellata).
Nell’ambito del raggruppamento temporaneo la giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 29/12/2010 n. 9577) ha osservato che la legislazione vigente fissa in tema di A.T.I. i requisiti minimi percentuali di capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale che deve essere posseduta da ciascun componente, ma la disciplina non può essere intesa come limite all’avvalimento, perché così interpretata essa sarebbe contraria al diritto comunitario che non pone vincoli quantitativi né qualitativi, consentendolo espressamente anche nell’ambito dei raggruppamenti di imprese. Pertanto la disciplina nazionale va interpretata non solo nel senso che anche nell’ambito di un’A.T.I. è ammesso l’utilizzo dell’avvalimento, ma anche nel senso che persino la quota minima di requisiti che ciascun componente di un’A.T.I. deve possedere (anche quelli richiesti dalla legge per il singolo mandante o mandatario) può essere dimostrata mediante ricorso a tale meccanismo.
In buona sostanza l’art. 49, comma 8, del Codice dei contratti pubblici (secondo cui non è consentito, a pena di esclusione, che partecipino alla gara sia l’impresa ausiliaria sia l’impresa che si avvale dei requisiti) va interpretato alla stregua della normativa comunitaria di riferimento (artt. 47 e 48 della Direttiva 2004/18/CE, per i settori ordinari; artt. 53 e 54 della Direttiva 2004/17/CE, per i settori speciali) e va inteso nel senso che è vietata la partecipazione dell’avvalente e dell’ausiliaria alla medesima gara solo allorché tali imprese siano in concorrenza l’una con l’altra, e non quando esse facciano capo ad un medesimo centro d’interessi (cfr. TAR Puglia Bari, sez. I – 08/02/2010 n. 268 confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato 9577/2010 sopra citata)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.06.2012 n. 1088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Questa Sezione ha aderito all’orientamento giurisprudenziale favorevole –in difetto di esplicite previsioni escludenti in base alla lex specialis– ad una valutazione sostanzialistica della sussistenza delle cause di esclusione, nella considerazione che il primo comma dell’art. 38 del D.Lgs 163/2006 ricollega l’esclusione dalla gara al dato sostanziale del mancato possesso dei requisiti indicati, mentre il secondo comma non prevede analoga sanzione per l’ipotesi della mancata o non perspicua dichiarazione, da cui discende che solo l’insussistenza, in concreto, delle cause di esclusione previste dall’art. 38 citato comporta, “ope legis”, l’effetto espulsivo.
Quando il partecipante sia in possesso di tutti i requisiti richiesti e la “lex specialis” non preveda espressamente la sanzione dell’esclusione a seguito della mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire, l’omissione non produce alcun pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma, ricorrendo al più un’ipotesi di “falso innocuo”, come tale non suscettibile, in carenza di una espressa previsione legislativa o della legge di gara, a fondare l’esclusione, le cui ipotesi sono tassative.
La ratio legis è di escludere dalla partecipazione alla gara di appalto le società in cui abbiano commesso gravi reati i soggetti che nella società abbiano un significativo ruolo decisionale e gestionale. Occorre avere riguardo alle funzioni sostanziali del soggetto, più che alle qualifiche formali, altrimenti la ratio legis potrebbe venire agevolmente elusa e dunque vanificata.
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Con l’entrata in vigore dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici, aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del D.L. 13/05/2011 conv. in L. 12/07/2011 n. 106, è stato introdotto il principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare d’appalto: in base alla novella legislativa, deve ritenersi illegittima la mancata ammissione di una ditta da una procedura selettiva per una circostanza che non costituisce motivo di esclusione in virtù di una precisa disposizione di legge (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I – 08/03/2012 n. 2308, che ha censurato l’esclusione di una ditta che aveva prestato la cauzione provvisoria mediante polizza fideiussoria avente come beneficiario un soggetto diverso dalla stazione appaltante; sul medesimo presupposto, anche il Consiglio di Stato – sez. III – 01/02/2012 n. 493 – ha dichiarato l’illegittimità dell’esclusione dalla gara di un’impresa che aveva presentato una cauzione provvisoria di importo inferiore a quello richiesto per poter concorrere all’assegnazione di più lotti).
Più precisamente secondo il nuovo testo del citato art. 46 la stazione appaltante può escludere le imprese dalla gara di appalto esclusivamente in caso di:
- mancato adempimento a prescrizioni di legge previste dal codice degli appalti, dal regolamento attuativo (DPR n. 207/2010) e da altre disposizioni legislative vigenti;
- incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali;
- non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura del plico, tale da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte.
Queste cause di esclusione sono tassative ed ogni altra prescrizione prevista dagli atti di gara deve considerarsi nulla.
Questa Sezione (cfr. da ultimo sentenza 23/01/2012 n. 99) ha aderito all’orientamento giurisprudenziale favorevole –in difetto di esplicite previsioni escludenti in base alla lex specialis– ad una valutazione sostanzialistica della sussistenza delle cause di esclusione, nella considerazione che il primo comma dell’art. 38 del D.Lgs 163/2006 ricollega l’esclusione dalla gara al dato sostanziale del mancato possesso dei requisiti indicati, mentre il secondo comma non prevede analoga sanzione per l’ipotesi della mancata o non perspicua dichiarazione, da cui discende che solo l’insussistenza, in concreto, delle cause di esclusione previste dall’art. 38 citato comporta, “ope legis”, l’effetto espulsivo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 24/11/2011 n. 6240).
Quando il partecipante sia in possesso di tutti i requisiti richiesti e la “lex specialis” non preveda espressamente la sanzione dell’esclusione a seguito della mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire, l’omissione non produce alcun pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma, ricorrendo al più un’ipotesi di “falso innocuo”, come tale non suscettibile, in carenza di una espressa previsione legislativa o della legge di gara, a fondare l’esclusione, le cui ipotesi sono tassative (TAR Lazio Roma, sez. III – 31/12/2010 n. 39288; Consiglio di Stato, sez. V – 24/03/2011 n. 1795, che richiamano l’art. 45 della direttiva 2004/18/CE).
Il Collegio condivide la tesi espressa dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 523/2007, in cui si legge che: “La ratio legis è di escludere dalla partecipazione alla gara di appalto le società in cui abbiano commesso gravi reati i soggetti che nella società abbiano un significativo ruolo decisionale e gestionale. Occorre avere riguardo alle funzioni sostanziali del soggetto, più che alle qualifiche formali, altrimenti la ratio legis potrebbe venire agevolmente elusa e dunque vanificata.”.
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Il Collegio è dell’opinione che anche sotto altro profilo non sia possibile accedere alla tesi di parte ricorrente.
Con l’entrata in vigore dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici, aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del D.L. 13/05/2011 conv. in L. 12/07/2011 n. 106, è stato introdotto il principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare d’appalto: in base alla novella legislativa, deve ritenersi illegittima la mancata ammissione di una ditta da una procedura selettiva per una circostanza che non costituisce motivo di esclusione in virtù di una precisa disposizione di legge (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I – 08/03/2012 n. 2308, che ha censurato l’esclusione di una ditta che aveva prestato la cauzione provvisoria mediante polizza fideiussoria avente come beneficiario un soggetto diverso dalla stazione appaltante; sul medesimo presupposto, anche il Consiglio di Stato – sez. III – 01/02/2012 n. 493 – ha dichiarato l’illegittimità dell’esclusione dalla gara di un’impresa che aveva presentato una cauzione provvisoria di importo inferiore a quello richiesto per poter concorrere all’assegnazione di più lotti).
Più precisamente secondo il nuovo testo del citato art. 46 la stazione appaltante può escludere le imprese dalla gara di appalto esclusivamente in caso di:
- mancato adempimento a prescrizioni di legge previste dal codice degli appalti, dal regolamento attuativo (DPR n. 207/2010) e da altre disposizioni legislative vigenti;
- incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali;
- non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura del plico, tale da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte.
Queste cause di esclusione sono tassative ed ogni altra prescrizione prevista dagli atti di gara deve considerarsi nulla (cd. nullità testuale - TAR Lazio Roma, sez. I – 15/12/2011 n. 9791).
Come già accennato il bando è stato pubblicato il 15/07/2011 e pertanto il principio di tassatività delle cause di esclusione è applicabile alla fattispecie in esame. Nel caso di specie l’illegittimità dell’ammissione si fonderebbe sull’omessa dichiarazione sostitutiva circa il possesso dei requisiti di cui all'art. 38 del Codice dei contratti pubblici ad opera di alcuni soggetti: si tratta di ipotesi che, di per sé, non è prescritta quale causa di esclusione dal medesimo art. 38, comma 2 (a differenza delle ipotesi del comma 1 che investe ipotesi concrete in cui sussistono le cause di esclusione - cfr. TAR Sardegna, sez. I – 20/02/2012 n. 134).
In definitiva la dichiarazione sostitutiva attestante l’insussistenza delle cause di esclusione ex art. 38 –già presentata in gara da alcuni rappresentanti della Società ricorrente– può essere positivamente valutata, salva la possibilità di esigere ex post un’integrazione riguardante altri soggetti (procuratori speciali, responsabile tecnico, etc.)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.06.2012 n. 1088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’integrazione del bando di gara e della relativa disciplina può provenire soltanto dall’organo competente ad indire la gara medesima e nelle stesse forme, per cui è illegittima l’integrazione delle clausole del bando mediante risposte ai chiarimenti resi ai concorrenti, che possono esclusivamente precisare e meglio delucidare le previsioni della lex specialis.
Tuttavia la ratio del principio evocato risiede essenzialmente nell’esigenza di tutelare il principio di par condicio tra concorrenti e di pubblicità, presidiati dalla certezza delle regole di gara divulgate per un lasso temporale idoneo.

Il Collegio conosce l’orientamento secondo il quale l’integrazione del bando di gara e della relativa disciplina può provenire soltanto dall’organo competente ad indire la gara medesima e nelle stesse forme, per cui è illegittima l’integrazione delle clausole del bando mediante risposte ai chiarimenti resi ai concorrenti, che possono esclusivamente precisare e meglio delucidare le previsioni della lex specialis (cfr. TAR Campania Napoli, sez. I – 24/03/2011 n. 1659).
Tuttavia la ratio del principio evocato risiede essenzialmente nell’esigenza di tutelare il principio di par condicio tra concorrenti e di pubblicità, presidiati dalla certezza delle regole di gara divulgate per un lasso temporale idoneo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.06.2012 n. 1088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Rientrano nelle competenze dei dirigenti anche i provvedimenti che gli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 285/1992 attribuiscono espressamente al Sindaco, trattandosi di atti che per un verso non implicano l'esercizio di funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo ma di gestione ordinaria (nella specie per regolamentare la circolazione e la sosta nel centro abitato per ragioni di sicurezza e di ordinato flusso del traffico) e per altro verso non rientrano nelle deroghe di cui all'art. 50 e 54 dello stesso D.Lgs. 267/2000.
Il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato in relazione al profilo dell’incompetenza del Sindaco all’adozione del provvedimento impugnato.
Come affermato dalla giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi, "rientrano nelle competenze dei dirigenti anche i provvedimenti che gli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 285/1992 attribuiscono espressamente al Sindaco, trattandosi di atti che per un verso non implicano l'esercizio di funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo ma di gestione ordinaria (nella specie per regolamentare la circolazione e la sosta nel centro abitato per ragioni di sicurezza e di ordinato flusso del traffico) e per altro verso non rientrano nelle deroghe di cui all'art. 50 e 54 dello stesso D.Lgs. 267/2000" (così TAR Veneto, Sez. I, 31.05.2002, n. 2462, ma anche, più recentemente, TAR Lombardia Milano Sez. I, Sent., 25-05-2011, n. 1317) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.06.2012 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In una zona interessata da vincolo paesaggistico la formazione del provvedimento tacito di assenso alla concessione in sanatoria, previsto dall'art. 35, comma 18, l. n. 47 del 1985, postula indefettibilmente la previa acquisizione del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sulla compatibilità ambientale della costruzione senza titolo.
Per cui ne consegue che, se al momento dell'esame della domanda di sanatoria non risulta acquisito il (necessario) parere favorevole sulla conformità dell'intervento alla disciplina paesaggistica, la formazione del silenzio-assenso è preclusa.

Costituisce pacifico ius receptum in giurisprudenza che in una zona interessata da vincolo paesaggistico la formazione del provvedimento tacito di assenso alla concessione in sanatoria, previsto dall'art. 35, comma 18, l. n. 47 del 1985, postula indefettibilmente la previa acquisizione del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sulla compatibilità ambientale della costruzione senza titolo; per cui ne consegue che, se al momento dell'esame della domanda di sanatoria non risulta acquisito il (necessario) parere favorevole sulla conformità dell'intervento alla disciplina paesaggistica, la formazione del silenzio-assenso è preclusa (cfr. TAR Liguria, sez. I, 08.06.2009, n. 1289; Cons. St., sez. VI, 02.11.2007, n. 5669 e sez. IV, 30.06.2005, n. 3542) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.06.2012 n. 1077 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il giudizio di accertamento dell’illegittimità del silenzio-rifiuto ex art. 117 c.p.a. presuppone che in capo all’amministrazione sussista un obbligo giuridico di provvedere sull’istanza del privato (art. 2, comma 1, l. n. 241/1990), cioè “di esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente alla competenza dell’organo amministrativo destinatario della richiesta, mediante avvio di un procedimento amministrativo volto all’adozione di un atto tipizzato nella sfera autoritativa del diritto pubblico”.
In assenza di tale obbligo non è configurabile la fattispecie del silenzio-rifiuto, non potendo tale istituto essere invocato al fine di provocare una presa di posizione da parte dell’amministrazione, indipendentemente dall’esistenza di un dovere di provvedere derivante dalla legge e, correlativamente, di una pretesa del privato avente consistenza giuridica (quanto meno sub specie di interesse differenziato e qualificato).
Né vale invocare l’orientamento secondo cui l’obbligo ex art. 2 l. n. 241/1990 sussisterebbe “in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l’adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell’Amministrazione”.

Al riguardo è appena il caso di osservare che il giudizio di accertamento dell’illegittimità del silenzio-rifiuto ex art. 117 c.p.a. presuppone che in capo all’amministrazione sussista un obbligo giuridico di provvedere sull’istanza del privato (art. 2, comma 1, l. n. 241/1990), cioè “di esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente alla competenza dell’organo amministrativo destinatario della richiesta, mediante avvio di un procedimento amministrativo volto all’adozione di un atto tipizzato nella sfera autoritativa del diritto pubblico” (così Cons. Stato, sez. VI, 22.05.2008, n. 2458).
In assenza di tale obbligo -come accade nel caso in esame (non comprendendosi da quale norma il ricorrente lo faccia discendere)- non è configurabile la fattispecie del silenzio-rifiuto, non potendo tale istituto essere invocato al fine di provocare una presa di posizione da parte dell’amministrazione, indipendentemente dall’esistenza di un dovere di provvedere derivante dalla legge e, correlativamente, di una pretesa del privato avente consistenza giuridica (quanto meno sub specie di interesse differenziato e qualificato).
Né vale invocare l’orientamento secondo cui l’obbligo ex art. 2 l. n. 241/1990 sussisterebbe “in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l’adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell’Amministrazione” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.03.2012, n. 2468).
La fattispecie corrente si presenta infatti con profili peculiari, atteso che l’iniziativa dell’istante è essenzialmente volta a ottenere una pronuncia del Ministero in ordine alla sfera di attribuzioni statali (a suo dire insussistenti), sulla concessione di cui vanta la titolarità.
Sicché –in disparte la circostanza che questo tema risulta già devoluto alla cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria (almeno stando a quanto dedotto dallo stesso sig. Alleati) e che la questione dovrebbe avere soluzione in quella sede (in altri termini, è nel contenzioso in essere su un provvedimento lesivo di un diritto o un interesse del ricorrente che l’amministrazione ha l’onere di esprimere la sua posizione sul punto, ovviamente purché il tema sia in contestazione)– l’istanza del sig. Alleati pare in realtà assolvere alla funzione di mera sollecitazione (o esposizione di fatti) nei confronti di un ufficio centrale del Ministero, al fine di evitare (de futuro) pretese azioni ultra vires che fossero eventualmente poste in essere dagli organi statali deputati al controllo amministrativo sulle concessioni, ferma restando la necessità di contestare specificamente le stesse, di volta in volta, innanzi alla competente autorità giudiziaria.
Così ricostruita la vicenda, non pare al Collegio che sussista un obbligo di provvedere sull’istanza in argomento, non concretandosi pertanto un’ipotesi di silenzio rifiuto impugnabile (in caso di inerzia della p.a.).
Di qui, l’inammissibilità anche dell’azione contra silentium (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 18.06.2012 n. 5552 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle procedure ad evidenza pubblica, il venir meno dell'aggiudicazione, per la decisione giurisdizionale o in via di autotutela, restituisce all'amministrazione la piena potestà di diritto pubblico di determinarsi nel modo che ravvisa più opportuno per la cura del pubblico interesse.
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Il principio che impone che i membri delle Commissioni di gara siano provvisti di specifica e documentata esperienza di settore rapportata alla peculiarità della gara da svolgere è principio non solo immanente nel sistema (v. art. 84, comma 8, del D.Lgs. n. 163/2006) ma di stretta derivazione costituzionale, dal momento che un adeguato livello di professionalità dei componenti l'organo è l'unica garanzia di un effettivo rispetto dei valori costituzionali richiamati dall'art. 97 Cost..
Va altresì sottolineato che le valutazioni effettuate dall'organo tecnico (che sono espressione non solo di discrezionalità amministrativa ma anche e soprattutto di discrezionalità tecnica) in tanto sono soggette al sindacato del giudice amministrativo entro limiti ridottissimi, in quanto i limiti stessi riflettono non solo i rapporti fra i poteri che l'ordinamento assegna all'Amministrazione e quelli propri del suo giudice, ma anche la competenza specifica ed esclusiva, che la normativa riconosce in determinati settori all'organo tecnico dell'Amministrazione, alla quale non si contrappone una eguale competenza da parte del giudicante.

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E’ noto che l'onere di impugnazione immediata del bando riguarda le sole clausole che concernono i requisiti soggettivi di partecipazione dei concorrenti e non si estende alle clausole relative alle modalità di valutazione delle offerte, di svolgimento della gara od attinenti alla astratta qualificazione dell'oggetto della prestazione.
In tale caso l'impugnativa va proposta unitamente agli atti che ne fanno diretta applicazione, che rendono attuale e concreta la lesione soggettiva subita dall'interessato.
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C
ostituisce principio generale regolatore delle gare pubbliche quello che vieta la commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi afferenti alla valutazione dell'offerta.
Tale principio trova il suo sostanziale supporto logico nella necessità di tener separati i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara da quelli che attengono all'offerta e, quindi, all'aggiudicazione.
Come è stato autorevolmente osservato, tuttavia, non sempre è agevole tenere separati i due criteri considerati (quello oggettivo di valutazione dell'offerta e quello soggettivo relativo alla capacità tecnica e professionale del concorrente), poiché i profili di organizzazione soggettiva possono anche essere idonei a riflettersi sull'affidabilità e sull'efficienza dell'offerta e, quindi, della prestazione.
Ne deriva che quando gli aspetti organizzativi non sono apprezzati in modo autonomo, avulso dal contesto dell'offerta, ma quale elemento idoneo ad incidere sulle modalità esecutive del servizio specifico e, quindi, quale parametro afferente alle caratteristiche oggettive dell'offerta, il principio non risulta violato.

Poiché, come già rilevato nell’anzidetta decisione interlocutoria, la corretta esecuzione della sentenza di primo grado comporta proprio, in relazione alla natura dei vizi ivi accolti, l’indizione di una nuova gara (fermo peraltro il principio, secondo cui nelle procedure ad evidenza pubblica, il venir meno dell'aggiudicazione, per la decisione giurisdizionale o in via di autotutela, restituisce all'amministrazione la piena potestà di diritto pubblico di determinarsi nel modo che ravvisa più opportuno per la cura del pubblico interesse: Consiglio Stato, sez. V, 06.03.2002, n. 1367), le nuove determinazioni in tal senso assunte dall’Amministrazione nelle more del giudizio di appello devono considerarsi allora adottate appunto per dare esecuzione alla pronuncia di primo grado, sì che esse, alla luce anche delle incontestate deduzioni svolte dall’appellante nell’istanza risarcitoria successivamente proposta in pendenza del giudizio di appello, non si configurano come idonee ad escludere la persistenza dell’originaria ricorrente alla declaratoria di illegittimità degli atti oggetto del giudizio e dell’appellante soccombente in primo grado alla reviviscenza degli atti stessi.
Né siffatto ultimo interesse potrebbe in particolare ritenersi venuto meno per effetto della mancata impugnazione da parte della seconda degli atti posti in essere in esecuzione della sentenza appellata, dal momento che essi, in caso di accoglimento dell’appello (comportante la reviviscenza degli atti relativi alla prima procedura di gara oggetto del presente giudizio), verrebbero comunque meno con effetto retroattivo, perdendo ab initio il loro fondamento giuridico (ex art. 336 c.p.c.).
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La Sezione preliminarmente osserva in proposito che il principio che impone che i membri delle Commissioni di gara siano provvisti di specifica e documentata esperienza di settore rapportata alla peculiarità della gara da svolgere è principio non solo immanente nel sistema (v. art. 84, comma 8, del D.Lgs. n. 163/2006), ma di stretta derivazione costituzionale, dal momento che un adeguato livello di professionalità dei componenti l'organo è l'unica garanzia di un effettivo rispetto dei valori costituzionali richiamati dall'art. 97 Cost. (Cons. St., V, 30.04.2009, n. 2761 ).
Va altresì sottolineato che le valutazioni effettuate dall'organo tecnico (che sono espressione non solo di discrezionalità amministrativa ma, come nella specie, anche e soprattutto di discrezionalità tecnica) in tanto sono soggette al sindacato del giudice amministrativo entro limiti ridottissimi, in quanto i limiti stessi riflettono non solo i rapporti fra i poteri che l'ordinamento assegna all'Amministrazione e quelli propri del suo giudice, ma anche la competenza specifica ed esclusiva, che la normativa riconosce in determinati settori all'organo tecnico dell'Amministrazione, alla quale non si contrappone una eguale competenza da parte del giudicante.
Ciò posto, tenuto conto dei parametri ai quali la Commissione di gara doveva nel caso di specie assegnare il suo giudizio (sistema organizzativo di espletamento dell’attività, metodologie tecnico operative e servizi analoghi), nonché del fatto che nelle procedure svolte col criterio di selezione dell’offerta economicamente più vantaggiosa assumono rilevanza di norma proprio gli elementi qualitativi dell’offerta la cui valutazione è appunto affidata alla Commissione giudicatrice che attribuisce per ciascuno di essi un punteggio nell’àmbito di un range determinato (con esclusione dunque di qualsivoglia carattere di automaticità delle sue scelte), ritiene il Collegio che i predetti membri della Commissione, in relazione ai concreti aspetti sui quali i medesimi dovevano formulare il loro giudizio (valutazione –del resto chiaramente in tal senso risultante ex post dagli stessi verbali di gara- per almeno due dei parametri rilevanti, di sofisticati sistemi informatici, telematici, audio e video, antintrusione, antieffrazione e di videosorveglianza), non risultavano dotati, nella loro dichiarata qualità di dirigenti sanitari ed amministrativi di grandi strutture a stretto contatto con l’utenza (e nemmeno nella loro dichiarata qualità di componenti di precedenti commissioni di gara, il cui ambito di attività non risulta per vero nemmeno enunciato), di competenze od esperienze adeguate, tali da porli in grado di esprimere una adeguata ed appropriata valutazione delle offerte quanto agli aspetti sopra indicati.
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E’ noto, invero, che l'onere di impugnazione immediata del bando riguarda le sole clausole che concernono i requisiti soggettivi di partecipazione dei concorrenti e non si estende alle clausole relative alle modalità di valutazione delle offerte, di svolgimento della gara od attinenti alla astratta qualificazione dell'oggetto della prestazione.
In tale caso l'impugnativa va proposta, come correttamente è stato fatto nel presente giudizio, unitamente agli atti che ne fanno diretta applicazione, che rendono attuale e concreta la lesione soggettiva subita dall'interessato.
Nel merito, poi, la doglianza dedotta col ricorso introduttivo, concordemente con quanto affermato dal Giudice di primo grado, si rivela fondata.
Osserva in proposito il Collegio che, alla stregua di una consolidata giurisprudenza (comunitaria e nazionale), costituisce principio generale regolatore delle gare pubbliche quello che vieta la commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi afferenti alla valutazione dell'offerta.
Tale principio trova il suo sostanziale supporto logico nella necessità di tener separati i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara da quelli che attengono all'offerta e, quindi, all'aggiudicazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.10.2008, n. 4971).
Come è stato autorevolmente osservato, tuttavia, non sempre è agevole tenere separati i due criteri considerati (quello oggettivo di valutazione dell'offerta e quello soggettivo relativo alla capacità tecnica e professionale del concorrente), poiché i profili di organizzazione soggettiva possono anche essere idonei a riflettersi sull'affidabilità e sull'efficienza dell'offerta e, quindi, della prestazione.
Ne deriva che quando gli aspetti organizzativi non sono apprezzati in modo autonomo, avulso dal contesto dell'offerta, ma quale elemento idoneo ad incidere sulle modalità esecutive del servizio specifico e, quindi, quale parametro afferente alle caratteristiche oggettive dell'offerta, il principio non risulta violato (Cons. Stato, Sez., VI, 15.12.2010, n. 8933).
In proposito giova ricordare che, nel caso di specie, la pretesa illegittimità della legge di gara sotto il profilo in considerazione concerne l’art. 3.1 del Disciplinare di gara, laddove prevede come criterio di valutazione qualitativa dell’offerta i “servizi analoghi espletati presso enti pubblici ed in particolare presso strutture ospedaliere” (max punti 10).
Orbene, come esattamente dedotto dall’appellata, l’utilizzo, ai fini della valutazione dell’offerta, di siffatto criterio (previsto dall’art. 42, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 163/2006 come requisito di capacità tecnica del concorrente) non risponde in concreto alle specificità della procedura per cui è causa, poiché il criterio stesso non ha diretto riferimento con le concrete modalità di svolgimento della prestazione richiesta, né offre un parametro afferente alle caratteristiche oggettive dell’offerta stessa, nella misura in cui i “servizi analoghi” non sono stati dalla legge di gara previsti né “considerati in relazione alla loro rilevanza nel servizio offerto, bensì quale caratteristica peculiare e soggettiva dell’impresa offerente” (così, condivisibilmente, le deduzioni di parte privata appellata).
Tale elemento di valutazione dell’offerta non si rivela insomma in grado di connotare la effettiva qualità dell’offerta medesima (e dunque del servizio da svolgere), privo com’è di specificazioni, che consentano di concretamente ricondurre i servizi analoghi esplicati (per tipologia ed ampiezza delle strutture da sorvegliare, per flusso di utenti, per concentrazione di addetti, ecc.) a quello oggetto di gara e che dunque forniscano validi indici dei livelli qualitativi, che l’impresa concorrente può assicurare nello svolgimento della specifica prestazione oggetto dell’appalto
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 18.06.2012 n. 3550 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAE' illegittima l'ordinanza sindacale di rimozione rifiuti pericolosi abbandonati su terreno posto che l'amministrazione non ha provveduto, attraverso idonea istruttoria in contraddittorio con le parti, a verificare l’imputabilità, a titolo di dolo o di colpa, in capo ai ricorrenti, dell'abbandono dei rifiuti pericolosi sul sito di proprietà.
La fattispecie normativa configura, infatti, una sanzione amministrativa di tipo reintegratorio che richiede, tra gli elementi costitutivi, quello soggettivo. Si consideri inoltre che il terreno era regolarmente recintato e che, quindi, doveva essere accuratamente accertata anche un eventuale culpa in vigilando.

... per l'annullamento, previa sospensiva dell'ordinanza sindacale n. 175 del 15.11.2011, prot. n. 15914, con la quale è stato ingiunto ai ricorrenti di bonificare il sito di loro proprietà da rifiuti pericolosi; della relazione di accertamento (non conosciuta) prot. n. 1/143-3 del 09.09.2011 della Legione Carabinieri Lazio - stazione di Anagni;
...
Deducono i ricorrenti violazione e falsa applicazione dell’art. 192 D.Lgs. 156/2006; difetto di imputabilità soggettiva; violazione dei principi di buon andamento ed imparzialità ex art. 97 Cost.; difetto di istruttoria e di motivazione; eccesso di potere.
Le censure trovano fondamento posto che l'amministrazione non ha provveduto, attraverso idonea istruttoria in contraddittorio con le parti, a verificare l’imputabilità, a titolo di dolo o di colpa, in capo ai ricorrenti, dell'abbandono dei rifiuti pericolosi sul sito di proprietà (al riguardo la giurisprudenza è costante, cfr. C.d.S. sez. V I. I. I., n. 4073, 26.06.2010).
La fattispecie normativa configura, infatti, una sanzione amministrativa di tipo reintegratorio che richiede, tra gli elementi costitutivi, quello soggettivo. Si consideri inoltre che il terreno era regolarmente recintato e che, quindi, doveva essere accuratamente accertata anche un eventuale culpa in vigilando (TAR Lazio-Latina, sentenza 18.06.2012 n. 493 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della p.a. con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione , costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
La censura è infondata sulla base di un costante orientamento giurisprudenziale, cui questo collegio ritiene di aderire, secondo cui “L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della p.a. con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione , costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto” (cfr. C.d.S. sez. IV, 10.08.2011, n. 4764) (TAR Lazio-Latina, sentenza 18.06.2012 n. 491 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di costruzione di opere a meno di 10 metri dalla sponda del fiume, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere inderogabile in quanto diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche e soprattutto il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici, con la conseguenza che nessuna opera costruita in violazione di tale divieto può essere sanata.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 13 del 18.01.2000, con la quale è stata respinta l’istanza di condono edilizio presentata in data 10.07.1986, prot. n. 25032, prat. n. 2623.
...
Le censure sono infondate. In particolare, l'art. 96 R.D. 523/1904 stabilisce che "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti: ...
f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi
".
Poiché, come sostenuto dal ricorrente stesso, l'immobile, ai fini di mantenere il rispetto della distanza dal confine della strada privata, è stato avvicinato oltre i 10 mt. all'alveo del torrente ove vige il divieto di inedificabilità assoluta ai sensi della norma sopra citata, il provvedimento non è sotto questo profilo viziato. Peraltro il Consiglio di Stato sez. IV, 22.06.2011, n. 3781 ha precisato che "Il divieto di costruzione di opere a meno di 10 metri dalla sponda del fiume, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere inderogabile in quanto diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche e soprattutto il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici, con la conseguenza che nessuna opera costruita in violazione di tale divieto può essere sanata".
Inoltre, non hanno alcuna incidenza sull’operatività tout court del vincolo di inedificabilità assoluta -ex lege operante-, da un lato una eventuale valutazione discrezionale dell'incidenza idraulica delle opere, peraltro non ammessa dal legislatore, e dall'altro l'eventuale autorizzazione all'esecuzione di opere (immobile, muro di contenimento) che resterebbero comunque illegittime.
Sostiene, poi, il ricorrente che tutti gli abusi ricadono all'interno della proiezione delle mura perimetrali esterne del fabbricato assentito con licenza edilizia 554 del 26.08.1968 e pertanto non hanno inciso sulla striscia di terreno tra il fabbricato e il torrente Acquatraversa. Tuttavia anche questa considerazione è priva di fondamento in relazione alla persistenza comunque delle opere in area di inedificabilità assoluta.
Ne deriva, tra l'altro, che nessun parere doveva essere richiesto all'amministrazione provinciale posto che nessuna discrezionalità la norma concede all'amministrazione nella valutazione dell'incidenza idraulica delle opere, ponendo nella distanza minima di 10 mt. un limite tassativo vincolante. Trattandosi, poi, di provvedimento vincolato l’omessa richiesta di preventivo parere della CEC si traduce in un vizio formale superabile ai sensi dell'art. 21-octies L. 241/1990. Il ricorso è pertanto infondato e va respinto (TAR Lazio-Latina, sentenza 18.06.2012 n. 489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di una domanda di sanatoria determina per l’Amministrazione l’onere di un provvedimento di reiezione (o di accoglimento) dell’istanza stessa cui deve far seguito l’eventuale adozione di ulteriori provvedimenti sanzionatori che il Comune è tenuto ad emanare con atti a contenuto vincolato, una volta che si sia verificato che non sussistono le condizioni per la sanatoria delle opere abusive.
Questo sta, in particolare, a significare che dopo la presentazione della domanda di sanatoria ai sensi dell’art. 36 DPR n. 380/2001 (prima, art. 13 legge n. 47/1985) le procedure per l’esecuzione di una sanzione amministrativa (a maggior ragione la potestà di emanare la sanzione stessa) deve ritenersi “sospesa” in attesa della determinazione dell’amministrazione sulla domanda di sanatoria.
Se così non fosse, potrebbe venir meno, prima della pronuncia dell’amministrazione, il substrato naturale (opere abusive) oggetto di domanda.
In pendenza di domanda di sanatoria, quindi, il Comune non può procedere ad far eseguire misure sanzionatorie-ripristinatorie.

La presentazione di una domanda di sanatoria determina per l’Amministrazione l’onere di un provvedimento di reiezione (o di accoglimento) dell’istanza stessa cui deve far seguito l’eventuale adozione di ulteriori provvedimenti sanzionatori che il Comune è tenuto ad emanare con atti a contenuto vincolato, una volta che si sia verificato che non sussistono le condizioni per la sanatoria delle opere abusive (Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2010 n. 2244; idem, 12.11.2008 n. 5646)..
Questo sta, in particolare, a significare che dopo la presentazione della domanda di sanatoria ai sensi dell’art. 36 DPR n. 380/2001 (prima, art. 13 legge n. 47/1985) le procedure per l’esecuzione di una sanzione amministrativa (a maggior ragione la potestà di emanare la sanzione stessa) deve ritenersi “sospesa” in attesa della determinazione dell’amministrazione sulla domanda di sanatoria.
Se così non fosse, potrebbe venir meno, prima della pronuncia dell’amministrazione, il substrato naturale (opere abusive) oggetto di domanda.
In pendenza di domanda di sanatoria, quindi, il Comune non può procedere ad far eseguire misure sanzionatorie-ripristinatorie e tale illegittima circostanza nella specie si è verificata se è vero che la domanda di sanatoria è stata inoltrata il 25.03.2010 e risulta definita con provvedimento del 17.05.2010, solo dopo che in data 29.03.2010 si è proceduto all’accertamento di inottemperanza della pregressa ordinanza di demolizione e tenuto altresì conto che la definizione della sanatoria segue e non precede gli atti comunali (delibera consiliare del 26.04.2010 e provvedimento del 12.05.2010) che dispongono l’acquisizione al patrimonio comunale dell’immobile de quo.
Al di là del sovvertimento dell’ordine logico di valutazione della fattispecie sottoposta all’amministrazione, circostanza di per sé sufficiente ad inficiare i vari atti di tipo sanzionatorio assunti a carico dell’appellante, in ogni caso il provvedimento di diniego si fonda su inidonee ragioni giustificative della reiezione della domanda.
Invero, due sono i motivi di rigetto opposti dall’Amministrazione comunale:
a) tardività della domanda di sanatoria;
b) abusività delle opere per le quali è stata già emanato un provvedimento di demolizione e accertata la inottemperanza al medesimo ordine.
Quanto al primo argomento, il termine di presentazione della domanda di sanatoria non è quello di trenta giorni richiesto dall’amministrazione con la nota di avviamento del procedimento, bensì quello di 90 giorni dalla data di notificazione dell’ordinanza di demolizione, come previsto dall’art. 36 del DPR n. 320/2001 rispetto al quale la domanda de qua risulta tempestivamente prodotta.
Relativamente poi alla ragione sub b) il rilievo è del tutto inconferente ove si consideri che l’abusività di un’opera intesa come realizzazione di un manufatto sine titulo non impedisce la sanabilità dell’opera stessa in presenza beninteso delle condizioni di fatto e di diritto richieste dalla normativa, senza che possa avere rilevanza l’avvenuta emanazione di provvedimenti sanzionatori.
Rimane il fatto, allora, che il provvedimento che ha definito negativamente la domanda di sanatoria non adduce ragioni di non conformità urbanistico-edilizia né fa riferimento alla presenza di altre cause procedurali o di carattere sostanziale ostative all’accoglimento dell’istanza e neppure risultano esperite attività istruttorie o acquisiti elementi di giudizio che evidenzino il contrasto di dette opere con la disciplina pianificatoria ed edilizia vigente.
Quanto testé esposto comporta la fondata sussistenza delle doglianze di violazione di legge ed eccesso di potere dedotte con i motivi sopra rubricati nei confronti del provvedimento di diniego di sanatoria con la conseguenza che siffatti vizi hanno un effetto caducante sugli altri atti assunti dal Comune e costituiti dal verbale di inottemperanza alla demolizione e i provvedimenti di acquisizione dell’immobile di che trattasi al patrimonio comunale vuoi perché queste determinazioni non potevano essere adottate in assenza di una previa definizione della domanda di sanatoria vuoi perché, ad ogni modo, connessi indissolubilmente ad un atto presupposto (il diniego di sanatoria) rivelatosi illegittimamente emesso.
Conclusivamente la sentenza impugnata è errata e va, in tal senso, riformata la statuizione di inammissibilità da essa recata, così come fondato si appalesa il ricorso di prime cure per gli assorbenti motivi sopra illustrati (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.06.2012 n. 3534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fermo restando che per l’acquisto del carattere demaniale, sono prescritti specifici requisiti, costituisce strada pubblica quel tratto viario avente finalità di collegamento, con funzione di raccordo o sbocco su pubbliche vie nonché l’essere destinata al transito di un numero indifferenziato di persone.
In particolare, sotto quest’ultimo aspetto, un’area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato.
Del pari, la giurisprudenza ha avuto cura di precisare come l’adibizione ad uso pubblico di un’area possa avvenire mediante la c.d. dicatio ad patriam, con il comportamento del proprietario che mette il bene a disposizione della collettività indeterminata di cittadini, oppure con l’uso del bene da parte della collettività indifferenziata protratto per lunghissimo tempo, di talché il bene stesso viene ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale.
Insomma, perché un’area possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico è necessario oltreché l’intrinseca idoneità del bene, che l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse.

L’argomento introdotto consente di precisare come la problematica giuridica oggetto della presente controversia coinvolge due profili, quello della proprietà della strada e quello dell’utilizzazione della strada stessa, se all’uso generale della collettività oppure a quello dei soli abitanti frontisti.
Fermo restando che per l’acquisto del carattere demaniale, sono prescritti specifici requisiti (Cons. Stato, Sez. V, 24.05.2007 n. 2618), secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, costituisce strada pubblica quel tratto viario avente finalità di collegamento, con funzione di raccordo o sbocco su pubbliche vie (Cass. Civ., Sez. II, 07.04.2000 n. 4345; idem, 28.11.1988 n. 6412) nonché l’essere destinata al transito di un numero indifferenziato di persone (Cons. Stato, Sez. V, 07.12.2010 n. 8624).
In particolare, sotto quest’ultimo aspetto, un’area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato (Cons. Stato, Sez. V, 14.02.2012 n. 728).
Del pari, la giurisprudenza ha avuto cura di precisare come l’adibizione ad uso pubblico di un’area possa avvenire mediante la c.d. dicatio ad patriam, con il comportamento del proprietario che mette il bene a disposizione della collettività indeterminata di cittadini, oppure con l’uso del bene da parte della collettività indifferenziata protratto per lunghissimo tempo, di talché il bene stesso viene ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale (Cass. Civ., Sez. II, 21.05.2001 n. 6924; idem, 13.02.2006 n. 3075).
Insomma, la giurisprudenza con gli enunciati sopra esposti afferma che perché un’area possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico è necessario oltreché l’intrinseca idoneità del bene, che l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.06.2012 n. 3531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A fonte di un’autorizzazione commerciale, diversamente che per i titoli edilizi modificativi del territorio, la mera vicinitas vantata dal ricorrente non è idonea a fondare un titolo di legittimazione in assenza della dimostrazione di specifici pregiudizi arrecati alla sfera individuale dallo svolgimento dell’attività interessata dall’atto di assenso.
● Rilevato che con la sentenza appellata il Primo Giudice ha dichiarato l’inammissibilità, per difetto di legittimazione attiva, del ricorso proposto dall’odierna appellante avverso il provvedimento con il quale il Comune di Portofino aveva autorizzato la controinteressata Emanuela Rosalba Repetto all’esercizio di attività agrituristica comprendente la somministrazione di pasti e bevande.
● Ritenuto che la sentenza appellata merita conferma alla stregua delle seguenti considerazioni:
- l’appellante non è titolare di attività economiche suscettibili di essere pregiudicate sul piano concorrenziale dall’atto di autorizzazione all’apertura di una nuova attività commerciale in guisa da consolidare una posizione qualificata e differenziata e da radicare la legittimazione attiva;
- a fonte di un’autorizzazione commerciale, diversamente che per i titoli edilizi modificativi del territorio, la mera vicinitas vantata dal ricorrente non è idonea a fondare un titolo di legittimazione in assenza della dimostrazione di specifici pregiudizi arrecati alla sfera individuale dallo svolgimento dell’attività interessata dall’atto di assenso;
- nel caso in esame, caratterizzato dall’esercizio di un’attività agrituristica a beneficio di un numero ridotto di utenti per alcuni giorni della settimana, non è dato apprezzare il pregiudizio patito dalla parte ricorrente nella sua qualità di proprietaria di un fabbricato di civile abitazione ubicato nella zona, non essendo le prospettazioni offerte nell’atto d’appello in merito ai pregiudizi derivanti sul piano del valore economico della proprietà e dell’integrità ambientale supportate da adeguata e concreta dimostrazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.06.2012 n. 3471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il rispetto delle regole partecipative cristallizzate dalla legge n. 241/1990 e della ratio che le anima, impone che la comunicazione di avvio del procedimento venga effettuata in tempo e con modalità tali da consentire la partecipazione influente ed efficace dei soggetti interessati al processo decisionale destinato a sfociare nella determinazione finale potenzialmente lesiva.
Ne deriva che il rispetto formale della disciplina di legge non esclude l’effetto invalidante sortito da una condotta amministrativa che, nel suo complesso, finisca per impedire una partecipazione utile da parte del soggetto portatore di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato.

Con riguardo alla censura volta a stigmatizzare la violazione del principio di partecipazione effettiva e utile al dispiegarsi del procedimento amministrativo, il Collegio non reputa condivisibile l’assunto sostenuto dal Primo Giudice secondo cui l’amministrazione avrebbe correttamente rispettato la disciplina di cui agli artt. 7 e seguenti della legge n. 241/1990 mentre esulerebbe dall’alveo della partecipazione obbligatoria sancita dalla legge la pretesa dell’appellante di interloquire con la Commissione Tecnica al fine di fornire il proprio apporto nel corso dei lavori sfocati nella relazione posta a fondamento del provvedimento di revoca.
Osserva, in via preliminare, la Sezione che il rispetto delle regole partecipative cristallizzate dalla citata legge n. 241/1990 e della ratio che le anima, impone che la comunicazione di avvio del procedimento venga effettuata in tempo e con modalità tali da consentire la partecipazione influente ed efficace dei soggetti interessati al processo decisionale destinato a sfociare nella determinazione finale potenzialmente lesiva. Ne deriva che il rispetto formale della disciplina di legge non esclude l’effetto invalidante sortito da una condotta amministrativa che, nel suo complesso, finisca per impedire una partecipazione utile da parte del soggetto portatore di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.06.2012 n. 3470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIGare, professionisti da non discriminare. Cds: il bando deve essere aperto.
È illegittimo l'operato di una stazione appaltante che, per affidare un incarico di progettazione e direzione lavori, ha invitato con procedura negoziata senza bando di gara soltanto i professionisti operanti nel territorio comunale.
È quanto ha affermato il Consiglio di stato, Sez. V, con la recente sentenza 13.06.2012 n. 3469 che ha preso in considerazione l'operato di una stazione appaltante che aveva esperito una procedura di affidamento per servizi di ingegneria e architettura (progettazione e direzione lavori) ai sensi dell'articolo 91 del Codice dei contratti pubblici che ammette la procedura negoziata senza bando di gara per gli incarichi al di sotto dei 100.000 euro di valore.
La stazione appaltante si era limitata ad invitare alcuni professionisti operanti nel territorio comunale e un raggruppamento di professionisti, poi risultato aggiudicatario dell'incarico operante al di fuori dell'area comunale.
I giudici hanno comunque dichiarato illegittimo il bando sia perché erano stati invitati professionisti locali, sia perché era mancata una vera e propria indagine di mercato. L'illegittimità è conseguente alla violazione di principi generali di origine comunitaria di non discriminazione e parità di trattamento che determina una barriera all'accesso al mercato «e non consente, quindi, limitazioni di accesso al mercato per ratione loci, ovvero in ragione dell'ubicazione della sede in un determinato territorio».
La sentenza chiarisce che la scelta di limitare la partecipazione ai professionisti locali, non supportata da un'indagine volta a verificare le professionalità più qualificate con riguardo all'oggetto della proceduta, si è, in definitiva, sostanziata in una limitazione territoriale aprioristica in contrasto con i principi comunitari in tema di tutela della concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, volti a garantire l'affermazione di un mercato comune libero da restrizioni discriminatorie collegate alla nazionalità o alla sede formale.
La sentenza non ritiene di legittimare l'operato della stazione appaltante neanche in relazione all'avvenuto invito del raggruppamento operante al di fuori del territorio comunale (poi risultato aggiudicatario), elemento inidoneo a documentare l'avvenuta indagine per selezionare le migliori esperienze, capacità economiche e qualifiche (articolo ItaliaOggi del 21.06.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Sulla verbalizzazione delle operazioni concorsuali.
E’ vero che il verbale è un atto che accede al provvedimento dal quale rimane distinto, per cui eventuali irregolarità del verbale non sempre comportano l’illegittimità della determinazione in esso consacrata.
Peraltro, ad avviso del Collegio, ciò vale fino a quando il verbale per quanto irregolare risponde alla sua funzione, consistente nel dare certezza circa le operazioni che si attesta siano state compiute, e circa i modi in cui queste sono state compiute.
Qualora l’irregolarità del verbale sia tale da non consentirgli di assolvere tale naturale funzione il provvedimento è inficiato dall’impossibilità di ricostruire la legittimità del procedimento che ha portato alla sua formazione.
Il principio appena enunciato è applicabile nel caso di specie.
Deve essere rilevato che la commissione di concorso ha approvato i verbali che ora interessano quasi un mese dopo lo svolgimento delle operazioni ivi attestate.
Un intervallo così lungo è tale da suscitare dubbi, in ragione della funzione della verbalizzazione in sé, sull’esattezza della narrazione dei fatti contenuta nel verbale.
Più in particolare, la redazione e l’approvazione tempestiva dei verbali sono necessarie quando con essi l’autorità procedente deve dar contezza di aver osservato l’ordine degli atti del procedimento.
Esigenza di trasparenza e di certezza che qui non è stata rispettata, in quanto la verbalizzazione della valutazione delle prove scritte è stata successiva alla data in cui erano state aperte le buste contenenti gli elaborati dei candidati, valutazione che quella data deve invece necessariamente precedere per la regola dell’anonimato, e a quella in cui è stato reso noto l’elenco degli ammessi alla prova orale.
Per questi motivi la verbalizzazione non può intervenire ex post come avvenuto nel caso di specie (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.06.2012 n. 3465 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’art. 11, comma 2, del decreto legislativo n. 157 del 1995 (poi trasfuso nell’art. 37, comma 2, del decreto legislativo n. 163 del 2006) -nella parte in cui ha previsto che l’offerta proveniente da un raggruppamento d’imprese ‹‹deve specificare le parti del servizio che saranno eseguite dalle singole imprese e contenere l’impegno che, in caso di aggiudicazione della gara, le stesse imprese si conformeranno alla disciplina prevista nel presente articolo›- si applica quando si tratti non solo si tratti di a.t.i. verticali, ma anche di a.t.i. orizzontali.
L’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria aveva ravvisato un contrasto di giurisprudenza.
Per un orientamento, l’art. 11, comma 2, si sarebbe riferito solo alle a.t.i. verticali e non anche a quelle orizzontali cfr. Cons. St., Sez. V, 26.11.2008, n. 5849; Sez. V, 04.05.2009, n. 2783; Sez. V, 28.02.2011, n. 1249),
L’Adunanza Plenaria –sulla base di una puntuale indicazione di cosa si debba intendere per a.t.i. verticali od orizzontali- ha invece aderito all’orientamento per il quale l’art. 11, comma 2, non ha distinto tra a.t.i. orizzontali e verticali, al fine dell’obbligo di specificare le ‹‹parti›› di servizio eseguite da ciascuna impresa (in tal senso, Cons. St., Sez. V, 28.08.2009, n. 5098; Sez. V 14.01.2009, n. 98) (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 13.06.2012 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’intensa urbanizzazione di un’area non riduce i vincoli paesaggistici.
Sotto tale aspetto i giudici di Palazzo Spada richiamano il consolidato orientamento secondo cui l’avvenuta edificazione di un'area o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall'intento di proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati, poiché l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l'imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell'integrità dello stesso.
Le avvenute modifiche dello stato dei luoghi non consentono dunque –anche in sede di esame di istanze di sanatoria- di ritenere compatibile col vincolo paesistico qualsiasi costruzione, dovendo l’amministrazione preposta alla tutela del vincolo valutare se la presenza dell’immobile in questione sia compatibile con i valori tutelati e, anzi, se essa precluda la riqualificazione dell’area (che costituisce una finalità primaria perseguita dalle leggi, in coerenza con il valore primario dei valori tutelati dall’art. 9 della Costituzione).
Si è osservato al riguardo che la qualificazione di rilevanza paesaggistico-ambientale di un sito non è determinata dal suo grado di inquinamento o alterazione -perché, allora, in tutti i casi di degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio riconosciuto meritevole di tutela-, con la conseguenza per cui l’esistenza del relativo vincolo serve piuttosto anche a prevenire l’aggravamento della situazione ed a perseguirne il possibile recupero (Cons. Stato, VI, 27.04.2010, n. 2377).
Non è stata accolta, pertanto, in questa circostanza la tesi secondo cui la Soprintendenza avesse omesso di valutare il carattere ormai intensamente urbanizzato dell’area che, secondo i ricorrenti, rendeva improbabile la motivazione fondata sul valore paesistico della stessa (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.06.2012 n. 3401 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La seconda posizione in graduatoria non giustifica l’accesso generalizzato agli atti di gara.
In relazione a tale circostanza, nella pronuncia in commento, i giudici del Consiglio di Stato hanno respinto l’istanza di accesso al contratto stipulato con l’aggiudicataria, alla progettazione esecutiva, agli atti aggiuntivi, alle perizie di variante, agli atti di sottomissione, ai verbali di sospensione e ripresa lavori, ai verbali di collaudo in corso d’opera, agli stati avanzamento lavori e agli ordini di servizio, così come a tutti gli altri atti citati, perché del tutto carente d’ interesse: né l’istanza, né il ricorso, né l’atto d’appello, infatti, hanno evidenziato un interesse tangibile alla richiesta di ostensione.
 La richiesta di accesso, sottolineano i giudici di Palazzo Spada, non può mai configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività, ma deve essere correlato ad uno specifico interesse anche non funzionalmente connesso ad una immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale.
In questa vicenda, l’interesse azionato a fondamento della richiesta d’accesso, secondo gli stessi giudici, non è risultato concreto, poiché non è stata precisata e specificata la natura: “la circostanza di essere il secondo graduato nella procedura di gara per l’affidamento del contratto, non giustifica certo una richiesta generalizzata di accesso di tutti gli atti attinenti alla fase esecutiva, tanto più in questa circostanza, ove la lite tra l’affidatario e l’Amministrazione è stata composta bonariamente” (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2012 n. 3398 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Ordinanze contingibili e urgenti (divieto di utilizzo di locale seminterrato adibito a luogo di culto).
La giurisprudenza ha costantemente affermato il principio secondo cui deve escludersi l'illegittimità del provvedimento amministrativo, fondato su una pluralità di autonomi motivi, quando ne esista almeno uno idoneo a sostenere l'atto stesso.
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Una volta provato, come è avvenuto attraverso i sopralluoghi per il procedimento edilizio e i controlli della Polizia Locale, che l’immobile (ndr: magazzino) viene utilizzato quale luogo di culto, da un numero di persone che, con alta probabilità, supera sistematicamente le 150 unità, l’adozione di un provvedimento di inibizione dell’uso dei locali si configura come atto dovuto, atteso che l’esigenza di garantire luoghi di ritrovo salubri e sicuri è ragione sufficiente a giustificare l’adozione di un provvedimento contingibile e urgente, volto a prevenire ed eliminare ogni possibile pericolo imprevedibile che può nascere da un assembramento di persone in luoghi chiusi.

Oggetto del presente ricorso è il provvedimento con cui il Comune di Legnano ha disposto il divieto di utilizzare il seminterrato di un immobile, sede di una associazione culturale, per le riunioni o gli incontri di preghiera.
Il provvedimento è qualificato come ordinanza contingibile ed urgente, ex art. 54 TUEL, ed è stato adottato a seguito di una istruttoria che verte sia sul profilo sanitario sia su quello della sicurezza.
L’Amministrazione già in precedenza aveva rilevato la violazione di disposizioni edilizie e aveva quindi ordinato la demolizione delle opere, con un provvedimento mai gravato e divenuto quindi inoppugnabile.
Due sono quindi i procedimenti, conclusisi con atti distinti: il procedimento edilizio, al cui esito si ordina la demolizione delle opere realizzate senza titolo; il procedimento de quo, relativo all’uso dell’immobile, utilizzo che contrasta, non solo con la destinazione dei locali (magazzino), ma anche con la disciplina igienico-sanitaria e con le norme di prevenzione incendi: stante quindi le accertate violazioni l’Amministrazione ha adottato un provvedimento ex art. 54 TUEL, per la evidente necessità di “tutelare la pubblica incolumità e sicurezza” di coloro che occupano l’immobile.
Così qualificato l’atto impugnato, il Collegio ritiene che i profili di illegittimità rilevati siano infondati, per cui si può prescindere dall’esame delle eccezioni preliminari sollevate dalla difesa dell’Amministrazione.
Alla base dell’ordine di non utilizzare l’immobile vi sono gli accertamenti della Polizia Locale, che in più occasioni (in particolare il 29.3.2010, 21.5.2010, 6.8.2010 e 3.9.,2010), ha verificato l’ingresso continuo di persone, anche fino a 400.
Poco rileva la circostanza, contestata da parte ricorrente, che vi sarebbe un via vai costante e quindi che non sarebbe provato l’esatto numero di persone presenti contestualmente nell’immobile: è infatti un dato accertato durante tutti i sopralluoghi, che intorno alle 12.30, più di 100 persone entrano nell’immobile, vi stanziano fino alle 15.30 e in questo lasso di tempo continuano ad entrare altri soggetti.
Questa situazione di fatto ha portato l’Amministrazione ad adottare l’ordinanza qui gravata, per la violazione della normativa igienico-sanitaria e di quella antincendio.
Va premesso, prima dell’esame dei singoli motivi, che il provvedimento in esame è un atto plurimotivazionale ed è quindi sufficiente la legittimità di un solo motivo per rendere legittimo il provvedimento. Al proposito occorre ricordare -perché utile nell'esame della fattispecie- che la giurisprudenza ha costantemente affermato il principio secondo cui deve escludersi l'illegittimità del provvedimento amministrativo, fondato su una pluralità di autonomi motivi, quando ne esista almeno uno idoneo a sostenere l'atto stesso (Cons. Stato sez. VI, 19.08.2009, n. 4975; 17.09.2009, n. 5544; 05.07.2010, n. 4243).
Nella prima censura, lamenta parte ricorrente l’errata applicazione delle disposizioni del regolamento di igiene, in quanto l’ASL farebbe riferimento ad una situazione ancora da accertare.
Il motivo non ha pregio.
Come sopra detto non può essere messo in dubbio che nel seminterrato stanzino un certo numero di persone: è quindi corretto il richiamo alle norme del Regolamento locale di igiene che per i locali seminterrati impone una serie di prescrizioni nel caso di permanenza di persone, requisiti assenti nel caso di specie: infatti ai sensi dell’art 3.6.4 la permanenza nei locali seminterrati è consentita a condizione che vi siano adeguate condizioni di altezza, di superficie e di aereoilluminazione. L’art 3.6.9 detta prescrizioni per le dimensioni delle scale; l’art 3.8.1. impone poi per i locali di ritrovo una cubatura pari a 4 mc. per ogni utente e almeno due servizi per ogni 200 utilizzatori.
La violazione di queste prescrizioni è stata accertata non solo dal Comune in sede di procedimento edilizio, ma anche dall’ASL nella nota del 27.04.2010, in cui vengono indicate le condizioni necessarie nell’ipotesi di uso dell’immobile “come locali di ritrovo”, circostanza che l’Autorità sanitaria ritiene debba essere accertata dall’Amministrazione Comunale.
Pertanto l’Autorità Sanitaria non si è limitata ad un richiamo generico di norme regolamentari, come sostenuto da parte ricorrente, ma ha indicato con precisione le norme che devono essere rispettate per l’uso dell’immobile quale luogo di ritrovo, demandando all’Amministrazione Comunale l’accertamento di questo profilo.
Il provvedimento richiama anche il parere dei Vigili del Fuoco del 03.06.2010, dove si afferma che i locali potrebbero avere i requisiti di sicurezza e salubrità a condizione che la capienza non superi le 150 unità, le uscite di sicurezza siano dotate di adeguata segnaletica e vi sia la documentazione prevista dal d.lgs. 81/2008.
Ma nello stesso parere si da atto che le vie di uscita non sono dotate di segnaletica e che il locale può avere i requisiti di sicurezza, solo se “la capienza massima non superi le 150 unità”.
Una volta quindi provato, come è avvenuto attraverso i sopralluoghi per il procedimento edilizio e i controlli della Polizia Locale, che l’immobile viene utilizzato quale luogo di culto, da un numero di persone che, con alta probabilità, supera sistematicamente le 150 unità, l’adozione di un provvedimento di inibizione dell’uso dei locali si configura come atto dovuto, atteso che l’esigenza di garantire luoghi di ritrovo salubri e sicuri è ragione sufficiente a giustificare l’adozione di un provvedimento contingibile e urgente, volto a prevenire ed eliminare ogni possibile pericolo imprevedibile che può nascere da un assembramento di persone in luoghi chiusi.
Per tali ragioni, l’ordinanza resiste alla prima censura e la motivazione igienico sanitaria e di sicurezza è sufficiente a sorreggere il provvedimento (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 08.06.2012 n. 1618 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINel caso di incorporazione o di fusione societaria, sussiste in capo alla società incorporante, o risultante dalla fusione, l’onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la società incorporata o le società fusesi, nell’ultimo triennio ovvero che sono cessati dalla relativa carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70 del 2011: nell’ultimo anno), fera restando la possibilità di dimostrare la c.d. dissociazione.
L’art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, sia prima che dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, impone la presentazione di una dichiarazione sostitutiva completa, a pena di esclusione, e tale dichiarazione sostitutiva deve essere riferita, quanto all’art. 38, comma 1, lett. c), anche agli amministratori delle società che partecipano ad un procedimento di incorporazione o di fusione, nel limite temporale ivi indicato.
In considerazione dei contrasti giurisprudenziali riguardanti l’ambito di applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. c), del decreto legislativo n. 163 del 2006, i concorrenti -che prima della pubblicazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 10 del 2012- non abbiano reso la dichiarazione di cui alla stessa lettera c) relativamente agli amministratori delle società partecipanti al procedimento di fusione o incorporazione - possono essere esclusi dalle gare solo se il bando abbia esplicitato tale onere di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione; in caso contrario, l’esclusione risulta legittima solo ove vi sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa la dichiarazione hanno pregiudizi penali.

Con la sentenza n. 21 del 2012, l’Adunanza Plenaria ha risolto le questioni controverse, riguardanti un caso in cui vi era stata una fusione di società, applicando i principi di diritto già espressi dalla medesima Adunanza con la sentenza n. 10 del 2012, riguardante un caso in cui vi era stata una cessione di azienda.
Va rimarcato come la stessa Adunanza Plenaria abbia elaborato i principi di diritto evidenziati nella massima, così assolvendo pienamente alla sua funzione nomofilattica, nell’ambito della giustizia amministrativa (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 07.06.2012 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Retribuzione pensionabile.
Le procedure che consentono il passaggio da un'area inferiore a quella superiore integrano un vero e proprio concorso, qualunque sia l'oggetto delle prove che i candidati sono chiamati a sostenere, ciò perché in materia di pubblico impiego il concorso costituisce (di norma) la regola generale, anche per l'accesso ad una fascia funzionale superiore, essendo lo stesso il mezzo maggiormente idoneo ed imparziale per garantire la scelta dei soggetti più capaci ed idonei ad assicurare il buon andamento della P.A..
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Anche la giurisprudenza contabile ha chiarito che le maggiori retribuzioni percepite in correlazione con lo svolgimento in via provvisoria di mansioni superiori, anche se svolte per un tempo considerevole, non rientrano nella nozione di "retribuzione pensionabile". Il compenso corrisposto per lo svolgimento di mansioni superiori non configura una retribuzione fissa e continuativa, ai fini delle disposizioni sul trattamento pensionistico dei dipendenti pubblici, e pertanto esso non concorre a formare la base pensionistica per la determinazione della quota di pensione da determinare con il sistema retributivo.
Del resto, nello stesso senso si colloca la giurisprudenza amministrativa, la quale in tema di benefici pensionistici (riconosciuti dalla l. n. 336 del 1970) ha chiarito che la norma ha puntuale riguardo alla sola qualifica di effettivo e formale inquadramento del dipendente, con la conseguenza che nessun rilievo potrebbe comunque essere riconosciuto, ai fini del beneficio di cui alla l. n. 336 citata, allo svolgimento di mansioni proprie di qualifiche superiori a quella formalmente rivestita.

Le doglianze del ricorrente si infrangono contro il consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso da questo Collegio, che -nell'ambito del pubblico impiego– predica che lo svolgimento di fatto da parte del dipendente di mansioni superiori a quelle dovute in base all'inquadramento è del tutto irrilevante, sia ai fini economici, sia ai fini della progressione di carriera, salva l'esistenza di un'espressa disposizione che disponga diversamente; né la domanda del dipendente, tesa ad ottenere la retribuzione superiore a quella riconosciuta dalla normativa applicabile, per effetto dello svolgimento delle mansioni superiori, può fondarsi sull'art. 36 Cost., in quanto il principio della corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla qualità e alla quantità del lavoro prestato non trova incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo con altri principi di pari rilievo costituzionali, quali quelli di cui agli artt. 97 e 98, ovvero sugli artt. 2126 c.c. (concernente solo l'ipotesi della retribuibilità del lavoro prestato sulla base di atto nullo o annullato) e 2041 c.c. stante, per un verso, la natura sussidiaria dell'azione di arricchimento senza causa e, per altro verso, la circostanza che l'ingiustificato arricchimento postula un correlativo depauperamento del dipendente, non riscontrabile e dimostrabile nel caso del pubblico dipendente che abbia comunque percepito la retribuzione prevista per la qualifica rivestita.
Nel caso di specie, non vi è alcuna norma che riconosca la qualifica superiore, in quanto anche l’art. 52 d.lgs. 165/2001 consente a date condizioni esclusivamente il corrispondente trattamento retributivo.
Del resto, nel pubblico impiego il principio sancito dall'art. 35, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, secondo il quale per la costituzione del rapporto di pubblico impiego devono superarsi procedure selettive, è applicabile, in via generale, anche con riferimento all'attribuzione al dipendente di una qualifica superiore (in base alle disposizioni contenute nei contratti collettivi cui rinvia l'art. 40 comma 1, dello stesso d.lgs.), dato che, a norma del successivo art. 52, comma 1, la qualifica superiore viene acquisita dal lavoratore "per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive"; pertanto, si deve ritenere che le procedure che consentono il passaggio da un'area inferiore a quella superiore integrano un vero e proprio concorso, qualunque sia l'oggetto delle prove che i candidati sono chiamati a sostenere, ciò perché in materia di pubblico impiego il concorso costituisce (di norma) la regola generale, anche per l'accesso ad una fascia funzionale superiore, essendo lo stesso il mezzo maggiormente idoneo ed imparziale per garantire la scelta dei soggetti più capaci ed idonei ad assicurare il buon andamento della P.A. (cfr., TAR Napoli Campania sez. V, 10.11.2011, n. 5274).
Va poi soggiunto che, anche a voler intendere la domanda del ricorrente come tesa ad ottenere solo la corresponsione del trattamento pensionistico corrispondente alla 2° qualifica dirigenziale ricoperta, la stessa è sconfessata dalla constatazione che le somme corrisposte per lo svolgimento di mansioni superiori non rientrano nella nozione di retribuzione pensionabile.
Anche la giurisprudenza contabile ha chiarito che le maggiori retribuzioni percepite in correlazione con lo svolgimento in via provvisoria di mansioni superiori, anche se svolte per un tempo considerevole, non rientrano nella nozione di "retribuzione pensionabile" (cfr., Corte Conti reg. Sicilia sez. giurisd., 20.12.2011, n. 4168). Il compenso corrisposto per lo svolgimento di mansioni superiori non configura una retribuzione fissa e continuativa, ai fini delle disposizioni sul trattamento pensionistico dei dipendenti pubblici, e pertanto esso non concorre a formare la base pensionistica per la determinazione della quota di pensione da determinare con il sistema retributivo (cfr., Corte Conti sez. II, 04.10.2010, n. 370).
Del resto, nello stesso senso si colloca la giurisprudenza amministrativa, la quale in tema di benefici pensionistici (riconosciuti dalla l. n. 336 del 1970) ha chiarito che la norma ha puntuale riguardo alla sola qualifica di effettivo e formale inquadramento del dipendente, con la conseguenza che nessun rilievo potrebbe comunque essere riconosciuto, ai fini del beneficio di cui alla l. n. 336 citata, allo svolgimento di mansioni proprie di qualifiche superiori a quella formalmente rivestita (cfr., Consiglio Stato, sez. VI, 05.10.2010, n. 7283).
Ne deriva, pertanto, che il ricorso va rigettato, in quanto lo svolgimento di mansioni superiori nel periodo interessato non consentiva il riconoscimento della corrispondente qualifica e che, in ogni caso, anche l’effettiva maggiorata retribuzione giustificata dallo svolgimento di compiti corrispondenti ad una qualifica superiore non incide sul trattamento pensionistico, non rientrando nella nozione di retribuzione pensionabile (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 06.06.2012 n. 1601 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Sopraelevazione a prova di sisma. Modifiche al tetto legittime se resistenti a eventi tellurici. La Cassazione sulle opere eseguite all'ultimo piano. Non basta che l'edificio supporti il peso.
La sopraelevazione, realizzata dal proprietario dell'ultimo piano di un condominio, è legittima non solo se l'edificio è in grado di sopportare il peso delle nuove strutture ma anche se sono state rispettate tutte le speciali prescrizioni antisismiche previste in relazione alle caratteristiche del territorio, in modo che il fabbricato sia idoneo a resistere alle sollecitazioni di un eventuale evento tellurico: in caso contrario la nuova struttura deve essere demolita.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Suprema corte di cassazione con la recente sentenza 30.05.2012 n. 8643.
La vicenda. Nel caso di specie il proprietario di un appartamento, che comprendeva i piani primo e terra del fabbricato, citava in giudizio la proprietaria dell'altra unità immobiliare, posta su più piani (dal secondo al quarto), accusandola di avere eliminato la scala interna di collegamento tra il primo e il secondo piano e, soprattutto, di avere sopraelevato, per renderlo abitabile, il preesistente sottotetto, eliminando parte del preesistente tetto comune e realizzando un terrazzo di uso esclusivo.
Secondo l'attore le opere eseguite si dovevano considerare illegittime e, quindi, si richiedeva il ripristino della precedente situazione o, in via subordinata, ove fosse stata ritenuta legittima la sopraelevazione eseguita, il pagamento dell'indennità di sopraelevazione prevista dalla legge e, in ogni caso, il risarcimento dei danni. Il proprietario dell'appartamento ristrutturato si difendeva rilevando che le opere contestate erano state realizzate dai precedenti proprietari, per cui chiedeva e otteneva la loro chiamata in giudizio per essere manlevato da ogni responsabilità. Questi ultimi, ritenuti i reali esecutori delle opere sopra dette, venivano condannati a risarcire i danni, nonché al pagamento dell'indennità prevista per la sopraelevazione (ritenuta legittima) a favore dell'attore.
La Corte di appello, invece, condannava al pagamento dei danni e dell'indennità sopra detta l'attuale proprietario dell'immobile, ritenendo i precedenti proprietari, che avevano alienato l'immobile nello stato di fatto in cui si trovava al momento delle compravendita, esenti da responsabilità. In ogni caso la stessa Corte ribadiva come il fabbricato fosse idoneo a fronteggiare il rischio sismico, come risultava da due relazioni tecniche secondo le quali nel caso in esame non si configuravano ampliamenti e sopraelevazioni tali da comportare l'adeguamento sismico.
Il proprietario dell'appartamento, comprensivo dei piani primo e terra del condominio, si rivolgeva però alla Cassazione perché considerava la sopraelevazione non conforme alla normativa antisismica. Del resto, quest'ultimo sottolineava come la Corte d'appello avesse fatto proprie le immotivate e contrastanti conclusioni cui era giunto il consulente tecnico incaricato, il quale, pur escludendo alcun pregiudizio alla statica dell'immobile, ammetteva che non era ancora stato rilasciato il certificato di legge, attestante la perfetta rispondenza dell'opera eseguita alle norme antisismiche, da ritenersi propedeutico al rilascio del certificato di agibilità da parte del comune.
La decisione. La Suprema corte, condividendo le precedenti considerazioni, ha ritenuto illegittima la sopraelevazione per mancanza della prova (e del certificato richiesto dalla legge) dell'esecuzione delle opere necessarie per scongiurare il rischio sismico.
In particolare i giudici supremi hanno ricordato che il divieto di sopraelevazione, per inidoneità delle condizioni statiche dell'edificio, previsto dalla normativa condominiale contenuta nel codice civile, va interpretato non nel senso che la sopraelevazione è vietata soltanto se le strutture dell'edificio non consentono di sopportarne il peso, ma nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le strutture siano tali che, una volta elevata la nuova fabbrica, non consentano di sopportare l'urto di forze in movimento, quali le sollecitazioni di origine sismica.
In altre parole, il diritto del condomino di sopraelevare sorge solo nel momento in cui la stabilità strutturale dell'edificio in condizioni di quiete lo consenta o, nelle zone sottoposte a rischio sismico, solo nel momento in cui la struttura del fabbricato sia adeguata al grado di sismicità della zona e, perciò, sia pronta a sopportare la sopraelevazione.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche, in ragione delle particolari caratteristiche del territorio, prescrivano cautele tecniche da adottarsi nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative del codice civile e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione, che può essere vinta esclusivamente mediante la prova, il cui onere incombe sull'autore della nuova fabbrica, che non solo la sopraelevazione ma anche la struttura sottostante sia idonea a fronteggiare il rischio sismico. Se tale prova non viene fornita, si presume l'instabilità della costruzione realizzata e, quindi, una situazione di pericolo permanente, da rimuovere senza indugio.
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Il proprietario deve corrispondere una indennità ai condomini.
Il diritto di sopraelevazione, al di fuori dei casi in cui sia escluso dal titolo o non sia esercitabile per i limiti obiettivi collegati alle esigenze di compatibilità statica o architettonica, si traduce in una facoltà strettamente collegata alla proprietà dell'ultimo piano o a quella esclusiva del lastrico solare. L'esercizio di detta facoltà con la realizzazione della sopraelevazione dà luogo all'aggiunta all'edificio condominiale di un nuovo piano o porzione di piano in proprietà individuale, che viene a partecipare al godimento delle parti comuni e genera, altresì, l'obbligo del sopraelevante di corrispondere agli altri condomini la c.d. indennità di sopraelevazione.
Circa la nozione oggettiva di sopraelevazione, la Corte di cassazione ha avuto modo di chiarire che «non costituisce esercizio del diritto di sopraelevazione la sostituzione, a opera del proprietario dell'ultimo piano di un edificio condominiale, del tetto con una terrazza, sulla considerazione che la diversa copertura realizzata, pur non eliminando la funzione originariamente svolta dal tetto, vale ad imprimere allo stesso, una destinazione ad uso esclusivo dell'autore dell'opera, costituendo alterazione della cosa comune che viene così sottratta al godimento collettivo» (Cassazione, sez II, 28/01/2005, n. 1737).
In un caso analogo, avente a oggetto la trasformazione di parte del sottotetto in terrazza a livello in uso esclusivo, la Suprema Corte, invocando principi già espressi in materia di uso più intenso delle parti comuni a opera di alcuni condomini, ha escluso che un condomino possa trasformare il tetto in terrazzo a uso esclusivo, essendo in tal modo alterata l'originaria destinazione della cosa comune (Cass. civ., sez II, sentenza n. 5753/2007). Le considerazioni svolte sinora valgono anche nel caso in cui gli interventi edificatori si traducano in opere di recupero di sottotetti all'interno dei quali siano ricavati uno o più appartamenti.
La titolarità del diritto di sopraelevazione. Il diritto di sopraelevazione è strettamente connesso alla proprietà dell'immobile e il suo esercizio, da parte del proprietario dell'ultimo piano, non è soggetto al preventivo consenso dell'assemblea. Dalla natura reale del diritto suddetto discende, inoltre, la sua imprescrittibilità. Dalla formulazione dell'art. 1127 c.c. deve ritenersi che la presenza di un proprietario esclusivo del lastrico solare escluda automaticamente la sussistenza del diritto di sopraelevazione in capo al proprietario dell'ultimo piano. Qualora, invece, il lastrico solare sia di proprietà comune dei condomini, il diritto di sopraelevazione spetta al proprietario dell'ultimo piano che, a seguito della nuova costruzione, dovrà ricostruire il lastrico solare comune a un livello superiore.
Qualora l'ultimo piano dell'edificio sia costituito da soffitte o da sottotetti, la giurisprudenza ha ritenuto che l'appartenenza di tali manufatti a soggetto diverso dal proprietario dell'ultimo piano faccia in modo che detti manufatti possano essere considerati piani ai sensi e agli effetti di cui all'art. 1127 c.c., con la conseguenza che il diritto alla sopraelevazione farà capo al proprietario di tali soffitte o sottotetti. Per contro, la proprietà comune di detti manufatti sposta in favore del proprietario dell'ultimo piano la facoltà di elevare nuovi piani o nuove fabbriche, fermo restando l'obbligo di ricostruire a un livello superiore i manufatti preesistenti alla sopraelevazione al fine di garantire l'uso comune degli stessi.
La c.d. indennità di sopraelevazione. L'indennità in questione è disciplinata dal comma 4 dell'art. 1127 c.c. e consiste in una misura compensativa riconosciuta agli altri condomini, il cui ammontare è pari al valore attuale dell'area da occuparsi con la nuova costruzione, diviso per il numero dei piani, ivi compreso quello da edificare, e detratto l'importo della quota spettante al sopraelevante. L'indennizzo non copre per intero la diminuzione di valore che le unità immobiliari in proprietà esclusiva subiscono per effetto della sopraelevazione in rapporto col valore dell'intero edificio e ciò in virtù del fatto che, da un lato, non si tratta di risarcimento da fatto illecito e che, dall'altro, il diritto di sopraelevare e, conseguentemente, di provocare tale diminuzione, sorge contemporaneamente al condominio e, quindi, chi acquista una unità immobiliare al di sotto dell'ultimo piano è a conoscenza del fatto che il valore della stessa rispetto al valore dell'intero edificio è suscettibile di diminuzione (in tal senso Cassazione, sez. II, n. 12880/2005).
L'obbligo di corresponsione dell'indennità trova fondamento nella necessità di compensare gli altri condomini della riduzione del valore delle quote di loro pertinenza sull'edificio condominiale, giacché colui che realizza la sopraelevazione va ad accrescere a scapito degli altri condomini la propria quota di partecipazione alla comunione.
D'altro canto il legislatore, nel riconoscere il diritto di sopraelevare al proprietario dell'ultimo piano o al proprietario esclusivo del lastrico solare, ha posto poi a carico di questi l'obbligo di corrispondere un'indennità agli altri condomini proprio con l'intento di compensarli della diminuzione patrimoniale delle loro quote per effetto della sopraelevazione (articolo ItaliaOggi Sette del 18.06.2012).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva e responsabilità dei singoli concorrenti.
Possono essere ascritte a tutti i partecipi della lottizzazione le condotte poste in essere anche da terzi che danno corso a interventi di urbanizzazione realizzati nell'interesse generale dei lotti, quali la realizzazione o il potenziamento di strade, fognature, altri servizi. Qualora, invece, si tratti di interventi effettuati da terzi su lotti distinti da quello dell'indagato deve distinguersi la posizione di coloro che hanno dato corso alla lottizzazione (venditore - lottizzatore) e quella di coloro che hanno successivamente partecipato come acquirenti di specifici lotti.
Mentre per i primi sussistono profili di responsabilità che discendono dalle condotte poste in essere dai singoli acquirenti, così che la permanenza del reato per il venditore-lottizzatore cessa solo col cessare delle ultime condotte altrui o con il verificarsi di interventi esterni che incidono sul reato (sequestro preventivo; intervento dell'ente territoriale competente), per i secondi, che non hanno dato causa alla lottizzazione nei termini fissati dall'art. 41 c.p., occorrerà di regola guardare alle condotte poste in essere dal singolo acquirente con riferimento al proprio lotto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.05.2012 n. 20671 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALIAl sindaco non serve il placet per la costituzione in giudizio.
Mani libere al sindaco. L'azione giudiziaria o l'impugnazione per conto del comune possono essere ben promosse direttamente dal primo cittadino senza una delibera ad hoc della giunta che lo autorizza a procedere. Con l'elezione diretta, infatti, il capo dell'amministrazione locale risulta portatore di un'investitura che proviene senza mediazione dagli stessi cittadini, mentre sono gli assessori a trovare nel sindaco la loro fonte di legittimazione. Insomma: non c'è bisogno di alcun placet della giunta affinché l'ente locale stia in giudizio.
Lo chiarisce il
TAR Sicilia-Catania, Sez. II, con la sentenza 28.05.2012 n. 1348
L'autorizzazione alle liti aveva un senso quando il sindaco era eletto dal Consiglio comunale e la giunta era comunque espressione del «parlamentino» locale. Ma da quasi vent'anni è il primo cittadino, eletto direttamente dal popolo, che si sceglie la sua squadra per governare l'amministrazione. Né bisogna dimenticare le modifiche al titolo V, parte seconda, della Costituzione che hanno accentuato il grado di indipendenza degli enti locali, che ormai rientrano nella categoria delle «autonomie territoriali».
Alla giunta sono conferite le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo che non sono riservate dalla legge al Consiglio; ai dirigenti comunali spetta la guida degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti, oltre che tutti i compiti non compresi espressamente tra le funzioni di indirizzo.
Niente da fare, nel caso di specie, per il candidato escluso da un concorso bandito da un comune del Messinese per la nomina del responsabile del settore affari generali e vicesegretario dell'ente locale. L'aspirante dirigente sostiene che l'atto di opposizione al ricorso straordinario sarebbe irrituale perché sottoscritto dal sindaco senza previa deliberazione della giunta. Ma quell'opposizione non ha natura processuale (nonostante un isolato precedente giurisdizionale di segno contrario).
L'eventuale passaggio dal ricorso straordinario alla sede giurisdizionale, infatti, segna anche la modifica del regime degli atti, che devono qualificarsi come processuali solo nel momento in cui si è realizzata definitivamente la trasposizione dal piano del ricorso straordinario a quello del ricorso giurisdizionale (articolo ItaliaOggi del 22.06.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Emissioni moleste e ripetitività della condotta.
Reati permanenti sono quelli nei quali l'offesa al bene giuridico tutelato si protrae nel tempo per effetto della persistente condotta del soggetto agente: la condotta illecita deve avere, dunque, carattere continuativo e ad essa l'agente può porre fine con condotta volontaria.
Il carattere continuativo delle emissioni moleste non si identifica con la ripetitività giornaliera delle stesse, bastando che esse si protraggano -senza interruzioni di rilevante entità- per un lasso apprezzabile di tempo a cagione delta duratura condotta colpevole del soggetto agente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.05.2012 n. 19637 - tratto da www.lexambiente.it).

INCARICHI PROGETTUALI: È necessaria la gara per l'incarico di studio della vulnerabilità sismica di un ospedale.
L'incarico di esecuzione di attività di studio e valutazione della vulnerabilità sismica di determinati ospedali è necessariamente assoggettato a procedura di aggiudicazione di appalto, cui è applicabile la direttiva 2004/18. L'incarico di esecuzione di attività di studio e valutazione della vulnerabilità sismica di determinati ospedali è necessariamente assoggettato a procedura di aggiudicazione di appalto, cui è applicabile la direttiva 2004/18. Dato che, in questa occasione, non è stata indetta una gara, è stata riscontrata una violazione della direttiva. Siccome la normativa nazionale ammette accordi come quelli tra ASL e Università, essa è a sua volta contraria alla direttiva.
Ne consegue che, la direttiva 2004/18, in particolare gli articoli 1, paragrafo 2, lettere a) e d), 2, 28, nonché l'allegato II, categorie 8 e 12, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una disciplina nazionale che consente la stipulazione di accordi in forma scritta tra un'amministrazione aggiudicatrice ed un'Università di diritto pubblico per lo studio e la valutazione della vulnerabilità sismica di strutture ospedaliere da eseguirsi alla luce delle normative nazionali in materia di sicurezza delle strutture ed in particolare degli edifici strategici, verso un corrispettivo non superiore ai costi sostenuti per l'esecuzione della prestazione, ove l'Università esecutrice possa rivestire la qualità di operatore economico (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Avvocato Generale Verica Trstenjak, conclusioni 23.05.2012 n. C-159/11 - link a http://eur-lex.europa.eu).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATASulla non assimilabilità dei SIC e delle ZPS alle aree naturali protette di cui alla l. 394/1991.
Come si è evidenziato in narrativa, la Regione appellante ha incentrato le proprie tesi sulla non assimilabilità dei SIC e delle ZPS alle aree naturali protette di cui alla l. 394/1991.
In particolare, la Regione ha negato che una siffatta assimilazione sia stata introdotta dalla deliberazione del Comitato di cui all’articolo 3 della legge n. 394 del 1991 adottata in data 02.12.1996.
Ebbene, ad avviso del Collegio l’appello in epigrafe è meritevole di accoglimento laddove osserva che la deliberazione da ultimo richiamata non ha potuto sortire il richiamato effetto di assimilazione per non essere stata adottata nelle forme di legge.
Ed infatti, l’articolo 3, comma 4, lettera c), della legge n. 394, cit. demanda al Comitato (inter alia) il compito di approvare l’elenco ufficiale delle aree naturali protette previo esperimento di un iter procedurale il quale vede il coinvolgimento della Commissione per la tutela delle aree protette (in seguito: della Conferenza permanente per i rapporti i fra lo Stato e le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano).
In particolare, l’iter in questione contempla:
a) l’espletamento di una fase istruttoria preliminare, svolta da un’apposita segreteria tecnica;
b) la presentazione di una proposta di aggiornamento dell’elenco delle aree naturali protette da parte del competente Ministero dell’Ambiente (in seguito: Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare);
c) l’approvazione della proposta ad opera del comitato;
d) l’effettivo aggiornamento dell’elenco delle aree naturali protette.
Ebbene, risulta in atti che nel caso in esame l’iter dinanzi sinteticamente descritto non sia stato osservato e che, conseguentemente, non possa ritenersi che l’atto del Comitato in data 02.12.1996 possa tenere il luogo di una modifica dell’elenco delle aree naturali protette (del resto, il Comitato in parola non ha mai provveduto ad aggiornare l’elenco conformemente a quanto deliberato con l’atto in questione).
Ne consegue che venga meno lo stesso presupposto logico posto a fondamento della pronuncia in epigrafe (ossia, la circostanza per cui la delibera regionale impugnata in primo grado avrebbe comportato misure di conservazione delle ZPS nella Regione Campania di carattere peggiorativo rispetto a quanto stabilito ai sensi del comma 3 dell’articolo 4 del d.P.R. n. 357 del 1997).
E infatti, l’argomento fatto proprio dai primi Giudici (il quale si fonda sulla disposizione secondo cui, laddove una ZPS ricada all’interno di un’area naturale protetta, si applicano le misure di tutela previste per le stesse ZPS) potrebbe essere condiviso solo laddove fosse valida la sua premessa maggiore (ossia, il fatto che la delibera del Comitato del dicembre 1996 abbia determinato l’effettiva assimilazione fra le ZPS e le aree protette di cui alla l.n. 394 del 1991).
Tuttavia, una volta caduta –per le ragioni dinanzi richiamate– la predetta assimilazione, vengono conseguentemente a cadere anche le ulteriori ragioni in base alle quali il TAR ha rilevato l’illegittimità della più volte richiamata delibera regionale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.05.2012 n. 2885 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa cessione di azienda o di un ramo d’azienda, sebbene comporti una successione a titolo particolare, implica la trasmissione all’avente causa dell’intero complesso dei rapporti attivi e passivi nei quali l’azienda stessa o il suo ramo si sostanzia, sicché è configurabile una continuità tra la precedente e la nuova gestione imprenditoriale, fermo restando che il cessionario può comprovare che nel caso concreto vi è stata una cesura tra la vecchia e la nuova gestione, tale da escludere la rilevanza della condotta dei precedenti amministratori e direttori tecnici, che prestavano la loro attività nel complesso aziendale ceduto.
Con riferimento alla normativa vigente prima delle modifiche disposte dalla l. 12.07.2011, n. 106, ai sensi dell’art. 38, co. 2, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 il cessionario di azienda o di un ramo d’azienda aveva l’onere di presentare la dichiarazione relativa alla insussistenza di una sentenza di condanna passata in giudicato (o di un decreto penale di condanna irrevocabile, ovvero di una sentenza di applicazione della pena su richiesta) per i reati ivi previsti, anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che avevano lavorato presso la cedente nell’ultimo triennio.

La sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 10 del 2012 ha composto il precedente contrasto di giurisprudenza, evidenziando –chiarendo le relative conseguenze- che, nel rispetto dei principi di tipicità e di tassatività delle cause di esclusione dalle gare d’appalto, l’art. 38, co. 1, lett. c), del Codice dei contratti pubblici è suscettibile di una interpretazione tale da indurre a ritenere che le dichiarazioni ivi previste vanno rese anche con riferimento alle persone degli amministratori e dei direttori tecnici che abbiano lavorato presso la cedente, nel caso di cessione di azienda o di un ramo d’azienda (nell’ultimo triennio, prima delle modifiche disposte dalla l.n. 106 del 2011, che hanno ridotto il rilievo temporale all’ultimo anno) (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 04.05.2012 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn sede di applicazione dell’art. 38, co. 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, e anche per le gare bandite prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, la sussistenza di una ‘violazione grave’, definitivamente accertata, delle disposizioni in materia previdenziale e assistenziale non può essere valutata caso per caso dalla stazione appaltante, poiché la relativa verifica rientra nell’ambito delle competenze degli istituti di previdenza, le cui certificazioni (sul d.u.r.c.) non possono essere sindacate nel corso della gara d’appalto.
L’assenza del requisito della regolarità contributiva, alla data di scadenza del termine di presentazione dell’offerta, comporta l’esclusione del concorrente, che non può avvalersi di una successiva regolarizzazione della sua posizione.

La sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2012 ha esaminato l’evoluzione della normativa e della giurisprudenza in tema di dichiarazione dei partecipanti alle gare d’appalto, riguardanti la regolarità dei pagamenti dei contributi previdenziali e assistenziali.
Superando le diversità delle normative precedentemente in vigore, il Codice dei contratti pubblici del 2006 aveva già previsto che l’esclusione del partecipante si ha solo quando vi è una ‘grave violazione’.
Al riguardo, erano sorte però discussioni sulla sussistenza o meno del potere della stazione appaltante di pronunciarsi sulla gravità della violazione.
La giurisprudenza e l’Autorità di vigilanza si erano già espresse nel senso della insussistenza di tale potere, ciò che è stato poi disposto sul piano normativo dal d.l. n. 70 del 2011, poi convertito nella l. n. 106 del 2011.
Quanto alla impossibilità che una regolarizzazione ‘tardiva’ possa consentire la partecipazione alla gara, l’Adunanza Plenaria ha ribadito il consolidato orientamento in materia del Consiglio di Stato (cfr. sez. VI, 12.01.2011, n. 104; sez. VI, 05.07.2010, n. 4243) (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 04.05.2012 n. 8 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 18.06.2012

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NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone dossier ANNULLAMENTO e/o IMPUGNAZIONE P.d.C..

Inserito il nuovo bottone dossier PISCINE.

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Ecco il minisito della Regione Lombardia sul cosiddetto Piano Casa-bis (link a www.riqualificazioneurbana.regione.lombardia.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: E. Follieri, L'elemento soggettivo nella responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi (link a www.ipsoa.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Da pubblico a privato ... con qualche problema (CGIL-FP di Bergamo, nota 09.06.2012).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla possibilità di trasformare un contratto da tempo parziale a tempo pieno utilizzando le somme delle cessazioni intervenute negli anni precedenti o comunque utilizzare i resti delle cessazioni di personale negli anni precedenti in aggiunta a quelli degli anni successivi per poter procedere a nuove assunzioni ai fini dell’applicazione delle norme limitative in tema di assunzioni di personale negli enti locali (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 06.06.2012 n. 176).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: RUP e dipendenti a tempo determinato.
Secondo la Corte dei Conti, sezione di controllo per la regione siciliana, come da parere 04.06.2012 n. 148, il disposto dell'art. 10, comma 5, del d.lgs. 163/2006 ed il relativo regolamento attuativo approvato con d.p.r. 207/2010 (art. 272), portano a ritenere che:
- le funzioni di RUP possono essere attribuite solo ai dipendenti di ruolo dell'ente, di adeguata competenza e professionalità;
- la circostanza della "accertata carenza" di dipendenti di ruolo deve essere intesa quale assenza, tra i dipendenti in organico, di funzionari e/o dirigenti in possesso dei requisiti tecnici necessari, e non come mera indisponibilità per sovraccarico di lavoro (link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Economie fondo risorse decentrate e art. 9, comma 2-bis, d.l. 78/2010.
La Corte dei Conti, sezione regionale Puglia, con il parere 15.02.2012 n. 21 risponde al Comune di Lucera che chiede: "se sia possibile considerare le risorse di cui all'art. 24, comma 2, del CCNL del 14.09.2000 a carico del fondo delle risorse decentrate, non corrisposte, quale economia di spesa e conseguentemente la loro soggezione, o meno, ai parametri introdotti dall'art. 9, commi 1 e 2-bis, del DL 78/2010".
La Corte dà la seguenti risposte:
- "... ai fini del trattamento economico complessivo dell'anno 2010 che costituisce per ogni singolo dipendente il tetto di spesa per il triennio 2011-2013 non deve essere ricompresa l'indennità di cui all'art. 24, comma 2, del CCNL del 14.09.2000 in quanto avente natura variabile essendo legata allo svolgimento di attività lavorativa in giorno festivo infrasettimanale"
- "Il Comune di Lucera riferisce che in applicazione dei principi espressi in una sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Sez. Lav. n. 8458 dell'08.04.2010) non viene più erogata al personale turnista l'indennità prevista dall'art. 24, comma 2, del CCNL del 2000. La mancata erogazione dell'indennità in parola determina economie che possono essere utilizzate per il finanziamento di altre voci del trattamento accessorio definite a livello di contrattazione decentrata"
- "Infatti, come già anticipato l'art. 9, comma 2-bis, pone un limite all'ammontare complessivo delle risorse decentrate -che devono essere ricondotte alla misura impegnata nell'esercizio 2010- senza incidere sulla misura delle singole voci del trattamento accessorio. Conseguentemente, queste ultime possono subire variazioni in aumento o in diminuzione in relazione agli esiti della contrattazione per la ripartizione annuale del fondo di cui all'art. 15 del CCNL dell'01.04.1999"
- "E' appena il caso di precisare che nell'ipotesi in cui l'applicazione del comma 2-bis determini delle economie rispetto all'importo del fondo per la contrattazione decentrata quantificato sulla base della normativa contrattuale vigente, tali economie, nonostante quanto previsto dall'art. 17, comma 5, del CCNL dell'01.04.1999, non potranno essere accantonate per essere utilizzate a decorrere dal 2014" (tratto da www.publika.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Indicazioni applicative sui requisiti di ordine generale per l’affidamento dei contratti pubblici (determinazione 16.05.2012 n. 1 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Gare, esclusi solo in caso di dolo. Prevenzione antimafia: quello che i concorrenti devono fare. La determinazione dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici sarà pubblicata in G.U..
Esclusione dalle gare per falsa dichiarazione fino ad un anno soltanto se l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici accerta il dolo o la colpa grave del concorrente. È questo uno dei chiarimenti forniti con la determinazione 16.05.2012 n. 1 dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, di prossima pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, che interviene sulla delicata materia della disciplina delle cause di esclusione previste dall'articolo 38 del Codice dei contratti pubblici, dopo le modifiche del quadro normativo apportate negli ultimi mesi.
In particolare, fra i diversi chiarimenti forniti dall'organo di vigilanza presieduto da Sergio Santoro, merita di essere segnalato quello relativo all'articolo 38, comma 1, lettera b del Codice, sulle misure di prevenzione antimafia; a tale riguardo si precisa che per «socio di maggioranza», in caso di società con meno di quattro soci, che deve rendere la dichiarazione occorre fare riferimento al soggetto che detiene il controllo della società e che se vi sono due soci al 50% la dichiarazione sull'inesistenza di misure di prevenzione deve essere resa da entrambi. I controlli, su questo aspetto, le stazioni appaltanti dovranno effettuarli presso il tribunale di residenza del dichiarante e oggetto della verifica dovranno essere i «procedimenti pendenti a seguito di iscrizione della proposta di applicazione della misura nel registro del tribunale».
Per quel che concerne la modifica sull'art. 38, comma 1, lettera c (moralità professionale) l'Autorità chiarisce che, con riguardo ai soggetti «cessati dalla carica» (che abbiano commesso reati incidenti sulla moralità professionale), il concorrente dimostra la dissociazione da tali soggetti con atti quali un'azione risarcitoria, una denuncia penale, ma anche e soprattutto con l'estromissione dalla compagine sociale e da tutte le cariche, con l'assenza di ogni collaborazione, con il licenziamento e l'avvio di una azione risarcitoria.
Rispetto all'innovazione della legge 44/2012 sul tema delle irregolarità fiscali l'Autorità precisa che non si intendono scaduti ed esigibili i debiti fiscali per i quali sia stato concordato un piano di rateazione e il contribuente sia in regola con i pagamenti, ma a condizione che il soggetto dimostri di avere beneficiato della rateazione e sia in regola entro al data di scadenza della presentazione della domanda di partecipazione alla gara o di presentazione dell'offerta.
Infine, rispetto all'esclusione per falsa dichiarazione (che consegue all'iscrizione nel casellario disposta dall'Autorità, quest'ultima precisa che il sistema giuridico del comma 1-ter dell'articolo 38 del Codice prevede un doppio binario: l'esclusione dalla gara viene disposta dalla stazione appaltante per ogni falsa dichiarazione e l'esclusione da tutte le gare fino a un anno dalle gare può essere comminata dall'Autorità dopo un procedimento in cui sia rilevato il dolo o la colpa grave del concorrente; la sanzione dell'iscrizione nel casellario non è quindi mai automatica ma viene irrogata dopo un accertamento effettuato dall'Autorità sull'elemento soggettivo (dolo o colpa grave) (articolo ItaliaOggi del 13.06.2012 - tratto da www.corteconti.it).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - URBANISTICA - VARI: Aree fabbricabili assoggettate all'IMU.
Domanda
Quando il Comune attribuisce ad un terreno la natura di area fabbricabile deve dare comunicazione al proprietario del terreno?
Risposta
Quando ad un terreno viene attribuita la natura di area fabbricabile il Comune deve dare comunicazione al proprietario.
Le aree fabbricabili sono assoggettate all'IMU, in tal senso il comma 2 dell'art. 13 del D.L. 06-12-2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della L. 22-12-2011 n. 214.
In base alle disposizioni contenute nell'art. 5, comma 5, del D.Lgs. 30-12-1992, n. 504, la base imponibile delle aree fabbricabili è data dal valore venale in comune commercio al 1° Gennaio dell'anno di imposizione, avendo riguardo: alla zona territoriale di ubicazione, all'indice di edificabilità, alla destinazione d'uso consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione, ai prezzi medi rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe caratteristiche.
Il contribuente, ai fini della determinazione della base imponibile in materia di aree fabbricabili, deve tener conto degli elementi innanzi visti, individuati ai fini della quantificazione del valore dell'area.
Nel caso in cui un terreno diventa area edificabile occorre che al proprietario venga data apposita comunicazione. A questo riguardo l'art. 31, comma 20, della L. 27-12-2002, n. 289, dispone che "I comuni, quando attribuiscono ad un terreno la natura di area fabbricabile, ne danno comunicazione al proprietario a mezzo del servizio postale con modalità idonee a garantirne l'effettiva conoscenza da parte del contribuente".
In sostanza, la norma ha il fine di fornire le garanzie procedimentali poste a tutela del contribuente assurte a principio generale dell'ordinamento tributario ad opera dell'art. 6 della L. 27-07-2000, n. 212, che ha stabilito in maniera generalizzata l'obbligo di informazione a carico del Comune, ogni qualvolta ci si trovi di fronte ad ogni fatto o circostanza dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito ovvero l'irrogazione di una sanzione a carico del soggetto interessato.
In merito agli aspetti operativi, si ritiene che l'Ente Locale possa disciplinare autonomamente la procedura adottando lo schema più confacente alla propria organizzazione. Bisogna, comunque, tener presente che, in caso di mancata comunicazione dell'intervenuta edificabilità dell'area, si applica l'art. 10, comma 2, della L. 27.07.2000, n. 212, il quale, a tutela dell'affidamento e della buona fede del contribuente, prevede che "non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell'amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall'amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell'amministrazione stessa" (14.06.2012 - tratto da www.diritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAI rifiuti da trattamento meccanico dei rifiuti urbani sono rifiuti urbani o rifiuti speciali? (11.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANel decreto penale di condanna si può disporre la confisca del mezzo utilizzato per il traffico illecito di rifiuti? (11.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACome è classificato il reato di deposito incontrollato di rifiuti? (11.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIACosa è la “Carta dei Principi per la Sostenibilità ambientale”? (11.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Tutela degli habitat.
Domanda.
Vorrei sapere quali sono gli scopi della direttiva «habitat».
Risposta.
La direttiva 92/43/Ue ha per scopo quello di conservare la biodiversità negli stati membri dell'Unione europea. A tal fine essa definisce un quadro comune per la conservazione degli habitat, degli animali e delle piante di interesse comunitario.
La predetta direttiva stabilisce la rete Natura 2000, che è la più grande rete ecologica del mondo. Costituiscono detta rete le zone speciali di conservazione designate dagli Stati membri alla luce della suddetta direttiva.
La direttiva 92/43/Ue, summenzionata, include, pure, le zone di protezione speciale istituite dalla direttiva 2009/147/Ce (versione codifica della direttiva 79/409/Ue), cosiddetta direttiva «uccelli».
La rete Natura 2000 è data, pertanto, da un complesso di siti caratterizzati dalla presenza di habitat e specie sia vegetali, sia animali, di interesse comunitario. Detti habitat e specie vegetali ed animali sono indicati negli allegati I e II della suddetta direttiva. Funzione della rete Natura 2000 è quella di garantire, in tutte le sue componenti, la sopravvivenza a lungo termine della biodiversità presente sul continente europeo, riconoscendo l'interdipendenza di elementi biotici, abiotici e antropici.
La Corte di giustizia delle Comunità europee, sezione IV, con la sentenza del 09.06.2011 (causa C-383/09) ha dichiarato la Repubblica francese inadempiente alla succitata direttiva 92/43/Ue (articolo 12, numero1, lettera d) per non avere istituito, dal 2008, un programma di provvedimenti idonei ad assicurare una rigorosa tutela del criceto comune (Cricetus cricetus), specie protetta ed in via di estinzione nella regione dell'Alsazia.
Il criceto comune (Cricetus cricetus), detto anche criceto europeo, è l'unica specie tra quelle dei criceti che vive, in Europa, ancora allo stato selvaggio. Detta specie incorre nella minaccia di estinzione a causa dello sfruttamento a scopo agricolo del suo territorio, del suo habitat (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.06.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti non pericolosi.
Domanda.
Si chiede se possa essere sottoposto a confisca un mezzo utilizzato per trasporto, in conto proprio, di rifiuti speciali non pericolosi da un soggetto non iscritto all'albo nazionale gestori ambientali.
Risposta.
È da premettere, innanzitutto, che il legislatore con l'articolo 212 del decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006, ha istituito, presso il Ministero dell'ambiente, l'albo nazionale gestori ambientali. Detto albo succede al precedente albo nazionale gestori rifiuti e si articola in un Comitato nazionale ed in sezioni regionali e provinciali.
Ora, in assenza di iscrizione al predetto albo nazionale gestori ambientali, il trasporto di rifiuti speciali non pericolosi costituisce reato, ai sensi dell'articolo 256, commi 1 e 4 del citato decreto legislativo numero 152, del 2006. E la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 23.02.2011, numero 6890, ha affermato che, nella fattispecie, è legittimo il sequestro del mezzo di trasporto, quando di esso si abbia la libera disponibilità e ciò in considerazione del fatto che esso, per le sue intrinseche caratteristiche costruttive, è destinato al trasporto di materiali e inoltre è stato utilizzato per il trasporti illecito di rifiuti dal proprietario di impresa individuale, il quale, svolgendo attività tesa alla produzione di rifiuti, può commettere altri reati utilizzando detto mezzo di trasporto. Per la Suprema corte, poi, è obbligatoria, in tema di rifiuti, anche se non pericolosi, la confisca del mezzo di trasporto, ai sensi dell'articolo 259, del summenzionato decreto legislativo numero 152, del 03.04.2006.
Scrive la Corte di cassazione, al riguardo, con riferimento alla precedente sentenza della stessa Corte numero 10710, del 2009, sezione III penale, che la confisca, prevista dalla citata disposizione in materia di rifiuti, già contemplata dal decreto legislativo numero 22, del 1997, «è stata imposta dal legislatore a seguito di una evidente presunzione di pericolosità del mezzo di trasporto utilizzato per lo svolgimento dell'attività illecita e si giustifica non per la pericolosità intrinseca della cosa, ma per la funzione generalpreventiva-dissuasiva attribuitale dal legislatore, con connotati repressivi propri delle pene accessorie e, pertanto, può prescindere dalla pericolosità intrinseca della cosa».
Nel caso, il legislatore ha escluso ogni discrezionalità del giudice, stabilendo una presunzione assoluta iuris de iure di pericolosità del mezzo di trasporto (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.06.2012).

NEWS

EDILIZIA PRIVATADECRETO CRESCITA/ L'esecutivo ha allargato la detrazione per lavori entro il 30/06/2013.
Ristrutturazione con tetto ampio. Sconto del 50% su spese fino a 96 mila euro. Ma a tempo.
Detrazione del 50% su un ammontare raddoppiato delle spese per il recupero del patrimonio edilizio (da 48 mila a 96 mila euro), ma a tempo (fino al 30/06/2013).
Questo ciò che emerge dal tenore letterale dell'articolo 11, dello schema di decreto crescita, come approvato dal consiglio dei ministri (si veda ItaliaOggi dell'08 e 15.06.2012).
Le disposizioni sono da considerare fuori sistema in quanto, per espressa previsione normativa, le stesse non modificano i contenuti dell'articolo 16-bis, dpr 917/1986 (Tuir) che ha messo a regime il bonus del 36% (e dal 2013 quello del 55% che sarà assorbito dal 36%), ma intervengono in modo straordinario sulla detrazione, innalzandola al 50% e fissando un tetto maggiore (96 mila euro).
Infatti, la conseguenza è che, fatti salvi altri interventi su tali disposizioni, il 36% non sparirà dall'01.07.2013, ma tornerà a regime con la soglia delle spese fissata a 48 mila euro e con la percentuale di detrazione al 36%, mentre dalla data di entrata in vigore del decreto legge in commento fino alla data del 30.06.2013, il bonus sarà determinato applicando la percentuale del 50% all'ammontare raddoppiato e pari a 96 mila delle spese sostenute per ogni unità immobiliare.
Inoltre, per il semplice fatto che la detrazione per la riqualificazione energetica degli edifici, fissata attualmente nella misura del 55%, a partire dall'01.01.2013 sarà assorbita da quella sulla ristrutturazione edilizia, la percentuale scende a regime al 36% da calcolarsi su un tetto di spesa di euro 48 mila, con il contemporaneo innalzamento al 50% e su un ammontare di 96 mila a partire dall'inizio del prossimo anno e sino al 30.06.2013.
La detrazione, inoltre, si rende applicabile anche alle spese destinate agli interventi di sostituzione di scaldacqua tradizionali con scalda acqua a pompa di calore dedicati alla produzione di acqua calda sanitaria.
In pratica, il contribuente che vorrà beneficiare della detrazione maggiorata dovrà velocizzare i tempi per l'ottenimento delle autorizzazioni, se necessarie e se si tratta di un nuovo intervento, procedendo altrettanto celermente a disporre i bonifici, in modo tale da eseguire i pagamenti nell'intervallo indicato, compreso tra la data di emanazione del decreto legge in commento e il 30.06.2013.
Pertanto, i contribuenti, stante la soppressione dell'obbligo di preventiva comunicazione al Centro operativo di Pescara (Agenzia delle entrate, circolare 19/E/2012 § 1), dovranno ottenere e tenere a disposizione, se necessario, il titolo autorizzativo all'esecuzione dei lavori (concessione, autorizzazione o comunicazione inizio lavori), eseguire i lavori nel rispetto del tetto complessivo di euro 96 mila con acquisizione delle relative fatture dei prestatori al momento del pagamento (art. 6, dpr n. 633/1972) nel periodo in cui vale l'innalzamento del tetto, eseguendo i relativi bonifici dai quali risultino, in modo inequivocabile, la causale del versamento, il codice fiscale del beneficiario della detrazione e il numero di partita Iva o il codice fiscale del soggetto cui il bonifico è destinato (Agenzia delle entrate, risoluzione n. 55/E/2012).
Sul punto è utile evidenziare, inoltre, che il comma 3 dell'articolo 11 in commento ha abrogato il tetto «complessivo» per unità immobiliare, con la conseguenza che a decorrere dall'01/01/2012, in presenza di lavori che proseguono in più periodi d'imposta sulla medesima unità e fatto salvo che si tratti di un nuovo intervento, si potrà replicare il bonus fino alla concorrenza di 48 mila euro a regime, di cui all'art. 16-bis del Tuir, per ogni annualità.
Al contrario e stante il tenore letterale delle disposizioni in commento, tale situazione non può essere confermata per quanto riguarda le spese sostenute (pagate) nel periodo tra la data di entrata in vigore del decreto e il 30/06/2013 giacché il legislatore ha disposto che la detrazione del 50% spetta «_ fino a un ammontare complessivo delle stesse non superiore a 96 mila euro per unità immobiliare_»; di conseguenza, salve diverse precisazioni, si ritiene che nell'intervallo indicato il massimo bonus ottenibile è pari a euro 48 mila euro (50% di 96 mila), da spalmare in dieci annualità (4.800 euro per anno), sia che l'ammontare sia sostenuto in due esercizi distinti o tutto in un solo esercizio.
Si ponga, per esempio, che il contribuente dopo l'entrata in vigore del decreto e nel corso del 2012, sostenga 50 mila euro di spese e ne sostenga altrettante nel corso del 2013, sino al 30 giugno: con Unico PF 2013, potrà iniziare a dedurre la prima quota di dieci, pari a euro 2.500 (50.000 x 50% = 25.000 : 10) e con la dichiarazione dell'anno successivo la prima quota pari a euro 2.300 (46.000 x 50% = 23.000 : 10), per un bonus complessivo, a fine del decennio, pari a euro 48 mila (articolo ItaliaOggi del 16.06.2012).

ENTI LOCALIENTI LOCALI/ In G.U. l'avviso per le candidature. Revisori, ora si parte. Domande al Viminale entro il 15/7.
Al via l'elenco dei revisori degli enti locali. L'avviso per presentare le domande di inserimento nella lista degli aspiranti controllori dei bilanci è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (serie speciale) di ieri n. 138/2012. E con la pubblicazione in G.U. parte ufficialmente il timing di 30 giorni per l'invio delle candidature al ministero dell'interno. Ci sarà dunque tempo fino al 15 luglio per trasmettere le domande al dipartimento finanza locale del Viminale.
L'invio dovrà avvenire esclusivamente per via telematica attraverso una procedura messa a disposizione degli utenti a tempo di record già dalla giornata di ieri. Sul sito www.finanzalocale.interno.it i revisori troveranno la procedura di iscrizione cliccando sul link «elenco revisori enti locali». Qui, utilizzando come identificativo il proprio indirizzo di posta elettronica certificata, dopo aver seguito tutti gli step di registrazione, riceveranno una password con cui accedere alla propria domanda.
Sul sito della direzione guidata da Giancarlo Verde i revisori possono anche trovare un utile elenco di Faq per fugare i dubbi più ricorrenti. Tra questi c'è sicuramente la precisazione, ribadita anche dal Viminale, che iscriversi all'albo non è essenziale per le cariche in atto, ma se si vuole partecipare ai sorteggi per altre cariche future è necessario iscriversi.
Quanto ai requisiti di formazione, si precisa che potranno essere inseriti solo corsi sostenuti nel triennio 2009-2011. Il ministero ha predisposto un servizio assistenza attivo dal lunedì al venerdì dalle ore 8,00 alle ore 16,00. Le informazioni di natura amministrativa potranno essere richieste a supporto.revisori@interno.it (articolo ItaliaOggi del 16.06.2012).

PUBBLICO IMPIEGOOSSERVATORIO VIMINALE/ Permessi di studio doc. Serve il certificato d'iscrizione all'università. La dichiarazione sostitutiva utile solo per i titoli e gli esami sostenuti.
Un dipendente comunale, per ottenere la concessione dei permessi studio, deve produrre obbligatoriamente il certificato di iscrizione all'università, se il comune presso cui presta servizio ha ritenuto non idonea la dichiarazione sostitutiva di tale certificazione?

L'art. 15 del Ccnl 14/09/2000 prevede una particolare e dettagliata disciplina del diritto allo studio.
In particolare, il comma 2 dispone che i permessi straordinari retribuiti, nella misura massima di 150 ore annue di cui al comma 1 del medesimo articolo, sono concessi per la partecipazione a corsi destinati al conseguimento di titoli di studio universitari, post-universitari, di scuole di istruzione primaria, secondaria e di qualificazione professionale ecc., e per sostenere i relativi esami. Il successivo comma 7 disciplina, altresì, le condizioni per la concessione dei predetti permessi.
Invero, ai sensi di detto comma i dipendenti interessati debbono presentare, prima dell'inizio dei corsi, il certificato di iscrizione e quello degli esami sostenuti e, al termine degli stessi, l'attestato di partecipazione e quello degli esami sostenuti, anche se con esito negativo. In mancanza di dette certificazioni, ai sensi del medesimo comma 7, i permessi già utilizzati vengono considerati come aspettative per motivi personali. Dal tenore letterale della richiamata normativa si evince che condizione necessaria per essere ammessi al beneficio dei permessi per studio è quella di presentare in primis il certificato di iscrizione.
Conseguentemente, non sembra possibile produrre la certificazione sostitutiva dello stesso. Peraltro, il dpr 445/2000, come modificato da ultimo dalla legge 12/11/2011 n. 183, all'art. 46, nel disciplinare le ipotesi per le quali è possibile ricorrere alle dichiarazioni sostitutive delle certificazioni, prevede alla lettera m) solamente il titolo di studio e gli esami sostenuti (articolo ItaliaOggi del 15.06.2012).

PUBBLICO IMPIEGOOSSERVATORIO VIMINALE/ Modifiche al profilo.
Il personale con il profilo di educatore di asilo nido, al quale è stato modificato il profilo professionale in istruttore amministrativo, ha diritto alla corresponsione dell'indennità di cui all'art. 37, comma 1, lett. c), del Ccnl 06/07/1995 e dell'indennità di cui all'art. 31, comma 7, del Ccnl 14/09/2000?

L'art. 52 del dlgs 165/2001 prevede che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento. Analoga previsione è contenuta nell'art. 3 del Ccnl 31/03/1999. L'assegnazione a nuove mansioni equivalenti, che secondo l'interpretazione giurisprudenziale devono salvaguardare la professionalità del dipendente, non può comportare una diminuzione del livello di retribuzione che le mansioni in precedenza svolte garantivano al lavoratore. In particolare devono essere mantenuti quei compensi che sono collegati a particolari capacità professionali del dipendente, come avviene nel caso in cui allo stesso vengano riconosciute determinate indennità professionali.
Conseguentemente, poiché al personale educativo degli asili nido il citato art. 37, comma 1, riconosce una indennità professionale, la stessa può essere mantenuta anche nel caso di mutamento di profilo, tenuto conto che il cambiamento di mansioni è avvenuto, nel caso in esame, nell'ambito della stessa categoria di appartenenza.
Non sembra, invece, possibile corrispondere l'indennità prevista dal richiamato art. 31, comma 7, del Ccnl 14/09/2000, in quanto detto compenso non si riconnette alla professionalità, essendo riferito espressamente alla durata del calendario scolastico, e quindi alle modalità temporali e all'effettivo svolgimento della prestazione lavorativa presso l'asilo nido (articolo ItaliaOggi del 15.06.2012).

ENTI LOCALI: Mini-enti, matrimoni senza strappi. Fusioni gestionali optional. Accanto a unioni e convenzioni.  Le novità del prossimo dl sull'associazionismo che darà anche il via alle città metropolitane.
Unioni facoltative nei comuni fino a 1.000 abitanti e via libera dopo oltre 20 anni di attesa all'istituzione delle città metropolitane. La strada verso l'esercizio associato di tutte le funzioni e i servizi pubblici tracciata dall'art.16 della manovra di Ferragosto 2011 (che secondo molti avrebbe realizzato una fusione di fatto dei piccoli centri) diventa meno vincolante. La micro-unione infatti sarà solo un'opzione per gli enti fino a 1.000 abitanti. Un'opzione che si affianca alle altre forme associative previste dal Testo unico enti locali, ossia la convenzione e l'unione, per così dire, «tradizionale» nella quale i comuni si mettono insieme mantenendo la propria individualità gestionale.
I nuovi enti dovranno avere almeno 5.000 abitanti (3.000 nelle zone montane) ma le regioni potranno stabilire limiti demografici diversi, anche inferiori. Per i comuni tra 1.000 e 5.000 abitanti l'obbligo di esercizio delle funzioni in forma associata, che sarebbe dovuto scattare dal prossimo 30 settembre per almeno due funzioni su sei, slitterà ancora. Gli enti dovranno svolgerne insieme tre entro il 01.01.2013 e altre tre entro il 01.01.2014.

Sono queste le principali novità del decreto legge sull'associazionismo comunale che il governo porterà nei prossimi giorni sul tavolo del consiglio dei ministri.
L'esecutivo ha preso un impegno preciso con l'Anci in tal senso (si veda a fianco l'intervista al presidente Graziano Delrio) nell'incontro di lunedì a palazzo Chigi. L'utilizzo della decretazione d'urgenza, del resto, è imposto dalla necessità di far presto. Lo slittamento di nove mesi della marcia forzata verso l'associazionismo (disposto dal decreto milleproroghe) sta infatti per esaurirsi a fine settembre e i piccoli comuni necessitano subito di un quadro normativo chiaro.
Tale non può essere certamente considerato quello attuale in cui le regole del dl 138/2011 si sovrappongono a quelle (art. 14, commi 25-31) del dl 78/2010 generando confusione. Per questo il governo Monti ha abbandonato l'idea di disciplinare la materia all'interno della Carta delle autonomie ferma da anni al senato e con scarse chance di approvazione in tempi brevi.
Le nuove norme sui piccoli comuni (inserite come emendamenti alla Carta dai relatori Enzo Bianco e Andrea Pastore) sono state stralciate assieme a quelle sulle città metropolitane. Confluiranno tutte nel decreto legge «di rapidissima emanazione» che consentirà il varo dei nuovi 10 macro-enti (Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Torino, Reggio Calabria, Roma e Venezia) che porteranno alla scomparsa delle rispettive province. In attesa che il decreto prenda forma, le novità in arrivo non dispiacciono agli operatori.
«E' una soluzione ragionevole che supera una situazione di impasse. Viene stabilita una disciplina delle unioni uniforme e rispettosa dell'autonomia degli enti», ha commentato a ItaliaOggi Maurizio Delfino, esperto di finanza locale e consulente di molti piccoli comuni (articolo ItaliaOggi del 13.06.2012).

ENTI LOCALI - URBANISTICA - VARIIMU FACILE/ Le amministrazioni comunali devono informare il contribuente dei cambi di destinazione. Aree edificabili, conta il mercato. Il pagamento dell'imposta avviene in base al valore venale.
Le aree edificabili sono soggette al pagamento dell'Imu in base al loro valore di mercato. I contribuenti, però, devono essere informati delle variazioni apportate agli strumenti urbanistici. Spetta infatti alle amministrazioni comunali comunicare agli interessati i cambi di destinazione dei beni da terreni ad aree edificabili. La mancata comunicazione impedisce che l'amministrazione possa applicare sanzioni e interessi al contribuente per omesso pagamento del tributo.
Per pagare l'Imu su un'area edificabile occorre stabilire il suo valore venale in comune commercio al 1° gennaio dell'anno di imposizione, vale a dire il suo valore di mercato. In sede di acconto, entro il 18 giugno, deve essere pagato il 50% del tributo che va calcolato applicando l'aliquota del 7,6 per mille. A saldo, invece, dovrà essere versata l'imposta dovuta per l'intero anno prendendo a base l'aliquota deliberata dal comune.
L'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992 fissa dei criteri ai quali è necessario fare riferimento per determinare la base imponibile. In particolare: zona territoriale di ubicazione dell'area, indice di edificabilità, destinazione d'uso consentita e oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione. Vanno presi in considerazione, inoltre, anche i prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse caratteristiche. I valori possono essere deliberati anche dalla giunta, sulla base di una perizia redatta dall'ufficio tecnico. Questi valori sono meramente indicativi.
Come per l'Ici, per la qualificazione delle aree è necessario fare riferimento al piano regolatore generale. In base all'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992, disposizione che viene espressamente richiamata dall'articolo 13 del dl Monti (201/2011), per area fabbricabile si intende quella utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi oppure in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti delle indennità di espropriazione per pubblica utilità.
Nelle ipotesi di edificazione di un fabbricato, la base imponibile è data dal valore dell'area (non viene computato il valore del fabbricato in corso d'opera) dalla data di inizio dei lavori di costruzione fino a quella di ultimazione, oppure fino al momento in cui il fabbricato è comunque utilizzato, se questo momento è antecedente a quello di ultimazione. Durante il periodo di effettiva utilizzazione edificatoria, anche per demolizione o esecuzione di lavori di recupero edilizio, il suolo va considerato area fabbricabile, anche nel caso in cui questa natura non sia riconosciuta dagli strumenti urbanistici.
L'Imu è dovuta se l'area è inserita in un piano regolatore generale adottato dal consiglio comunale, ma non approvato dalla regione. L'articolo 36, comma 2 del decreto-legge legge 223/2006 ha chiarito che un'area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico deliberato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi. Quindi, un'area è edificabile quando è inserita nel piano regolatore generale ed è soggetta all'imposta a prescindere dalla successiva lottizzazione del suolo.
Naturalmente, se per la caratteristica dell'edificabilità è sufficiente che essa risulti da un piano regolatore generale, la potenzialità di edificazione è maggiore quando l'area è ricompresa in un piano particolareggiato e ciò ha effetti nella determinazione del valore dell'area e della quantificazione della base imponibile. La potenzialità del suolo tanto più è attenuata quanto maggiori sono le incertezze sull'effettiva possibilità di poterlo utilizzare a scopo edificatorio.
Nonostante la questione sia dibattuta, sono soggette al tributo le aree vincolate destinate a essere espropriate. Anche se i limiti incidono sul valore del bene. Secondo la Cassazione (ordinanza 16562/2011), la qualifica di area fabbricabile non può ritenersi esclusa se esistono particolari limiti che condizionano le possibilità di edificazione del suolo. Anzi, i limiti imposti a un terreno presuppongono la sua vocazione edificatoria.
Il contribuente va informato delle variazioni apportate agli strumenti urbanistici. In caso contrario, il tributo sull'area è comunque dovuto, ma non possono essere chiesti sanzioni e interessi (articolo ItaliaOggi del 13.06.2012).

APPALTI SERVIZI: Dopo la pioggia di deroghe arriva l'ingorgo.
QUADRO CONFUSO/ Entro fine anno vanno attuate le dismissioni nei Comuni fino a 50mila abitanti e l'apertura al mercato ma manca il regolamento.

L'ultimo piccolo colpo al faticoso processo di liberalizzazione dei servizi pubblici locali è arrivato con il decreto sviluppo, che trasforma in silenzio-assenso il parere obbligatorio che l'Antitrust dovrebbe dare sulle delibere-quadro con cui i Comuni devono indicare i settori in cui non è possibile il ricorso al mercato.
A bloccare l'intero meccanismo, comunque, finora è stato l'incrocio fra un calendario ambizioso e un ritardo cronico nell'applicazione delle misure previste dalle varie manovre. Gli enti locali, per esempio, dovrebbero individuare entro metà agosto gli ambiti territoriali ottimali in cui suddividere i servizi a rete (dai trasporti all'idrico), ma ad oggi manca ancora il decreto attuativo principale, cioè quello che dovrebbe dire alle amministrazioni locali come si fa la delibera quadro chiamata a individuare quali servizi affidare al mercato e in quali mantenere diritti di esclusiva.
Anche ipotizzando che gli enti locali e gli enti affidanti per i servizi di rete riescano a rispettare il termine del 13 agosto, e anche nel caso in cui la novità del silenzio-assenso dovesse essere approvata, l'adozione della delibera difficilmente potrà avvenire prima della fine di novembre.
Da quella data al 31 dicembre, gli enti locali dovrebbero quindi avviare i percorsi per i nuovi affidamenti dei servizi pubblici locali prima gestiti da società in house (se incoerenti con i parametri comunitari e, soprattutto, se di valore annuo superiore ai 200mila euro), scegliendo tra la gara a spettro ampio e la costituzione di società mista, con individuazione tramite gara del socio privato a cui affidare anche compiti operativi.
L'avvio delle procedure richiede un passaggio in consiglio comunale (per la definizione del modello organizzativo), ma costituisce anche il presupposto essenziale per permettere a una società interamente partecipata dall'ente locale di prendere parte alla gara per il servizio sino ad oggi gestito.
In questa fase è inoltre necessario che sia dettagliatamente analizzata la situazione delle reti e delle dotazioni infrastrutturali, passo essenziale per avviare le gare.
Sempre entro fine anno, i Comuni fino a 30mila abitanti, poi, devono decidere se dismettere le loro partecipazioni o sfruttare una delle deroghe previste per le aziende che vantano bilanci in utile o riescono ad aggregarsi. La stessa Corte segnala che più del 60% delle partecipazioni sono in mano a Comuni medio-piccoli, a conferma del l'enormità del processo che dovrebbe partire.
La possibilità di evitare le dismissioni, come accennato, è legata allo stato di salute dei bilanci o alle possibilità di aggregazione per superare la soglia dei 30mila abitanti serviti. Potrebbero quindi realizzarsi situazioni nelle quali una società di un Comune con popolazione inferiore, ma con bilanci in pareggio anziché in utile, debba essere assoggettata alla liquidazione da parte dell'ente socio. Per il servizio pubblico gestito non vi sarebbe altra via che quella della gara tra operatori, essendo inibita al Comune la possibilità di costituire (almeno da solo) società.
Ad accrescere ulteriormente il processo c'è la situazione dei Comuni compresi tra i 30mila e i 50mila abitanti, che devono ridurre le loro partecipazioni societarie ad una sola. Il termine entro cui arrivare a questa condizione, in realtà, secondo il dato legislativo sarebbe già scaduto (il 31.12.2011), ma alcune interpretazioni di sezioni regionali della Corte dei conti lo hanno collegato al termine dell'adempimento principale (la dismissione per i Comuni di minori dimensioni), quindi alla fine del 2012 (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.06.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI FORNITUREAcquisti della Pa: c'è per tutti l'obbligo di passare da Consip. Su spese di Asl, comuni e ministeri cresce l'utilizzo della centrale statale.
Shopping obbligato allo sportello Consip per Ministeri, Asl e Comuni. Il decreto sulla spending review, approvato in prima lettura il giovedì scorso dal Senato, prova a «forzare» le abitudini di acquisto di beni e servizi per migliaia di enti pubblici con l'obiettivo di tagliare in fretta tempi e costi.
Tutto ruota intorno alla Consip: la centrale acquisti del ministero dell'Economia, una sorta di E-bay della pubblica amministrazione, diventa l'unica via per gli acquisti di beni e servizi dei ministeri. Anche Asl e ospedali non avranno scelta: se non trovano un bene nelle convenzioni delle centrali acquisti regionali non possono più cercarlo sul mercato, ma devono rivolgersi alla Consip. E infine, tutte le amministrazioni pubbliche (Comuni compresi) devono pescare dal catalogo centralizzato per i loro piccoli acquisti sotto la soglia comunitaria (130mila per le amministrazioni statali, 200mila per quelle locali).
Insomma niente più scuse: la spesa della Pa si sposta in gran parte verso il «maxisupermercato» Consip, non più con forme di persuasione volontaria, ma con un obbligo di legge. Del resto, con il «metodo Consip» (si veda la scheda a lato) il risparmio sui prezzi ottenibile è in media del 19 per cento. Un taglio notevole su un mercato delle forniture pubbliche che nel 2011 valeva 136 miliardi totali, di cui però solo 29 transitati attraverso la Consip (si veda il Sole 24 ore del 03.05.2012). L'ultima correzione al decreto (varata con un emendamento del Pd) va proprio nel senso indicato dal Governo di allargare il raggio d'azione della centrale nazionale, passando in breve dai 29 miliardi ad almeno 39 e ottenendo così un risparmio stimato di almeno due miliardi.
Ma quanto tempo ci vorrà prima che il nuovo meccanismo entri a regime? Gli obblighi scatteranno dall'entrata in vigore della legge di conversione del Dl 52, che ora deve essere confermata dalla Camera. In ogni caso al massimo entro il 7 luglio, pena la decadenza di tutto il decreto. Di fatto la Consip è pronta: sono già 65 le convenzioni attive che coprono praticamente tutte le esigenze di forniture. Qualche sforzo in più potrebbe essere necessario per implementare i prodotti destinati alla sanità, finora poco richiesti. Mentre il mercato elettronico (Mepa) oggi è già esteso a circa 3.500 fornitori per un catalogo di 1,3 milioni di articoli.
È difficile, invece, ipotizzare con le nuove convenzioni una ulteriore diminuzione del prezzo unitario dei beni (che già oggi tocca punte del 70%, sulle stampanti ad esempio, come documentato dal Sole 24 ore del 7 maggio). Le convenzioni hanno ormai raggiunto una massa critica sul mercato. In più già oggi il 50% delle richieste di acquisto arriva da amministrazioni non obbligate.
Il vero risparmio sarà per quegli acquirenti finora poco propensi a rifornirsi da Consip. Ma il problema saranno i controlli. Certo il decreto abbassa da 150mila euro a 50mila la soglia per segnalare gli appalti all'Autorità di vigilanza e permette verifiche anche sulle piccole forniture. Ma il Dl ribadisce anche che la stessa Authority deve rendere pubbliche le informazioni sulle amministrazioni aggiudicatrici, l'operatore economico aggiudicatario e sulla fornitura. Insomma, i primi controllori saranno i contribuenti che quando l'Autorità offrirà le informazioni potranno finalmente sapere come il proprio Comune o la propria Asl investe i soldi pubblici.
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Il perimetro
I SOGGETTI OBBLIGATI
01 | MINISTERI E AMMINISTRAZIONI STATALI PERIFERICHE (ESCLUSE SCUOLE)
Le amministrazioni statali e le loro organizzazioni periferiche dovranno rivolgersi alle convenzioni Consip per ogni acquisto di beni e servizi, a condizione che esista una convenzione attiva per quel bene. Solo se la convenzione è esaurita potranno acquistare sul libero mercato. Oggi invece sono solo otto le categorie merceologiche per le quali la Consip è la strada obbligata. Vengono individuate con un decreto annuale, che da domani però, è cancellato
02 | ASL E OSPEDALI
Oggi sono obbligati in prima battuta a cercare di approvvigionarsi tramite le centrali di acquisto regionali e, in mancanza del prodotto richiesto, possono bandire una propria gara. Con la nuova versione del Dl spending review, non potranno più fare da soli: dovranno, in seconda battuta, rifornirsi dalla Consip
03 | TUTTE LE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE STATALI E TERRITORIALI
Per le piccole forniture sotto le soglie europee dei 200mila euro (per le amministrazioni statali) o i 133mila euro (per quelle locali) tutti gli enti pubblici saranno obbligati a rivolgersi al Mepa (mercato elettronico della pubblica amministrazione) o altri mercati elettronici esistenti in futuro.
GLI STRUMENTI
01 | LE CONVENZIONI
Sono contratti quadro stipulati da Consip con i quali il fornitore vincitore di una gara si impegna ad accettare richieste di beni da parte delle singole amministrazioni, fino a un tetto fissato dalla convenzione stessa. Oltre al risparmio di prezzo dovuto all'acquisto in grandi stock, le amministrazioni tagliano sui costi e i tempi di gestione della gara.
02 | MERCATO ELETTRONICO
Il Mepa (mercato elettronico della pubblica amministrazione) è lo strumento di Consip, pensato per i piccoli ordinativi, sotto la soglia comunitaria di 133mila euro (enti locali) o 200mila euro (Stato). Sulla piattaforma elettronica (www.acquistiinretepa.it) è disponibile un catalogo di 1,3 milioni di articoli. Gli enti registrati possono consultare i cataloghi delle offerte ed emettere direttamente ordini d'acquisto o richieste d'offerta
03 | ACCORDO QUADRO
Consip conclude accordi quadro a cui le amministrazioni possono ricorrere per beni e servizi. Nell'accordo Consip stabilisce condizioni base (prezzi, qualità, quantità) dei successivi appalti (specifici) che saranno aggiudicati dalle singole amministrazioni durante un dato periodo. I parametri prezzo-qualità Consip valgono da benchmarking per le amministrazioni (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.06.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

CONSIGLIERI COMUNALICosti della politica, tagli legittimi. Le misure non invadono le competenze degli enti locali.  La Corte costituzionale ha respinto i ricorsi presentati a vario titolo sulla legge 122/2012.
Sono costituzionalmente legittime le misure di taglio ai «costi della politica» contenute nell'articolo 5, commi 1, 4, 5 e 7, del dl 78/2012, convertito in legge 122/2012.
La Corte costituzionale, con la sentenza 14.06.2012 n. 151, con varie formule respinto i ricorsi presentati da diverse regioni, che hanno considerato le misure di risparmio imposte dalla manovra estiva 2010 in vario modo lesive della propria potestà legislativa e autonomia finanziaria.
La Consulta ha operato individuando i vari fondamenti che le regole dell'articolo 5 e i suoi commi impugnati hanno nella Costituzione, respingendo la tesi difensiva dell'avvocatura dello stato, secondo la quale i tagli della manovra estiva 2010 avrebbero giustificato, nella sostanza, un'invasione di competenza della legge statale nell'autonomia regionale giustificata dall'esigenza «di far fronte con urgenza a una gravissima crisi finanziaria che mette in pericolo la stessa salus rei publicae», così da derogare alle regole costituzionali sul riparto delle competenze legislative tra stato e regioni. La Corte costituzionale ha respinto l'assunto: nemmeno necessità finanziarie possono, ovviamente, scardinare le regole della Costituzione.
Riduzione dei trattamenti economici degli organi di governo. L'articolo 5, comma 1, del dl 78/2010 dispone che, per gli anni dal 2011 al 2013, siano da destinare a uno specifico Fondo per l'ammortamento dei titoli di stato gli importi corrispondenti alle riduzioni di spesa che verranno deliberate dalle regioni, con riferimento ai trattamenti economici dei componenti del consiglio e della giunta regionali, nonché del presidente.
La Consulta propone un'interpretazione della norma tale da renderla conforme alla Costituzione, osservando che essa non obbliga le regioni a deliberare riduzioni relative a una specifica voce di spesa, limitandosi a prevedere, invece, che laddove autonomamente le regioni operassero il ridimensionamento degli emolumenti esse dovrebbero poi versare i risparmi al fondo previsto dalla norma. In tal modo, pertanto, non risulta incisa negativamente la potestà legislativa, né l'autonomia delle regioni.
Riduzione rimborsi elettorali. Costituzionalmente legittima è anche la previsione del comma 5 dell'articolo 5 del dl 78/2010, ai sensi del quale a decorrere dal primo rinnovo dei consigli regionali successivo alla data di entrata in vigore del decreto legge medesimo, «è ridotto del 10% l'importo previsto a titolo di rimborso delle spese elettorali nell'art. 1, comma 5, primo periodo, della legge 03.06.1999, n. 157».
In questo caso, chiarisce la sentenza, la materia ricade nella regolamentazione di cui all'articolo 122 della Costituzione che assegna allo stato la potestà di disciplinare il «sistema» di elezione delle regioni, nel quale rientra anche l'eventuale rimborso delle spese sostenute dai partiti per le campagne elettorali.
Gratuità degli incarichi. I ricorsi avevano contestato l'articolo 5, comma 5, del decreto legge, ai sensi del quale i titolari di cariche elettive, se nominati titolari di qualsiasi incarico conferito da pubbliche amministrazioni possono ottenere esclusivamente il rimborso delle spese sostenute, mentre eventuali gettoni di presenza non possono superare l'importo di 30 euro a seduta.
Il principio di gratuità sancito dalla norma, secondo la Consulta, è costituzionalmente legittimo perché ha natura di principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, la cui determinazione spetta allo stato e dal quale possono legittimamente derivare limitazioni all'autonomia organizzativa e di spesa delle Regioni. È un principio la cui ratio sta nell'evitare il cumulo di incarichi retribuiti e il perseguimento di risparmi finanziari.
Amministratori di comunità montane e forme associative. Conforme a Costituzione è anche l'articolo 5, comma 7, che vieta emolumenti ad amministratori di comunità montane e di unioni di comuni e comunque di forme associative di enti locali. Anche in questo caso, la legge statale ha esercitato correttamente la potestà di disciplinare il coordinamento della finanza pubblica (articolo ItaliaOggi del 15.06.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Atto amministrativo nullo e tutela del legittimo affidamento.
La nullità dell’atto, una volta che il decorso del tempo ne abbia consolidato gli effetti, non è ostativa a che un legittimo affidamento, tutelato dall’ordinamento giuridico, sorga da esso e funga da elemento con cui raffrontare e bilanciare l’esercizio del potere amministrativo attributo con riguardo alla medesima fattispecie.
Naturalmente, ad oggi il termine sufficiente e necessario perché tale effetto si verifichi è legislativamente indicato in 180 giorni, mentre, anteriormente all’entrata in vigore del c.p.a., doveva ritenersi compito dell’interprete valutare tutte le circostanze del caso concreto, per stabilire il tempo utile a legittimare l’affidamento.

Come è da ritenersi oramai acquisito, la dottrina dell’atto nullo è in larga misura la scienza degli effetti, per quanto degradati rispetto all’atto valido, che esso è comunque in grado di produrre nell’ordinamento: nell’ambito del diritto amministrativo, tra tali effetti non può non annoverarsi il potenziale affidamento cagionato nei consociati dall’agire della pubblica amministrazione, quale che sia poi la legale ripartizione delle competenze tra i soggetti istituzionali entro cui essa si fraziona.
In tal senso, laddove la sfera giuridica di un privato sia stata accresciuta per l’effetto di un provvedimento dotato dei requisiti minimi per poter essere ritenuto esistente, per quanto nullo, la tutela dell’affidamento maturato in ragione di ciò, laddove non emerga malafede, costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico, “connaturato allo Stato di diritto” (Corte cost. sent. n. 209 del 2009; id. sentt. nn. 157 del 2007 e 282 del 2006), alla luce del quale va valutata la legittimità della posteriore azione della pubblica amministrazione.
Quest’ultima, pertanto, in tali casi non può limitarsi ad operare come se l’atto ampliativo non esistesse, ma può, e talvolta deve, previamente rimuovere le ragioni dell’affidamento, incidendo, nelle forme consentite dalla legge, sulla fonte su cui esso poggia. Solo dopo avere operato in questo modo, il potere di conformare la fattispecie alla legge torna a governare interamente la fattispecie, anche sul piano della repressione degli abusi.
In linea generale, è a simili meccanismi di garanzia che si ispira l’esercizio dell’autotutela decisoria in diritto amministrativo, secondo quanto oramai codificato dalla l. n. 241 del 1990.
Su di un piano connesso, il legislatore, come ha condivisibilmente posto in luce il Consiglio di Stato, ha nuovamente esplicitato, per quanto qui interessa, tale principio, sottoponendo l’azione di nullità dell’atto amministrativo al termine di decadenza di 180 giorni (art. 31, comma 4, c.p.a.). Attribuendo un effetto al decorso del tempo, pur a fronte di un vizio di nullità dell’atto, il legislatore ha, in altri termini, riconosciuto anche in questi casi diritto di cittadinanza alle esigenze di certezza dei rapporti giuridici, e quindi anche di tutela dell’affidamento comunque ingenerato dall’atto nullo, che sono implicate dall’agire amministrativo.
Se ne deve dedurre che la nullità dell’atto, una volta che il decorso del tempo ne abbia consolidato gli effetti, non è ostativa a che un legittimo affidamento, tutelato dall’ordinamento giuridico, sorga da esso e funga da elemento con cui raffrontare e bilanciare l’esercizio del potere amministrativo attributo con riguardo alla medesima fattispecie. Naturalmente, ad oggi il termine sufficiente e necessario perché tale effetto si verifichi è legislativamente indicato in 180 giorni, mentre, anteriormente all’entrata in vigore del c.p.a., doveva ritenersi compito dell’interprete valutare tutte le circostanze del caso concreto, per stabilire il tempo utile a legittimare l’affidamento.
Nel caso di specie, peraltro, l’ordine di demolizione impugnato è del marzo 2011, e si colloca dunque a ben tre anni circa di distanza dal provvedimento di autorizzazione di cui il Comune ha postulato la nullità; inoltre, di tale ultimo atto Roma Capitale era a conoscenza fin da allora, né risulta che medio tempore sia stata svolta alcuna attività atta ad incrinare l’affidamento maturato nella legittimità di esso in capo alla ricorrente.
Ciò premesso, neppure viene in rilievo, nella presente controversia, il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità dell’atto amministrativo senza limiti di tempo, conferito anch’esso dall’art. 31 c.p.a., che, indubbiamente, pone delicati problemi di coordinamento con la previsione del termine decadenziale per esperire l’azione di nullità.
Infatti, al fine di accertare la illegittimità dell’atto impugnato, è sufficiente rilevare che Roma Capitale non avrebbe potuto reprimere direttamente l’abuso edilizio, assumendo il difetto del titolo abilitativo, senza assumere in considerazione l’interesse, tutelato in capo alla ricorrente, alla conservazione degli effetti di un atto, in base al quale quest’ultima ha realizzato in buona fede l’attività edilizia divenuta oggetto di contestazione. Né vi possono essere dubbi, nel caso di specie, in ordine al convincimento della ricorrente circa la legittimità del titolo conseguito, se solo si considera che essa è stata postulata anche dal Consiglio di Stato, pur con argomenti ritenuti in ultima analisi non risolutivi da questo Tribunale.
A fronte di un tale preliminare vizio, oggetto di denuncia nel primo motivo di ricorso, il Tribunale non è tenuto a prendere posizione circa l’ulteriore rilievo svolto dal Consiglio di Stato, secondo cui il solo strumento posto a disposizione dell’amministrazione per superare gli effetti di un atto nullo, assunto da altra amministrazione con invasione delle attribuzioni della prima, consiste nella proposizione della azione di nullità prevista dall’art. 31 c.p.a. (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 13.06.2012 n. 5360 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di delimitazione del demanio rispetto alla proprietà privata, la P.A. non esercita un potere autoritativo costitutivo, ma si limita ad accertare l'esatto confine demaniale.
Siffatto accertamento, pur svolgendosi con le forme del procedimento amministrativo, ha carattere vincolato, non comporta la spendita di potere amministrativo discrezionale ed è inidoneo a degradare il diritto di proprietà privata in interesse legittimo, trattandosi, appunto, di un atto di accertamento e non di un atto ablatorio, da qualificare come autotutela privatistica speciale e non come attività provvedimentale discrezionale.
Pertanto, secondo l'ordinario criterio di riparto di giurisdizione fondato sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, le controversie di cui all'art. 32 cod. nav. rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario.

Il Collegio ritiene di prestare puntuale adesione (non rinvenendosi ragioni onde discostarsene) al consolidato orientamento secondo cui in materia di delimitazione del demanio rispetto alla proprietà privata, la P.A. non esercita un potere autoritativo costitutivo, ma si limita ad accertare l'esatto confine demaniale.
Siffatto accertamento, pur svolgendosi con le forme del procedimento amministrativo, ha carattere vincolato, non comporta la spendita di potere amministrativo discrezionale ed è inidoneo a degradare il diritto di proprietà privata in interesse legittimo, trattandosi, appunto, di un atto di accertamento e non di un atto ablatorio, da qualificare come autotutela privatistica speciale e non come attività provvedimentale discrezionale.
Pertanto, secondo l'ordinario criterio di riparto di giurisdizione fondato sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, le controversie di cui all'art. 32 cod. nav. rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (Cons. Stato, VI, 25.09.2011, n. 5357; id., VI, 09.11.2001, n. 7975; id., VI, 24.09.2010, n. 7147) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.06.2012 n. 3496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le ordinanze contingibili ed urgenti possono essere adottate dal Sindaco nella veste di ufficiale di governo solamente quando si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico: tali requisiti non ricorrono di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere ordinario.
Infatti, le ordinanze in questione presuppongono una situazione di pericolo effettivo in cui si possono configurare anche situazioni non tipizzate dalla legge e ciò giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi, la possibilità di deroga rispetto alla disciplina vigente e la necessità di motivazione congrua e peculiare, la configurazione anche residuale, quasi di chiusura, delle ordinanze contingibili ed urgenti.
I rimedi di carattere ordinario, al contrario, sono i provvedimenti tipizzati atti a fronteggiare le esigenze prevedibili ed ordinarie e costituiscono l’elemento “normale” rimesso dalla legge ai poteri pubblici per gestire usualmente le materie a questi rimesse.
Caratteristiche preminenti di tali provvedimenti sono l’atipicità, il potere derogatorio rispetto agli strumenti “ordinari”, l’eccezionalità e la gravità del pericolo presupposto, la generalità degli interessi cui sono volti e, naturalmente, un adeguato supporto motivazionale.
In quest’ottica, dunque, dinanzi ad una situazione di pericolo solo potenziale e territorialmente del tutto delimitato, l’Amministrazione, prima di adottare il provvedimento dovrebbe compiere ogni accertamento volto a fissare, a cristallizzare la “gravità” e la “contingenza” del pericolo stesso.
Ciò rientra nella natura eccezionale e derogatoria degli atti in analisi, i quali si pongono nell’ordinamento giuridico come strumenti di extrema ratio, in quanto tali utilizzabili esclusivamente al verificarsi dei presupposti legislativi, e quando i mezzi ordinari si palesino come insufficienti ed inadeguati.
L’Amministrazione deve accertare la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per la incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva, a seguito di approfondita istruttoria con adeguata motivazione circa il carattere indispensabile degli interventi immediati ed indilazionabili imposti a carico del privati.

Con l’ordinanza oggetto d’impugnazione dinanzi al giudice di prime cure, l’Amministrazione ha adottato un provvedimento contingibile ed urgente, ovvero un provvedimento straordinario, assunto in casi tassativamente previsti dalla legge.
Ai sensi dell’art. 54, comma 2, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, le ordinanze contingibili ed urgenti possono essere adottate dal Sindaco nella veste di ufficiale di governo solamente quando si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico: tali requisiti non ricorrono di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere ordinario.
Infatti, le ordinanze in questione presuppongono una situazione di pericolo effettivo in cui si possono configurare anche situazioni non tipizzate dalla legge e ciò giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi, la possibilità di deroga rispetto alla disciplina vigente e la necessità di motivazione congrua e peculiare, la configurazione anche residuale, quasi di chiusura, delle ordinanze contingibili ed urgenti.
I rimedi di carattere ordinario, al contrario, sono i provvedimenti tipizzati atti a fronteggiare le esigenze prevedibili ed ordinarie e costituiscono l’elemento “normale” rimesso dalla legge ai poteri pubblici per gestire usualmente le materie a questi rimesse (Cons. St., sez IV, 13.07.2011 n. 4262; Cons. St., sez. IV, 24.03.2006 n. 1537).
Caratteristiche preminenti di tali provvedimenti sono l’atipicità, il potere derogatorio rispetto agli strumenti “ordinari”, l’eccezionalità e la gravità del pericolo presupposto, la generalità degli interessi cui sono volti e, naturalmente, un adeguato supporto motivazionale.
In quest’ottica, dunque, dinanzi ad una situazione di pericolo solo potenziale e territorialmente del tutto delimitato, l’Amministrazione, prima di adottare il provvedimento dovrebbe compiere ogni accertamento volto a fissare, a cristallizzare la “gravità” e la “contingenza” del pericolo stesso.
Ciò rientra nella natura eccezionale e derogatoria degli atti in analisi, i quali si pongono nell’ordinamento giuridico come strumenti di extrema ratio, in quanto tali utilizzabili esclusivamente al verificarsi dei presupposti legislativi, e quando i mezzi ordinari si palesino come insufficienti ed inadeguati.
L’Amministrazione deve accertare la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per la incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva, a seguito di approfondita istruttoria con adeguata motivazione circa il carattere indispensabile degli interventi immediati ed indilazionabili imposti a carico del privati (Cons. St., sez. V 16.02.2010 n. 868): l’accertamento, cioè, deve fondarsi su prove concrete e non mere presunzioni (Cons. St., sez. V 11.12.2007 n. 6366).
Nel caso in esame, però, non risulta desumibile, dai resoconti dei consulenti incaricati dall’Amministrazione resistente, alcun elemento di gravità ed imminenza del pericolo, atteso che, come riportato nella nota del dott. Tagnin del 15.03.2002, “non si è in grado di stabilire se il suddetto inquinamento costituisce o meno un pericolo per la salute pubblica, o per l’ambiente naturale o costruito”.
Alla luce di siffatte considerazioni, l’Amministrazione, a parere di questo Collegio, avrebbe dovuto esperire attività di ulteriore indagine integrativa, volta ad appurare l’effettiva sussistenza dei summenzionati profili di pericolo: e, solo in caso di positivo riscontro, avrebbe potuto procedere all’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente.
La situazione era inoltre rimediabile nell’immediato con gli strumenti ordinari, e in particolare con un ordine di bonifica del sito inquinato.
Ciò è in linea anche con la tempistica procedurale degli adempimenti svolti: nel tempo trascorso dall’accadimento del sinistro (09.02.2001), all’adozione dell’ordinanza (30.04.2002), vale a dire più di un anno, ben avrebbe potuto il Comune procedere a rilievi più precisi ed approfonditi.
In definitiva il Comune non ha provveduto in via di urgenza nell’immediatezza dei fatti, in una situazione di incertezza e di rischio, ma a distanza di oltre un anno, in un’epoca in cui non emergeva più, ove mai vi fosse stato, un pericolo imminente e irreparabile, e una situazione di urgenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.06.2012 n. 3490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Le concessioni di lavori pubblici hanno, di regola, ad oggetto la progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e la realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, e di lavori ad esse strutturalmente e direttamente collegati, nonché la loro gestione funzionale ed economica (art. 143, primo comma, dlgs 163/2006) e la controprestazione a favore del concessionario consiste, di regola, unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente tutti i lavori realizzati.
Da ciò consegue che l’onere di valutare la convenienza economica dell’operazione ricade in primo luogo sul concessionario, al quale spetta accertare se i costi siano adeguatamente coperti dai ricavi ragionevolmente prevedibili.
In altri termini, il rapporto di concessione di lavori pubblici coinvolge una stazione appaltante ed un imprenditore il quale, in quanto tale, sopporta il rischio economico dell’operazione in vista del conseguimento, necessariamente non garantito, di un utile patrimoniale adeguato, mentre la stazione appaltante agisce in vista del conseguimento di un utile non patrimoniale, consistente nell’incremento dei servizi a favore della collettività.
Come in tutte le procedure di evidenza pubblica anche nella concessione di lavori pubblici i termini economici del rapporto devono essere conoscibili da chiunque abbia interesse all’aggiudicazione, e di regola non possono essere modificati nel corso del suo svolgimento in quanto, così facendo, verrebbe del tutto vanificato lo scopo del meccanismo concorrenziale di scelta del contraente.
E’ vero che l’art. 143 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, prevede alcune misure volte a ripristinare l’equilibrio economico–finanziario del rapporto quando questo non si sia realizzato in concreto (in particolare il quarto comma, il quale prevede che la controprestazione a favore del concessionario possa essere costituita anche da un prezzo, e l’ottavo comma, il quale prevede che la concessione possa avere una durata superiore a quella massima di trenta anni), ma si tratta di disposizioni di cui la stazione appaltante può avvalersi solo nell’impostare la gara, in modo da avviare il confronto concorrenziale anche sulla loro base.
Le stesse norme non consentono invece di restringere il numero dei candidati prevedendo clausole tali da ridurre la convenienza dell’imprenditore, per poi ripristinare il giusto equilibrio contrattando esclusivamente con l’aggiudicatario.

Le concessioni di lavori pubblici hanno, di regola, ad oggetto la progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e la realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, e di lavori ad esse strutturalmente e direttamente collegati, nonché la loro gestione funzionale ed economica (art. 143, primo comma) e la controprestazione a favore del concessionario consiste, di regola, unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente tutti i lavori realizzati.
Da ciò consegue che l’onere di valutare la convenienza economica dell’operazione ricade in primo luogo sul concessionario, al quale spetta accertare se i costi siano adeguatamente coperti dai ricavi ragionevolmente prevedibili.
In altri termini, il rapporto di concessione di lavori pubblici coinvolge una stazione appaltante ed un imprenditore il quale, in quanto tale, sopporta il rischio economico dell’operazione in vista del conseguimento, necessariamente non garantito, di un utile patrimoniale adeguato, mentre la stazione appaltante agisce in vista del conseguimento di un utile non patrimoniale, consistente nell’incremento dei servizi a favore della collettività.
Come in tutte le procedure di evidenza pubblica anche nella concessione di lavori pubblici i termini economici del rapporto devono essere conoscibili da chiunque abbia interesse all’aggiudicazione, e di regola non possono essere modificati nel corso del suo svolgimento in quanto, così facendo, verrebbe del tutto vanificato lo scopo del meccanismo concorrenziale di scelta del contraente.
E’ vero che l’art. 143 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, prevede alcune misure volte a ripristinare l’equilibrio economico–finanziario del rapporto quando questo non si sia realizzato in concreto (in particolare il quarto comma, il quale prevede che la controprestazione a favore del concessionario possa essere costituita anche da un prezzo, e l’ottavo comma, il quale prevede che la concessione possa avere una durata superiore a quella massima di trenta anni), ma si tratta di disposizioni di cui la stazione appaltante può avvalersi solo nell’impostare la gara, in modo da avviare il confronto concorrenziale anche sulla loro base.
Le stesse norme non consentono invece di restringere il numero dei candidati prevedendo clausole tali da ridurre la convenienza dell’imprenditore, per poi ripristinare il giusto equilibrio contrattando esclusivamente con l’aggiudicatario.
L’appellante richiama, a sostegno della propria tesi, l’ultima parte dell’ottavo comma dell’art. 143, la quale prevede che “i presupposti e le condizioni di base che determinano l’equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione, da richiamare nelle premesse del contratto, ne costituiscono parte integrante. Le variazioni apportate dalla stazione appaltante a detti presupposti o condizioni di base, nonché le norme legislative e regolamentari che stabiliscano nuovi meccanismi tariffari o nuove condizioni per l’esercizio delle attività previste nella concessione, quando determinano una modifica dell’equilibrio del piano, comportano la sua necessaria revisione, da attuare mediante rideterminazione delle nuove condizioni di equilibrio, anche tramite la proroga del termine di scadenza delle concessioni. In mancanza della predetta revisione il concessionario può recedere dal contratto. Nel caso in cui le variazioni apportate o le nuove condizioni introdotte risultino più favorevoli delle precedenti per il concessionario, la revisione del piano dovrà essere effettuata a favore del concedente. Al fine di assicurare il rientro del capitale investito e l'equilibrio economico-finanziario del Piano Economico Finanziario, per le nuove concessioni di importo superiore ad un miliardo di euro, la durata può essere stabilita fino a cinquanta anni.”
Osserva il Collegio che la norma non è applicabile nella presente controversia in quanto volta a disciplinare eventi che si verificano nel corso del rapporto concessorio ammettendo la modifica del suo contenuto, mentre nel caso di specie la proroga è stata decisa a rapporto esaurito, quando sarebbe stato necessario indire una nuova gara, ed ha avuto il contenuto di un nuovo e distinto contratto, affidato in difetto di ogni confronto concorrenziale.
Inoltre, i casi nei quali la norma consente la modifica dei termini del rapporto, essendo palesemente eccezionali, non consentono applicazioni estensive, e sono accomunati dal fatto di avere alla base circostanze di particolare rilevanza che sopravvenendo alla stipula del contratto ne modificano nella sostanza l’attuazione.
Nel caso di specie, invece, presupposto della proroga è solo la constatazione, “a posteriori”, di un risultato economico meno favorevole, per l’imprenditore, di quello originariamente previsto, per cui non ricade nell’ambito di applicazione della disposizione invocata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.06.2012 n. 3474 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Principio di partecipazione effettiva e utile al procedimento amministrativo.
Il rispetto delle regole partecipative cristallizzate dalla citata legge n. 241/1990 e della ratio che le anima, impone che la comunicazione di avvio del procedimento venga effettuata in tempo e con modalità tali da consentire la partecipazione influente ed efficace dei soggetti interessati al processo decisionale destinato a sfociare nella determinazione finale potenzialmente lesiva.
Ne deriva che il rispetto formale della disciplina di legge non esclude l’effetto invalidante sortito da una condotta amministrativa che, nel suo complesso, finisca per impedire una partecipazione utile da parte del soggetto portatore di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato.

Con riguardo alla censura volta a stigmatizzare la violazione del principio di partecipazione effettiva e utile al dispiegarsi del procedimento amministrativo, il Collegio non reputa condivisibile l’assunto sostenuto dal Primo Giudice secondo cui l’amministrazione avrebbe correttamente rispettato la disciplina di cui agli artt. 7 e seguenti della legge n. 241/1990 mentre esulerebbe dall’alveo della partecipazione obbligatoria sancita dalla legge la pretesa dell’appellante di interloquire con la Commissione Tecnica al fine di fornire il proprio apporto nel corso dei lavori sfocati nella relazione posta a fondamento del provvedimento di revoca.
Osserva, in via preliminare, la Sezione che il rispetto delle regole partecipative cristallizzate dalla citata legge n. 241/1990 e della ratio che le anima, impone che la comunicazione di avvio del procedimento venga effettuata in tempo e con modalità tali da consentire la partecipazione influente ed efficace dei soggetti interessati al processo decisionale destinato a sfociare nella determinazione finale potenzialmente lesiva. Ne deriva che il rispetto formale della disciplina di legge non esclude l’effetto invalidante sortito da una condotta amministrativa che, nel suo complesso, finisca per impedire una partecipazione utile da parte del soggetto portatore di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.06.2012 n. 3470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALI: E' illegittimo il criterio seguito da un comune di limitare la partecipazione alla procedura negoziata per l'affidamento di un incarico di progettazione e direzione lavori soltanto ai professionisti che operano nel territorio comunale.
Il principio di non discriminazione impone che tutti i potenziali offerenti siano posti in condizioni di eguaglianza e non consente, quindi, limitazioni di accesso al mercato "ratione loci", ovvero in ragione dell'ubicazione della sede in un determinato territorio.
Pertanto, nel caso di specie, la scelta del comune di limitare la partecipazione alla procedura negoziata, senza previa pubblicazione del bando, per l'affidamento di un incarico di progettazione e direzione lavori per la costruzione di una struttura polifunzionale d'interesse comprensoriale destinata ad attività sportive e ricreative, ai professionisti locali, non supportata da un'indagine volta a verificare le professionalità più qualificate con riguardo all'oggetto della procedura, si è sostanziata in una limitazione territoriale aprioristica in contrasto con i principi comunitari in tema di tutela della concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi.
La valorizzazione di detto dato territoriale costituisce, quindi, una barriera di accesso in contrasto con i principi comunitari volti a garantire l'affermazione di un mercato comune libero da restrizioni discriminatorie collegate alla nazionalità o alla sede formale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.06.2012 n. 3469 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

INCARICHI PROFESSIONALI - ATTI AMMINISTRATIVI: Sussiste la legittimazione degli Ordini ad impugnare gli atti delle procedure di evidenza pubblica quando l’interesse fatto valere sia quello all’osservanza di prescrizioni a garanzia della par condicio dei partecipanti, nonostante che in fatto dalla procedura selettiva sia stato avvantaggiato un singolo professionista.
Non può negarsi che fra gli interessi istituzionali dell’Ordine vi è anche quello di assicurare il pieno aspetto della par condicio nell’esercizio dell’attività professionale, e quindi non può neanche negarsi la legittimazione a far valere in giudizio tale interesse anche nei confronti di iscritti che si ritiene possano operare professionalmente in dispregio di tale principio di parità.
Detta linea argomentativa si sposa con il rilievo dottrinale secondo cui l’interesse collettivo non s’identifica nella sommatoria degli interessi individuali degli associati ma si compendia nella sintesi degli stessi in un interesse collettivo qualitativamente diverso da quelli dei singoli. Ne deriva l’insussistenza di alcuna incompatibilità, logica e giuridica, tra lesione dell’interesse astratto della collettività e beneficio arrecato all’interesse individuale.

Non coglie nel segno la prima censura volta a dedurre il difetto di legittimazione degli Ordini professionali in ragione del contrasto sussistente tra gli interessi degli iscritti invitati alla procedura di selezione del contraente e gli interessi degli altri professionisti rappresentati.
Ad avviso della Sezione la ricorrenza di tale supposto conflitto va verificata in relazione all’interesse istituzionale astrattamente perseguito, con la conseguenza che l’ente esponenziale, chiamato alla tutela dell’interesse collettivo inscindibilmente traguardato e non alla sostituzione processuale dei singoli portatori degli interessi individuali, è legittimato a reagire avverso i provvedimenti lesivi dell’interesse della collettività senza che assuma rilievo il vantaggio tratto dagli specifici professionisti iscritti.
Merita condivisione, al riguardo, la pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 03.06.2011, che ha riconosciuto la legittimazione dell’Ordine in caso di conflitto tra l’interesse istituzionale leso dall’atto ed il beneficio contingente ricavato dai singoli professionisti.
In questa prospettiva è stata riconosciuta la legittimazione degli Ordini ad impugnare gli atti delle procedure di evidenza pubblica quando l’interesse fatto valere sia quello all’osservanza di prescrizioni a garanzia della par condicio dei partecipanti, nonostante che in fatto dalla procedura selettiva sia stato avvantaggiato un singolo professionista.
Ad avviso dell’Adunanza è appunto all’ “interesse istituzionalizzato” che occorre far riferimento.
Difatti, “non può negarsi che fra gli interessi istituzionali dell’Ordine vi è anche quello di assicurare il pieno aspetto della par condicio nell’esercizio dell’attività professionale, e quindi non può neanche negarsi la legittimazione a far valere in giudizio tale interesse anche nei confronti di iscritti che si ritiene possano operare professionalmente in dispregio di tale principio di parità”.
Detta linea argomentativa si sposa con il rilievo dottrinale secondo cui l’interesse collettivo non s’identifica nella sommatoria degli interessi individuali degli associati ma si compendia nella sintesi degli stessi in un interesse collettivo qualitativamente diverso da quelli dei singoli. Ne deriva l’insussistenza di alcuna incompatibilità, logica e giuridica, tra lesione dell’interesse astratto della collettività e beneficio arrecato all’interesse individuale.
Applicando dette coordinate ermeneutiche al caso di specie si deve concludere nel senso della legittimazione degli Ordini a reagire avverso provvedimenti lesivi dell’interesse istituzionale degli enti esponenziali a garantire la par condicio, il favor partecipationis e il superamento di misure limitative della concorrenza, senza che assumano rilievo, in senso ostativo, i vantaggi tratti dai singoli professionisti per effetto dell’adozione di atti lesivi di detti valori (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.06.2012 n. 3469 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Condannato il dirigente che consente l’esodo dei dipendenti dopo aver ricevuto la notizia della morte di una collega: è interruzione di pubblico servizio.
A deciderlo è stata la recente sentenza 12.06.2012 n. 22294 della Corte di Cassazione con cui i giudici di legittimità hanno confermato la responsabilità del dirigente di un ufficio pubblico, reo di aver fatto andare via i dipendenti e di aver fatto affiggere sulla porta il cartello «chiuso per lutto».
Così un ufficio pubblico di Palermo, solitamente molto frequentato, chiude i battenti e gli utenti si lamentano del disservizio.
La notizia della morte improvvisa di una collega sconvolge i dipendenti, e costoro si recano nell’ufficio del responsabile della sede e annunciano, in assemblea, di volersene andare dopo la pausa pranzo.
Il dirigente non riesce a dissuaderli, e a sua volta si reca a casa propria, disapprovando comunque il gesto, dopo aver chiesto alla portineria di affiggere il cartello.
Non basta ad evitare la condanna, anzi peggiora le cose: ad avviso dei giudici era dovere del responsabile chiarire sin dal principio che l’esodo di massa non sarebbe stato tollerato e che le eventuali assenze per ragioni di salute sarebbero state giustificate solo con la presentazione di un permesso.
Quindi, mentre i dipendenti sono assolti, il capo dell’ufficio viene condannato per interruzione di un pubblico servizio, aggravata dalla violazione dei doveri inerenti ad un pubblico servizio (commento tratto da www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In materia di diritto di accesso ai dati concernenti persone decedute.
Va, in primo luogo, considerato il quadro normativo.
In materia di diritto di accesso ai dati concernenti persone decedute deve farsi riferimento alle disposizioni dell’art. 9, comma 3, del codice per la tutela dei dati personali, che disciplinano in modo diretto l’esercizio del diritto di accesso per le informazioni relative a persone decedute, prevedendo che essi possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio o agisce a tutela dell’interessato o per motivi familiari meritevoli di tutela.
Tale disciplina regola anche l’accesso alle cartelle cliniche, dal momento che non può trovare applicazione la disciplina specificamente prevista in materia dall’articolo 92 del medesimo codice, la quale consente l’accesso alle cartelle cliniche solo a persone diverse dall’interessato che possono far valere un diritto della personalità o altro diritto di pari rango. Se dovesse applicarsi questa disposizione anche dopo la morte, neppure i più stretti congiunti potrebbero accedere ai dati personali del defunto in assenza dei presupposti richiesti dalla norma, con conseguenze paradossali e, comunque, del tutto opposte alle tesi degli appellanti.
Non è neppure utile il richiamo per analogia all’articolo 82 del medesimo codice, che regola la diversa situazione della prestazione del consenso al trattamento dei dati personali in caso di impossibilità fisica o giuridica dell’interessato e che prevede che il consenso possa essere fornito, in assenza di chi esercita la potestà legale, da un prossimo congiunto, da un familiare, da un convivente o, in loro assenza, dal responsabile della struttura presso cui dimora l'interessato.
La disciplina dell’articolo 9 del codice regola, invece, compiutamente ed esaustivamente la questione del trattamento dei dati personali delle persone decedute, in quanto indica chi può esercitare l’insieme dei diritti previsti dall’art. 7 dello stesso codice, il quale, nel disciplinare il trattamento dei dati medesimi, considera non solo le posizioni soggettive di chi può esercitare il diritto di accesso, ma anche quello di chi può opporsi ad esso.
Si può, dunque, concludere su questo punto condividendo (in parte qua) la tesi sostenuta dagli appellanti, anche sulla scorta della richiamata giurisprudenza del Consiglio di Stato, per la quale sopravvive una forma di tutela dei dati sensibili –come altre forme di tutela- anche dopo la morte, ma nelle forme specifiche e diverse previste dall’art. 9, che individua puntualmente gli interessi che possono bilanciare gli interessi di terzi ad accedere ai dati personali: la tutela del defunto e ragioni familiari meritevoli di protezione (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.06.2012 n. 3459 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'art. 83, comma 4, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, nello stabilire che il bando di gara, per ciascun criterio di valutazione prescelto, può prevedere, ove necessario, sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi, ha effettuato una scelta che trova giustificazione nell'esigenza di ridurre gli apprezzamenti soggettivi della commissione giudicatrice, garantendo in tale modo l'imparzialità delle valutazioni nella essenziale tutela della par condicio tra i concorrenti, i quali sono tutti messi in condizione di formulare un'offerta che consenta di concorrere effettivamente alla aggiudicazione del contratto in gara.
Quanto alla valutazione delle offerte da parte della commissione di gara pubblica, l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica può essere consentita solo quando il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro i quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, sia sufficientemente analitico da delimitare il giudizio della commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo, rendendo così evidente l'iter logico seguito nel valutare i singoli progetti sotto il profilo tecnico, in applicazione di puntuali criteri predeterminati, controllandone la logicità e la congruità essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito.
Se non può dubitarsi dell’ampio potere discrezionale di cui è titolare una commissione di gara per l’affidamento di un appalto pubblico nella valutazione delle offerte proprio per la scelta del miglior contraente, non può tuttavia negarsi che, in omaggio ai principi fondamentali che regolano l’azione amministrativa, come predicati dall’articolo 97 della Costituzione, l’esercizio di tale potere per non trasmodare in mero arbitrio deve poter essere sempre sindacabile quantomeno sotto il profilo della logicità, razionalità e ragionevolezza: ciò può avvenire, allorquando difettino obiettivi criteri predeterminati che possano guidare, indirizzare e rendere perciò manifestamente comprensibile il concreto esercizio del predetto potere discrezionale, solo attraverso la motivazione della valutazione effettuata, cioè attraverso la puntuale indicazione delle ragioni di fatto che hanno giustificato la determinazione.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è motivo per discostarsi, l'art. 83, comma 4, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, nello stabilire che il bando di gara, per ciascun criterio di valutazione prescelto, può prevedere, ove necessario, sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi, ha effettuato una scelta che trova giustificazione nell'esigenza di ridurre gli apprezzamenti soggettivi della commissione giudicatrice, garantendo in tale modo l'imparzialità delle valutazioni nella essenziale tutela della par condicio tra i concorrenti, i quali sono tutti messi in condizione di formulare un'offerta che consenta di concorrere effettivamente alla aggiudicazione del contratto in gara (C.d.S., sez. III, 22.03.2011, n. 1749).
E’ stato anche ripetutamente affermato che quanto alla valutazione delle offerte da parte della commissione di gara pubblica, l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica può essere consentita solo quando il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro i quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, sia sufficientemente analitico da delimitare il giudizio della commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo, rendendo così evidente l'iter logico seguito nel valutare i singoli progetti sotto il profilo tecnico, in applicazione di puntuali criteri predeterminati, controllandone la logicità e la congruità essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito (C.d.S., sez. III, 11.03.2011, n. 1583; sez. V, 17.01.2011, n. 222; 03.12.2010, n. 8410; 16.06.2010, n. 3806; 09.04.2010, n. 1999; 29.12.2009, n. 8833; 11.05.2007 n. 2355).
Nel caso di specie, come esattamente rilevato dai primi giudici, con motivazione accurata e condivisibile, nella lex specialis della gara non sono stati tuttavia individuati, per ogni criterio di valutazione dell’offerta, eventuali specifici sub – criteri e sub – pesi, solo in presenza dei quali la sola attribuzione del punteggio può costituire idonea motivazione della valutazione operata dalla commissione.
Infatti, come già accennato nell’esposizione in fatto, il bando di gara, al punto 3, dopo aver stabilito che l’aggiudicazione sarebbe stata effettuata con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi dell’art. 83 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, ha pure individuato i parametri di valutazione, limitandosi tuttavia per ognuno di essi [indicati in: 1) Modalità operative delle prestazioni oggetto del servizio, punti 50/100 (la capacità organizzativa, la metodologia e la tecnica per la gestione dei sinistri: suddivisione, contenuto e tempistica delle fasi metodologiche; la tecnica e a tempistica di esecuzione del servizio di consulenza globale in materia assicurativa dell’Ente; sistema di analisi e valutazione dei rischi, capacità di proporre alternative e soluzioni variabili con l’obiettivo di conseguire economie di spese); 2) organizzazione interna dedicata al Comune di Reggio Emilia intesa come struttura organizzativa, sede operativa, personale dedicato, attrezzature e metodologie informatiche, punti 15/100; piano di formazione ed aggiornamento del personale dell’Ente, punti 10/100; 4) servizi aggiuntivi, punti 25/100] a prevedere il punteggio massimo attribuibile, senza alcuna ulteriore specificazione di sub–criteri o di sub–punteggi, ed attribuendo così alla commissione di gara un notevolissimo potere discrezionale; tali parametri di valutazione sono stati pedissequamente riportati e ribaditi nell’articolo 8 del capitolato speciale d’appalto.
In tale situazione, ad avviso della Sezione, era indispensabile ai fini della legittimità della valutazione delle offerte presentate (e dell’attribuzione dei punteggi per i singoli parametri) la puntuale esternazione delle ragioni che avevano indotto la commissione di gara ad attribuire i punteggi contestati, non solo per permettere, in astratto, la ricostruzione dell’iter logico–giuridico seguito dalla commissione, ma soprattutto per consentire l’effettivo esercizio della tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della pubblica amministrazione, ai sensi degli artt. 24 e 113 della Costituzione.
Infatti, se non può dubitarsi dell’ampio potere discrezionale di cui è titolare una commissione di gara per l’affidamento di un appalto pubblico nella valutazione delle offerte proprio per la scelta del miglior contraente, non può tuttavia negarsi che, in omaggio ai principi fondamentali che regolano l’azione amministrativa, come predicati dall’articolo 97 della Costituzione, l’esercizio di tale potere per non trasmodare in mero arbitrio deve poter essere sempre sindacabile quantomeno sotto il profilo della logicità, razionalità e ragionevolezza: ciò può avvenire, allorquando difettino obiettivi criteri predeterminati che possano guidare, indirizzare e rendere perciò manifestamente comprensibile il concreto esercizio del predetto potere discrezionale, solo attraverso la motivazione della valutazione effettuata, cioè attraverso la puntuale indicazione delle ragioni di fatto che hanno giustificato la determinazione (attribuzione del punteggio) assunta (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.06.2012 n. 3455 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla finalità dell'art. 83 c.4, del D.Lgs. n.163/06, che stabilisce che il bando per ciascun criterio di valutazione prescelto, può prevedere, ove necessario, sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi.
L'art. 83, c. 4, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, nello stabilire che il bando di gara, per ciascun criterio di valutazione prescelto, può prevedere, ove necessario, sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi, ha effettuato una scelta che trova giustificazione nell'esigenza di ridurre gli apprezzamenti soggettivi della commissione giudicatrice, garantendo in tale modo l'imparzialità delle valutazioni nella essenziale tutela della par condicio tra i concorrenti, i quali sono tutti messi in condizione di formulare un'offerta che consenta di concorrere effettivamente alla aggiudicazione del contratto in gara.
Inoltre, quanto alla valutazione delle offerte da parte della commissione di gara pubblica, l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica può essere consentita solo quando il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro i quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, sia sufficientemente analitico da delimitare il giudizio della commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo, rendendo così evidente l'iter logico seguito nel valutare i singoli progetti sotto il profilo tecnico, in applicazione di puntuali criteri predeterminati, controllandone la logicità e la congruità essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.06.2012 n. 3445 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul cittadino leso da un provvedimento illegittimo della P.A. non ricade un particolare onere probatorio: l'illegittimità dell'atto costituisce un indice presuntivo della colpa della P.A..
Il privato danneggiato da un provvedimento illegittimo per dimostrare la colpa dell’Amministrazione può limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto.
La precisazione proviene dalla V Sez. del Consiglio di Stato, sentenza 12.06.2012 n. 3444, laddove chiarisce che per lo stesso è possibile avvalersi, al fine della prova dell'elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 c.c..
Ne deriva che ricade sull'Amministrazione l’onere di dimostrare, se del caso, che si è verificato un errore scusabile.
Quest’ultimo è configurabile per i giudici di legittimità nei seguenti casi:
a) contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma;
b) formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore;
c) rilevante complessità del fatto;
d) influenza determinante di comportamenti di altri soggetti;
e) illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.
Nella fattispecie in esame, tuttavia, non è stata riscontrata la presenza di nessuno dei predetti fattori esimenti, non avendo la parte onerata addotto alcuna precisa e significativa incertezza interpretativa che potesse giustificare il suo operato dannoso.
Di qui la condanna al risarcimento danni per la mancata aggiudicazione dell’appalto al ricorrente (commento tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Dipendente videosorvegliato se ha prestato il consenso.
Non commette reato l'imprenditore che videosorveglia i dipendenti, dopo avergli fatto firmare un foglio di autorizzazione. Ciò anche in assenza di un accordo con le rappresentanze sindacali.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, che, con la sentenza 11.06.2012 n. 22611, ha assolto una imprenditrice di Pisa che aveva fatto installare due telecamere dietro due dipendenti, previa sottoscrizione di un'autorizzazione. Dunque, mentre fino a qualche tempo fa la giurisprudenza di legittimità aveva sempre condannato questi controlli troppo invadenti da parte dell'azienda chiedendo come requisito l'accordo con le RSU, ora è sufficiente una firma del lavoratore.
Sul punto la terza sezione penale ha spiegato che se è vero che la disposizione contenuta nell'articolo 4 dello Statuto dei lavoratoti intende tutelarli contro forme subdole di controllo della loro attività da parte del datore e che tale rischio viene escluso in presenza di un consenso di organismi di categoria rappresentativi (Rsu o commissione interna), a maggior ragione, tale consenso deve essere considerato validamente prestato quando arriva proprio da tutti i dipendenti.
Questo modo di pensare non è, del resto, neppure in contrasto con la enunciazione di questa S.C. (sez. terza del 2006) - secondo cui «integrano il reato di cui agli artt. 4 e 38 L. 300/1970 anche gli impianti audiovisivi non occulti essendo sufficiente la semplice idoneità del controllo a distanza dei lavoratori». Ciò perché anche in tale motivazione si è sottolineato che ciò vale sempre che avvenga «senza accordo con le rappresentanze sindacali». Come a ribadire, cioè, che l'esistenza di un consenso validamente prestato da parte di chi sia titolare del bene protetto, esclude la integrazione dell'illecito.
«A tale stregua, pertanto, l'evocazione -nella decisione impugnata- del principio giurisprudenziale appena citato risulta non pertinente e legittima il convincimento che il giudice di merito abbia dato della norma una interpretazione eccessivamente formale e meccanicistica limitandosi a constatare l'assenza del consenso delle RSU o di una commissione interna ed affermando, pertanto, l'equazione che ciò dava automaticamente luogo alla infrazione contestata».
In tal modo, però, egli ha ignorato il dato obiettivo (peraltro di provenienza non sospetta, visto che sono stati gli stessi ispettori del lavoro a riportarlo) che l'odierna ricorrente aveva acquisito il consenso di tutti i dipendenti (articolo ItaliaOggi del 12.06.2012).

APPALTI: Qualora la formulazione o il significato di una clausola inserita nel bando di gara incida direttamente sulla formulazione dell'offerta, impedendone la corretta e consapevole elaborazione, non solo sussiste la possibilità di contestare l'effetto lesivo di essa, subito e senza attendere l'esito della gara, ma non vi è neanche la necessità di porre a carico di colui che intenda contestarla un onere di partecipazione alla relativa procedura. Ciò in quanto il predetto soggetto pone in discussione specifiche disposizioni della lex specialis di gara, che egli correttamente, se e nella misura in cui risultino poi viziate, ritiene tali da impedirgli l'utile presentazione dell'offerta e, dunque, risultano sostanzialmente impeditive della sua partecipazione alla gara.
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La legittimazione al ricorso avverso gli atti d'una gara ad evidenza pubblica, salvo puntuali eccezioni, spetta a chi in modo regolare e legittimo partecipi alla gara stessa, dato che solo a siffatta qualità si connette la titolarità, nel procedimento concorsuale ed in via d'azione, di una posizione soggettiva sostanziale differenziata e meritevole di tutela. Quanto detto non è, tuttavia, conforme alla piena esplicazione del diritto alla difesa e del diritto di libertà d'iniziativa economica privata, nonché del principio di libera concorrenza, nel caso in cui si subordini la legittimazione di un dato operatore, leso sostanzialmente in via immediata da una clausola che gli preclude la partecipazione alla gara, alla presentazione d'una domanda che ne comporterebbe l'esclusione.
È ben noto che (arg. ex Cons. St., ad. plen., 07.04.2011 n. 4), di regola, la legittimazione al ricorso avverso gli atti d’una gara ad evidenza pubblica, salvo puntuali eccezioni, spetta a chi in modo regolare e legittimo partecipi alla gara stessa, ché solo a siffatta qualità si connette la titolarità, nel procedimento concorsuale ed in via d’azione, di una posizione soggettiva sostanziale differenziata e meritevole di tutela.
Poiché la legittimazione al ricorso va collegata necessariamente ad una situazione differenziata, in modo certo, per effetto della partecipazione alla gara, solo tre sono le varianti a tal regola, ciascuna delle quali connotata da valori giuridici di pari rango a quelli testé affermati dalla giurisprudenza. Tra queste, ai presenti fini, spicca il caso della legittimazione dell’operatore economico che si rivolge nei confronti d’una o più clausole escludenti.
In tal caso, ossia ove la clausola è di tenore tale da precludere la partecipazione alla gara, ben si comprende come adempimento inutile, se non mero formalismo, s’appalesi la presentazione della domanda di partecipazione quale prova di legittimazione dell’operatore, con conseguente appesantimento della tutela di questi, obbligato ad aspettare l'esclusione dalla gara, onde impugnare pure tal provvedimento, in realtà meramente confermativo della lesione prodottasi con la clausola stessa (arg. ex Cons. St., V, 05.10.2011 n. 5454).
Non sfugge d’altronde al Collegio come non sia conforme alla piena esplicazione del diritto alla difesa e del diritto di libertà d’iniziativa economica privata, nonché del principio di libera concorrenza, subordinare la legittimazione dell’operatore, leso sostanzialmente in via immediata da una clausola che gli preclude la partecipazione alla gara, la presentazione d’una domanda che ne comporterebbe l'esclusione (cfr. Cons. St., V, 20.04.2012 n. 2339). Né il Collegio è alieno dal considerare, anzitutto, che onerano l’interessato alla loro immediata impugnazione soltanto le clausole che prescrivano in modo inequivoco requisiti d’ammissione o di partecipazione alla gara, con riguardo sia a requisiti soggettivi, sia a situazioni di fatto, la carenza dei quali determina subito l'effetto escludente (cfr. Cons. St., VI, 08.07.2010 n. 4437; id., V, 19.09.2011 n. 5323). Per altro verso, la lesione de qua si verifica non solo nel caso, per vero alquanto raro, di clausola discriminatoria, ma pure in tutti quelli in cui la clausola, pur non apparendo escludente o quand’anche formulata in modo positivo, in realtà dissimuli una fattispecie di (indebita, irrazionale, sproporzionata, ecc.) restrizione all’accesso alla gara e, quindi, alla conseguente tutela.
Avverte nondimeno la giurisprudenza (arg. ex Cons. St., VI, 18.09.2009 n. 5626) che, fermo l’onere d’impugnazione avverso le clausole immediatamente lesive, quest’ultima è pur sempre subordinata ad un'accurata analisi della singola fattispecie che metta in luce, tra gli altri aspetti, pure il contenuto della clausola sospetta d’illegittimità, il tipo di vizio dedotto dalla parte ricorrente e l' interesse manifestato dall'operatore.
Ebbene, è vero che l’accesso alla tutela (recte, alle procedure di ricorso in tema di appalti pubblici), come ben evincesi dall’art. 1, § 3) della dir. n. 66/2007/CE, è consentito anche solo a fronte del rischio della lesione, ma ciò serve, e di questo la giurisprudenza ed il Collegio sono consapevoli, essenzialmente ad ammettere l’immediata impugnazione del bando nei casi discriminatori.
Tra questi ultimi rientrano pure le situazioni in cui la clausola sia, come nel caso in esame, escludente non in sé, né per categorie predefinite di soggetti, ma secondo la prospettazione di taluni di questi soggetti che, pur godendo in linea di principio dei requisiti per l’ammissione alla gara, non vi possano accedere in concreto per l’effetto restrittivo che la clausola determina verso alcune scelte economiche che essi vorrebbero introdurre nella procedura di gara. Ma se la clausola è asserita discriminatoria o restrittiva secondo l’assunto dell’operatore o, il che è lo stesso, con riguardo ad un aspetto peculiare della stessa, non vien meno per ciò solo la delibazione del concreto interesse differenziato, ossia sul bisogno giuridico di partecipazione alla gara in quello ed in quel solo peculiare modo. Poiché quest’ultimo è ontologicamente diverso dal vizio dedotto, ossia dalla erroneità oggettiva della clausola che si assume lesiva, affinché il bisogno di tutela non trasmuti in una censura di diritto oggettivo o meramente emulativa, occorre fornire un serio principio di prova da cui evincasi, con pari rigore argomentativo, che l’effetto preclusivo dell’ATI “sovrabbondante” non corrisponda solo ad una generica difficoltà nell’offerta, ma impedisca la realizzazione d’un progetto di affare economico (purpose of business).
Nella specie l’appellata ha allegato, nel ricorso di primo grado e quale motivo per chiedere l’esercizio dell’autotutela da parte della Regione, di «… essere primaria azienda, con capacità economiche … e che opera da anni nel settore del lavanolo ospedaliero…» e di essere «… fortemente interessata alla gara di che trattasi…», ritenendo tuttavia preclusa la possibilità di partecipazione alla gara dalla clausola escludente le ATI c.d. “sovrabbondanti”. Come si vede, tal assunto non è che una, per vero assai generica, affermazione di dispiacere verso la clausola stessa, non già un, sia pur succinto, argomento dimostrativo dell’esistenza o della concreta probabilità di un progetto di ATI e di offerta conseguente.
Non ha fornito l’appellata, in primo grado, alcun serio di principio di prova che, ai fini d’una ragionevole probabilità d’offerta competitiva, che quest’ultima potesse scaturire soltanto da un’ATI “sovrabbondante” con una o più imprese parimenti qualificate e diversamente allocate nel territorio, sì da pervenire ad assetti economici soddisfacenti.
E tal esigenza di dimostrazione d’un progetto d’offerta, atto a qualificare l’interesse vantato quale necessario prius logico rispetto alla valutazione dell’eventuale illegittimità della clausola, s’appalesa ancor più significativa, se si considera la complessità, oggettiva e territoriale, del servizio da rendere, che avrebbe dovuto per vero indurre ogni impresa a dire la ragione per cui a tal fine sarebbe dovuta occorrere, tra le possibili opzioni economiche, un’ATI “sovrabbondante”.
Non a caso, l’appellata s’è posta, come d’altra parte e per altre e parimenti significative ragioni hanno fatto altre imprese comunque interessate alla gara stessa (come l’interventrice LAVIN s.p.a.), il problema d’una più approfondita ed accurata allegazione in ordine all’interesse ad agire. Queste ultime hanno affermato, senza indicare per forza il contenuto di un’offerta vera e propria, di aver sottoposto al Giudice adito una bozza di offerta realmente concorrenziale, se del caso o elaborando documenti provenienti dalle Aziende sanitarie del Lazio o dimostrando come dall’eventuale ATI “sovrabbondante” con una o più imprese allocate od operanti nella medesima Regione potesse scaturire un progetto d’offerta efficace ed appetibile.
Solo con la memoria depositata l’11.01.2012, l’appellata ha indicato, per la prima volta ed in appello, l’intenzione di costituire un’ATI con la controllante SERVIZI ITALIA s.r.l., anch’essa autonomamente qualificabile alla gara, per proporre un’offerta in linea di principio efficace e competitiva. Ma ciò dimostra che tal allegazione, in disparte la sua sufficienza in sé, non fu fornita nell’opportuna sede e che non può esser utilizzata solo qui, in sede di appello.
Come si vede, non è in discussione l’erroneità in sé, o meno, della scelta di non ammettere ATI “sovarabbondanti” alla gara in questione, né tampoco se una stazione appaltante abbia, da sola, titolo legittimo ad assumere regole più o meno pro-competitive nell’ambito d’una singola procedura ad evidenza pubblica, ma come valore assoluto e senza alcun collegamento, logico e/o giuridico, con l’utilità sperata dall’esecuzione dell’appalto.
Invero, si può anche ritenere che una scelta siffatta, ossia la limitazione a priori alle imprese della facoltà d’un tipo di ATI per ragioni antitrust, non risponda di per sé sola ad alcuna reale esigenza sottesa all’evidenza pubblica, soprattutto se meramente astratta, non proporzionata al concreto oggetto dell’appalto e non suffragata da gravi indizi di intese di cartello tra le imprese. È, questo, il caso indicato da Cons. St., VI, 19.06.2009 n. 4145, richiamato da Cons. St., VI, 18.01.2011 n. 351 (ord.za) per provocare la pronuncia di Ad. plen. n. 4/2011, fermo, al riguardo, restando anche l’ormai risalente parere dell’AGCM del 2003 sulle limitazioni delle ATI “sovrabbondanti” alle gare ad evidenza pubblica.
Pare tuttavia al Collegio che, a tutto concedere, la facoltà delle stazioni appaltanti di non ammettere queste ultime alle gare, non essendo basata su norme imperative (arg. ex CGA, 04.07.2011 n. 474) e non potendo esser statuita in via pretoria (cfr. Cons. St., VI, 20.02.2008 n. 588), resta allora soggetta agli ordinari canoni di proporzionalità e di ragionevolezza, sia in sé, sia con riguardo ed all’oggetto dell’appalto ed alla predetta utilità sperata.
Sicché, assodato che la tutela della concorrenza nell’evidenza pubblica va governata all’interno della gara e per il conseguimento del risultato economico che il soggetto aggiudicatore si prefigge, non si può ritenere collusiva un’ATI “sovrabbondante” per il sol fatto che si presenti ad una gara pubblica. L’accordo associativo per tali ATI, come ogni rapporto tra privati, in realtà è neutro e, come tale, soggiace alle ordinarie regole sulla liceità e la meritevolezza della causa e non può dirsi di per sé contrario al confronto concorrenziale proprio dell’evidenza pubblica. Insomma, elidere senz’altro la possibilità di ATI “sovrabbondante”, in assenza di motivate ragioni direttamente incidenti sulle esigenze concorrenziali della gara, soprattutto in gare, come quella per cui è causa, complesse ed articolate, potrebbe anche comprimere in modo eccessivo facoltà dell’imprenditore per ragioni non basate sull’art. 41 Cost. ed anche non consentire quelle virtuose aggregazioni commisurate a tali esigenze reali.
Ma, se tutto questo può giustificare una censura sulla scelta operata dalla lex specialis, da esso non si può direttamente inferire null’altro che l’immediata impugnabilità della clausola, non certo la prova sulla differenziazione dell’interesse del soggetto che l’impugna.
Non basta predicare l’illegittimità, ma occorre dar contezza che l’interesse azionato sia non già di mero fatto o, il che è in pratica lo stesso, basato su una mera ipotesi di possibile ed eventuale ATI “sovrabbondante” con terzi. Occorre che l’interesse sia qualificato dalla dimostrazione d’una seria chance di offerta spendibile in quella gara coeteris paribus e senza dover attendere l’eventuale rinnovazione di essa. Altrimenti, tal interesse non è diverso da quello di qualsiasi altro operatore del settore che non ha inteso partecipare alla gara stessa per i più diversi motivi e che, pur tuttavia, spera nella caducazione dell'intera selezione
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.06.2012 n. 3402 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Circolari amministrative.
Le circolari sono atti diretti agli organi e uffici periferici ovvero sottordinati e che non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o comunque vincolante per i soggetti estranei all’Amministrazione. Per gli organi e uffici destinatari delle circolari, queste ultime sono vincolanti solo se legittime, di talché è doverosa, da parte degli stessi, la disapplicazione delle circolari che siano contra legem.
Ne consegue che le circolari non rivestono una rilevanza determinante nella genesi dei provvedimenti che ne fanno applicazione, per cui i soggetti destinatari di questi ultimi non hanno alcun onere di impugnare la circolare, ma possono limitarsi a contestarne la legittimità al solo scopo di sostenere che gli atti applicativi sono illegittimi perché hanno applicato una circolare illegittima che si sarebbe invece dovuta disapplicare.

Quanto alle circolari, si rileva che trattasi di atti "diretti agli organi e uffici periferici ovvero sottordinati e che non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o comunque vincolante per i soggetti estranei all’Amministrazione. Per gli organi e uffici destinatari delle circolari, queste ultime sono vincolanti solo se legittime, di talché è doverosa, da parte degli stessi, la disapplicazione delle circolari che siano contra legem.
Ne consegue che le circolari non rivestono una rilevanza determinante nella genesi dei provvedimenti che ne fanno applicazione, per cui i soggetti destinatari di questi ultimi non hanno alcun onere di impugnare la circolare, ma possono limitarsi a contestarne la legittimità al solo scopo di sostenere che gli atti applicativi sono illegittimi perché hanno applicato una circolare illegittima che si sarebbe invece dovuta disapplicare (C.d. S., IV, 20.09.1994, n. 720)
" (così testualmente C.d.S.: IV, 16.10.2000, n. 5506) (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 08.06.2012 n. 5201 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' corretto e ragionevole il ricorso della stazione appaltante al potere di integrazione documentale di cui all'art. 46 Codice degli Appalti nell'ipotesi in cui le dichiarazioni da rendersi obbligatoriamente a norma dell'art. 38, comma primo, lett. b) e c), del medesimo testo di legge da parte dei soggetti ivi contemplati, siano non già del tutto mancanti ma, piuttosto, incomplete e, quindi, suscettibili di essere completate.
La clausola del disciplinare di gara che contempla la sanzione dell'esclusione del concorrente in caso di documentazione mancante, in omaggio al canone di proporzionalità che sempre deve guidare l'azione amministrativa, deve essere interpretata come riferita alle ipotesi in cui la documentazione sia del tutto mancante, ovvero carente ma in una misura ritenuta essenziale. Una simile interpretazione è la sola conforme al principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all'art. 46, comma 1-bis, codice degli appalti che, a seguito della novella apportata con il D.L. n. 70 del 2011, recepisce un approccio meno formalistico al problema delle irregolarità formali commesse nelle procedure di gara.

Gli odierni appellanti in via principale, sul presupposto incontestato che a carico di detti nominativi non risultino precedenti penali di alcun tipo, censurano la sentenza invocando, in generale, l’indirizzo giurisprudenziale più sostanzialistico che ricorre alla categoria del “falso innocuo” per prevenire esclusioni dettate da inadempimenti meramente formali; e, nel caso di specie, la clausola del disciplinare di gara che, a p. 12, stabilisce che “le stazioni appaltanti, prima di sancire l’eventuale esclusione dalla gara, si riservano la facoltà di chiedere ai concorrenti interessati di completare o integrare la documentazione prodotta”. Il tutto per giustificare l’operato della stazione appaltante che correttamente avrebbe consentito di integrare la documentazione incompleta.
Replica la difesa del raggruppamento guidato da Bellacomba service sottolineando come lo stesso disciplinare prevedesse l’obbligo di inserire nella busta A le dichiarazioni sostitutive a pena di esclusione, previsione che, laddove disattesa, anche solo in parte, non permetterebbe alla stazione appaltante di esercitare un potere integrativo.
Così riassunte le opposte deduzioni di parte, osserva il Collegio in punto di fatto come risulti, dagli atti di gara prodotti, che le omissioni hanno riguardato solamente alcuni dei componenti il raggruppamento e, anche per essi, solamente alcuni degli amministratori tenuti a renderle.
Il rilievo non è di secondaria importanza poiché evidenzia come, nel complesso, l’omissione documentale sia stata (più che) parziale, potendo essere derubricata come una irregolarità procedimentale imputabile alla parte privata, irregolarità che la stessa parte ha prontamente sanato depositando la documentazione integrativa (v. verbale n. 6 del 07.07.2010).
Se questo è stato lo svolgimento della vicenda procedimentale, reputa il Collegio che la stazione appaltante abbia fatto un uso corretto e ragionevole del potere di integrazione di cui all’art. 46 del Codice, al cospetto di (auto)dichiarazioni non già del tutto mancanti ma, piuttosto, incomplete e, quindi, suscettibili di essere completate.
In questa prospettiva ed in omaggio al canone di proporzionalità che sempre deve guidare l’azione amministrativa, la sanzione dell’esclusione prevista nel disciplinare di gara deve essere (interpretata come) riferita alle ipotesi in cui la documentazione sia del tutto mancante ovvero carente (ma) in una misura ritenuta essenziale.
Una simile interpretazione, che trova del resto puntuale riscontro nella stessa clausola di salvezza richiamata dagli appellanti a p. 12 del disciplinare, è la sola conforme al principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 46, comma 1-bis, del Codice che, a seguito della novella del 2011, recepisce un approccio meno formalistico al problema delle irregolarità formali commesse nelle procedure di gara, sulla scorta degli indirizzi giurisprudenziali già richiamati (cfr., ad esempio, Cons. St., V, n. 7967/2010).
A fronte di una impostazione che privilegia la massima (o semplicemente l’utile) partecipazione alla gara non potrebbe neppure invocarsi, in senso ostativo, il principio della par condicio dei concorrenti, dal momento che la stazione appaltante ha applicato lo stesso metro (di giudizio) sostanzialistico anche al raggruppamento guidato da Bellacomba Service s.a.s., disponendone l’ammissione pur in presenza di taluni inadempimenti/o irregolarità oggetto del ricorso incidentale.
Ne consegue quindi, per le ragioni sin qui evidenziate, l’infondatezza di questo primo motivo di esclusione e la legittimità dell’operato della stazione appaltante in sede di gara
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 08.06.2012 n. 3393 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo il diniego avverso l'istanza di installazione di n. 3 antenne paraboliche su di un campanile tenuto conto che:
- l’impianto (con le 3 nuove antenne paraboliche) non sembra possa ritenersi di semplice adeguamento tecnologico del preesistente impianto di telefonia mobile;
- l’indicato immobile risulta collocato in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico e che il Comune ha negato, a seguito di motivato parere, la necessaria autorizzazione paesaggistica (che era stata richiesta in forma semplificata);
- la Chiesa di S. Maria Assunta in Cielo ed il suo campanile devono ritenersi sottoposti anche al vincolo storico artistico, ai sensi dell’art. 10 del d.lgs n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali);
- il Comune ha depositato un atto con il quale il Parroco della predetta Chiesa ha diffidato la Ericsson a non installare le tre nuove parabole in quanto il contratto di locazione in essere (ed oggetto di disdetta) consente solo l’installazione dei pannelli presenti sulle facciate del campanile.

... per la riforma dell'ordinanza cautelare del TAR per il Lazio, Sezione Staccata di Latina, Sezione I, n. 92 del 2012, resa tra le parti, concernente la richiesta di autorizzazione per adeguamento tecnologico di una stazione radio per la telefonia mobile cellulare.
...
- Considerato che l’impianto (con le 3 nuove antenne paraboliche) che la Ericsson ha chiesto di poter installare sul campanile della Chiesa di S. Maria Assunta in Cielo non sembra possa ritenersi di semplice adeguamento tecnologico del preesistente impianto di telefonia mobile;
- Considerato che l’indicato immobile risulta collocato in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico e che il Comune ha negato, a seguito di motivato parere di un esperto in materia (arch. Castelluccio), la necessaria autorizzazione paesaggistica (che era stata richiesta in forma semplificata);
- Considerato che, come è stato affermato dal Comune ed è chiaramente indicato nel suddetto parere, la Chiesa di S. Maria Assunta in Cielo ed il suo campanile devono ritenersi sottoposti anche al vincolo storico artistico, ai sensi dell’art. 10 del d.lgs n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali);
- Considerato che il Comune ha depositato un atto con il quale il Parroco della predetta Chiesa ha diffidato la Ericsson a non installare le tre nuove parabole in quanto il contratto di locazione in essere (ed oggetto di disdetta) consente solo l’installazione dei pannelli presenti sulle facciate del campanile (Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 08.06.2012 n. 2232 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Alle procedure concorsuali si può partecipare su domanda scritta da presentarsi nei termini perentori indicati dall’Amministrazione, e la prova dell’avvenuta domanda deve essere fornita dal candidato.
Quando l’invio della domanda è avvenuto a mezzo posta, la prova, in caso di contestazioni, deve essere fornita con la specifica documentazione e le ricevute postali che il candidato è tenuto a conservare per ogni evenienza. Se la documentazione è smarrita, il concorrente è tenuto a ricostituirla. In assenza di ciò, è pienamente giustificato il provvedimento dell’Amministrazione che assuma non prodotta o presentata la domanda stessa.
Nel campo delle procedure concorsuali, il candidato deve premunirsi contro ogni eventuale rischio, predisponendo ogni utile accorgimento idoneo a fornire la prova della presentazione della domanda, prova che ovviamente non può essere sostituita da dichiarazioni fatte in sede giudiziaria.

Non può non richiamarsi, ai fini della decisione della causa, il pacifico ed ovvio principio, connaturato all’essenza delle procedure concorsuali per l’assunzione a posti di pubblico impiego, per cui a queste si può partecipare (come appunto nel caso di specie) su domanda scritta da presentarsi nei termini perentori indicati dall’Amministrazione, e la prova dell’avvenuta domanda deve essere fornita dal candidato.
Quando l’invio della domanda è avvenuto a mezzo posta, la prova, in caso di contestazioni, deve essere fornita con la specifica documentazione e le ricevute postali che il candidato è tenuto a conservare per ogni evenienza (non a caso, d’altra parte, ai sensi dell’art. 3 del bando del concorso in questione, la domanda doveva essere presentata “a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento”). Se la documentazione è smarrita, il concorrente è tenuto a ricostituirla. In assenza di ciò, è pienamente giustificato il provvedimento dell’Amministrazione che assuma non prodotta o presentata la domanda stessa.
La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che nel campo delle procedure concorsuali, il candidato deve premunirsi contro ogni eventuale rischio, predisponendo ogni utile accorgimento idoneo a fornire la prova della presentazione della domanda, prova che ovviamente non può essere sostituita da dichiarazioni fatte in sede giudiziaria (vedi CdS, VI, 31.05.1999, n. 699) (TAR Lazio, Sez. III-quater, sentenza 07.06.2012 n. 5179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La lottizzazione abusiva presuppone opere (c.d. lottizzazione materiale) o iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione cartolare) che comportano una trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche.
Al fine di valutare un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare necessaria una visione d'insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell'attività edilizia realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all'attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione
Proprio in quanto sussiste lottizzazione abusiva in tutti i casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la programmazione del territorio, deve rilevarsi che la verifica dell'attività edilizia realizzata nel suo complesso può condurre a riscontrare un illegittimo mutamento della destinazione all'uso del territorio autoritativamente impressa anche nei casi in cui le variazioni apportate incidano esclusivamente sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 che impone di affermare che integra un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita adeguamento degli standards. Invero, il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione urbanistica ed edilizia" e non quello di "opera comportante trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende che il mutamento di destinazione d'uso di edifici già esistenti può influire sull'assetto urbanistico dei terreni sui quali essi insistono e può altresì comportare nuovi interventi di urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni, lo si ribadisce, deve quindi essere interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma (il cui bene giuridico tutelato è costituito, come si diceva in precedenza, dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva, appunto, a garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire.
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Può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto) ma anche soltanto un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standards e rimarcare che, avuto riguardo alla tipologia dei reiterati abusivi intereventi realizzati, ove unitariamente considerati, questa è l’evenienza realizzatasi nel caso di specie.
In sostanza: da un modesto immobile di minima consistenza, attraverso una pluralità di opere abusive, poste in essere con sistematicità, ed in spregio anche ai decreti di sequestro via via emessi dall’Autorità amministrativa e giudiziaria (si veda il capo di imputazione sotteso alla sentenza ex art. 444 cpp, laddove è stato contestato il delitto di violazione di sigilli aggravata ex art. 349 cpv cp) si è realizzato un piccolo albergo munito financo di piscina.
La giurisprudenza della Corte di cassazione penale è ormai stabilmente orientata all’affermazione di detto principio.
Si rammenta in proposito (la fattispecie è speculare a quella in esame) quanto ripetutamente sostenuto da questa giurisprudenza, cioè che: “In materia edilizia, il reato di lottizzazione abusiva mediante modifica della destinazione d'uso da alberghiera a residenziale è configurabile, nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico generale consenta l'utilizzo della zona ai fini residenziali, in due casi:
a) quando il complesso alberghiero sia stato edificato alla stregua di previsioni derogatorie non estensibili ad immobili residenziali;
b) quando la destinazione d'uso residenziale comporti un incremento degli "standards" richiesti per l'edificazione alberghiera e tali "standars" aggiuntivi non risultino reperibili ovvero reperiti in concreto.”.
In detta pronuncia, in particolare, si è condivisibilmente affermato che il problema della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva -allorquando il bene suddiviso consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile già regolarmente edificato- deve essere affrontato anche alla stregua della legislazione urbanistica regionale in materia di classificazione delle categorie funzionali della destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni della pianificazione comunale, alle quali deve essere raffrontata, in termini di "compatibilità", la effettuata trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in particolare, “può integrare il reato di lottizzazione abusiva, il mutamento della destinazione d'uso di un immobile che alteri il complessivo assetto del territorio messo a punto attraverso gli strumenti urbanistici, dovendosi considerare, quanto alla individuazione di siffatta "alterazione", che l'organizzazione del territorio comunale si attua con il coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità di servizi.
L'assetto territoriale, pertanto, può essere alterato anche allorché significativamente si incida sulle dotazioni degli standards di zona.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin da epoca risalente affermato dalla giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato ha rimarcato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede" (nella specie è stato affermato che legittimamente un Comune aveva respinto l'istanza per il cambio di destinazione d'uso di un complesso immobiliare, relativamente ad uso esclusivamente residenziale, del tutto incompatibile con la destinazione di zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), del in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".

L'art. 30 del D.P.R. 380/2001, al comma 1, dispone che: "si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio".
Appare evidente che la lottizzazione abusiva presuppone opere (c.d. lottizzazione materiale) o iniziative giuridiche (c.d. lottizzazione cartolare) che comportano una trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni urbanistiche.
Al fine di valutare un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare necessaria una visione d'insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell'attività edilizia realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all'attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione
Proprio in quanto sussiste lottizzazione abusiva in tutti i casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la programmazione del territorio, deve rilevarsi, ad avviso del Collegio, che la verifica dell'attività edilizia realizzata nel suo complesso può condurre a riscontrare un illegittimo mutamento della destinazione all'uso del territorio autoritativamente impressa anche nei casi in cui le variazioni apportate incidano esclusivamente sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati.
Ciò perché è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 che impone di affermare che integra un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita adeguamento degli standards. Come già affermato dalla giurisprudenza di merito il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione urbanistica ed edilizia" e non quello di "opera comportante trasformazione urbanistica ed edilizia".
Ne discende, ad avviso del Collegio, che il mutamento di destinazione d'uso di edifici già esistenti può influire sull'assetto urbanistico dei terreni sui quali essi insistono e può altresì comportare nuovi interventi di urbanizzazione.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni, lo si ribadisce, deve quindi essere interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma (il cui bene giuridico tutelato è costituito, come si diceva in precedenza, dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva, appunto, a garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire.
Tenuto conto della natura del provvedimento impugnato in primo grado (ordinanza di sospensione per lottizzazione abusiva) cadono quindi tutte le censure fondate sulla mancata definizione delle domande di condono dei singoli –e reiterati- abusi realizzati, in quanto non incidenti sulla riscontrabilità di una condotta lottizzatoria materiale abusiva.
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Deve per ulteriore conseguenza affermarsi che può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto) ma anche soltanto un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standards e rimarcare che, avuto riguardo alla tipologia dei reiterati abusivi intereventi realizzati, ove unitariamente considerati, questa è l’evenienza realizzatasi nel caso di specie.
In sostanza: da un modesto immobile di minima consistenza, attraverso una pluralità di opere abusive, poste in essere con sistematicità, ed in spregio anche ai decreti di sequestro via via emessi dall’Autorità amministrativa e giudiziaria (si veda il capo di imputazione sotteso alla sentenza ex art. 444 cpp, laddove è stato contestato il delitto di violazione di sigilli aggravata ex art. 349 cpv cp) si è realizzato un piccolo albergo munito financo di piscina.
La giurisprudenza della Corte di cassazione penale è ormai stabilmente orientata all’affermazione di detto principio.
Si rammenta in proposito (la fattispecie è speculare a quella in esame) quanto ripetutamente sostenuto da questa giurisprudenza, cioè che: “In materia edilizia, il reato di lottizzazione abusiva mediante modifica della destinazione d'uso da alberghiera a residenziale è configurabile, nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico generale consenta l'utilizzo della zona ai fini residenziali, in due casi:
a) quando il complesso alberghiero sia stato edificato alla stregua di previsioni derogatorie non estensibili ad immobili residenziali;
b) quando la destinazione d'uso residenziale comporti un incremento degli "standards" richiesti per l'edificazione alberghiera e tali "standars" aggiuntivi non risultino reperibili ovvero reperiti in concreto
.” (Cassazione penale, sez. III, 07.03.2008, n. 24096).
In detta pronuncia, in particolare, si è condivisibilmente affermato che il problema della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva -allorquando il bene suddiviso consista non in un terreno inedificato, bensì in un immobile già regolarmente edificato- deve essere affrontato anche alla stregua della legislazione urbanistica regionale in materia di classificazione delle categorie funzionali della destinazione d'uso e correlato precipuamente alle previsioni della pianificazione comunale, alle quali deve essere raffrontata, in termini di "compatibilità", la effettuata trasformazione del territorio.
Ad avviso della Corte di Cassazione, in particolare, “può integrare il reato di lottizzazione abusiva, il mutamento della destinazione d'uso di un immobile che alteri il complessivo assetto del territorio messo a punto attraverso gli strumenti urbanistici, dovendosi considerare, quanto alla individuazione di siffatta "alterazione", che l'organizzazione del territorio comunale si attua con il coordinamento delle varie destinazioni d'uso, in tutte le loro possibili relazioni, e con l'assegnazione ad ogni singola destinazione d'uso di determinate qualità e quantità di servizi.
L'assetto territoriale, pertanto, può essere alterato anche allorché significativamente si incida sulle dotazioni degli standards di zona
.”.
Ciò appare peraltro coerente con quanto sin da epoca risalente affermato dalla giurisprudenza amministrativa.
Il Consiglio di Stato (sez. 5^, 03.01.1998, n. 24) ha rimarcato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede" (nella specie è stato affermato che legittimamente un Comune aveva respinto l'istanza per il cambio di destinazione d'uso di un complesso immobiliare, relativamente ad uso esclusivamente residenziale, del tutto incompatibile con la destinazione di zona).
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), del in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
La dedotta circostanza che, a particolari condizioni, possa conseguirsi la sanatoria degli immobili abusivamente edificati -(principio costantemente affermato dalla Corte di Cassazione: “In tema di reati edilizi, l'inapplicabilità della disciplina sul condono edilizio prevista dall'art. 39 L. 23.12.1994, n. 724 al reato di lottizzazione abusiva (art. 18 L. 28.02.1985 n. 47), non esclude l'applicabilità di tale disciplina ai singoli manufatti abusivamente eseguiti, i quali sono suscettibili di condono previa valutazione globale dell'attività lottizzatoria secondo il meccanismo previsto dal combinato disposto degli articoli 29 e 35, comma tredicesimo, L. 28.02.1985, n. 47.” -Cassazione penale, sez. III, 21.11.2007, n. 9982; e confermato pure dalla giurisprudenza amministrativa di merito: si veda TAR Campania Napoli, sez. II, 27.08.2010, n. 17263)- non inficia la legittimità dell’ordinanza di sospensione gravata, posto che lo stesso principio non può precludere all’amministrazione comunale la ravvisabilità di una fattispecie di lottizzazione materiale abusiva, né l’adozione dei provvedimenti ad essa consequenziali.

Nel caso di specie peraltro, la fattispecie “unica” racchiude in realtà due condotte parimenti illegali: la abusiva edificazione di svariati manufatti (lottizzazione materiale) e la avvenuta adibizione degli stessi, unitamente al pregresso ed originario corpo di fabbrica, ad attività incompatibile (lottizzazione abusiva mercé modifica della destinazione d’uso) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.06.2012 n. 3381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il fatto costitutivo dell'obbligo giuridico del titolare della concessione edilizia di versare il contributo previsto è rappresentato dal rilascio della concessione medesima ed è a tale momento, quindi, che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo, risultando irrilevante, a tal fine, la precedente espressione del parere della commissione edilizia.
La vicenda contenziosa concerne la determinazione degli oneri concessori a fronte di un sensibile ritardo dell’amministrazione nel rilascio della concessione edilizia.
La domanda di tutela è stata introdotta molto tempo prima delle note vicende -prima giurisprudenziali, e poi normative- che hanno condotto alla risarcibilità degli interessi legittimi, e sì è concretizzata in una domanda di annullamento (parziale) e di condanna dell’amministrazione alla restituzione di somme indebitamente corrisposte, in forza del principio –affermato nella domanda– che gli oneri concessori debbano calcolarsi al momento del favorevole esame del progetto da parte della Commissione edilizia e non a quello del (tardivo) rilascio della concessione, vieppiù ove di rilevi un comportamento dell’amministrazione scientemente preordinato a lucrare l’esponenziale incremento nel tempo degli oneri concessori.
In tali termini inquadrata, il giudice di prime cure, correttamente, ha respinto la domanda.
La Sezione ha già avuto modo di chiarire, alla luce del disposto normativo di cui all’art. 11 della legge 10/1977, che il fatto costitutivo dell'obbligo giuridico del titolare della concessione edilizia di versare il contributo previsto è rappresentato dal rilascio della concessione medesima ed è a tale momento, quindi, che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo, risultando irrilevante, a tal fine, la precedente espressione del parere della commissione edilizia (Cfr. sez. IV, 25/06/2010, n. 4109).
Ciò è di per se sufficiente ad escludere l’illegittimità dell’azione amministrativa, finanche ove sia provata la sussistenza di un colposo ritardo nell’emanazione della concessione.
Altra cosa è la liceità dell’inerzia procedimentale che si assume serbata dall’amministrazione. E’ ben possibile che episodi di ingiustificata lentezza, di aggravio procedimentale o di inefficienza abbiano dilatato oltre modo i tempi di rilascio della concessione, determinando l’esponenziale crescita degli oneri gravanti sull’istante, ma tale comportamento, ove sussistente, può essere vagliato dal giudice amministrativo solo a fronte dell’esperimento di un’azione risarcitoria, nel rispetto dei termini e delle modalità che per la sua introduzione l’ordinamento pretende.
Nel caso di specie, come condivisibilmente sottolineato dal giudice di prime cure, un’azione risarcitoria non è stata proposta, neanche a seguito delle sopravvenienze normative che ne hanno cristallizzato l’esperibilità.
Né può procedersi alla valutazione dei profili colposi della condotta della P.A. ai fini di una eventuale e futura azione risarcitoria –come pure sollecitato dall’appellante– poiché si tratterebbe in ogni caso di un accertamento che esula dalle domande ritualmente poste nel giudizio, tese invece a stigmatizzare l’illegittimità della quantificazione ai fini della ripetizione dell’indebito (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.06.2012 n. 3379 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sebbene il divieto di motivazione postuma, costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, meriti di essere confermato, rappresentando l'obbligo di motivazione il presidio essenziale del diritto di difesa, non può ritenersi che l'amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato.
Né, a ben vedere, tutte le ipotesi di chiarimenti rese nel corso del giudizio valgono quale inammissibili casi di vera e propria integrazione postuma della motivazione -nella specie l’integrazione postuma della motivazione si era risolta nella mera indicazione di una fonte normativa prima non esplicitata, consistente nell’esistenza di una decisione comunitaria a fondamento dell’operato dell’amministrazione-, fonte che ben avrebbe dovuto e potuto essere conosciuto da un operatore professionale quale la società ricorrente, per cui il vizio di eccesso di potere è insussistente.

Evidenzia in proposito il Collegio che il principio postulante la inammissibilità della integrazione postuma della motivazione in giudizio, ha sofferto di qualche temperamento nella giurisprudenza più recente di questo Consiglio di Stato, anche in relazione al sopravvenuto disposto del comma 2 dell’art. 21-octies legge 15/2005 (ex multis: “sebbene il divieto di motivazione postuma, costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, meriti di essere confermato, rappresentando l'obbligo di motivazione il presidio essenziale del diritto di difesa, non può ritenersi che l'amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato.
Né, a ben vedere, tutte le ipotesi di chiarimenti rese nel corso del giudizio valgono quale inammissibili casi di vera e propria integrazione postuma della motivazione -nella specie l’integrazione postuma della motivazione si era risolta nella mera indicazione di una fonte normativa prima non esplicitata, consistente nell’esistenza di una decisione comunitaria a fondamento dell’operato dell’amministrazione-, fonte che ben avrebbe dovuto e potuto essere conosciuto da un operatore professionale quale la società ricorrente, per cui il vizio di eccesso di potere è insussistente
” -Consiglio Stato, sez. VI, 03.03.2010, n. 1241-)
Il Collegio condivide tale evoluzione, che tende ad attenuare le conseguenze del richiamato principio del divieto di integrazione postuma dequotando il relativo vizio tutte le volte in cui la omissione di motivazione successivamente esternata non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato, e comunque in fase infraprocedimentale fossero state percepibili le ragioni sottese all’emissione del provvedimento gravato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.06.2012 n. 3376 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’oblazione non è un semplice adempimento pecuniario, ma consiste in un negozio giuridico unilaterale, processuale o extraprocessuale, produttivo di effetti di diritto pubblico, nel senso che il relativo pagamento implica riconoscimento dell’illecito con conseguente rinuncia irretrattabile alla garanzia giurisdizionale.
Consegue da ciò che la somma pagata non è ripetibile ed è irrilevante qualunque riserva fatta a tal fine, essendo semmai onere dell’interessato quello di far valere le proprie ragioni di fronte al giudice amministrativo prima di corrispondere la somma richiesta.
In altri termini, la riserva di ripetizione, sebbene contestuale, è una protestatio che non vale contro il fatto obiettivo del pagamento della somma richiesta a titolo di oblazione, con il quale l’interessato si appropria definitivamente di tutti gli effetti che a quel fatto l’ordinamento collega.

Con il primo motivo dell’appello, la parte privata sostiene che la misura dell’oblazione, dovuta con riguardo alle opere realizzate in parziale difformità dall’originaria concessione edilizia, sarebbe stata erroneamente determinata dal Comune in applicazione delle aliquote relative al contributo corrispondente all’intero fabbricato, anziché sulla sola parte del fabbricato medesimo ritenuta difforme.
In disparte la questione di fatto se il calcolo sia stato sviluppato sulla scorta dei dati forniti dagli appellanti medesimi (come sostiene l’Amministrazione e come ritiene provato la sentenza impugnata), il Collegio è dell’avviso di aderire all’orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui l’oblazione non è un semplice adempimento pecuniario, ma consiste in un negozio giuridico unilaterale, processuale o extraprocessuale, produttivo di effetti di diritto pubblico, nel senso che il relativo pagamento implica riconoscimento dell’illecito con conseguente rinuncia irretrattabile alla garanzia giurisdizionale (cfr. Cass. civ., Sez. I, 24.04.1979, n. 2319).
Consegue da ciò che la somma pagata non è ripetibile ed è irrilevante qualunque riserva fatta a tal fine, essendo semmai onere dell’interessato quello di far valere le proprie ragioni di fronte al giudice amministrativo prima di corrispondere la somma richiesta (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 05.07.2007, n. 3821).
In altri termini, la riserva di ripetizione, sebbene contestuale, è una protestatio che non vale contro il fatto obiettivo del pagamento della somma richiesta a titolo di oblazione, con il quale l’interessato si appropria definitivamente di tutti gli effetti che a quel fatto l’ordinamento collega (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.06.2012 n. 3371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va tenuta ferma la distinzione tra la fattispecie dell’art. 12 (Opere eseguite in parziale difformità dalla concessione) della legge n. 47 del 1985 e quella del successivo art. 13 (accertamento di conformità). Non è rilevante la circostanza che, in un caso come nell’altro, vengano in questione sanzioni: ciò che conta sono i diversi piani di finalità e di effetti su cui le disposizioni in discorso si collocano.
Nel caso dell’art. 12, viene in gioco una conseguenza puramente afflittiva dell’illecito commesso (che peraltro giova anche al privato, nella misura in cui gli consente di evitare la radicale demolizione dell’opera): la sanzione dunque non ha valenza ripristinatoria dell’assetto edilizio violato, non integra una regolarizzazione dell’illecito e, in particolare, non autorizza il completamento delle opere.
Invece, il procedimento di sanatoria delle opere realizzate –in tutto o in parte– in difetto di preventivo titolo idoneo ha l’obiettivo di recuperare in pieno ex post l’intervento edilizio eseguito illegittimamente, tanto è vero che (diversamente da quanto è previsto per la sanzione “pura” ex art. 12) implica la preventiva valutazione di conformità alla disciplina urbanistica in atto e a ogni altra forma di tutela del territorio.
Le procedure che vengono in gioco, in esecuzione dell’art. 12 e dell’art. 13 della legge più volte citata, sono perciò del tutto separate e distinte. Non vi è dunque alcuna ragione perché l’esito di una di esse, cronologicamente successiva, possa in qualche modo ridondare su quello di un diverso procedimento, ormai definitivamente conclusosi.

Il secondo motivo dell’appello lamenta, in sostanza, una duplicazione di procedure sanzionatorie: il vizio del provvedimento di concessione in sanatoria, non rilevato dalla sentenza, consisterebbe nella mancata previsione della restituzione di quanto già versato a titolo di sanzione amministrativa.
Neppure questo motivo ha pregio.
A questo proposito, va tenuta ferma la distinzione –ripetutamente delineata dalla giurisprudenza– tra la fattispecie dell’art. 12 della legge n. 47 del 1985 e quella del successivo art. 13 (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 06.05.1992, n. 390; Id., Sez. IV, 12.03.2009, n. 1474). Non è rilevante la circostanza che, in un caso come nell’altro, vengano in questione sanzioni: ciò che conta sono i diversi piani di finalità e di effetti su cui le disposizioni in discorso si collocano.
Nel caso dell’art. 12, viene in gioco una conseguenza puramente afflittiva dell’illecito commesso (che peraltro giova anche al privato, nella misura in cui gli consente di evitare la radicale demolizione dell’opera): la sanzione dunque non ha valenza ripristinatoria dell’assetto edilizio violato (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 05.09.2011, n. 4982), non integra una regolarizzazione dell’illecito e, in particolare, non autorizza il completamento delle opere (cfr. Cass. pen., Sez. III, 25.02.2004, n. 13978).
Invece, il procedimento di sanatoria delle opere realizzate –in tutto o in parte– in difetto di preventivo titolo idoneo ha l’obiettivo di recuperare in pieno ex post l’intervento edilizio eseguito illegittimamente, tanto è vero che (diversamente da quanto è previsto per la sanzione “pura” ex art. 12) implica la preventiva valutazione di conformità alla disciplina urbanistica in atto e a ogni altra forma di tutela del territorio (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 19.03.2008, n. 1184).
Le procedure che vengono in gioco, in esecuzione dell’art. 12 e dell’art. 13 della legge più volte citata, sono perciò del tutto separate e distinte. Non vi è dunque alcuna ragione perché l’esito di una di esse, cronologicamente successiva, possa in qualche modo ridondare su quello di un diverso procedimento, ormai definitivamente conclusosi (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.06.2012 n. 3371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La legittimità della reiterazione dei vincoli espropriativi scaduti non può prescindere dal positivo riscontro di una duplice condizione: si è pertanto affermato, per un verso, che “l’accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell’indennità di espropriazione è condizione di legittimità del provvedimento di reiterazione dei vincoli scaduti ai sensi dell’art. 2 l. n. 1187 del 1968. sebbene puntualmente motivato e giustificato da un evidente interesse pubblico”.
La reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti (oggi rientrante nella previsione di cui all'art. 9 d.P.R. 08.06.2001 n. 327) non può disporsi senza svolgere una specifica indagine concreta relativa alle singole aree finalizzata a modulare e considerare le differenti esigenze, pubbliche e private, in quanto l'amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti è tenuta ad accertare che l'interesse pubblico sia ancora attuale e non possa essere soddisfatto con soluzioni alternative e deve indicare le concrete iniziative assunte o di prossima attuazione per soddisfarlo, nonché disporre l'accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell'indennità di espropriazione.
L'obbligo di motivazione in materia di reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti sussiste anche quando la reiterazione del vincolo sia disposta in occasione dell'adozione di variante generale al p.r.g..
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Circa l'insussistenza di un siffatto obbligo di motivazione laddove la reiterazione dei vincoli di inedificabilità sia inserita all'interno di una variante c.d. "generale" non puntuale e specifica, basta osservare che quello che conta è il tipo determinazione adottata (reiterazione di vicolo scaduto), e non l'ambito territoriale più o meno ampio oggetto della complessiva disciplina in cui si inserisce, anche, la determinazione reiterativa. La gravosità e la operatività sostanzialmente espropriativa incidente in tal modo su singoli proprietari non sono attenuate o mutate dalla natura generale della variante reiterativa, per cui nessun riflesso tale natura esplica sull'esigenza di motivazione.
Sarebbe sin troppo eludibile la salvaguardia consistente nella motivazione, che è poi, in effetti, null'altro che l'ostensione di una riflessione che deve essere ponderata e razionale circa il regime specifico delle aree vincolate, sorretta da un'effettiva ricognizione delle esigenze e delle reali caratteristiche del substrato urbanistico da disciplinare, se la sola "generalità" della variante o, comunque, dello strumento urbanistico, potesse riassorbirla, in omaggio ad un formalismo legato ad un aspetto (la estensione del territorio comunale regolato) non idoneo a influire sulla capacità lesiva ed espropriativa della reiterazione.
L'obbligo di motivazione in sede di variante generale, quando investa le reiterazioni "vincolistiche" non risulta, invece, snaturare la funzione programmatoria dello strumento urbanistico, poiché la specificità e globalità delle giustificazioni legittimamente adducibili per sostenere il complesso delle sue previsioni, non tali cioè da dover indicare la "ratio variandi" di ogni singola precedente previsione appaiono compatibili con l'ostensione specifica ed esauriente relativa a singole aree su cui incidano i vincoli scaduti e reiterati. La specificità di motivazione è, infatti, in tale ipotesi, connessa alla peculiarità della fattispecie, ove con la quale non viene esercitata la normale potestà programmatoria, (il cui peso è insito nel regime della proprietà e, quindi, nella configurazione ordinaria del relativo diritto), ma si incide sul contenuto naturale costituzionalmente garantito di quest'ultimo, ancorché appunto «in occasione dell'esercizio di un potere programmatorio che "coesiste", però, con un'ulteriore determinazione di natura espropriativa.
Certamente il "modus" della motivazione non può non risentire del carattere generale della variante adottata e, quindi, non può non riflettere il probabile fenomeno dell'interdipendenza delle situazioni fattuali e degli obiettivi considerati nell'adottare la variante medesima.
Le implicazioni concrete di un quadro composto e più ampio, e cioè il modo in cui le scelte e le esigenze di assetto del territorio, nella sua più vasta articolazione, impongono sulla disciplina di una singola area in esso collocata, vanno esplicitate si da evidenziare la coerenza e l'opportunità della soluzione adottata in relazione al quadro territoriale oggetto di programmazione.
Non basta a tal fine enunziare la necessità di apportare "modifiche ed integrazioni" alle previsioni del previdente strumento urbanistico nel senso di modificare "zonizzazioni" per coordinare organicamente certe destinazioni a servizi (con la connessa innovazione alla normativa tecnica di attuazione), né basta enunciare la generica necessità di colmare il vuoto di disciplina dovuto alla decadenza di pregressi vincoli a carattere espropriativi.
La enunciazione in sé del vuoto di disciplina e delle esigenze pubblicistiche surriferite può solo costituire una premessa ma non l'intero svolgimento motivazionale della reiterazione, come giustamente ha rilevato il giudice di prime cure.
Per conferire alla valutazione di imposizione di vincoli scaduti ed alla conseguente motivazione un grado di concretezza sufficiente occorre che si proceda secondo uno schema logico "minimo" composto essenzialmente:
a) dalla ricognizione del perdurante bisogno di realizzare un certo assetto urbanistico di interesse della collettività e della portata, dimensione e priorità di tale interesse in relazione alla situazione attuale ed alle risorse disponibili;
b) dall'accertamento che la realizzazione di tale assetto possa implicare il coinvolgimento necessario ed attuale dell'are di proprietà privata già oggetto di vincolo;
c) dalla dimostrazione che eventuali soluzioni alternative siano impraticabili o eccessivamente onerose in base a criteri oggettivi di comparazione che tengano, però, anche conto del necessario bilanciamento tra costo dell'intervento pubblico e sacrificio imposto al privato: ciò in guisa che la minimizzazione di quest'ultimo può rendere praticabili anche soluzioni in sé più "costose", entro limiti di ragionevolezza obiettiva emergenti dalla considerazione della priorità e delle dimensioni dell'intervento nonché delle risorse disponibili.

Rammenta il Collegio, al fine di far precedere il più puntuale esame delle doglianze da alcune considerazioni generali di natura riepilogativa, che l’art. 2, l. 19.11.1968 n. 1187 che consentiva la reiterazione dei vincoli scaduti così disponeva: “Le indicazioni di piano regolatore generale, nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all'espropriazione od a vincoli che comportino l'inedificabilità, perdono ogni efficacia qualora entro cinque anni dalla data di approvazione del piano regolatore generale non siano stati approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati.
L'efficacia dei vincoli predetti non può essere protratta oltre il termine di attuazione dei piani particolareggiati e di lottizzazione. Per i piani regolatori generali approvati prima della data di entrata in vigore della presente legge, il termine di cinque anni di cui al precedente comma decorre dalla predetta data
”.
Si evidenzia in proposito che per lungo tempo la tradizionale opzione ermeneutica della giurisprudenza amministrativa è stata stabilmente orientata nell’affermare che la motivazione sottesa alla reiterazione potesse anche consistere in generiche considerazioni omnicomprensive dell’intero territorio comunale, soprattutto allorché (come nel caso in esame) venissero reiterati i vincoli afferenti l’intero territorio comunale. Si è pertanto affermato, in passato, che:
in sede di reiterazione dei vincoli scaduti per decorrenza del quinquennio, nel caso in cui l'amministrazione intenda procedere alla reiterazione totale dei vincoli, la documentazione dell'esistenza dei problemi di ordine generale che incidono in senso negativo sulle condizioni di vita dell'intera cittadinanza, non risolti o addirittura "medio tempore" aggravatisi, è sufficiente a legittimare la suddetta reiterazione totale, senza bisogno di una rinnovata indagine condotta sulle singole aree, onde accertare la persistente necessità di disporre di esse, al fine di soddisfare quelle esigenze, in quanto il giudizio in ordine all'attualità dei bisogni reca in sé quello sulla persistente attualità ed idoneità delle soluzioni a suo tempo prefigurate per soddisfarli.
Viceversa, nel caso in cui il procedimento reiterativo del vincolo abbia un oggetto circoscritto, l'amministrazione è tenuta a supportarlo con una specifica ed esauriente motivazione, in quanto, avendo essa omesso di attivare con tempestività il procedimento ablatorio, potrebbe aver ingenerato nel privato proprietario il convincimento che non sussista più un effettivo e concreto interesse pubblico da tutelare
” Consiglio Stato, sez. IV, 12.03.1996, n. 305).
Più di recente, tuttavia, anche a seguito del decisivo impulso fornito dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (si rimarca in proposito che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 179 del 1999, ha affermato il principio secondo cui la reiterazione dei vincoli di piano regolatore a contenuto espropriativo scaduti deve essere accompagnata dalla previsione di un indennizzo) si è assistito ad una decisa correzione di rotta che ha indotto la giurisprudenza ad affermare che la legittimità della reiterazione non poteva prescindere dal positivo riscontro di una duplice condizione: si è pertanto affermato, per un verso, che “l’accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell’indennità di espropriazione è condizione di legittimità del provvedimento di reiterazione dei vincoli scaduti ai sensi dell’art. 2 l. n. 1187 del 1968. sebbene puntualmente motivato e giustificato da un evidente interesse pubblico” (Consiglio Stato, sez. IV, 28.07.2005 , n. 4019).
Sotto altro profilo, si è evidenziato che la reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti (oggi rientrante nella previsione di cui all'art. 9 d.P.R. 08.06.2001 n. 327) non può disporsi senza svolgere una specifica indagine concreta relativa alle singole aree finalizzata a modulare e considerare le differenti esigenze, pubbliche e private, in quanto l'amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti è tenuta ad accertare che l'interesse pubblico sia ancora attuale e non possa essere soddisfatto con soluzioni alternative e deve indicare le concrete iniziative assunte o di prossima attuazione per soddisfarlo, nonché disporre l'accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell'indennità di espropriazione.
Si è rilevato, in particolare, che: “l'obbligo di motivazione in materia di reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti sussiste anche quando la reiterazione del vincolo sia disposta in occasione dell'adozione di variante generale al p.r.g.“ (Consiglio Stato, sez. IV, 15.05.2000, n. 2706).
Appare significativo riportare un breve stralcio della motivazione della decisione in ultimo citata, laddove si è affermato che “Circa l'insussistenza di un siffatto obbligo di motivazione laddove la reiterazione dei vincoli di inedificabilità sia inserita all'interno di una variante c.d. "generale" non puntuale e specifica, basta osservare che quello che conta è il tipo determinazione adottata (reiterazione di vicolo scaduto), e non l'ambito territoriale più o meno ampio oggetto della complessiva disciplina in cui si inserisce, anche, la determinazione reiterativa. La gravosità e la operatività sostanzialmente espropriativa incidente in tal modo su singoli proprietari non sono attenuate o mutate dalla natura generale della variante reiterativa, per cui nessun riflesso tale natura esplica sull'esigenza di motivazione.
Sarebbe sin troppo eludibile la salvaguardia consistente nella motivazione, che è poi, in effetti, null'altro che l'ostensione di una riflessione che deve essere ponderata e razionale circa il regime specifico delle aree vincolate, sorretta da un'effettiva ricognizione delle esigenze e delle reali caratteristiche del substrato urbanistico da disciplinare, se la sola "generalità" della variante o, comunque, dello strumento urbanistico, potesse riassorbirla, in omaggio ad un formalismo legato ad un aspetto (la estensione del territorio comunale regolato) non idoneo a influire sulla capacità lesiva ed espropriativa della reiterazione.
L'obbligo di motivazione in sede di variante generale, quando investa le reiterazioni "vincolistiche" non risulta, invece, snaturare la funzione programmatoria dello strumento urbanistico, poiché la specificità e globalità delle giustificazioni legittimamente adducibili per sostenere il complesso delle sue previsioni, non tali cioè da dover indicare la "ratio variandi" di ogni singola precedente previsione appaiono compatibili con l'ostensione specifica ed esauriente relativa a singole aree su cui incidano i vincoli scaduti e reiterati. La specificità di motivazione è, infatti, in tale ipotesi, connessa alla peculiarità della fattispecie, ove con la quale non viene esercitata la normale potestà programmatoria, (il cui peso è insito nel regime della proprietà e, quindi, nella configurazione ordinaria del relativo diritto), ma si incide sul contenuto naturale costituzionalmente garantito di quest'ultimo, ancorché appunto «in occasione dell'esercizio di un potere programmatorio che "coesiste", però, con un'ulteriore determinazione di natura espropriativa.
Certamente il "modus" della motivazione non può non risentire del carattere generale della variante adottata e, quindi, non può non riflettere il probabile fenomeno dell'interdipendenza delle situazioni fattuali e degli obiettivi considerati nell'adottare la variante medesima.
Le implicazioni concrete di un quadro composto e più ampio, e cioè il modo in cui le scelte e le esigenze di assetto del territorio, nella sua più vasta articolazione, impongono sulla disciplina di una singola area in esso collocata, vanno esplicitate si da evidenziare la coerenza e l'opportunità della soluzione adottata in relazione al quadro territoriale oggetto di programmazione.
Non basta a tal fine enunziare la necessità di apportare "modifiche ed integrazioni" alle previsioni del previdente strumento urbanistico nel senso di modificare "zonizzazioni" per coordinare organicamente certe destinazioni a servizi (con la connessa innovazione alla normativa tecnica di attuazione), né basta enunciare la generica necessità di colmare il vuoto di disciplina dovuto alla decadenza di pregressi vincoli a carattere espropriativi.
La enunciazione in sé del vuoto di disciplina e delle esigenze pubblicistiche surriferite può solo costituire una premessa ma non l'intero svolgimento motivazionale della reiterazione, come giustamente ha rilevato il giudice di prime cure.
Per conferire alla valutazione di imposizione di vincoli scaduti ed alla conseguente motivazione un grado di concretezza sufficiente occorre che si proceda secondo uno schema logico "minimo" composto essenzialmente:
a) dalla ricognizione del perdurante bisogno di realizzare un certo assetto urbanistico di interesse della collettività e della portata, dimensione e priorità di tale interesse in relazione alla situazione attuale ed alle risorse disponibili;
b) dall'accertamento che la realizzazione di tale assetto possa implicare il coinvolgimento necessario ed attuale dell'are di proprietà privata già oggetto di vincolo;
c) dalla dimostrazione che eventuali soluzioni alternative siano impraticabili o eccessivamente onerose in base a criteri oggettivi di comparazione che tengano, però, anche conto del necessario bilanciamento tra costo dell'intervento pubblico e sacrificio imposto al privato: ciò in guisa che la minimizzazione di quest'ultimo può rendere praticabili anche soluzioni in sé più "costose", entro limiti di ragionevolezza obiettiva emergenti dalla considerazione della priorità e delle dimensioni dell'intervento nonché delle risorse disponibili
.” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.06.2012 n. 3365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni incluse le controversie concernenti il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali, come nella specie.
La revoca che si riferisce a gravi motivi ovvero a violazione di legge o dei principi di buon andamento o di imparzialità, di cui all'art. 3-bis, comma 6, d.lgs. 30.12.1992, n. 502, in quanto essa è equiparabile a fatti di inadempimento e, quindi, attiene alla risoluzione del rapporto di lavoro privato, è rimessa alla cognizione della giurisdizione del giudice ordinario.
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In merito al conferimento di incarichi di lavoro a soggetti esterni alla P.A., pur non sussistendo la cd. “riserva residuale” di giurisdizione del giudice amministrativo, la quale si riferisce soltanto al reclutamento basato su prove di concorso caratterizzato da un fase di individuazione degli aspiranti muniti di generici titoli di ammissione e di una successiva fase di svolgimento di prove e di confronto delle capacità volta ad operare la selezione e presidiata da discrezionalità anche amministrativa della pubblica amministrazione, non si condivide l’assunto secondo cui non vi sarebbe spazio per la giurisdizione del G.A.
Infatti, in tutti i casi in cui la scelta del soggetto incaricato si basi su profili di discrezionalità (massima nella specie, ove sono implicate anche ragioni di carattere politico, che richiedono ancora di più il rispetto dei rigorosi parametri dell’imparzialità e del buon andamento di cui all’art. 97 della Cost.), l’atto di nomina non può che essere esercizio di potere discrezionale amministrativo e non può assolutamente ritenersi atto datoriale di tipo privatistico attinente all’organizzazione degli uffici, poiché tale qualificazione metterebbe pericolosamente sullo sfondo, in contrasto con il precetto richiamato dell’art. 97 della Cost., la necessità di rispettare, nella scelta, le regole che circoscrivono l’agire discrezionale (e, quindi, la funzione amministrativa) della P.A. e che, per contro, non possono caratterizzare il potere privatistico del datore di lavoro.

... per la riforma della sentenza del TAR CAMPANIA-NAPOLI: SEZIONE V n. 17360/2010, resa tra le parti, concernente REVOCA INCARICO DI DIRETTORE GENERALE.
...
Il Collegio non può che adeguarsi, infatti, da un lato al chiaro disposto dell’art. 63, comma 1, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, secondo il quale sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni incluse le controversie concernenti il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali, come nella specie.
Dall’altro, risulta univoca, in tal senso, la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui la revoca che si riferisce a gravi motivi ovvero a violazione di legge o dei principi di buon andamento o di imparzialità, di cui all'art. 3-bis, comma 6, d.lgs. 30.12.1992, n. 502, in quanto essa è equiparabile a fatti di inadempimento e, quindi, attiene alla risoluzione del rapporto di lavoro privato, è rimessa alla cognizione della giurisdizione del giudice ordinario (cfr. Cass., Sez. Un. 26.01.2011, n. 1767; conforme: Cass., Sez. Un., 28.07.2004, n. 14177; in senso sostanzialmente conforme: Cass., Sez. Un., 24.02.1999, n. 100).
E’ pur vero che, nella specie, l’incarico non trova la sua fonte in un contratto di diritto privato, ma in un atto amministrativo discrezionale a monte, rispetto al quale il contratto privato a valle si limita a regolare il rapporto, senza incidere sulla sua fase genetica.
In merito al conferimento di incarichi di lavoro a soggetti esterni alla P.A., pur non sussistendo la cd. “riserva residuale” di giurisdizione del giudice amministrativo, la quale si riferisce soltanto al reclutamento basato su prove di concorso caratterizzato da un fase di individuazione degli aspiranti muniti di generici titoli di ammissione e di una successiva fase di svolgimento di prove e di confronto delle capacità volta ad operare la selezione e presidiata da discrezionalità anche amministrativa della pubblica amministrazione, non si condivide l’assunto secondo cui non vi sarebbe spazio per la giurisdizione del G.A.
Infatti, in tutti i casi in cui la scelta del soggetto incaricato si basi su profili di discrezionalità (massima nella specie, ove sono implicate anche ragioni di carattere politico, che richiedono ancora di più il rispetto dei rigorosi parametri dell’imparzialità e del buon andamento di cui all’art. 97 della Cost.), l’atto di nomina non può che essere esercizio di potere discrezionale amministrativo e non può assolutamente ritenersi atto datoriale di tipo privatistico attinente all’organizzazione degli uffici, poiché tale qualificazione metterebbe pericolosamente sullo sfondo, in contrasto con il precetto richiamato dell’art. 97 della Cost., la necessità di rispettare, nella scelta, le regole che circoscrivono l’agire discrezionale (e, quindi, la funzione amministrativa) della P.A. e che, per contro, non possono caratterizzare il potere privatistico del datore di lavoro.
Tuttavia, l’impugnazione proposta si sostanzia in una contestazione incentrata unicamente sulla risoluzione di un rapporto per inadempimento (o sul suo equivalente, concernente la mancata conferma, come ha asserito la Corte di Cassazione, per effetto dell’applicazione della norma di cui all'art. 3-bis, comma 6, d.lgs. 30.12.1992, n. 502), non implicando la soluzione di questioni attinenti al rapporto di diritto pubblico a monte ed incidendo, dunque, non sull’atto amministrativo attributivo dell’incarico, bensì unicamente sul rapporto di diritto privato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.06.2012 n. 3352 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sussiste l'onere di presentare la dichiarazione ex art. 38, c. 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici della società incorporata, nel caso di incorporazione o fusione societaria nel triennio.
In caso di incorporazione o fusione societaria sussiste in capo alla società incorporante, o risultante dalla fusione, l'onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all'art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006 anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la società incorporata o le società fusesi nell'ultimo triennio ovvero che sono cessati dalla relativa carica in detto periodo (dopo il d.l. n. 70 del 2011: nell'ultimo anno). Resta ferma la possibilità di dimostrare la c.d. dissociazione.
L'art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, sia prima che dopo l'entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011, impone la presentazione di una dichiarazione sostitutiva completa, a pena di esclusione, e tale dichiarazione sostitutiva deve essere riferita, quanto all'art. 38, comma 1, lett. c), anche agli amministratori delle società che partecipano ad un procedimento di incorporazione o di fusione, nel limite temporale ivi indicato;
Nel contesto di oscillazioni della giurisprudenza e di conseguente incertezza delle stazioni appaltanti, fino alla plenaria n. 10/2012 e alla plenaria odierna, i concorrenti che omettono la dichiarazione di cui all'art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, relativamente agli amministratori delle società partecipanti al procedimento di fusione o incorporazione, possono essere esclusi dalle gare -in relazione alle dichiarazioni rese ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. c), fino alla data di pubblicazione della presente decisione- solo se il bando espliciti tale onere di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione; in caso contrario, l'esclusione può essere disposta solo ove vi sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa la dichiarazione hanno pregiudizi penali (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 07.06.2012 n. 21 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Lo speciale diritto di accesso agli atti riconosciuto al consigliere comunale può essere esteso anche agli atti della società controllata dal comune.
Peraltro tale diritto può essere pienamente affermato solo dopo aver superato l’ulteriore nodo dell’assoggettabilità della società intimata all’obbligo di consentire l’accesso ai propri atti, al pari di quanto è imposto ai soggetti pubblici.
A tale proposito la giurisprudenza è costante ed uniforme nel ritenere che anche nei confronti di soggetti con personalità giuridica di diritto privato sussista l’obbligo di garantire il diritto d’accesso, a prescindere dalla loro qualificazione quale organismo di diritto pubblico, qualora si tratti di soggetti gestori di servizio pubblico.

Nel merito, invece, occorre prendere le mosse dall’accertamento della possibilità di qualificare l’istanza come legittimamente proveniente dal ricorrente nell’esercizio delle sue funzioni di consigliere comunale e non anche quale comune cittadino. A tale proposito soccorre il testo del secondo comma dell’art. 43 del d. lgs. 267/2000, il quale recita: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
Dato il tenore letterale della norma, la stessa non parrebbe direttamente riferirsi anche alle società partecipate dal Comune che, però, si ritengono, laddove, come nel caso di specie, si tratti di soggetti a totale partecipazione pubblica, riconducibili, in via analogica, alla categoria degli “enti dipendenti”.
Si ritiene, pertanto, che lo speciale diritto di accesso agli atti riconosciuto al consigliere comunale possa essere esteso anche agli atti della società controllata in questione.
Peraltro tale diritto può essere pienamente affermato solo dopo aver superato l’ulteriore nodo dell’assoggettabilità della società intimata all’obbligo di consentire l’accesso ai propri atti, al pari di quanto è imposto ai soggetti pubblici. A tale proposito la giurisprudenza è costante ed uniforme (cfr., da ultimo, Cons. Stato, VI, 27.12.2011, n. 6835) nel ritenere che anche nei confronti di soggetti con personalità giuridica di diritto privato sussista l’obbligo di garantire il diritto d’accesso, a prescindere dalla loro qualificazione quale organismo di diritto pubblico, qualora si tratti di soggetti gestori di servizio pubblico (sul punto, da ultimo, TAR Lombardia Brescia Sez. II, 10.02.2012, n. 222, Cons. Stato, VI, 19.04.2011, n. 2434, Cons. Stato, V, 23.09.2010, n. 7083).
Nel caso di specie la società risulta essere stata costituita per “la gestione dei servizi pubblici rivolti alla promozione dello sviluppo economico e civile di Montichiari” e, quindi, per il soddisfacimento di interessi generali di carattere non industriale o commerciale.
L’assoggettabilità alla disciplina dell’accesso della stessa è, quindi, determinata dal fatto che la società Centro Fiere s.p.a. svolge servizi di rilevanza pubblica (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 05.06.2012 n. 1003 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa legittimazione al ricorso è correlata alla titolarità della situazione giuridica soggettiva per la cui tutela è esercitata l’azione giurisdizionale.
Nelle controversie concernenti l’affidamento di contratti pubblici e di concessioni, la legittimazione al ricorso spetta ai soggetti legittimamente partecipanti alla procedura competitiva indetta per l’affidamento.
L’ordinamento giuridico interno, in coerenza con i principi affermati in sede comunitaria, ammette tre fattispecie, in presenza delle quali, in deroga rispetto al principio appena enunciato, si riconosce la legittimazione a ricorrere anche al non partecipante in gara e precisamente:
● si ammette la legittimazione ad impugnare il bando di una procedura ad evidenza pubblica, a prescindere dalla partecipazione alla stessa, al ricorrente che intenda contestare in radice la scelta di indire la gara. La legittimazione, in una simile ipotesi, va riconosciuta al ricorrente che sia titolare di una situazione sufficientemente differenziata e qualificata, derivantegli dalla titolarità di rapporti giuridici incompatibili con l’oggetto della gara.
● è legittimato a ricorrere avverso l’affidamento diretto o senza gara l’operatore economico del settore che aspiri al conseguimento del contratto. In tal caso, le esigenze di tutela del confronto concorrenziale pretermesso giustificano la legittimazione ampia, fermo restando il vaglio giurisdizionale in ordine alla sussistenza, in concreto, di una situazione sufficientemente differenziata.
● si riconosce, infine, la legittimazione all’impugnazione del bando di gara che contenga clausole escludenti, in ragione dell’immediata lesività dell’illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione.

La legittimazione al ricorso è correlata alla titolarità della situazione giuridica soggettiva per la cui tutela è esercitata l’azione giurisdizionale.
Nelle controversie concernenti l’affidamento di contratti pubblici e di concessioni, la legittimazione al ricorso spetta ai soggetti legittimamente partecipanti alla procedura competitiva indetta per l’affidamento.
L’ordinamento giuridico interno, in coerenza con i principi affermati in sede comunitaria, ammette tre fattispecie, in presenza delle quali, in deroga rispetto al principio appena enunciato, si riconosce la legittimazione a ricorrere anche al non partecipante in gara.
In particolare, si ammette la legittimazione ad impugnare il bando di una procedura ad evidenza pubblica, a prescindere dalla partecipazione alla stessa, al ricorrente che intenda contestare in radice la scelta di indire la gara. La legittimazione, in una simile ipotesi, va riconosciuta al ricorrente che sia titolare di una situazione sufficientemente differenziata e qualificata, derivantegli dalla titolarità di rapporti giuridici incompatibili con l’oggetto della gara.
Altresì, è legittimato a ricorrere avverso l’affidamento diretto o senza gara l’operatore economico del settore che aspiri al conseguimento del contratto. In tal caso, le esigenze di tutela del confronto concorrenziale pretermesso giustificano la legittimazione ampia, fermo restando il vaglio giurisdizionale in ordine alla sussistenza, in concreto, di una situazione sufficientemente differenziata.
Si riconosce, infine, la legittimazione all’impugnazione del bando di gara che contenga clausole escludenti, in ragione dell’immediata lesività dell’illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione (
TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 04.06.2012 n. 1128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sull'obbligatorietà del rispetto di determinati criteri di aggiudicazione per l'affidamento del servizio di distribuzione del gas - D.M. n. 226 del 12.11.2011 sui criteri di aggiudicazione.
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L'affidamento del servizio di distribuzione del gas può avvenire anche con procedura negoziata.
L'art. 14 del d.lvo 164/2000 ha introdotto il principio per cui l'affidamento del servizio di distribuzione del gas può avvenire solo tramite gara da aggiudicarsi "sulla base delle migliori condizioni economiche e di prestazione del servizio, del livello di qualità e sicurezza, dei piani di investimento per lo sviluppo ed il potenziamento della rete e degli impianti, per il loro innovo e manutenzione, nonché dei contenuti di innovazione tecnologica e gestionale presentati dalla imprese concorrenti", e con la precisazione che tali elementi avrebbero dovuto far parte del contratto di servizio.
Tale principio é stato confermato, ed é stato anzi rafforzato, dall'art. 46-bis del D.L. 159/2007, conv. nella L. 222 del 2007, il quale ha stabilito che "al fine di garantire al settore della distribuzione del gas naturale maggiore concorrenza e livelli minimi di qualità dei servizi essenziali" con decreto ministeriale sarebbero stati individuati "i criteri di gara e di valutazione dell'offerta per l'affidamento del servizio di distribuzione del gas previsto dall'art. 14, c. 1, del d.lvo n. 164/2000, tenendo conto in maniera adeguata, oltre che delle condizioni economiche offerte, e in particolare di quelle a vantaggio dei consumatori, degli standard qualitativi e di sicurezza del servizio, dei piani di investimento e di sviluppo delle reti e degli impianti".
Se dunque il legislatore ha ritenuto opportuno regolamentare i criteri di aggiudicazione per l'affidamento del servizio di distribuzione del gas é perché il rispetto di determinati criteri di aggiudicazione é stato ritenuto imprescindibile.
Con decreto ministeriale n. 226 del 12.11.2011 i criteri di aggiudicazione del servizio di distribuzione del gas sono stati esplicitati e sono stati ricondotti a tre grandi categorie, e cioè: le condizioni economiche, i criteri di sicurezza e di qualità ed infine i piani di sviluppo degli impianti.
Il regolamento prevede, in particolare, la possibilità di attribuire non più di 28 punti per le condizioni economiche, non più di 22 punti per i criteri di sicurezza, oltre a 5 punti per il criterio della qualità; ed infine non più di 45 punti per il piano degli investimenti, da presentarsi obbligatoriamente. Tanto dimostra quanto fosse già immanente nel sistema del D.L. 159/2007 la necessità della presentazione del piano degli investimenti e di attribuire ad esso un valore significativo.
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Il termine "gara" non si riferisce solo alle procedure ad evidenza pubblica "aperte", ma anche a quelle ristrette. L'art. 46-bis del D.L. 159/2007, contempla, infatti, al c.4, l'ipotesi in cui l'affidamento del servizio di distribuzione del gas abbia luogo con procedura negoziata, laddove stabilisce che "Gli enti locali che, per l'affidamento del servizio di distribuzione di gas naturale, alla data di entrata in vigore del presente decreto, in caso di procedura aperta, abbiano pubblicato i bandi di gara, o, in caso di procedura di gara ristretta, abbiano inviato anche le lettere di invito, ….possono procedere all'affidamento del servizio di distribuzione di gas naturale secondo le procedure applicabili alla data di indizione della relativa gara……".
Del resto non appare ragionevole che il legislatore abbia consentito a derogare ai criteri di aggiudicazione indicati dall'art. 14 del D. L.vo 164/2000 e poi dall'art. 46-bis del D.L. 159/2007 in presenza di una procedura ristretta, dal momento che tali criteri sono funzionali a garantire i livelli minimi di qualità del servizio. In altre parole, le procedure di affidamento del servizio di distribuzione del gas seguono ormai, per quanto riguarda i criteri di aggiudicazione, le disposizioni di cui alle norme sopra citate, che non possono ritenersi derogabili in alcun caso, allo stesso modo in cui non si può derogare al principio per cui tali servizi possono essere affidati solo con gara, e non più tramite concessione.
Ciò significa che, nel settore di che trattasi, nel passaggio dalla gara pubblica alla procedura ristretta i criteri di aggiudicazione possono certamente essere modificati in funzione di rendere l'aggiudicazione del servizio più attraente, tuttavia rispettando il principio per cui non si può prescindere ai fini della scelta del contraente da una adeguata valorizzazione della offerta tecnica (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 01.06.2012 n. 633 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive, prevista dall’art. 7, comma 3, L. 28.02.1985, n. 47 -ora art. 31, comma 3, D.P.R. 380/2001- è atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, ed è subordinato unicamente all’accertamento della inottemperanza ed al decorso del termine di legge (novanta giorni) fissato per la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi.
In tal senso, infatti, dispone il comma 3 dell'art. 31 d.P.R. 06.06.2001 n. 380, dalla cui formulazione letterale risulta evidente che l'effetto ablatorio si verifica "ope legis" all'inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire.
Trattandosi nella sostanza di atto vincolato, trova di conseguenza applicazione quanto previsto dall’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990.
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L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’abusività e dell’accertata inottemperanza all’ordine di demolizione, essendo in re ipsa l’interesse pubblico all’adozione della misura, senza obbligo di alcuna specifica argomentazione in ordine all’acquisizione dell'area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quella abusiva, essendo soltanto necessario che in detto atto siano esattamente individuate ed elencate le opere e le relative pertinenze urbanistiche”.
L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione. Il provvedimento con il quale viene disposta l'acquisizione gratuita –costituendo titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari– può essere adottato senza la specifica indicazione dell’ulteriore area necessaria … oggetto di acquisizione, potendosi procedere a tale individuazione anche con un successivo e separato atto.

Come affermato dalla giurisprudenza “l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive, prevista dall’art. 7, comma 3, L. 28.02.1985, n. 47 -ora art. 31, comma 3, D.P.R. 380/2001- è atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, ed è subordinato unicamente all’accertamento della inottemperanza ed al decorso del termine di legge (novanta giorni) fissato per la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 18.12.2002, n. 7030; 02.01.2000, n. 341; 23.01.1991, n. 66).
In tal senso, infatti, dispone il comma 3 dell'art. 31 d.P.R. 06.06.2001 n. 380, dalla cui formulazione letterale risulta evidente che l'effetto ablatorio si verifica "ope legis" all'inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire (così TAR Campania Napoli, sez. IV, 24.05.2010, n. 8345).
Trattandosi nella sostanza di atto vincolato, trova di conseguenza applicazione quanto previsto dall’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990.
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Quanto al motivo sub b), con il quale si lamenta la mancata individuazione delle prescrizioni urbanistiche in base alle quali realizzare opere analoghe a quelle abusive, ritiene il collegio di aderire a quella giurisprudenza secondo cui “l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’abusività e dell’accertata inottemperanza all’ordine di demolizione, essendo in re ipsa l’interesse pubblico all’adozione della misura, senza obbligo di alcuna specifica argomentazione in ordine all’acquisizione dell'area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quella abusiva, essendo soltanto necessario che in detto atto siano esattamente individuate ed elencate le opere e le relative pertinenze urbanistiche” (TAR Campania Napoli sez. II, 04.11.2011, n. 5136).
In ordine poi alla dedotta mancata esatta specificazione dell’area di sedime, osserva il collegio che trattasi di censura nella sostanza introdotta soltanto con note di udienza depositate in data 05.05.2012, come tale inammissibile.
E ciò a tacere del fatto che, secondo la giurisprudenza anche di questa sezione, “l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione. Il provvedimento con il quale viene disposta l'acquisizione gratuita –costituendo titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari– può essere adottato senza la specifica indicazione dell’ulteriore area necessaria … oggetto di acquisizione, potendosi procedere a tale individuazione anche con un successivo e separato atto” (così TAR Lazio Roma, sez. I, 07.03.2011, n. 2031; TAR Campania Napoli, sez. VII, 03.11.2010, n. 22291)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 30.05.2012 n. 2565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa decadenza dei vincoli urbanistici espropriativi o che, comunque, privano la proprietà del suo valore economico, lasciando il terreno privo di regolamentazione, comporta l’obbligo per il Comune di “reintegrare” la disciplina urbanistica dell’area interessata dal vincolo decaduto con una nuova pianificazione, ancorché non sollecitata da privato, posto che tale obbligo risponde all’interesse pubblico generale e prioritario al razionale e ordinato assetto del territorio.
Il proprietario dell’area interessata può comunque presentare un’istanza, volta a ottenere l’attribuzione di una nuova destinazione urbanistica, e la P.A. è tenuta a esaminarla, anche nel caso in cui la richiesta medesima non sia suscettibile di accoglimento, con l’obbligo di motivare congruamente tale decisione.
L’obbligo di provvedere alla rideterminazione urbanistica di un’area, in relazione alla quale sono decaduti i vincoli espropriativi precedentemente in vigore, non comporta quindi che essa riceva una destinazione urbanistica edificatoria o nel senso voluto dal privato, essendo in ogni caso rimessa al potere discrezionale dell’Amministrazione comunale la verifica e la scelta della destinazione che, in coerenza con la più generale disciplina urbanistica del territorio, risulti più idonea e più adeguata in relazione all’interesse pubblico al corretto e armonico utilizzo del territorio, potendo anche ammettersi la reiterazione degli stessi vincoli scaduti, sebbene nei limiti di una congrua e specifica motivazione sulla perdurante attualità della previsione, comparata con gli interessi privati.

La decadenza dei vincoli urbanistici espropriativi o che, comunque, privano la proprietà del suo valore economico, lasciando il terreno privo di regolamentazione, comporta l’obbligo per il Comune di “reintegrare” la disciplina urbanistica dell’area interessata dal vincolo decaduto con una nuova pianificazione, ancorché non sollecitata da privato, posto che tale obbligo risponde all’interesse pubblico generale e prioritario al razionale e ordinato assetto del territorio (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 27.07.2011, n. 1456; Consiglio Stato, sez. V, 28.12.2007, n. 6741).
Il proprietario dell’area interessata può comunque presentare un’istanza, volta a ottenere l’attribuzione di una nuova destinazione urbanistica, e la P.A. è tenuta a esaminarla, anche nel caso in cui la richiesta medesima non sia suscettibile di accoglimento, con l’obbligo di motivare congruamente tale decisione (Consiglio Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7493; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 09.09.2010, n. 10032 e sez. III, 07.05.2010, n. 6465; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 20.07.2010, n. 1781).
L’obbligo di provvedere alla rideterminazione urbanistica di un’area, in relazione alla quale sono decaduti i vincoli espropriativi precedentemente in vigore, non comporta quindi che essa riceva una destinazione urbanistica edificatoria o nel senso voluto dal privato, essendo in ogni caso rimessa al potere discrezionale dell’Amministrazione comunale la verifica e la scelta della destinazione che, in coerenza con la più generale disciplina urbanistica del territorio, risulti più idonea e più adeguata in relazione all’interesse pubblico al corretto e armonico utilizzo del territorio, potendo anche ammettersi la reiterazione degli stessi vincoli scaduti, sebbene nei limiti di una congrua e specifica motivazione sulla perdurante attualità della previsione, comparata con gli interessi privati (Consiglio Stato, sez. IV, 21.04.2010, n. 2262; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 12.04.2010, n. 1084) (TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 07.03.2012, n. 248) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 30.05.2012 n. 951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1) ai piani di lottizzazione, disciplinati dall’art. 28, l. 17.08.1942 n. 1150, in assenza di una specifica disposizione che regoli il termine massimo di validità, si applica in via analogica il termine massimo di 10 anni dettato per i piani particolareggiati dall’art. 16 della stessa legge, termine entro il quale devono essere realizzate tutte le opere di urbanizzazione primaria previste dal piano di lottizzazione, in adempimento dell’obbligo assunto dal lottizzante con la stipulazione della convenzione di lottizzazione;
2) il termine massimo di 10 anni di validità del piano di lottizzazione, non è suscettibile di deroga, decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo;
3) decorso il termine di validità decennale divengono inefficaci per la parte inattuata. Il Comune può poi disciplinare la parte di piano che non ha avuto attuazione mediante un nuovo piano e dovrà, quindi, agire nel rispetto delle procedure previste dalla legge per l’approvazione dei piani attuativi;
4) il termine decennale di efficacia, previsto per i piani particolareggiati dall’art. 16 l. 17.08.1942 n. 1150, ma applicabile anche ai piani di lottizzazione, si applica solo alle disposizioni di contenuto espropriativo e non anche alle prescrizioni urbanistiche di piano che rimangono pienamente operanti e vincolanti senza limiti di tempo fino all’eventuale approvazione di un nuovo piano attuativo.
Decorso tale periodo, deve essere dichiarata l’inefficacia della parte non attuata, salvi gli allineamenti e le prescrizioni di zona nel rispetto sia dell’interesse pubblico per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione che dell’edificazione dei lotti.

Infondata è, pure, l’ulteriore censura relativa alla decadenza del Piano di Lottizzazione per mancata ultimazione delle opere di urbanizzazione ai sensi e per gli effetti dell’art. 28, comma 9, della l. n. 1150/1942.
Si premette che la fattispecie normata dall’articolo del quale si lamenta la violazione non trova riscontro nel caso all’esame, posto che non si dibatte delle conseguenze dell’inutile decorso del termine decennale per esecuzione delle opere di urbanizzazione poste a carico del proprietario a seguito di stipula della convenzione di lottizzazione, qui, per stessa ammissione di parte ricorrente, assente.
Trovano, invece, applicazione al caso, in via analogica, gli artt. 16, “Approvazione dei piani particolareggiati” e 17, “Validità dei piani particolareggiati” della legge urbanistica, l. 17.08.1942, n. 1150, che, rispettivamente, stabiliscono: “Con decreto di approvazione … sono fissati il tempo, non maggiore di dieci anni, entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato …”; e “decorso il termine stabilito per la esecuzione del piano particolareggiato questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
Secondo giurisprudenza consolidata, infatti:
1) ai piani di lottizzazione, disciplinati dall’art. 28, l. 17.08.1942 n. 1150, in assenza di una specifica disposizione che regoli il termine massimo di validità, si applica in via analogica il termine massimo di dieci anni dettato per i piani particolareggiati dall’art. 16 della stessa legge, termine entro il quale devono essere realizzate tutte le opere di urbanizzazione primaria previste dal piano di lottizzazione, in adempimento dell’obbligo assunto dal lottizzante con la stipulazione della convenzione di lottizzazione (TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 04.07.2007, n. 1488);
2) il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, non è suscettibile di deroga, decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo (TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 31.03.2011, n. 294; TAR Toscana, Firenze, sez. I, 24.06.2009, n. 1091);
3) decorso il termine di validità decennale divengono inefficaci per la parte inattuata. Il Comune può poi disciplinare la parte di piano che non ha avuto attuazione mediante un nuovo piano e dovrà, quindi, agire nel rispetto delle procedure previste dalla legge per l’approvazione dei piani attuativi (Consiglio di Stato, sez. IV, 06.04.2012, n. 2045, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 25.07.2011, n. 1979);
4) il termine decennale di efficacia, previsto per i piani particolareggiati dall’art. 16 l. 17.08.1942 n. 1150, ma applicabile anche ai piani di lottizzazione, si applica solo alle disposizioni di contenuto espropriativo e non anche alle prescrizioni urbanistiche di piano che rimangono pienamente operanti e vincolanti senza limiti di tempo fino all’eventuale approvazione di un nuovo piano attuativo (Consiglio Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4018).
Decorso tale periodo, deve essere dichiarata l’inefficacia della parte non attuata, salvi gli allineamenti e le prescrizioni di zona nel rispetto sia dell’interesse pubblico per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione che dell’edificazione dei lotti (TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 19.01.2005, n. 39) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 30.05.2012 n. 951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAil rilascio della concessione edilizia può non essere preceduto dall’approvazione del piano di lottizzazione soltanto quando la zona sia quasi interamente urbanizzata o la sua edificazione sia completa.
Nelle situazioni intermedie la lottizzazione è necessaria perché svolge una funzione di raccordo con il precedente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione. Quest’ultima deve essere programmata per zone e non avvenire in occasione dell’edificazione dei singoli lotti, sicché l’impegno del richiedente a realizzare opere di urbanizzazione primaria e secondaria non può sostituire, il piano in questione.
Il principio secondo cui va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate è applicabile solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale e intercluso in area completamente urbanizzata, non presente nel caso di specie, visto che, complessivamente, fronteggia almeno tre sedi stradali), ma non anche all’ipotesi in cui per effetto di un’edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo “ex novo” un disegno urbanistico di completamento della zona, ad esempio debba essere completato il sistema della viabilità secondaria nella zona o quando debba essere integrata l’urbanizzazione esistente garantendo il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione.
Ciò è tanto vero che la lottizzazione può rendersi necessaria anche con riguardo a edifici singoli, tanto che per escluderne la necessità deve essere comunque comprovata una situazione di pressoché completa edificazione della zona, tale da rendere del tutto superfluo un piano attuativo.

Come sostenuto dalla giurisprudenza consolidata, il rilascio della concessione edilizia può non essere preceduto dall’approvazione del piano di lottizzazione soltanto quando la zona sia quasi interamente urbanizzata o la sua edificazione sia completa. Nelle situazioni intermedie, come nel caso in esame, la lottizzazione è necessaria perché svolge una funzione di raccordo con il precedente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione. Quest’ultima deve essere programmata per zone e non avvenire in occasione dell’edificazione dei singoli lotti, sicché l’impegno del richiedente a realizzare opere di urbanizzazione primaria e secondaria non può sostituire, il piano in questione (TAR Valle d’Aosta, Aosta, sez. I, 16.06.2011, n. 43, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 05.05.2011, n. 2485; TAR Trentino Alto Adige, Trento, sez. I, 12.01.2011, n. 2).
Il principio secondo cui va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate è applicabile solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale e intercluso in area completamente urbanizzata, non presente nel caso di specie, visto che, complessivamente, fronteggia almeno tre sedi stradali), ma non anche all’ipotesi in cui per effetto di un’edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo “ex novo” un disegno urbanistico di completamento della zona, ad esempio debba essere completato il sistema della viabilità secondaria nella zona o quando debba essere integrata l’urbanizzazione esistente garantendo il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 13.02.2012, n. 386).
Ciò è tanto vero che la lottizzazione può rendersi necessaria anche con riguardo a edifici singoli, tanto che per escluderne la necessità deve essere comunque comprovata una situazione di pressoché completa edificazione della zona, tale da rendere del tutto superfluo un piano attuativo (TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 07.03.2012, n. 248) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 30.05.2012 n. 951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'emanazione di un provvedimento di demolizione di un'opera edilizia abusiva, l’amministrazione non è tenuta ad accertare e dimostrare l'epoca in cui la stessa è stata realizzata, essendo sufficiente l'accertamento della permanenza dell'opera abusiva nel momento in cui il provvedimento è adottato, mentre la determinazione di una data diversa da quella della sua commissione, rispetto alla contestazione dell'amministrazione, può essere conseguente solo ad una specifica produzione di elementi probatori da parte degli interessati, idonei a superare la presunzione per la quale l'abuso è stato realizzato in data prossima all'accertamento.
I poteri sanzionatori in materia edilizia possono essere adottati anche a distanza di anni dalla realizzazione dell'abuso e non necessitano di particolare motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico in quanto gli abusi edilizi sono illeciti a carattere permanente.
I poteri repressivi dell’Amministrazione in materia urbanistica non si estinguono per decadenza o prescrizione, con la conseguenza che i relativi provvedimenti possono essere emanati in qualsiasi tempo in quanto il potere sanzionatorio del Comune non incontra nella materia in questione limiti temporali.
Certo non sfugge al Collegio l'esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo cui, ove sia quando sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell'abuso edilizio, l'Amministrazione sarebbe tenuta a motivare circa la sussistenza dell'interesse pubblico alla eliminazione dell'opera realizzata o addirittura sulle ragioni che hanno indotto l'Ente a rimanere per tanto tempo inerte, ma tale orientamento si ritiene possa trovare applicazione solo in circostanze assai limitate.
L'evoluzione normativa in materia urbanistica è, infatti, contrassegnata dall’emanazione di norme severe per la repressione degli abusi edilizi, ma anche dalla possibilità di sanare gli abusi commessi attraverso l'istituto del cd. condono edilizio i cui termini sono stati più volte riaperti.
La possibilità riconosciuta ai privati di far rientrare le opere abusive edificate fra quelle assentite (in sanatoria) deve far ritenere che l'Amministrazione quando disponga la demolizione di opere abusive che si assumono di non recente realizzazione, ma mai denunciate neanche con la richiesta di condono, come nel caso di specie, non abbia il dovere di diffondersi in motivazioni particolari.
Del resto, ove si ritenesse che la sanzione demolitoria non costituisse un atto dovuto anche per le opere di non recente realizzazione, verrebbe vulnerata la stessa efficacia del condono quale stimolo rivolto ai privati a denunciare gli abusi commessi al fine di sottrarsi alle conseguenze di legge.

Secondo un ormai consolidato principio, ai fini dell'emanazione di un provvedimento di demolizione di un'opera edilizia abusiva, l’amministrazione non è tenuta ad accertare e dimostrare l'epoca in cui la stessa è stata realizzata, essendo sufficiente l'accertamento della permanenza dell'opera abusiva nel momento in cui il provvedimento è adottato, mentre la determinazione di una data diversa da quella della sua commissione, rispetto alla contestazione dell'amministrazione, può essere conseguente solo ad una specifica produzione di elementi probatori da parte degli interessati, idonei a superare la presunzione per la quale l'abuso è stato realizzato in data prossima all'accertamento (fra le tante: TAR Campania, Napoli, sez. IV n. 4703 del 26.10.2001, TAR, Trentino Alto Adige–Bolzano n. 283 del 09.11.2001).
Per giurisprudenza oramai costante, inoltre, i poteri sanzionatori in materia edilizia possono essere adottati anche a distanza di anni dalla realizzazione dell'abuso e non necessitano di particolare motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico in quanto gli abusi edilizi sono illeciti a carattere permanente (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 06.09.1999 n. 1015, TAR Campania, Napoli, sez. IV n. 1909 del 01.03.2003, TAR Lazio, sez. II n. 5630 del 25.06.2003).
In proposito si è altresì precisato che i poteri repressivi dell’Amministrazione in materia urbanistica non si estinguono per decadenza o prescrizione, con la conseguenza che i relativi provvedimenti possono essere emanati in qualsiasi tempo in quanto il potere sanzionatorio del Comune non incontra nella materia in questione limiti temporali (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2045 del 02.05.2005).
Certo non sfugge al Collegio l'esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo cui, ove sia quando sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell'abuso edilizio, l'Amministrazione sarebbe tenuta a motivare circa la sussistenza dell'interesse pubblico alla eliminazione dell'opera realizzata o addirittura sulle ragioni che hanno indotto l'Ente a rimanere per tanto tempo inerte, ma tale orientamento si ritiene possa trovare applicazione solo in circostanze assai limitate.
L'evoluzione normativa in materia urbanistica è, infatti, contrassegnata dall’emanazione di norme severe per la repressione degli abusi edilizi, ma anche dalla possibilità di sanare gli abusi commessi attraverso l'istituto del cd. condono edilizio i cui termini sono stati più volte riaperti.
La possibilità riconosciuta ai privati di far rientrare le opere abusive edificate fra quelle assentite (in sanatoria) deve far ritenere che l'Amministrazione quando disponga la demolizione di opere abusive che si assumono di non recente realizzazione, ma mai denunciate neanche con la richiesta di condono, come nel caso di specie, non abbia il dovere di diffondersi in motivazioni particolari.
Del resto, ove si ritenesse che la sanzione demolitoria non costituisse un atto dovuto anche per le opere di non recente realizzazione, verrebbe vulnerata la stessa efficacia del condono quale stimolo rivolto ai privati a denunciare gli abusi commessi al fine di sottrarsi alle conseguenze di legge (in termini TAR Campania, Napoli, sez. IV, 12.10.2005, 19867; idem, 26.10.2001, n. 4703) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 28.05.2012 n. 2490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A norma del d.P.R. 380/2001, sussiste a carico del proprietario dell'immobile una presunzione di responsabilità per gli abusi edilizi accertati, sicché l'interessato può sottrarsi a tale responsabilità solo dimostrando la sua estraneità all'abuso commesso.
L'ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, in considerazione del fatto che l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente e che l'adozione dell'ordinanza, di carattere ripristinatorio, non richiede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato.

Non convince nemmeno l’ulteriore profilo di censura con il quale l’istante sostiene che l'abuso sarebbe stato commesso da un soggetto diverso rispetto alla ricorrente, che viceversa sarebbe stata indicata nella ordinanza di demolizione come “committente” delle opere.
In proposito è sufficiente osservare che il provvedimento impugnato individua la ricorrente anche come proprietaria dell’immobile in questione e che la giurisprudenza amministrativa (cfr. fra le tante, TAR Campania–Napoli, sez. IV, 04.02.2003, n. 614; TAR Lazio Roma, sez. II, 17.05.2005, n. 3852) è ormai costante nell'affermare che, a norma del d.P.R. 380/2001, sussiste a carico del proprietario dell'immobile una presunzione di responsabilità per gli abusi edilizi accertati, sicché l'interessato può sottrarsi a tale responsabilità solo dimostrando la sua estraneità all'abuso commesso.
Venendo alla vicenda in esame la ricorrente non ha soddisfatto tale onere probatorio, essendosi limitata ad sostenere la propria estraneità alla realizzazione delle opere, senza tuttavia produrre in proposito alcun elemento di riscontro.
Peraltro, secondo un ulteriore condivisibile orientamento giurisprudenziale, l'ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, in considerazione del fatto che l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente e che l'adozione dell'ordinanza, di carattere ripristinatorio, non richiede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato (cfr. TAR Lazio Latina, 06.08.2009, n. 780) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 28.05.2012 n. 2490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl certificato di destinazione urbanistica rientra nella categoria degli atti di certificazione, redatti da pubblico ufficiale, aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e non può essere sussunto nella categoria del "documento amministrativo", così come definito dall'art. 22 lett. "d" della l. n. 241/1990 e s.m.i., in materia di accesso agli atti ("ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale"), costituendo l'esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica.
Ne consegue che, il rilascio dei certificati di destinazione urbanistica non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi.

Quanto al certificato di destinazione urbanistica, possono condividersi le controdeduzioni formulate dall’amministrazione resistente, tenuto conto che il predetto atto rientra nella categoria degli atti di certificazione, redatti da pubblico ufficiale, aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e non può essere sussunto nella categoria del "documento amministrativo", così come definito dall'art. 22 lett. "d" della l. n. 241/1990 e s.m.i., in materia di accesso agli atti ("ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale"), costituendo l'esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica (cfr. in tal senso TAR Puglia Lecce, sez. II, 17.09.2009, n. 2121).
Ne consegue che, il rilascio dei certificati di destinazione urbanistica non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 24.05.2012 n. 1317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANelle ipotesi di condono edilizio regolato dall'art. 35 della legge 47/1985, la mancanza dei documenti richiesti dalla legge non impedisce il perfezionamento del silenzio assenso fino al momento in cui gli stessi vengano prodotti, potendo eventualmente residuare in capo al Comune un potere di autotutela, e che, il decorso del termine perentorio di trentasei mesi dalla data di presentazione della domanda di sanatoria edilizia è circostanza sufficiente per consentire all'interessato di eccepire la prescrizione a richieste tardive dell'Amministrazione di conguaglio delle somme autodeterminate e versate dall'interessato stesso a titolo di oblazione per la sanatoria di edifici abusivamente realizzati e ciò anche nel caso in cui la domanda di sanatoria presentata sia priva di una serie di documenti.
Il predetto orientamento va, tuttavia, rimeditato alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale seguito dalla giurisprudenza maggioritaria (e dal giudice di appello), in base al quale il decorso dei termini fissati dal diciottesimo comma dell'articolo 35 della legge 28.02.1985, n. 47 (24 mesi per la formazione del silenzio-accoglimento sulla istanza di condono edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute) presuppone in ogni caso la completezza della domanda di sanatoria.
La giurisprudenza afferma, infatti, che il silenzio-assenso di cui all’art. 35 della legge n. 47 del 1985 sulle domande di sanatoria degli abusi edilizi richiede per la sua formazione, quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente assolti dall’interessato gli oneri di documentazione (che si risolvono evidentemente nella sussistenza del requisito sostanziale), relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all’ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell’Amministrazione comunale, differenziandosi il tacito accoglimento della domanda di condono dalla decisione esplicita solo per l’aspetto formale; giurisprudenza consolidata ritiene, inoltre, che l’omessa presentazione della documentazione prescritta per la domanda di condono impedisce anche il decorso del termine di 36 mesi per la prescrizione di eventuali somme a conguaglio della oblazione versata, per cui il richiamato termine di trentasei mesi decorre solo dall’avvenuto adempimento dell’integrazione documentale.
Di conseguenza, il dies a quo per il computo della prescrizione del diritto al conguaglio dell’oblazione dovuta in caso di condono edilizio, non coincide con la presentazione dell’istanza, sfornita della documentazione prescritta per la domanda di condono, ma decorre dal momento in cui la stessa viene corredata dalla documentazione necessaria ai fini della corretta e definitiva determinazione dell’entità della oblazione, fermo restando che -al fine di evitare che l’amministrazione possa impedire l’estinzione del proprio diritto di credito invocando pretestuose omissioni documentali- la rilevanza della documentazione richiesta, e delle conseguenti integrazioni istruttorie, vada verificata in relazione all’effettiva necessità della sua acquisizione e non si risolva in richieste inutili o pretestuose.

Il Collegio non ignora che questa Sezione ha quasi costantemente affermato che nelle ipotesi di condono edilizio regolato dall'art. 35 della legge 47/1985, la mancanza dei documenti richiesti dalla legge non impedisce il perfezionamento del silenzio assenso fino al momento in cui gli stessi vengano prodotti, potendo eventualmente residuare in capo al Comune un potere di autotutela, e che, il decorso del termine perentorio di trentasei mesi dalla data di presentazione della domanda di sanatoria edilizia è circostanza sufficiente per consentire all'interessato di eccepire la prescrizione a richieste tardive dell'Amministrazione di conguaglio delle somme autodeterminate e versate dall'interessato stesso a titolo di oblazione per la sanatoria di edifici abusivamente realizzati e ciò anche nel caso in cui la domanda di sanatoria presentata sia priva di una serie di documenti (cfr. sentenze nn. 557/2011, 134/2010, 760/2009, 1987/2007; contra n. 1156/2011).
Il predetto orientamento va, tuttavia, rimeditato alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale seguito dalla giurisprudenza maggioritaria (e dal giudice di appello), in base al quale il decorso dei termini fissati dal diciottesimo comma dell'articolo 35 della legge 28.02.1985, n. 47 (ventiquattro mesi per la formazione del silenzio-accoglimento sulla istanza di condono edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute) presuppone in ogni caso la completezza della domanda di sanatoria.
La giurisprudenza afferma, infatti, che il silenzio-assenso di cui all’art. 35 della legge n. 47 del 1985 sulle domande di sanatoria degli abusi edilizi richiede per la sua formazione, quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente assolti dall’interessato gli oneri di documentazione (che si risolvono evidentemente nella sussistenza del requisito sostanziale), relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all’ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell’Amministrazione comunale, differenziandosi il tacito accoglimento della domanda di condono dalla decisione esplicita solo per l’aspetto formale (C.G.A., 12.03.2012, n. 288 e 28.04.2011, n. 320; Cons. St., IV, 03.06.2010, n. 4174 e 23.07.2009 n. 4671: tuttavia recentemente di segno contrario, cfr. Cons. Stato, V, 12.03.2012 n. 1364); giurisprudenza consolidata ritiene, inoltre, che l’omessa presentazione della documentazione prescritta per la domanda di condono impedisce anche il decorso del termine di 36 mesi per la prescrizione di eventuali somme a conguaglio della oblazione versata (cfr. Cons. Stato, V, 12.09.2011, n. 5091; sez. IV, 16.02.2011, n. 1012; C.G.A. 19.04.2002 n. 199; TAR Campania–Napoli, VIII, 09.02.2012, n. 695; TAR Campania-Salerno, II, 03.06.2010 n. 8224; TAR Sicilia, Palermo, III, 29.09.2006, n. 1996), per cui il richiamato termine di trentasei mesi decorre solo dall’avvenuto adempimento dell’integrazione documentale.
Di conseguenza, il dies a quo per il computo della prescrizione del diritto al conguaglio dell’oblazione dovuta in caso di condono edilizio, non coincide con la presentazione dell’istanza, sfornita della documentazione prescritta per la domanda di condono, ma decorre dal momento in cui la stessa viene corredata dalla documentazione necessaria ai fini della corretta e definitiva determinazione dell’entità della oblazione, fermo restando che -al fine di evitare che l’amministrazione possa impedire l’estinzione del proprio diritto di credito invocando pretestuose omissioni documentali- la rilevanza della documentazione richiesta, e delle conseguenti integrazioni istruttorie, vada verificata in relazione all’effettiva necessità della sua acquisizione e non si risolva in richieste inutili o pretestuose (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 24.05.2012 n. 1316 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Offerta tecnica, mancanza del documento d'identità senza esclusione.
A seguito dell'entrata in vigore dell'art. 46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006, che ha introdotto il principio della tassatività delle cause di esclusione dalle gare di appalto, deve ritenersi illegittima l'esclusione di una ditta da una gara di appalto, che sia stata disposta in ragione dell'omessa allegazione, nella busta contenente l'offerta tecnica, della fotocopia del documento di identità del relativo sottoscrittore.
La sentenza in esame rilegge la controversa tematica della mancata allegazione di copia del documento di identità del sottoscrittore dell’offerta tecnica, alla luce del principio di tassatività delle cause di esclusione oggidì portato dall’art. 46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006.
Segnatamente, la ricorrente ha impugnato il provvedimento con cui il Comune aveva disposto la propria esclusione da una gara di appalto indetta per l’affidamento dei servizi di pulizia degli uffici comunali, sulla scorta della motivazione per cui la medesima, in sede di presentazione dell’offerta tecnica, non aveva prodotto copia del documento di identità del relativo sottoscrittore.
Ha lamentato, nello specifico, la violazione dell’art. 46 cit., in ragione della circostanza per cui la stessa disposizione non contempla, fra le ipotesi di esclusione ivi elencate, quella oggetto del gravato atto.
Il ricorso è stato accolto.
Il Collegio di Milano, in via preliminare, ha rammentato che l’istituto in parola, in virtù della menzionata norma, introdotta dal D.L. n. 70/2011 (con vigore dal 14.05.2011), prevede che la stazione appaltante può disporre l’esclusione di una ditta partecipante a una procedura di gara per l’affidamento di un appalto, esclusivamente nelle ipotesi ivi contemplate.
In particolare, le stazioni appaltanti possono inserire nei propri atti di gara solo due tipologie di clausole escludenti:
a) clausole che riproducono obblighi previsti dal Codice dei contratti pubblici o da altre disposizioni normative;
b) clausole che non riproducono obblighi previsti dal Codice dei contratti o da altre fonti normative, ma funzionali a evitare incertezze sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, ad assicurane la completezza contenutistica, ovvero a tutelarne la segretezza.
Pertanto, quanto alla vicenda al suo scrutinio, il TAR di Milano ha precisato come l’obbligo di inserire la copia della carta d’identità del firmatario nella busta contenente l’offerta tecnica non fosse ascrivibile a una delle due categorie sopra illustrate.
In primo luogo, attuando un vero e proprio revirement, ha osservato che nessuna disposizione normativa impone di allegare la carta d’identità agli atti aventi natura di proposta contrattuale, quali sono le offerte tecniche ed economiche proposte dai concorrenti che partecipano alle gare pubbliche (ex multis, TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 26.03.2012, n. 530).
Difatti, detto obbligo, ai sensi dell’art. 38, comma 3, D.P.R. n. 445/2000, è previsto solo per le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà e per le istanze rivolte all’amministrazione; non a caso, la disposizione sancisce che: "Le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della pubblica amministrazione o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall'interessato (…) e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore".
In secondo luogo, non ha ritenuto –in fatto- che la mancata introduzione della copia della carta d’identità del firmatario nella busta contenente l’offerta tecnica avesse determinato incertezza assoluta sulla provenienza dell’offerta stessa, atteso che la busta dell’offerta tecnica era contenuta in un’unica busta contenente, a sua volta, l’istanza di partecipazione alla gara corredata, in virtù dell’art. 38 cit., della copia del documento identificativo del firmatario.
Ha precisato, così, che la funzione di garanzia della certezza sulla provenienza dell’offerta è assicurata solo da questa formalità, per cui ogni altra prescrizione in tal senso si rivela inutile e, di conseguenza, contraria alle disposizioni di cui al citato art. 46, comma 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006.
Alla stregua di tanto, la clausola contenuta negli atti di gara sancente la prescrizione avversata è stata considerata nulla, con conseguente declaratoria di illegittimità dell’esclusione della ricorrente (
commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 23.05.2012 n. 1397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto ad ottenere il risarcimento del danno nasce da una riconosciuta responsabilità della pubblica amministrazione per inosservanza di obblighi procedimentali incombenti sulla stessa.
Dai principi di efficienza, economicità, imparzialità, correttezza dell’azione amministrativa derivano per l’amministrazione regole ed obblighi che, se violati senza alcuna giustificazione o senza aver di mira il perseguimento di un interesse pubblico superiore, comportano una responsabilità per l’amministrazione stessa. Ciò avviene anche per l’ipotesi di violazione delle regole poste a tutela della partecipazione procedimentale ovvero delle norme che impongono la conclusione nei termini di legge dei procedimenti amministrativi.
La tutela risarcitoria degli interessi legittimi è recente acquisizione e nel tempo la relativa responsabilità dell’amministrazione è stata qualificata in diversi modi: responsabilità contrattuale derivante dal c.d. contatto sociale, precontrattuale, aquiliana e infine anche modello di responsabilità speciale. Attualmente queste differenze e nozioni hanno perso di interesse poiché il Legislatore con l’approvazione del Codice del Processo amministrativo, in linea con la giurisprudenza prevalente, ha qualificato la responsabilità della pubblica amministrazione, derivante dalla lesione di interessi legittimi, in termini di responsabilità aquiliana, i cui elementi costitutivi sono quelli dell’illecito civile.
Nell’ambito della responsabilità civile va inquadrato anche il risarcimento del c.d. danno da ritardo (quale ipotesi atipica di illecito civile) e cioè il danno che il cittadino lamenta per il ritardo con cui l’amministrazione emana il provvedimento favorevole ovvero negativo ma legittimo o, ancora, il danno che si verifica nel caso in cui l’amministrazione non si pronuncia affatto.
Nell’ultimo decennio la problematica inerente la risarcibilità del danno derivante dalla lesione dell’interesse alla conclusione del procedimento nel termine di legge ha assunto grande importanza ed in particolare la giurisprudenza si è confrontata sulla possibilità di considerare quale fonte di responsabilità dell’amministrazione anche il mero ritardo nell’adottare il provvedimento, slegato cioè da ogni valutazione sulla spettanza del bene della vita.
Questo dibattito si considera oramai in parte superato poiché la violazione dell’obbligo di concludere con un provvedimento espresso il procedimento amministrativo avviato ad istanza di parte, (dunque di una posizione di interesse legittimo pretensivo), trova espressa tutela, anche risarcitoria.
Alla luce del dettato normativo di cui alla legge 69/2009, che ha modificato la disciplina di cui all’articolo 2 –bis della legge 241/1990, infatti, “Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
La giurisprudenza prevalente riconosce oramai al ritardo amministrativo una autonoma risarcibilità, a prescindere dalla fondatezza della pretesa sottostante all’istanza formulata all’amministrazione (fatta eccezione per quelle palesemente infondate o meramente pretestuose). Il tempo è considerato un bene della vita per il cittadino e da esso deriva il suo diritto ad ottenere una risposta alla sua istanza in tempi certi e definiti.
La giurisprudenza ha riconosciuto che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica. In questa prospettiva, ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell'aumento del c.d. "rischio amministrativo" e, quindi, spetta il risarcimento del danno da ritardo a condizione, ovviamente, che tale danno sussista e venga provato e sia escluso che vi sia stato il concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227 c.c..
La circostanza per cui l’ordinamento dà rilevanza diretta al tempo, a prescindere dalla fondatezza dell’istanza del privato, non significa che l’inutile decorso del tempo viene risarcito sempre e comunque, appunto per il suo solo trascorrere.
L’articolo 2 –bis della legge 241/1990, con l’utilizzo di locuzioni quali “danno ingiusto” e inosservanza “dolosa o colposa” del termine, che richiamano l’articolo 2043 c.c., richiede, infatti, che il danno da ritardo risarcibile vada comunque ricondotto agli elementi costitutivi di cui alla disciplina dell’illecito civile.
Il “ritardo risarcibile”, quindi, deve innanzitutto “produrre” un danno considerato ingiusto, e cioè, come pure è stato affermato in dottrina, sostanziare ”la lesione di un interesse giuridicamente protetto nella vita di relazione”. Il danno non iure, deve, poi, conseguire all’inosservanza dolosa o colposa dei termini a provvedere.
Per aversi risarcibilità del ritardo amministrativo, quindi, è necessario, secondo quanto disposto dal Legislatore che si verifichino i due aspetti del danno ingiusto e cioè il danno evento e il danno conseguenza: la lesione illegittima della sfera giuridica e le conseguenze pregiudizievoli che dalla lesione possono derivare.
La lesione dell’interesse legittimo teso ad ottenere che il procedimento si concluda nel termine di legge o ad ottenere un provvedimento espresso è condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. perché occorre che “risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della pubblica amministrazione l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo”.
E’ stato più di recente anche affermato che “l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo, ma il danneggiato deve provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda, ossia oltre al danno, l'elemento soggettivo del dolo o della colpa e il nesso di causalità tra danno ed evento. Pertanto, l'accertamento della responsabilità della P.A. per il tardivo esercizio della funzione amministrativa non può ricollegarsi, quale effetto automatico, alla mera constatazione della violazione dei termini del procedimento, Si richiede un quid pluris, ossia che l'inosservanza dei termini procedimentali sia imputabile a colpa o dolo dell'Amministrazione medesima e che il danno sia conseguenza diretta ed immediata del ritardo dell'Amministrazione".
Il risarcimento del danno da ritardo, dunque, presuppone, al pari di ogni pregiudizio di cui si rivendichi il ristoro in sede aquiliana, che la lesione del bene della vita “tempo”, integrante danno-evento, sia seguita dalla produzione di conseguenze pregiudizievoli nella sfera patrimoniale e non, ossia il c.d. danno conseguenza, di cui compete al soggetto che agisce in giudizio fornire adeguata dimostrazione sul duplice versante dell’an e del quantum.
Il danno risarcibile, in una prospettiva ermeneutica fedele alle coordinate della Cassazione che escludono la funzione sanzionatoria del sistema della responsabilità aquiliana e che richiedono la dimostrazione di un pregiudizio conseguito, ex art. 1223 c.c., alla lesione dell’interesse giuridicamente tutelato, non è il "tempo perso" in sé ma la conseguenza dannosa che la lesione del bene tempo abbia sortito nella sfera del danneggiato.
Nel rapporto “procedimentale” con la P.A. i beni della vita da tutelare sono quindi due: da una parte l’interesse ad ottenere una delibazione tempestiva della propria istanza e dall’altra quello che si intende conseguire con il favorevole provvedimento richiesto. In caso di inerzia tenuta dall’amministrazione rispetto all’istanza del cittadino, questi può adire il giudice amministrativo sia per chiedere che venga condannata l’amministrazione a pronunciarsi ricorrendo al rito sul silenzio sia per chiedere direttamente il risarcimento del danno che assume gli sia derivato dall’inerzia stessa.
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Con riferimento alla fattispecie del danno da ritardo, in merito al comportamento corretto e diligente del creditore, è stato anche affermato che il diritto al risarcimento del danno derivante dal ritardo con il quale l'Amministrazione ha provveduto spetta solo ove i soggetti interessati abbiano reagito all'inerzia impugnando il silenzio-rifiuto; solo in caso di persistente inerzia a seguito di questa procedura può infatti configurarsi la lesione al bene della vita, risarcibile, alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto qualificato e differenziato tra soggetto pubblico e privato.

Per quanto concerne il merito del ricorso proposto, la ricorrente chiede che le venga risarcito il danno derivante dalla mancata esecuzione della sentenza n. 75/2009 con la quale sono stati annullati gli atti a suo tempo impugnati che sospendevano a tempo indeterminato il procedimento di rilascio della concessione demaniale richiesta.
Con il presente ricorso la ricorrente chiede, quindi, che le venga risarcito il danno da perdita di chance, che si sostanzia in particolare nella perdita della possibilità di un risultato favorevole che la ricorrente ritiene “presente nel suo patrimonio” e che ha comportato l’impossibilità di ottenere e gestire il porto turistico così come progettato. Secondo la difesa della ricorrente sugli Enti intimati incombe una responsabilità da “contatto sociale e procedimentale”, il che, secondo l’allegata relazione tecnica di parte, comporta il risarcimento delle ingenti spese sostenute e del danno da perdita dei canoni di ormeggio e gestione che avrebbe potuto ricavare dai potenziali ormeggianti i posti barca.
Preliminarmente, prima di valutare la fondatezza della domanda risarcitoria proposta, occorre richiamare in questa sede alcuni fondamentali principi in tema di risarcimento del danno derivante da lesione di interessi legittimi ed in particolare di risarcimento del danno da ritardo nell’attività amministrativa, mai lamentato per tale espressamente in questa sede, ma che è nella sostanza alla base della controversia de qua.
Il diritto ad ottenere il risarcimento del danno nasce da una riconosciuta responsabilità della pubblica amministrazione per inosservanza di obblighi procedimentali incombenti sulla stessa.
Dai principi di efficienza, economicità, imparzialità, correttezza dell’azione amministrativa derivano per l’amministrazione regole ed obblighi che, se violati senza alcuna giustificazione o senza aver di mira il perseguimento di un interesse pubblico superiore, comportano una responsabilità per l’amministrazione stessa. Ciò avviene anche per l’ipotesi di violazione delle regole poste a tutela della partecipazione procedimentale ovvero delle norme che impongono la conclusione nei termini di legge dei procedimenti amministrativi.
La tutela risarcitoria degli interessi legittimi è recente acquisizione e nel tempo la relativa responsabilità dell’amministrazione è stata qualificata in diversi modi: responsabilità contrattuale derivante dal c.d. contatto sociale, precontrattuale, aquiliana e infine anche modello di responsabilità speciale. Attualmente queste differenze e nozioni hanno perso di interesse poiché il Legislatore con l’approvazione del Codice del Processo amministrativo, in linea con la giurisprudenza prevalente, ha qualificato la responsabilità della pubblica amministrazione, derivante dalla lesione di interessi legittimi, in termini di responsabilità aquiliana, i cui elementi costitutivi sono quelli dell’illecito civile.
Nell’ambito della responsabilità civile va inquadrato anche il risarcimento del c.d. danno da ritardo (quale ipotesi atipica di illecito civile) e cioè il danno che il cittadino lamenta per il ritardo con cui l’amministrazione emana il provvedimento favorevole ovvero negativo ma legittimo o, ancora, il danno che si verifica nel caso in cui l’amministrazione non si pronuncia affatto.
Nell’ultimo decennio la problematica inerente la risarcibilità del danno derivante dalla lesione dell’interesse alla conclusione del procedimento nel termine di legge ha assunto grande importanza ed in particolare la giurisprudenza si è confrontata sulla possibilità di considerare quale fonte di responsabilità dell’amministrazione anche il mero ritardo nell’adottare il provvedimento, slegato cioè da ogni valutazione sulla spettanza del bene della vita (Consiglio di Stato, ad. Plenaria n. 7/2005).
Questo dibattito si considera oramai in parte superato poiché la violazione dell’obbligo di concludere con un provvedimento espresso il procedimento amministrativo avviato ad istanza di parte, (dunque di una posizione di interesse legittimo pretensivo), trova espressa tutela, anche risarcitoria.
Alla luce del dettato normativo di cui alla legge 69/2009, che ha modificato la disciplina di cui all’articolo 2 –bis della legge 241/1990, infatti, “Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
La giurisprudenza prevalente riconosce oramai al ritardo amministrativo una autonoma risarcibilità, a prescindere dalla fondatezza della pretesa sottostante all’istanza formulata all’amministrazione (fatta eccezione per quelle palesemente infondate o meramente pretestuose). Il tempo è considerato un bene della vita per il cittadino e da esso deriva il suo diritto ad ottenere una risposta alla sua istanza in tempi certi e definiti.
La giurisprudenza ha riconosciuto che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica. In questa prospettiva, ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell'aumento del c.d. "rischio amministrativo" e, quindi, spetta il risarcimento del danno da ritardo a condizione, ovviamente, che tale danno sussista e venga provato e sia escluso che vi sia stato il concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227 c.c. (Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., n. 684 del 24.10.2011).
La circostanza per cui l’ordinamento dà rilevanza diretta al tempo, a prescindere dalla fondatezza dell’istanza del privato, non significa che l’inutile decorso del tempo viene risarcito sempre e comunque, appunto per il suo solo trascorrere.
L’articolo 2 –bis della legge 241/1990, con l’utilizzo di locuzioni quali “danno ingiusto” e inosservanza “dolosa o colposa” del termine, che richiamano l’articolo 2043 c.c., richiede, infatti, che il danno da ritardo risarcibile vada comunque ricondotto agli elementi costitutivi di cui alla disciplina dell’illecito civile.
Il “ritardo risarcibile”, quindi, deve innanzitutto “produrre” un danno considerato ingiusto, e cioè, come pure è stato affermato in dottrina, sostanziare ”la lesione di un interesse giuridicamente protetto nella vita di relazione”. Il danno non iure, deve, poi, conseguire all’inosservanza dolosa o colposa dei termini a provvedere.
Per aversi risarcibilità del ritardo amministrativo, quindi, è necessario, secondo quanto disposto dal Legislatore che si verifichino i due aspetti del danno ingiusto e cioè il danno evento e il danno conseguenza: la lesione illegittima della sfera giuridica e le conseguenze pregiudizievoli che dalla lesione possono derivare.
La lesione dell’interesse legittimo teso ad ottenere che il procedimento si concluda nel termine di legge o ad ottenere un provvedimento espresso è condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. perché occorre che “risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della pubblica amministrazione l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo” (cfr. Corte di Cassazione, SS.UU., n. 500/1999).
E’ stato più di recente anche affermato che “l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo, ma il danneggiato deve provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda, ossia oltre al danno, l'elemento soggettivo del dolo o della colpa e il nesso di causalità tra danno ed evento. Pertanto, l'accertamento della responsabilità della P.A. per il tardivo esercizio della funzione amministrativa non può ricollegarsi, quale effetto automatico, alla mera constatazione della violazione dei termini del procedimento, Si richiede un quid pluris, ossia che l'inosservanza dei termini procedimentali sia imputabile a colpa o dolo dell'Amministrazione medesima e che il danno sia conseguenza diretta ed immediata del ritardo dell'Amministrazione" (cfr. TAR Campania–Napoli - sez. VIII, n. 4942 del 26.10.2011).
Il risarcimento del danno da ritardo, dunque, presuppone, al pari di ogni pregiudizio di cui si rivendichi il ristoro in sede aquiliana, che la lesione del bene della vita “tempo”, integrante danno-evento, sia seguita dalla produzione di conseguenze pregiudizievoli nella sfera patrimoniale e non, ossia il c.d. danno conseguenza, di cui compete al soggetto che agisce in giudizio fornire adeguata dimostrazione sul duplice versante dell’an e del quantum.
Il danno risarcibile, in una prospettiva ermeneutica fedele alle coordinate della Cassazione che escludono la funzione sanzionatoria del sistema della responsabilità aquiliana e che richiedono la dimostrazione di un pregiudizio conseguito, ex art. 1223 c.c., alla lesione dell’interesse giuridicamente tutelato, non è il "tempo perso" in sé ma la conseguenza dannosa che la lesione del bene tempo abbia sortito nella sfera del danneggiato.
Nel rapporto “procedimentale” con la P.A. i beni della vita da tutelare sono quindi due: da una parte l’interesse ad ottenere una delibazione tempestiva della propria istanza e dall’altra quello che si intende conseguire con il favorevole provvedimento richiesto. In caso di inerzia tenuta dall’amministrazione rispetto all’istanza del cittadino, questi può adire il giudice amministrativo sia per chiedere che venga condannata l’amministrazione a pronunciarsi ricorrendo al rito sul silenzio sia per chiedere direttamente il risarcimento del danno che assume gli sia derivato dall’inerzia stessa.
La mancata attivazione del rito sul silenzio, tuttavia, come si dirà a breve, può rilevare ai fini dell’articolo 1227 c.c. (cfr. art. 30 c.p.a.) in ordine all’accertamento della spettanza del risarcimento nonché alla quantificazione del danno risarcibile.
Nel caso in cui manca una pronuncia dell’amministrazione, seppure tardiva, positiva o negativa, per il giudice amministrativo che deve decidere sulla domanda risarcitoria, si pone preliminarmente il problema di andare a valutare la spettanza o meno del bene della vita e, conseguentemente, quello dell’entità del danno lamentato.
Il giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita diventa operazione sempre più complessa e delicata a seconda che si tratti di attività amministrativa vincolata ovvero discrezionale. Mentre nel primo caso per il giudice amministrativo è più agevole sindacare dall’esterno la possibilità di ottenere un provvedimento favorevole e quindi valutare l’effettività del danno lamentato, in caso di attività discrezionale detto sindacato necessita di una maggiore cautela per evitare una ingerenza del giudice nel campo del merito amministrativo.
In quest’ultimo caso il risarcimento del danno deve, infatti, essere parametrato alla chance di ottenere il provvedimento favorevole e quindi il giudice andrà a valutare gli elementi che in base ad una semplice ed evidente presunzione, con una mera operazione probabilistica, avrebbero condotto all’assunzione di un provvedimento favorevole se l’Amministrazione avesse rispettato il termine o se si fosse, comunque, determinata, evitando, quindi, di sconfinare in considerazioni di opportunità.
La considerazione che il tempo nel nostro ordinamento, sia un bene della vita, risarcibile ex se, trova un temperamento nella disciplina generale introdotta dal codice del processo amministrativo in tema di azione risarcitoria.
L’articolo 30, al secondo comma prevede che “Può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria...”.
Anche questa norma richiama la formula aquiliana del danno ingiusto e si riferisce espressamente sia all’attività provvedimentale illegittima che alle ipotesi di inerzia procedimentale.
La norma introdotta con la legge 69/2009 risulta quindi, temperata dal comma 3 dell’articolo 30 del c.p.a. con il quale si prevede che “Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
Tale norma assume valore di canone interpretativo del principio stabilito dal secondo comma dell’articolo 1227 c.c.. secondo cui “Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza” e cioè non è risarcibile il danno che il creditore non avrebbe subito se si fosse comportato in maniera collaborativa, comportamento cui è tenuto secondo correttezza.
A tal proposito va richiamato in questa sede quanto affermato dal Supremo Consesso della Giustizia amministrativa con la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3/2011 secondo la quale il comma 3 dell’articolo 30 c.p.a. (applicabile come detto anche in ipotesi di azione di risarcimento derivante da ritardo provvedimentale) “pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza. …..
Operando una ricognizione dei principi civilistici in tema di causalità giuridica e di principio di auto-responsabilità, il codice del processo amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili. …..La giurisprudenza più recente, …… ha adottato un’interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2 dell'art. 1227, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall'aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno)…l’obbligo di cooperazione di cui al comma 2 dell’art. 1227 ha fondamento proprio nel canone di buona fede ex art. 1175 c.c. e, quindi, nel principio costituzionale di solidarietà, si deve concludere che anche le scelte processuali di tipo omissivo possono costituire in astratto comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di causalità ipotetica di cui si è detto, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno.
Si deve allora preferire al tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sindacabilità delle condotte processuali ai sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., un più duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto
”. (Cfr Consiglio di Stato, ad. Plenaria n. 3 del 23.03.2011 cit.).
Proprio con riferimento alla fattispecie del danno da ritardo, in merito al comportamento corretto e diligente del creditore, è stato anche affermato che il diritto al risarcimento del danno derivante dal ritardo con il quale l'Amministrazione ha provveduto spetta solo ove i soggetti interessati abbiano reagito all'inerzia impugnando il silenzio-rifiuto; solo in caso di persistente inerzia a seguito di questa procedura può infatti configurarsi la lesione al bene della vita, risarcibile, alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto qualificato e differenziato tra soggetto pubblico e privato (TAR Lombardia Milano, sez. IV, 18.10.2010, n. 6989, sez. I, 12.01.2011, n. 35 ).
Invero, ciò che si risarcisce non è una aspettativa all'agere legittimo dell'Amministrazione, bensì il mancato conseguimento del bene della vita cui si ambiva al momento della proposizione dell'istanza.
La norma codicistica di cui all’art. 2043 c.c., infatti, subordina il risarcimento alla produzione di un danno ingiusto causalmente generato da una condotta illecita, nel caso di specie da individuarsi nell’asserito ritardo, imputabile all'Amministrazione a titolo di dolo o colpa (cfr. in proposito TAR Lazio Roma, sez. I, 22.09.2010, n. 32382, sez. II, 05.01.2011 n. 28) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 14.05.2012 n. 450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConcorsi interni, sono un'offerta al pubblico. Obbligo di adempiere secondo i principi contrattuali.
Il concorso interno è assimilabile ad un'offerta al pubblico che impegna il datore ad adempiere all'offerta secondo correttezza e buona fede.

L’art. 97, comma 3, della Costituzione prevede che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. I concorsi non si esauriscono nella forma del concorso pubblico.
Sia la legislazione statale che quella regionale hanno più volte fatto ricorso alla deroga contenuta all’art. 97 Cost. per dare vita a forme di selezione sganciate dalla regola generale. Tra questa rientra senza dubbio la prassi dei concorsi interni.
Queste forme di selezione sono largamente utilizzate per consentire non l’accesso di nuovo personale nella pubblica amministrazione, quanto piuttosto la progressione in carriera di coloro che già di essa sono dipendenti.
La giurisprudenza di legittimità (ex multis Cass. civ. n. 14478/2009) qualifica il bando per il concorso interno quale offerta al pubblico.
Più precisamente, qualora venga pubblicato un bando che contenga tutti gli elementi essenziali (numero dei posti disponibili, qualifica, modalità del concorso, criteri di valutazione dei titoli, ecc.), prevedendo, altresì, il riconoscimento del diritto del vincitore del concorso di ricoprire la posizione di lavoro disponibile e la data a decorrere dalla quale è destinata ad operare giuridicamente l'attribuzione della nuova posizione, sono rinvenibili in un siffatto comportamento gli estremi dell'offerta al pubblico.
Il bando impegna il datore di lavoro pubblico non solo al rispetto della norma con la quale esso stesso ha delimitato la propria discrezionalità, ma anche ad adempiere l'obbligazione secondo correttezza e buona fede.
Il superamento del concorso, indipendentemente dalla successiva nomina, consolida nel patrimonio dell'interessato l'acquisizione di una situazione giuridica individuale, non disconoscibile alla stregua della natura del bando, né espropriabile (in virtù dell'art. 2077, comma 2 c.c.) per effetto di diversa successiva disposizione generale volta, come nella specie, a posticipare la decorrenza giuridica ed economica dell'inquadramento. In questo contesto si inserisce la decisione in commento.
Nel caso di specie una dipendente dell’Università adiva il Tribunale di Pordenone al fine di vedersi inquadrata nell’area funzionale superiore.
Ciò visto il superamento della procedura di selezione interna.
Più precisamente la dipendente lamentava lo spostamento in avanti dell’inquadramento nella posizione superiore violando i criteri del bando nonché i principi di correttezza e buona fede. Si costituiva il Ministero chiedendo il rigetto delle pretese della ricorrente.
Il Tribunale di Pordenone, in linea con la giurisprudenza di legittimità, accerta che l’Università non ha rispettato i termini del bando.
Per tale ragione il Giudice condanna il convenuto Ministero al rispetto del bando e quindi ad inquadrare la dipendente in base ai criteri previsti dallo stesso (commento tratto da www.ipsoa.it - TRIBUNALE di Pordenone, sentenza 16.04.2012 n. 46).

URBANISTICA: Piano regolatore generale. Distinzione tra vincoli conformativi non indennizzabili e vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale.
La destinazione di "area a verde pubblico - verde urbano" costituisce vincolo conformativo, avente validità a tempo indeterminato.

Alla stregua dei principi espressi dalla Corte costituzionale, con la sentenza 20.05.1999, n. 179, deve ritenersi che i vincoli urbanistici non indennizzabili, che sfuggono alla previsione dell'art. 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono invece essere indennizzati, sono:
a) quelli preordinati all'espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l'imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l'esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l'approvazione dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito dell'art. 42 Cost..
La destinazione di "area a verde pubblico - verde urbano" costituisce espressione della potestà conformativa del pianificatore, avente validità a tempo indeterminato (nella specie le N.T.A. del Comune -si trattava del Comune di Bari- prevedevano che su tali aree potevano essere ubicate attrezzature per lo svago, chioschi, bar, teatri all'aperto, impianti sportivi per allenamento e spettacolo, e simili, nonché biblioteche e giochi per bambini, e consentivano, altresì, la costruzione di edifici ed impianti previa approvazione di piano particolareggiato o di progetto planovolumetrico; di conseguenza, secondo la sentenza in rassegna, essendo consentita, anche ad iniziativa del proprietario, la realizzazione di opere e strutture intese all'effettivo godimento del verde, era da escludere, ex se, la configurabilità di uno svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà, permanendo comunque la utilizzabilità dell'area rispetto alla sua destinazione naturale, con la conseguenza che non era ravvisabile alcun vincolo preordinato all'espropriazione ovvero comportante inedificabilità, né era configurabile un obbligo di nuova tipizzazione) (Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 25.05.2005, n. 2718) (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.04.2012 n. 2116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ordinanze contingibili ed urgenti. Poteri dei Sindaci a seguito della sentenza della Corte cost. n. 115 del 2011.
A seguito della sentenza della Corte Costituzionale 07.04.2011, n. 115, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000, nella parte in cui comprende la locuzione "anche", prima delle parole "contingibili ed urgenti", i poteri di ordinanza dei Sindaci debbono intendersi limitati ai soli casi contingibili ed urgenti, violandosi in caso contrario la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost. e configurandosi altrimenti detto potere alla stregua di una "delega in bianco".
E’ illegittima, per mancanza dei presupposti di legge, una ordinanza contingibile ed urgente emessa dal Sindaco di un Comune ai sensi dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 e del decreto del Ministro dell’interno 05.08.2008, con la quale si vieta in via permanente su tutto il territorio comunale "la fermata ai pedoni e a tutti i veicoli, propedeutica al contatto con soggetti dediti alla prostituzione", atteso che tale ordinanza:
a) manca del requisito della "temporaneità", proprio delle ordinanze contingibili ed urgenti, le quali pur sempre costituiscono l’espressione di un potere derogatorio esercitato dai Sindaci sotto la vigilanza del Ministro dell’interno attraverso i Prefetti;
b) si riverbera illegittimamente sulla libertà dei cittadini; quest'ultima, infatti, è suscettibile –secondo la Corte Costituzionale (v. la sent. n. 115 del 2011)– "di essere incisa solo dalle determinazioni di un atto legislativo, direttamente o indirettamente riconducibile al Parlamento, espressivo della sovranità popolare" (1).
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(1) Nel parere in rassegna si ricorda che la Corte Costituzionale con la citata sentenza n. 115 del 2011 ha precisato che il decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008, nella parte in cui fornisce la definizione di incolumità pubblica e di sicurezza urbana, entrambi beni pubblici da tutelare, assolve alle funzioni di indirizzare l’azione del sindaco, come previsto dall’art. 54, comma 4-bis, regolando i rapporti tra autorità centrali (ministro) e periferiche (sindaci), ma "non può soddisfare la riserva di legge, in quanto si tratta di atto non idoneo a circoscrivere la discrezionalità amministrativa nei rapporti con i cittadini".
In altri termini, nel momento in cui l’art. 54, comma 4, T.U.E.L. autorizza i sindaci ad emanare atti non sottoposti a scadenza, non giustificati dal principio salus publica suprema lex e finalizzati alla prevenzione e all’eliminazione di gravi (e non meglio precisate) minacce alla sicurezza urbana, si realizza una indebita invasione dei primi cittadini nel campo della legislazione primaria.
Conseguentemente, secondo il parere in rassegna, la parziale caducazione dell’art. 54, comma 4, del Testo unico degli enti locali, disposta dalla Corte costituzionale, dispiega i suoi effetti anche sulla ordinanza oggetto del parere, rendendola inefficace per mancanza dei presupposti di legge
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. I, parere 12.04.2012 n. 1796 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: Potere per i Comuni di sopprimere organismi non indispensabili. Impossibilità di esercitare tale potere con riferimento alle autorizzazioni paesaggistiche.
Illegittimità di una delibera di soppressione della Commissione edilizia integrata e di una autorizzazione paesaggistica rilasciata senza il parere di tale Commissione.

L’art. 96 del D.Lgs. n. 267/2000, nel richiedere agli organi rappresentativi dei Comuni di individuare "i comitati, le commissioni, i consigli ed ogni altro organo collegiale con funzioni amministrative, ritenuti indispensabili per la realizzazione dei fini istituzionali dell’amministrazione o dell’ente", con soppressione degli organismi non identificati come indispensabili e attribuzione delle relative funzioni all’ufficio, con "preminente competenza nella materia", non poteva conferire ai medesimi Comuni, a pena di incostituzionalità della norma (con riferimento al riparto di competenze fra Stato ed Enti locali, di cui agli articoli 117 e seguenti della Costituzione), il potere di effettuare scelte che, nei termini appena indicati, implicassero il trasferimento ad un ufficio comunale della competenza ad emettere autorizzazione paesaggistica, trattandosi di competenza dello Stato, da esercitare in concorso con la Regione interessata o ad essa delegata, per ragioni di tutela rilevanti per l’intera collettività e, dunque, non affidabili a valutazioni effettuate in ambito strettamente locale (1).
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E’ illegittima la delibera con la quale l’Unione di due Comuni ha soppresso la Commissione Edilizia Integrata con due esperti in materia di bellezze naturali e di tutela dell’ambiente, in base all’art. 4, comma 11, del D.P.R. n. 380/2001, nonché la successiva autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 (oggi art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004) rilasciata in assenza di parere di detta Commissione, nel caso in cui le funzioni statali in materia di rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche siano state trasferite dallo Stato ai Comuni, con la previsione del parere della C.E.I.
In tal caso, infatti, l’organo così costituito (C.E.I.) non può al pari della Commissione Edilizia (C.E., esclusivamente comunale) essere ritenuto "non indispensabile" ai sensi e per gli effetti dell’art. 96 D.Lgs. 267/2000, potendo quest’ultima norma riferirsi all’organo comunale previsto dall’art. 4, comma 2, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (quale organo, il cui carattere facoltativo era previsto dalla stessa normativa), ma non anche al diverso organismo (C.E.I.) direttamente istituito da una legge regionale e portatore di competenze già delegate dallo Stato alla Regione e che solo l’autorità delegante (o sub-delegante) avrebbe potuto sopprimere avocando a sé le relative funzioni, con atto normativo primario o sub-primario (2).
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(1) Cons. Stato, sez. VI, 25.05.1996, n. 717; Cons. Stato, sez. Atti norm., 13.01.2003, n. 4804; cfr. anche, per il principio, Corte Cost., 25.07.2011, n. 244.
(2) Ha aggiunto la sentenza in rassegna che, in assenza di qualsiasi legittimazione del Comune ad incidere sulle competenze in questione –ed esulando pertanto la C.E.I. dal novero degli organi collegiali, di cui il Comune potesse essere legittimamente chiamato a valutare il carattere indispensabile o meno– correttamente la Soprintendenza aveva rilevato l’assenza del parere obbligatorio di un organo, che non poteva ritenersi soppresso ed aveva conseguentemente ritenuta illegittima l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2012 n. 2013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Piani urbanistici: anche l'abrogazione è soggetta a VAS.
Con sentenza 22.03.2012 n. C-567/10 la Sez. IV della Corte di Giustizia UE ha fissato il duplice principio secondo cui:
1. La nozione di piani e programmi «previsti da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative», di cui all’articolo 2, lettera a), della direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.06.2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, deve essere interpretata nel senso che essa riguarda anche i piani regolatori particolareggiati, come quello oggetto della normativa nazionale belga di cui trattasi nel procedimento principale.
2. L’articolo 2, lettera a), della direttiva 2001/42 deve essere interpretato nel senso che una procedura di abrogazione totale o parziale di un piano regolatore, come quella di cui agli articoli 58-63 del code bruxellois de l’aménagement du territoire, quale modificato dalla legge regionale del 14.05.2009, rientra in linea di principio nell’ambito di applicazione di detta direttiva, sicché è soggetta alle norme relative alla valutazione ambientale previste da quest’ultima.

Chiamata a pronunciarsi i un procedimento avente ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Cour constitutionnelle (Belgio) con decisione del 25.11.2010, la quarta sezione della Corte di Giustizia UE ha ribadito che gli obbiettivi esplicitati dalla direttiva 2001/42 all'art. 1 impongono di ritenere che, sebbene l’articolo 2, lettera a), della direttiva 2001/42 riguardi formalmente soltanto l’adozione e la modifica di piani di assetto del territorio, detta direttiva, al fine di conservare il suo effetto utile, deve essere interpretata nel senso che si applica altresì all’abrogazione di tali piani.
Nel caso di specie, afferma la Corte, "l’abrogazione di un piano regolatore particolareggiato muterebbe il contesto in cui vengono rilasciate le licenze urbanistiche e potrebbe modificare l’ambito delle autorizzazioni rilasciate per i progetti futuri".
Né sarebbe conforme alla finalità e all’effetto utile della direttiva 2001/42 escludere dall’ambito di applicazione della direttiva "un atto di abrogazione, la cui adozione, benché facoltativa, abbia avuto luogo", vero che i «piani e programmi» di cui all’articolo 2, lettera a), della direttiva in parola "sono in via generale quelli previsti dalle disposizioni legislative o regolamentari nazionali e non soltanto quelli che devono essere obbligatoriamente adottati in forza di tali disposizioni".
Pertanto, pur constatando che l’articolo 2, lettera a), della direttiva 2001/42 non riguarda l’abrogazione dei piani, la Corte ha ritenuto che dalla suddetta direttiva "emerga, tuttavia, che una valutazione ambientale deve essere realizzata non soltanto per gli atti nazionali che determinano le norme di pianificazione territoriale, ma anche per quelli che definiscono il quadro in cui l’attuazione di progetti potrà essere autorizzata in futuro. Pertanto, un atto del governo della Regione che si inserisca in un complesso di piani di assetto del territorio dovrebbe essere sottoposto a tale procedura anche quando abbia ad oggetto unicamente l’abrogazione dei piani" (link a
http://studiospallino.blogspot.it).

AGGIORNAMENTO ALL'11.06.2012

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FANNO BUSINESS SULLE NOSTRE SPALLE !!

     Ricordate di quel sito web free che, spudoratamente e contra legem, copiava/incollava "fedelmente" molte delle nostre news, frutto della personale elaborazione di chi opera in redazione, spacciando i contenuti informativi come propri anziché citare la fonte ??
     Ebbene, lo scorso 5 giugno abbiamo inoltrato, al gestore del suddetto sito, una mail dal seguente tenore:


Buongiorno,
lo scorso 15.12.2011 sul nostro sito denunciavamo pubblicamente l’esistenza di un sito web free (senza nominarlo) nel quale, spudoratamente e contra legem, sono copiate/incollate "fedelmente" molte delle nostre news, frutto della personale elaborazione di chi opera in redazione, spacciando i contenuti informativi come propri anziché citare la fonte e cioè: http://www.ptpl.altervista.org/ con eventuale link (dedicato) di rimando al Portale medesimo.
Non solo: sono state addirittura riprodotti i titoli di molti nostri "dossier" con, ovviamente all'interno, allocate le news di pertinenza di cui sopra.
Subito dopo la nostra pubblica denuncia, si è constatata l’interruzione di tale comportamento scorretto.
Tuttavia, ad inizio di gennaio 2012 si è altrettanto constatato che il medesimo sito free e divenuto a pagamento (http://www....) e la pagina dedicata agli enti locali (http://www....) è pressoché totalmente formata ed aggiornata (tempestivamente dopo ogni nostro aggiornamento) da news pubblicate sul nostro sito http://www.ptpl.altervista.org/.
Orbene, restando qui impregiudicata l’eventuale questione giuridico-legale, Vi si chiede se sia etico, o meno, far business attingendo bellamente dalla fatica altrui ...
Nell’attesa, si porgono distinti saluti.
LA SEGRETERIA PTPL

 

     Ora, stiamo a vedere cosa faranno ...
11.06.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI: OGGETTO: Instaurazione rapporti di lavoro a tempo determinato e articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010 (parere 28.05.2012 n. 21202 di prot.).
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Parere DFP su art. 9, comma 28, d.l. 78/2010.
Il Dipartimento della funzione pubblica, con parere 28.05.2012 n. 21202 di prot., fornisce chiarimenti ad ANCI sulle modalità di calcolo del limite di spesa di cui all'articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010, in particolare sugli effetti delle deroghe previste per l'anno 2012 ed a partire dal 2013.
In sintesi, il dipartimento è dell'avviso che il conteggio della spesa dell'anno 2009 -in assenza di un'esplicita previsione del legislatore- va operato in termini cumulativi e, quindi, comprensivo (nella base di calcolo) di tutte le fattispecie di lavoro flessibile richiamate dalla norma, senza distinzione di settori di riferimento (in deroga o non in deroga) (commento tratto da www.publika.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

LAVORI PUBBLICI: R. Gavasci, Nuovi profili normativi e giurisprudenziali in tema di affidamento in house (07.06.2012 - link a www.diritto.it).

APPALTI: L. Bellagamba, La comunicazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulla «non autocertificabilità» del DURC. La correzione interpretativa della successiva comunicazione dell’INAIL, d'intesa con il Ministero stesso. La piena autocertificabilità del DURC anche per l’ipotesi di cui al D.Lgs. 81/2008, art. 90, comma 9, lett. c). La circolare INPS 27.03.2012, n. 47. La legge di conversione del terzo decreto “Monti”. La circolare del Ministero per la pubblica amministrazione e la semplificazione, n. 6/2012. La circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, n. 12/2012 (aggiornamento all'01.06.2012) (07.06.2012 - link a www.linobellagamba.it).

PUBBLICO IMPIEGO: R. Staiano, Il cartellino marcatempo ha natura di atto pubblico (Cass. pen., n. 19299/2012) - Il foglio di presenza degli impiegati pubblici ha natura di atto pubblico (06.06.2012 - link a www.diritto.it).

LAVORI PUBBLICI: L. Bellagamba, La certificazione di qualità nelle more del rilascio del documento e il non convincente parere dell’Autorità (04.06.2012 - link a www.linobellagamba.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Ulteriore proroga del regime transitorio per le categorie SOA variate (ANCE di Bergamo, circolare 08.06.2012 n. 158).

APPALTI: Oggetto: DURC – acquisizione d’ufficio e tempi di richiesta per le Amministrazioni pubbliche, richiesta da parte dei privati, non autocertificabilità e soggetti deputati al rilascio (ANCE di Bergamo, circolare 08.06.2012 n. 157).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Nuove disposizioni per le emissioni in atmosfera di stabilimenti esistenti (ANCE di Bergamo, circolare 08.06.2012 n. 153).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: “Linee Guida regionali per l’autorizzazione degli impianti per la produzione di energia elettrica da Fonti Energetiche Rinnovabili (FER) mediante recepimento della normativa nazionale in materia": documento esplicativo riassuntivo (ANCE di Bergamo, circolare 08.06.2012 n. 152).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Impianti di protezione dalle scariche atmosferiche e impianti di messa a terra. La guida tecnico-operativa dell’INAIL sull’applicazione del DPR 462/2001.
Il D.P.R. 462/2001 disciplina le procedure relative a installazioni e la messa in esercizio degli impianti elettrici di messa a terra e degli impianti di protezione contro le scariche atmosferiche.
I datori di lavoro, entro 30 giorni dalla messa in esercizio dell’impianto, devono inviare la dichiarazione di conformità contenente le verifiche effettuate sull’impianto, all’INAIL che provvederà ad effettuare il controllo a campione della prima verifica.
L’INAIL ha pubblicato recentemente la “Guida tecnica alla prima verifica degli impianti di protezione dalle scariche atmosferiche e impianti di messa a terra”, relativa ai luoghi di lavoro in cui sia presente almeno un lavoratore.
La guida definisce:
● l’ambito di applicazione, ovvero i luoghi di lavoro con l’individuazione della figura di un “lavoratore
● i campi di applicazione (impianti di messa a terra, impianti di protezione dalle scariche atmosferiche, impianti di messa a terra installati in luoghi con pericolo di esplosione)
● i campi di esclusione
● i compiti dell’INAIL
● le modalità di trasmissione della dichiarazione di conformità
● i sistemi di campionatura
● le procedure di verifica e sicurezza
● l’elenco degli uffici INAIL a cui inviare le dichiarazioni
● la modulistica da inviare all’INAIL (07.06.2012 - link a www.acca.it).

ENTI LOCALI - VARI: E’ arrivato Imus 6.00, il software universale per il calcolo dell’imposta direttamente via internet.
E’ arrivata la nuova versione di Imus, l’applicazione di BibLus-net per il calcolo dell’Imposta Municipale.
La versione 6.00 di Imus, che funziona direttamente via internet, consente di calcolare l’importo dell’imposta per le diverse tipologie di immobili e categorie catastali. E’ possibile scegliere il numero di rate, inserire le varie pertinenze e impostare millesimi e mesi di possesso.
Il tutto in maniera semplice e veloce.
Alla fine della procedura viene anche generato un facsimile di modello F24 da utilizzare per il pagamento dell’IMU.
Ma non è tutto!
Imus, grazie alla nuova tecnologia HTML5, è universale!
Può essere utilizzato, infatti, sia su piattaforma Desktop (Windows e Macintosh) che su piattaforma mobile (ad esempio iPhone, iPad, Windows Phone, Android, BlackBerry) (07.06.2012 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI: G.U. 07.06.2012 n. 131 "Disposizioni urgenti in materia di qualificazione delle imprese e di garanzia globale di esecuzione" (D.L. 06.06.2012 n. 73).
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Un primo commento al riguardo: D.L. N. 73/2012 - ANCORA UN RINVIO DEL PERIODO TRANSITORIO PER LA QUALIFICAZIONE PREVISTO DAL REGOLAMENTO SUI CONTRATTI PUBBLICI (link a www.ancebrescia.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 07.06.2012, "L.r. 18.04.2012, n. 7 «Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione», pubblicata sul BURL n. 16, supplemento, del 20.04.2012" (avviso di rettifica).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 07.06.2012, "Testo coordinato della l.r. 02.02.2010 n. 5 «Norme in materia di valutazione di impatto ambientale»".

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 04.06.2012, "Realizzazione degli interventi di bonifica ai sensi dell’art. 250 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152 - programmazione economico-finanziaria 2012/2014" (deliberazione G.R. 23.05.2012 n. 3510).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 04.06.2012, "Linee guida per la disciplina del procedimento per il rilascio della certificazione di avvenuta bonifica, messa in sicurezza operativa e messa in sicurezza permanente dei siti contaminati" (deliberazione G.R. 23.05.2012 n. 3509).

VARI: G.U. 31.05.2012 n. 126 "Modifiche al decreto legislativo 01.08.2003, n. 259, recante codice delle comunicazioni elettroniche in attuazione delle direttive 2009/140/CE, in materia di reti e servizi di comunicazione elettronica, e 2009/136/CE in materia di trattamento dei dati personali e tutela della vita privata" (D.Lgs. 28.05.2012 n. 70).

VARI: G.U. 31.05.2012 n. 126 "Modifiche al decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, recante codice in materia di protezione dei dati personali in attuazione delle direttive 2009/136/CE, in materia di trattamento dei dati personali e tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, e 2009/140/CE in materia di reti e servizi di comunicazione elettronica e del regolamento (CE) n. 2006/2004 sulla cooperazione tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa a tutela dei consumatori" (D.Lgs. 28.05.2012 n. 69).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’art. 92, comma 6 del Codice dei contratti, in quanto norma eccezionale, non consente di riconoscere specifici incentivi al personale che fornisce variamente supporto alla redazione del piano, rimesso ad un professionista esterno; il comune non può, con regolamento comunale, istituire specifici compensi al di fuori di quanto previsto dalla stessa disposizione, in quanto ciò contrasterebbe con la natura eccezionale della norma e con il principio della rigidità della struttura retributiva, la cui determinazione è rimessa alla contrattazione collettiva (nazionale e, solo nei limiti di questa, decentrata).
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Il sindaco del comune di Baranzate (MI) menzionato in epigrafe ha formulato alla Sezione una richiesta di parere concernente il regime giuridico degli speciali compensi riconoscibili ai dipendenti ai sensi dell’art. 92, comma 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), per la realizzazione interna di atti di pianificazione, comunque denominati.
La norma richiamata, come è noto, riguarda la possibilità di riconoscere un incentivo pari al trenta per cento della tariffa professionale di regola riconosciuta a professionisti esterni, ai dipendenti delle stazioni appaltanti i quali redigano internamente l’atto di pianificazione.
Specifica altresì la richiamata disposizione che l’emolumento va ripartito «con le modalità e i criteri» previsti da un regolamento, analogo a quello che disciplina la ripartizione interna di compensi per la progettazione di opere pubbliche, di cui al comma 5.
Il sindaco, dopo avere precisato che l’incarico per la redazione dell’atto di pianificazione è stato affidato già ad un professionista esterno, pone segnatamente tre quesiti:
i) se l’art. 92, comma 6, sia estensibile ai dipendenti che fanno parte del c.d. “Ufficio di piano”, per gli “specifici compiti e funzioni” assolti;
ii) laddove la norma non fornisca la base giuridica per il riconoscimento dell’incentivo di cui sopra, se il comune possa estendere l’ambito operativo della disposizione del Codice dei contratti tramite la propria potestà regolamentare, “alterando” o “adeguando” la ratio della disposizione di legge e conferire specifici compensi ai propri dipendenti, per lo svolgimento di «specifici compiti e funzioni […] in qualità di componenti del c.d. Ufficio di
Piano
», anche nel caso di conferimento all’esterno dell’incarico;
iii) infine, nel caso in cui il comune abbia già adottato regolamento, e tale regolamento fosse illegittimo, se l’erogazione costituisca un illecito oppure l’applicazione del regolamento costituisca una causa giustificativa, in quanto il regolamento è comunque fonte di un dovere per gli amministratori.
...
Pertanto, con riferimento ai quesiti oggetto del parere, sulla base selle suesposte considerazioni, si deve concludere:
i) che
l’art. 92, comma 6. del Codice dei contratti, in quanto norma eccezionale, non consente di riconoscere specifici incentivi al personale che fornisce variamente supporto alla redazione del piano, rimesso ad un professionista esterno;
ii) che
il comune non può, con regolamento comunale, istituire specifici compensi al di fuori di quanto previsto dalla stessa disposizione, in quanto ciò contrasterebbe con la natura eccezionale della norma e con il principio della rigidità della struttura retributiva, la cui determinazione è rimessa alla contrattazione collettiva (nazionale e, solo nei limiti di questa, decentrata) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 30.05.2012 n. 259).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Il privato esecutore, a seconda che le opere da realizzare a favore del Comune, a fronte della cessione in piena proprietà di immobili precedentemente concessi in diritto di superficie e destinati ad insediamenti produttivi, siano di importo superiore o inferiore alla soglia comunitaria dovrà rispettare:
- le norme della Parte II titolo I, nonché quelle della parte I, IV e V (cfr. art. 32, comma 1, lett. g, nonché le eccezioni previste dal comma 2 del medesimo articolo) per le opere di importo superiore alla soglia comunitaria prevista in tema di lavori (dal 01/01/2012, € 5.000.000, come imposto dal Regolamento CE n. 1251/2011)
- la disciplina prevista degli art. 121, comma 1, e, in particolare, la procedura dell’art. 57, comma 6 (con invito rivolto ad almeno cinque soggetti se sussistono in tale numero aspiranti idonei) del medesimo Codice, in caso di lavori sotto soglia comunitaria (cfr. art. 122, comma 8).
Relativamente a tale ultima ipotesi, va evidenziato che l’articolo 45 del d.l. n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011, ha modificato l’articolo 16 del DPR n. 380/2001 con l’inserimento di un comma 2-bis a mente del quale “nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163".
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Il Sindaco del Comune di Vedano Olona (VA), con nota del 24.04.2012, ha formulato alla Sezione una richiesta di parere
in merito alla possibilità di prevedere a titolo di corrispettivo per la cessione del diritto di proprietà di aree, già concesse in diritto di superficie, la realizzazione di opere da trasferire al Comune.
In particolare il sindaco precisa che Il Comune di Vedano Olona, dopo essersi dotato del Piano per Insediamenti Produttivi, ai sensi dell'art. 27 della legge 22.10.1971 n. 865, ha dato attuazione alla realizzazione degli interventi assegnando le aree ricomprese nei vari lotti del piano, sia in diritto di superficie sia in piena proprietà.
Considerato che la legge 23.12.1996 n. 662, all'art. 3 comma 64, ha riconosciuto ai Comuni la possibilità di cedere in proprietà le aree già concesse in diritto di superficie, chiede un parere
in ordine alla possibilità di prevedere, a titolo di corrispettivo di tale cessione (nel rispetto di criteri e modalità di valutazione di tale corrispettivo indicati allo stesso comma 64, come sostituito dall'art. 11, comma 1, della legge 12.12.2002 n. 273), la realizzazione di opere da trasferire al Comune.
...
Appare opportuno richiamare il dettato normativo in tema di Piani per insediamenti produttivi (c.d. PIP), in particolare il procedimento che il Comune deve seguire a tal fine e le facoltà concesse al medesimo.
L’art. 27 della legge n. 865/1971 (Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità e modifiche ed integrazioni alle leggi 17.08.1942 n. 1150, 18.04.1962 n. 167, 29.09.1964 n. 847) prevede che “i comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione approvati possono formare, previa autorizzazione della Regione, un piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi”. Le aree da comprendere in questo piano sono delimitate, nell'ambito delle zone destinate a insediamenti produttivi dai piani regolatori generali o dai programmi di fabbricazione, con deliberazione del consiglio comunale, approvata con decreto del Presidente della giunta regionale.
Il piano ha efficacia per dieci anni dalla data del decreto di approvazione ed ha valore di piano particolareggiato d'esecuzione ai sensi della legge 17 agosto 1942, n. 1150.
L’art. 27 specifica che “le aree comprese nel piano approvato a norma del presente articolo sono espropriate dai comuni o loro consorzi secondo quanto previsto dalla presente legge in materia di espropriazione per pubblica utilità.”, ma soprattutto, ai fini che interessano per la risposta al comune istante, che “il comune utilizza le aree espropriate per la realizzazione di impianti produttivi di carattere industriale, artigianale, commerciale e turistico mediante la cessione in proprietà o la concessione del diritto di superficie sulle aree medesime”.
In quest’ultimo caso, la concessione del diritto di superficie ad enti pubblici (per la realizzazione di impianti e servizi pubblici, occorrenti nella zona delimitata dal piano) è a tempo indeterminato, mentre negli altri casi (in sostanza a soggetti/imprese private) ha una durata non inferiore a sessanta e non superiore a novantanove anni.
La norma precisa, infine, che “contestualmente all'atto di concessione, o all'atto di cessione della proprietà dell'area, tra il comune da una parte e il concessionario o l'acquirente dall'altra, viene stipulata una convenzione per atto pubblico con la quale vengono disciplinati gli oneri posti a carico del concessionario o dell'acquirente e le sanzioni per la loro inosservanza”.
Il dato normativo non prevede la necessaria corresponsione, da parte del privato assegnatario dell’area, di un corrispettivo in denaro, ma la sottoposizione ad oneri, funzionali alla realizzazione degli obiettivi posti dal Piano per gli insediamenti produttivi.
Il privato è in sostanza beneficiario delle aree, ma in virtù di un provvedimento di concessione finalizzato alla realizzazione di superiori interessi di carattere generale per la comunità comunale. Il provvedimento li attribuisce diritti sulle aree interessate (di superficie o piena proprietà), ma anche dei relativi connessi “oneri”, con la previsione di “sanzioni per la loro inosservanza”.
Come per altri strumenti di edilizia complessa o negoziata (si rimanda all’art. 35 della stessa legge n. 865/1971 per i Piani di edilizia economica e popolare, c.d. PEEP; ai Piani di riqualificazione urbana di cui alla legge n. 493/1993; ai Piani integrati di interventi di cui alla legge n. 179/2002, etc.), l’obbligazione che assume il concessionario non è necessariamente limitata al pagamento di una somma di denaro, ma eventualmente (se in tal senso depongono gli accordi con il Comune), alla realizzazione di opere di urbanizzazione o altre opere pubbliche funzionali alla realizzazione del piano (nello specifico, per insediamenti produttivi).
In tal modo il Comune consegue gli obiettivi posti in sede di programmazione/piano (nel caso di specie approvato dalla Regione) trasferendo sui privati concessionari gli oneri dei costi di realizzazione (esplicita necessità in tal senso si ritrova nell’art. 35 della legge n. 865/1971 sui PEEP, oltre che in generale nell’art. 16, comma 3, del D.L. 22.12.1981, n. 786, convertito in legge 26.02.1982, n. 51, cfr. anche il parere Piemonte n. 117/2011/PAR), sia quelli di eventuale esproprio/acquisizione delle aree, sia quelli necessari a rendere le aree medesime funzionali agli scopi produttivi perseguiti.
Il successivo art. 3, comma 64, della legge n. 662/1996 aggiunge, all’interno di questo quadro generale, un ulteriore tassello, permettendo ai comuni che, in precedenza, avevano optato per la concessione ai privati del diritto di superficie sulle aree destinate a insediamenti produttivi di attribuirne il pieno diritto di proprietà.
Questa norma, nella versione novellata dall’art. 11 della legge n. 273/2002, prevede infatti che “i comuni possono cedere in proprietà le aree già concesse in diritto di superficie nell'ambito dei piani delle aree destinate a insediamenti produttivi di cui all'articolo 27 della legge 22.10.1971, n. 865. Il corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato con delibera del consiglio comunale, in misura non inferiore alla differenza tra il valore delle aree da cedere direttamente in diritto di proprietà e quello delle aree da cedere in diritto di superficie, valutati al momento della trasformazione di cui al presente comma. La proprietà delle suddette aree non può essere ceduta a terzi nei cinque anni successivi all'acquisto” (nel testo storico si limitava a prevedere che “gli enti locali territoriali possono cedere in proprietà le aree già concesse in diritto di superficie, destinate ad insediamenti produttivi”, cfr. parere Veneto n. 113/2010).
In tal modo il legislatore permette al privato investitore di conseguire la certezza del diritto attribuito, favorendo altri successivi investimenti da parte del medesimo, attività scoraggiata nel caso in cui, a fronte della scadenza del termine di attribuzione del diritto di superficie, l’immobile realizzato (nello specifico, finalizzato a impianto produttivo) rischia di rientrare nel patrimonio del Comune proprietario del suolo (secondo l’ordinaria regola prevista dal Codice civile).
Alla motivazione di cui sopra si aggiunge quella propria di altri provvedimenti di dismissione (e privatizzazione) deliberati nel corso degli anni ’90, tesi all’incremento delle entrate per gli enti pubblici attraverso la vendita di asset immobiliari e azionari (cfr. in merito la delibera della Sezione Puglia n. 2/2009/PAR).
La scelta legislativa è analoga a quella effettuata in ambiti similari, come i Piani di edilizia economica e popolare (c.d. PEEP), per i quali l’art. 31, commi 45 e ss, della legge n. 448/198 ha previsto che le aree concesse in diritto di superficie per la realizzazione degli interventi previsti dall’art. 35 della legge n. 865/1971 (modificato dall’art. 3, comma 63, della legge n. 662/1996), possano essere concesse in piena proprietà ai privati richiedenti.
La facoltà di trasformazione del diritto di superficie in piena proprietà, prevista dall’art. 3, comma 64, della legge n. 662/1996, di cui si discute nel presente parere, si innesta pertanto sull’impianto legislativo esistente, disciplinante i “Piani per gli insediamenti produttivi” previsti dall’art. 27 della legge n. 865/1971.
Di conseguenza la scelta, da parte del comune, di attribuire la piena proprietà degli immobili precedentemente concessi in diritto di superficie, dovrebbe trovare fondamento nelle similari, rinnovate, motivazioni che hanno condotto all’approvazione e realizzazione del Piano, funzionalizzando la cessione della proprietà del suolo, sede di impianti produttivi, alla realizzazione di interessi generali finalizzati allo sviluppo produttivo complessivo del territorio.
All’interno di tale quadro, sulla base dei presupporti di fatto e degli obiettivi da esplicitare nella motivazione della delibera di Consiglio, il Comune potrebbe optare, in luogo di un corrispettivo in denaro, per una differente forma di attribuzione patrimoniale.
Naturalmente devono essere rispettati i limiti legislativi imposti dal combinato disposto degli artt. 27 legge n. 865/1971 e 3, comma 64, legge n. 662/1996, oltre che quelli desumibili dall’ordinamento giuridico generale.
Per quanto riguarda i primi, vanno innanzitutto osservati il procedimento e i criteri di valutazione che il legislatore prevede per la cessione dell’area (“il corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato con delibera del consiglio comunale, in misura non inferiore alla differenza tra il valore delle aree da cedere direttamente in diritto di proprietà e quello delle aree da cedere in diritto di superficie, valutati al momento della trasformazione di cui al presente comma”), adempimenti che il Comune, nell’istanza di parere, si impegna a rispettare.
Con la precisazione che il valore che il privato deve corrispondere è stabilito dal legislatore solo nel minimo, in un ammontare che, previa motivazione, può essere aumentato dal Comune in funzione delle specifiche esigenze da perseguire e del contesto produttivo in cui l’operazione di cessione si inserisce.
Circa la natura della suddetta entrata, appare opportuno sottolineare che si tratta di introito derivante da alienazione di beni patrimoniali (il diritto di proprietà sul suolo cui accede la costruzione/impianto produttivo), da allocare nel Titolo IV delle Entrate e, come tale, necessariamente destinato a spesa in conto capitale (salve le eccezioni normativamente e tassativamente previste, come per esempio l’art. 2, comma 8, della legge n. 244/2007, ovvero gli artt. 193, commi 2 e 3, del TUEL, cioè le ipotesi in cui occorra provvedere al mantenimento degli equilibri di bilancio, cfr. Sezione Piemonte n. 117/2011/PAR).
L’altro limite, esplicitato dalla norma base (art. 27 della legge n. 865/1971), consiste nella finalizzazione dell’entrata alla realizzazione degli scopi perseguiti con il Piano, tanto che il privato si obbliga, stipulando apposita convenzione, a determinati oneri (pagamento corrispettivo in denaro ovvero alla realizzazione di opere strumentali o altro) necessariamente presidiati da sanzioni in caso di inosservanza (causa rischio mancato conseguimento degli obiettivi perseguiti).
In tale ottica, appare possibile che il Comune, previa adeguata motivazione, permetta al privato di liberarsi dall’erogazione del corrispettivo per la cessione di aree in proprietà imponendogli l’obbligo di realizzare opere pubbliche funzionali al mantenimento degli obiettivi posti dal PIP.
Trattasi, necessariamente, di opere d’investimento. Posto infatti che, come detto, l’entrata che il comune consegue è imputata in conto capitale, analoga destinazione deve avere la spesa che il privato sostiene in sostituzione dell’obbligo di pagamento della somma di denaro.
In via residuale, sempre previa adeguata motivazione, il comune potrebbe decidere di far effettuare al privato altre opere pubbliche, stipulando analoga convenzione e prevedendo similari sanzioni in caso di inadempienza. Si pensi al caso in cui l’area destinata al PIP non abbia, allo stato, bisogno di lavori di adeguamento/ristrutturazione (in tale direzione si rinvia alle motivazioni del parere reso dalla Sezione Piemonte n. 117/2011/PAR, riferito alla similare fattispecie prevista dall’art. 31 della legge n. 448/2011 per la cessione in proprietà delle aree destinate all’edilizia economica e popolare). In questo caso, infatti, il privato realizzerebbe direttamente l’opera pubblica in sostituzione del Comune, utilizzando le somme che avrebbe dovuto versare per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà.
Il problema successivo che si pone attiene, tuttavia, alle modalità di realizzazione di tali opere da parte del privato.
Infatti, nella similare fattispecie delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione (art. 16 DPR n. 380/2001), il legislatore, dopo l’intervento della giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia con la sentenza 12.07.2001 C399/1998, "Scala 2001"), ha imposto al privato esecutore il rispetto delle procedure di evidenza pubblica (cfr. artt. 32 e 122 comma 8 del d.lgs. n. 163/2006).
Analoga interpretazione è stata adottata dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici in altri casi di sostituzione del privato all’amministrazione nell’ambito di programmi di edilizia complessa o negoziata (cfr. Determinazioni n. 4 del 03/04/2008 e n. 7 del 16/07/2009).
La regolamentazione dell'istituto delle “opere di urbanizzazione a scomputo” risale alla normativa in materia urbanistica, secondo la quale la realizzazione di tali opere condiziona il rilascio del permesso di costruire (cfr. art. 31 della legge 1150/1942, art. 8 legge n. 765/1967, art. 6 legge n. 10/1977). Le pregresse disposizioni sono state poi trasfuse nell'articolo 16 del Testo unico sull'edilizia DPR n. 380/2001 che, ai commi 7,7-Bis e 8, stabilisce la suddivisione in oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, prevedendo che il rilascio del permesso di costruire comporta per il privato "la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione".
Il legislatore ha previsto poi, nel comma 2 del citato art. 16, la possibilità di scomputare la quota del contributo relativa agli oneri di urbanizzazione, nel caso in cui il titolare del permesso di costruire, o l’attuatore del piano, si obblighi a realizzarle direttamente. Tra l'operatore privato e l'amministrazione viene stipulata una convenzione che accede al permesso di costruire nella quale vengono regolate le opere da realizzare, i tempi, le modalità della loro esecuzione, la loro valutazione economica e le garanzie dell'adempimento, imprimendo così una connotazione negoziale al rapporto tra pubblica amministrazione e privato.
La ratio dell'istituto va individuata nella possibilità offerta all'amministrazione locale di dotarsi di opere di urbanizzazione senza assumere direttamente i rischi legati alla loro realizzazione.
Su tale assetto normativo è intervenuta la citata pronuncia della Corte Europea "Scala 2001" che ha affermato le direttive europee in tema di appalti ostano “ad una normativa nazionale in materia urbanistica che, al di fuori delle procedure previste da tale direttiva, consenta al titolare di una concessione edilizia o di un piano di lottizzazione approvato la realizzazione diretta di un'opera di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo dovuto per il rilascio della concessione, nel caso in cui il valore di tale opera eguagli o superi la soglia fissata dalla direttiva di cui trattasi". La Corte di Giustizia ha precisato che “la realizzazione diretta di un'opera di urbanizzazione secondo le condizioni e le modalità previste dalla normativa italiana in materia urbanistica costituisce un appalto pubblico di lavori”. In sostanza, la Corte ha sostenuto che tali opere sono da ritenere pubbliche sin dall’origine (anche se eseguite su proprietà privata e se formalmente tali prima del passaggio al patrimonio pubblico) e che la realizzazione delle medesime in luogo del pagamento del contributo conferma tale natura.
Con l'approvazione del Codice dei contratti il quadro normativo si è evoluto nella direzione di un più esteso assoggettamento delle opere a scomputo alle procedure di evidenza pubblica.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, con la citata determinazione n. 4 del 2008 ha poi esteso la portata dell'articolo 32, comma 2, lettera g), del d.lgs. 163/2006 a tutti i piani urbanistici e accordi convenzionali, comunque denominati, stipulati tra privati e amministrazioni (cosiddetti "accordi complessi", compresi gli accordi di programma) che prevedano l'esecuzione di opere destinate a confluire nel patrimonio pubblico.
Infatti, il giudice europeo, nella sentenza “Scala” del 2001, ha affermato che la realizzazione delle opere di urbanizzazione è da ricondurre al genusappalto pubblico di lavori” sulla base della ricorrenza di una serie di elementi:
- la qualità di amministrazione aggiudicatrice dell’ente procedente;
- la riconducibilità delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria alla categoria delle opere pubbliche in senso stretto, stante la loro idoneità funzionale a soddisfare le esigenze della collettività ed il pieno controllo dell’amministrazione competente sulla realizzazione delle opere medesime (a nulla rilevando che l’opera sia inizialmente privata, in quanto le opere di urbanizzazione hanno per propria natura una intrinseca finalità pubblica);
- la natura contrattuale del rapporto fra l’amministrazione e il privato lottizzante, posto che la convenzione di lottizzazione, sottoscritta dalle parti, stabilisce diritti ed obblighi delle parti, ivi compresa l’esatta individuazione delle opere che il privato è tenuto a realizzare;
- la natura onerosa di tale contratto, considerando che l’amministrazione comunale, accettando la realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione, rinuncia a pretendere il pagamento dell’importo dovuto a titolo di contributo e che, pertanto, il titolare della concessione edilizia o del piano di lottizzazione, attraverso la realizzazione diretta, estingue un debito di pari valore, secondo lo schema civilistico dell’obbligazione alternativa.
Poiché si tratta, quindi, di appalti pubblici di lavori, la Corte di giustizia ha ritenuto applicabile agli stessi l’obbligo di esperire procedure ad evidenza pubblica secondo la normativa comunitaria.
Alla luce di tale arresto comunitario, l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha valutato, nella determinazione n. 4/2008, se i principi enucleati nella descritta pronuncia possano eccedere l’ambito preso in esame e trovare applicazione nei confronti di altre forme di negoziazione tra pubblica amministrazione e privato.
In particolare, occorre stabilire se, anche per altre fattispecie, ricorrano gli elementi che hanno indotto la Corte di Giustizia ad ascrivere all’appalto pubblico di lavori la realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo.
Pertanto se anche in altre ipotesi di programmi di edilizia complessa o negoziata ricorre:
- sotto il profilo soggettivo, la qualità di amministrazione aggiudicatrice in capo all’ente pubblico procedente e, sotto il profilo oggettivo, l’esecuzione di opere pubbliche, cioè di opere d’interesse generale realizzate a vantaggio della collettività;
- la natura negoziale del rapporto pubblico-privato, con rapporto disciplinato tra le parti con convenzione avente valore vincolante, sulla base di uno scambio sinallagmatico;
- il carattere oneroso della prestazione (come nel caso in cui a fronte della prestazione del privato, vi sia il riconoscimento di un corrispettivo in denaro, ovvero del diritto di sfruttamento dell’opera o, ancora, come nel caso di specie, la cessione in proprietà o in godimento di beni appartenenti all’amministrazione), il privato che si assume l’obbligo di eseguire le opere è tenuto, come nel caso della realizzazione delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione, ad osservare le procedure previste per l’esecuzione dei lavori pubblici.
Ciò in quanto l’effettuazione di queste opere da parte del privato avviene comunque sulla base di un accordo convenzionale concluso con l’amministrazione per il raggiungimento di un proprio interesse patrimoniale, che è la causa del negozio giuridico in base al quale il privato stesso assume su di sé l’obbligo di realizzare le opere di cui trattasi.
Né osta a tale ricostruzione il fatto che la realizzazione delle opere avvenga tramite soggetti privati, atteso che la Corte Costituzionale, con sentenza 28.03.2006 n. 129, ha espressamente stabilito che “il ricorso a procedure ad evidenza pubblica per la scelta del contraente non può essere ritenuto incompatibile con gli accordi tra privati e pubblica amministrazione”.
Il privato esecutore, pertanto, a seconda che le opere da realizzare a favore del Comune, a fronte della cessione in piena proprietà di immobili precedentemente concessi in diritto di superficie e destinati ad insediamenti produttivi, siano di importo superiore o inferiore alla soglia comunitaria dovrà rispettare:
- le norme della Parte II titolo I, nonché quelle della parte I, IV e V (cfr. art. 32, comma 1, lett. g, nonché le eccezioni previste dal comma 2 del medesimo articolo) per le opere di importo superiore alla soglia comunitaria prevista in tema di lavori (dal 01/01/2012, € 5.000.000, come imposto dal Regolamento CE n. 1251/2011)
- la disciplina prevista degli art. 121, comma 1, e, in particolare, la procedura dell’art. 57, comma 6 (con invito rivolto ad almeno cinque soggetti se sussistono in tale numero aspiranti idonei) del medesimo Codice, in caso di lavori sotto soglia comunitaria (cfr. art. 122, comma 8).
Relativamente a tale ultima ipotesi, va evidenziato che l’articolo 45 del d.l. n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011, ha modificato l’articolo 16 del DPR n. 380/2001 con l’inserimento di un comma 2-bis a mente del quale “nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163" (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 30.05.2012 n. 259).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALISegretari, spese senza eccezioni. Costi da computare tra quelli per il personale.
Le spese relative ai segretari comunali e provinciali vanno a braccetto con quelle del personale dipendente. Infatti, l'attuale assetto normativo che regola il ruolo, le funzioni e lo status dei segretari comunali e provinciali non giustifica una posizione funzionale all'interno degli enti locali diversa da quella attuale, cosicché non si può prevedere che le relative spese siano allocate in bilancio diversamente da quelle per il personale dipendente degli stessi enti.
È quanto mette nero la sezione autonomie della Corte dei conti nel testo della deliberazione 30.05.2012 n. 8, in risposta alle perplessità ventilate da un gruppo di amministratori locali liguri in ordine agli effetti conseguenti all'assunzione di nuovi segretari comunali, sul piano dell'incidenza delle relative spese di personale nei già asfittici bilanci degli enti locali.
Si potrebbe argomentare, così come ha fatto la sezione di controllo della Corte ligure, che nelle funzioni del segretario comunale ci sia un quid di specialità nel rapporto funzionale con l'ente, così da poter apprezzare una posizione diversa da quello del normale dipendente.
Ma la sezione autonomie non ha ravvisato alcunché di speciale nelle prerogative che spettano al segretario dell'ente. Ha ricordato, innanzitutto, che lo status giuridico ed economico va ricondotto al dpr n. 465/1997 e alle norme contenute nei contratti collettivi. Ed è in tali contesti che si ravvisano elementi per ricondurre il segretario «nel tessuto strutturale dell'organizzazione dell'ente locale». Il riferimento è all'articolo 88 del Tuel, dove i segretari comunali sono considerati in termini unitari con il personale dipendente e nelle disposizioni contenute all'articolo 97 dello stesso Testo unico. Qui, l'attività del segretario integra una prestazione lavorativa interamente organica all'ente e alle sue finalità istituzionali, così come l'organicità del ruolo del segretario non differisce da quella dei dipendenti.
Quindi, ha ammesso la sezione autonomie, l'attività di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente e il coordinamento dell'attività dei dirigenti non sono ritenuti fattori che incidono sulla qualificazione del rapporto interno che siano tali da differenziarlo sul piano della finalità della spesa (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2012 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALIPersonale. La sezione lombarda «smentisce» le sezioni riunite. Sul turn-over nei piccoli enti la Corte conti prova a cambiare.
IL NODO IRRISOLTO/ La delibera nazionale (vincolante) prevede l'applicazione dei vincoli a tutti i Comuni, bloccando la gestione di quelli «minori».

Nelle delibere della Corte dei Conti è necessario valutare se le affermazioni contenute riguardano «l'oggetto principale» della questione oppure un «argomento incidentale»: nel primo caso tali affermazioni sono da considerare, nel secondo caso non hanno alcun valore.
È la conclusione, quantomeno sorprendente, a cui si giunge con il parere 22.05.2012 n. 242 della Corte dei Conti Lombardia.
Quest'ultima è intervenuta nella vexata quaestio che ha, per oggetto, l'applicabilità, agli enti non soggetti al Patto di stabilità, dell'articolo 14, comma 9, del Dl 78/2010, vale a dire il limite alle assunzioni pari al 20% (oggi 40%) delle cessazioni verificatesi nell'anno precedente.
A fronte di un orientamento costante delle Sezioni Riunite della stessa Corte (deliberazioni 3 e 4 del 2011), che escludeva tale previsione, le medesime Sezioni, con la deliberazione 11/2012, hanno modificato la loro posizione arrivando ad affermare che anche gli enti non soggetti al patto di stabilità potevano assumere nel limite del 20% (oggi 40%) delle cessazioni (si veda Il Sole 24Ore del 28 maggio).
Rilevato un cambiamento radicale di rotta, che sicuramente avrebbe messo in crisi le amministrazioni interessate, un piccolo Comune interroga ancora i magistrati contabili chiedendo lumi sul da farsi. La Corte lombarda, riprendendo le motivazioni indicate nelle delibere 3 e 4 del 2011, ne condivide il contenuto e ne riafferma la validità, ribadendo che, per le amministrazioni non soggette al Patto di stabilità, l'articolo 14, comma 9 impone solo il generale vincolo che interessa l'incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente. Sottolineano gli stessi giudici che queste pronunce sono espressione della funzione nomofilattica attribuita alle Sezioni Riunite, vale a dire quella volta a garantire l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, che vincola le sezioni regionali.
Ma a questo punto vengono in rilievo due aspetti "anomali". In primo luogo, non si comprende perché le delibere 3 e 4 del 2011 hanno funzione nomofilattica, mentre il parere 11/2012, espresso sempre dalle Sezioni Riunite, non debba presentare la stessa caratteristica. Di conseguenza, non risulta chiaro perché le stesse delibere 3 e 4 del 2011 vincolino le Corti regionali, mentre la 11/2012 non possegga identica forza.
Infatti, la Corte dei Conti Lombardia, nel parere n. 242/2012, riconosce che, nella deliberazione n. 11/2012, «è effettivamente presente un passaggio in cui si afferma che i comuni non soggetti alle regole del patto dio stabilità possono procedere ad assunzioni di personale nel limite del 20% (oggi 40%) della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente».
A questo punto, la Corte lombarda risolve la questione affermando che il problema affrontato nella delibera 11/2012 era rappresentato non tanto dalle norme sulle assunzioni a tempo indeterminato, quanto dalle disposizioni sul lavoro flessibile. E, quindi, a quell'inciso contenuto nella delibera 11 non si deve dare peso, mentre resta in piedi lo stare decisis dei pareri del 2011.
Non sembrano necessari tanti commenti alla vicenda, già eloquente di per sé. Secondo i magistrati lombardi, si tratta di un "incidente di percorso" delle Sezioni Riunite. Poiché questo incidente mette in forte dubbio la possibilità di assumere da parte degli enti non soggetti al patto di stabilità, con pesanti ripercussioni sul mantenimento dei servizi resi alla cittadinanza, è indifferibile un nuovo intervento delle Sezioni Riunite, che si esprimano risolvendo, questa volta definitivamente, la questione.
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L'approfondimento
Nelle pagine di Autonomie locali del Sole 24 Ore di lunedì scorso sono state illustrate le conseguenze della delibera 11/2012 delle Sezioni riunite della Corte dei conti, secondo cui anche negli enti esclusi dal Patto si applicano i vincoli del turn-over (40% delle cessazioni dell'anno precedente).
Negli enti con piccole strutture, questo determina sostanzialmente un'impossibilità di coprire i vuoti in organico (articolo Il Sole 24 Ore del 04.06.2012 - link a www.corteconti.it)

ENTI LOCALIComando e art. 9, comma 28, d.l. 78/2010.
Anche per la sezione regionale Calabria della Corte dei Conti (parere 11.05.2012 n. 41):
"... pure con riferimento alla specifica disposizione limitativa recata dall'articolo 9, comma 28, del d.l. n. 78 del 2010, le considerazioni svolte orientano l'interprete nel senso di ritenere la spesa relativa al personale utilizzato in posizione di comando esclusa dall'ambito applicativo della norma, purché sia garantito il principio di neutralità finanziaria dell'istituto, e dunque a condizione che la medesima spesa sia figurativamente mantenuta dall'Ente cedente ai soli fini dell'applicazione della norma richiamata (in questi termini, Corte dei conti, sez. controllo Liguria, deliberazione n. 7/2012).
Da ultimo, pare infine appena il caso di sottolineare come la spesa derivante dall'utilizzo del personale in comando o distacco vada comunque computata ai fini della verifica del rispetto dei limiti imposti dal legislatore alla spesa di personale degli enti locali (art. 1, commi 557 e 562, della L. 296/2006 e ss.mm.)
" (tratto da www.publika.it).

NEWS

ENTI LOCALIEnti, ecco i soldi per le visite fiscali. Fondo di 70 mln ripartito in base al numero degli accertamenti. Decreto Viminale con i criteri per assegnare le risorse. Per il 2010 conterà anche il numero di abitanti.
In arrivo i contributi per le visite fiscali degli enti locali. Il fondo di 70 milioni di euro l'anno, che il ministero dell'economia e delle finanze eroga complessivamente a regioni, province, comuni, comunità montane e unioni di comuni per finanziare i costi delle visite fiscali ai dipendenti, dovrà essere attribuito agli enti locali in proporzione al numero degli accertamenti medico-legali sui lavoratori assenti per malattia. Per assegnare le spettanze a cui le singole amministrazioni hanno diritto per il 2011 e 2012 (il sistema andrà a regime nel 2013) il Mef farà riferimento agli ultimi dati disponibili sulle visite fiscali forniti dalla Ragioneria generale dello stato.
È questo l'accordo raggiunto tra governo ed enti locali in Conferenza stato-città sul decreto del ministero dell'interno (di concerto con il Mef) attuativo della manovra di luglio 2011 (dl 98).
Il provvedimento si è reso necessario perché il dl 98 non specificava le modalità di ripartizione (all'interno del comparto enti locali) del fondo da destinare alla copertura finanziaria delle visite fiscali.
In Stato-città Anci e Upi hanno espresso parere favorevole sul testo, ma l'Associazione dei comuni, nella seduta del 22 maggio, ha posto una condizione al governo, impegnandolo ad individuare per il 2010 (anno di prima erogazione del contributo) un criterio di calcolo alternativo per gli enti che non abbiano compilato il conto annuale.
La previsione che il riparto dei fondi venga effettuato sulla base del numero di visite fiscali desumibile dalla relazione allegata al conto annuale potrebbe infatti penalizzare gli enti che non lo hanno compilato. Per questo, in Conferenza stato-città il presidente dell'Anci, Graziano Delrio, ha raccomandato al governo di tenere conto di parametri diversi. Solo per il 2010, l'Anci ha chiesto che i fondi vengano assegnati prendendo in considerazione il numero di abitanti del comune e il valore medio delle visite fiscali effettuate nel territorio di riferimento in modo da erogare a tali enti un rimborso forfettario medio.
Secondo l'Anci, questo criterio ulteriore si rende necessario in quanto, si legge nella nota depositata in conferenza stato-città, «l'art. 17, comma 5, del dl 98/2011 non àncora l'erogazione del contributo alla compilazione del conto annuale e dunque, in assenza di un'espressa previsione normativa, la mancata compilazione del conto non può diventare una causa ostativa all'erogazione del contributo».
Come detto, l'ammontare del fondo è di 70 milioni l'anno per il biennio 2011-2012 e poi a regime dal 2013. Per il 2011-2012 il governo troverà le risorse per coprire i costi delle visite fiscali dalle disponibilità finanziarie non utilizzate dal Servizio sanitario nazionale. Dal 2013 la legge di bilancio conterrà ogni anno una dotazione non inferiore a 70 milioni di euro (articolo ItaliaOggi del 09.06.2012 - tratto da www.ecostampa.it).).

SICUREZZA LAVOROIl ministero sulla sicurezza nei cantieri edili. Formazione agli enti doc.
Organismi paritetici doc per la formazione dei lavoratori edili sulla sicurezza lavoro. Ossia, gli enti bilaterali emanati dalle parti sociali con maggiore rappresentatività in termini comparativi che hanno sottoscritto i ccnl dei settori industria, artigianato, cooperazione e industria pmi.
Lo stabilisce il Ministero del Lavoro nella circolare 06.06.2012 n. 13/2012, con cui individua le associazioni sindacali e di categoria corrispondenti al predetto requisito e, dunque, abilitate all'emanazione degli organismi paritetici.
Il ministero risponde alle richieste di chiarimento del personale ispettivo, circa le problematiche della formazione dei lavoratori nel settore edile e, specificatamente, in merito al coinvolgimento nell'attività formativa degli «organismi paritetici», previsti dall'articolo 2, lettera ee), del dlgs n. 81/2008 (T.u. sicurezza). In particolare, è stato chiesto di conoscere quali organismi del settore siano da ritenersi costituiti da «una o più associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale». Circostanza questa, spiega il ministero, essenziale in quanto possono definirsi tali solo gli enti bilaterali emanazione delle parti sociali dotate del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi, e non tutti gli organismi genericamente frutto di qualsivoglia contrattazione collettiva in ambito edile.
Per ora, precisa dunque il ministero, nel settore dell'edilizia, i contratti collettivi nazionali (ccnl) sottoscritti dalla organizzazioni sindacati e datoriali comparativamente più rappresentative sempre a livello nazionale sono: industria (Ance; Feneal-Uil; Filca-Cisl; Fillea-Cgil); artigianato (Anaepa; Cna-costruzioni; Fiae-Casartigiani; Claai; Feneal-Uil; Filca-Cisl; Fillea-Cgil); Cooperazione (Ancpl-Legacoop; Federlavoro e servizi-Confcooperative; Pls Agci; Feneal-Uil; Filca-Cisl; Fillea-Cgil); Piccola e media industria (Anieme; Feneal-Uil; Filca-Cisl; Fillea-Cgil).
In conclusione, il ministero precisa che soltanto gli organismi bilaterali costituiti a iniziativa di una o di più associazioni dei datori di lavoro o dei prestatori di lavoro firmatarie dei predetti contratti (sigle in parentesi) possono definirsi «organismi paritetici» ai sensi del T.u. sicurezza e, pertanto, legittimati a svolgere l'attività di formazione, in collaborazione con i datori di lavoro, come previsto sempre dal T.u. sicurezza (articolo 37) (articolo ItaliaOggi del 09.06.2012).

EDILIZIA PRIVATAIL DECRETO INFRASTRUTTURE/ Ristrutturazioni, allargato il 36%. Il tetto è annuale: non si cumulano le spese già sostenute. Provvedimento in dirittura: ecco le novità tributarie.
A decorrere dall'01.01.2012, per la detrazione del 36% per le ristrutturazioni il limite massimo delle spese ammesse deve essere considerato per periodo d'imposta, senza tenere conto dall'ammontare delle spese sostenute negli anni precedenti.
La bozza di decreto «infrastrutture», al vaglio di uno dei prossimi consigli dei ministri, si aggiunge all'innalzamento provvisorio del tetto di spesa (da 48 mila a 96 mila euro) e alla percentuale di detrazione (dal 36% al 50%).
Innanzitutto, la modifica dispone che per le spese documentate sostenute dalla data di entrata in vigore del provvedimento in commento fino al 30 giugno del prossimo anno (2013), relativamente a tutti gli interventi elencati nel nuovo art. 16-bis, dpr n. 917/1986 (Tuir), il contribuente potrà tenere conto della soglia di spesa massima di 96 mila euro, in luogo di quella prevista a regime (48 mila) per singola unità immobiliare, beneficiando di una detrazione del 50% in luogo di quella del 36%. Stante il fatto che dal 1° gennaio prossimo anche il bonus sul risparmio energetico viene ricondotto nell'ambito della detrazione sulle ristrutturazioni, in luogo di un abbattimento dal 55% al 36%, fino alla metà del medesimo anno (30/06/2013) la detrazione su tali spese sarà possibile nella nuova misura (50%).
La detrazione in commento, ai sensi del comma 48, dell'art. 1, della legge n. 220/2010 si applica anche alle spese per interventi di sostituzione di scaldacqua tradizionali con scaldacqua a pompa di calore dedicati alla produzione di acqua calda sanitaria, con ripartizione della stessa in dieci quote annuali di pari importo; il decreto in commento, con una modifica al comma appena indicato, rende applicabile, fermo restando i tetti di spesa fissati, la detrazione nella misura del 50%, limitatamente alle spese di questo genere sostenute dall'01/01/2013 fino al 30 giugno del medesimo anno.
Inoltre, l'ultimo comma sopprime il comma 4, dell'art. 4 della legge n. 201/2011 che disponeva sulla soglia di spese su cui calcolare il bonus 36%, in presenza di una «mera prosecuzione» di interventi iniziati in anni precedenti; detta disposizione non permetteva, in tal caso, di andare oltre il tetto di 48 mila per i lavori relativi alla medesima unità anche se realizzati (e sostenuti) in periodi d'imposta diversi (per esempio, 2010 euro 40 mila, 2011 euro 10 mila, massima detrazione ottenibile per entrambi i periodi sarà pari al 36% su 48.000 per un ammontare di euro 17.280).
Come detto, infatti, il limite di spesa di 48 mila euro è fissato per ogni intervento sulla stessa abitazione, pertinenze incluse, e il limite è annuale e per immobile e per tipo di intervento (anche se pluriennale). Tale limite non è presente, però, se un contribuente è in possesso di più abitazioni in quanto, allo stato attuale, le spese agevolate sono di 48 mila euro per ciascuna unità (legge 266/2005) e, stante il fatto che il limite deve essere riferito all'abitazione, se l'unità risulta cointestata e le spese per ristrutturazione sono sostenute da tutti i cointestatari, il limite (48 mila euro) deve essere suddiviso tra i contribuenti proprietari.
Nel caso in cui, invece, per l'intervento di ristrutturazione si renda necessario l'ottenimento di una nuova e ulteriore autorizzazione, magari per interventi diversi da quelli già eseguiti, si configura la presenza di un «nuovo» intervento edilizio, con la conseguenza che il contribuente potrà utilizzare un nuovo e intero limite di spesa per l'ammontare attuale pari a 48 mila euro; si è in presenza di un nuovo intervento, come chiarito anche dall'Agenzia delle entrate (circolare n. 13/E/2001), anche nel caso in cui non sia necessario chiedere una specifica autorizzazione.
Con la novella inserita nel provvedimento in commento, pertanto, si prevede l'abrogazione di tale comma, a decorrere dal 1° gennaio scorso (2012), con l'inevitabile possibilità per il contribuente di sostenere, per ogni periodo d'imposta, un limite di spesa «autonomo» nei limiti previsti (48 mila o 96 mila) dalle disposizioni vigenti.
Sul tema si ricorda che, in relazione «_ al computo del limite massimo di spesa, le spese riferibili ai lavori sulle parti in comune dell'edificio, essendo oggetto di un'autonoma previsione legislativa, debbono essere considerate in modo autonomo _» (Agenzia delle entrate, risoluzione 19/E/2008), mentre l'attuale limite dei 48 mila euro, come detto, deve essere considerato con riferimento all'abitazione e alle relative pertinenze (Agenzia delle entrate, risoluzioni n. 124/E/2007 e n. 181/E/2008) (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2012).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Per i dipendenti p.a. stipendio pieno. La neve scusa i lavoratori. L'assenza è giustificata, ma l'azienda non paga. I chiarimenti del ministero del lavoro.
La «neve» grazia gli impiegati pubblici. Quale causa di mancata prestazione lavorativa, infatti, giustifica in pieno i dipendenti statali, che per il giorno in cui saltano il lavoro (come è successo per cinque giorni a febbraio, nel Lazio), conservano comunque il diritto alla retribuzione. Nel settore privato, invece, la neve giustifica sia i lavoratori (per l'assenza sul lavoro) che le imprese (per la mancata erogazione della retribuzione).
Lo precisa il Ministero del Lavoro nell'interpello 07.06.2012 n. 15/2012.
La «causa neve». I chiarimenti arrivano in risposta all'Ugl che ha chiesto al ministero di sapere se ricorre l'obbligo sul datore di lavoro di corrispondere la retribuzione ai lavoratori che non hanno potuto raggiungere il posto di lavoro, «causa neve», nell'ambito territoriale di Roma Capitale e delle altre province del Lazio (giornate del 3, 4, 6, 10 e 11.02.2012).
Settore pubblico. Con riferimento al settore pubblico, il ministero precisa che la mancata prestazione lavorativa può considerarsi ascrivibile alle ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al lavoratore. Nello specifico, la fattispecie afferisce al cosiddetto factum principis inteso quale provvedimento autoritativo (ossia l'ordinanza di chiusura degli uffici pubblici causa neve) che impedisce in modo oggettivo e assoluto l'adempimento della prestazione, ossia l'espletamento dell'attività lavorativa; in tal caso, pertanto, resta fermo l'obbligo per la parte datoriale di corrispondere la retribuzione. Peraltro, aggiunge il ministero, l'interpretazione è sostenuta anche dalla contrattazione collettiva, comparto ministeri, laddove indica tra le motivazioni per cui possono essere concessi i permessi retribuiti, anche l'ipotesi di assenza motivata da gravi calamità naturali che rendano oggettivamente impossibile il raggiungimento della sede di servizio.
Settore privato. Completamente diverso il discorso per il settore privato dove, invece, il provvedimento autoritativo concernente il divieto di circolazione dei mezzi privati sprovvisti di apposite catene non costituisce impedimento di carattere assoluto all'effettuazione della prestazione lavorativa, in quanto non preclude la libera scelta del datore di lavoro di continuare a svolgere le attività connesse al settore di appartenenza.
In tali casi, tuttavia, precisa il ministero, il mancato raggiungimento del posto di lavoro potrebbe risultare comunque estraneo alla volontà del lavoratore; di conseguenza, la mancata prestazione lavorativa, in presenza di tempestiva comunicazione del lavoratore all'azienda, qualora supportata da idonea motivazione, non è qualificabile in termini di inadempimento imputabile al lavoratore.
In conclusione, in tali fattispecie l'impossibilità sopravvenuta libera entrambe le parti del rapporto di lavoro: il lavoratore dall'obbligo di effettuare la prestazione e il datore dall'obbligo di erogare la corrispondente retribuzione. Restano ferme, in ogni caso, le disposizioni dei contratti collettivi che, generalmente, contemplano la possibilità per il lavoratore di fruire di titoli di assenza retribuiti al verificarsi di eventi eccezionali (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2012 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALILa p.a. diventa una casa di vetro. On-line i pagamenti sopra i 1.000 a professionisti e imprese. Nel decreto crescita il governo punta sulla trasparenza della spesa pubblica come volàno di sviluppo.
La via maestra per la crescita? La massima trasparenza su come la pubblica amministrazione e gli enti locali spendono i propri soldi. Ministeri, regioni, province e comuni, nessuno escluso, dovranno pubblicare sul proprio sito internet i dati relativi ai finanziamenti pubblici e agli incentivi erogati alle imprese, nonché le somme pagate per prestazioni, consulenze, servizi e appalti quando l'importo supera i 1.000 euro. E dal 2013 la pubblicazione sul web costituirà un requisito essenziale delle prestazioni.
L'obiettivo che il governo Monti persegue nel decreto crescita, atteso oggi in consiglio dei ministri, è ambizioso: realizzare quella trasparenza delle spesa (open government) che è una realtà consolidata nei paesi scandinavi, negli Usa e nel Regno Unito e che «permette ai cittadini un controllo generale e continuo nella gestione dei fondi pubblici». Per questo diventerà obbligatorio per le p.a. pubblicare su internet tutte le somme erogate a imprese e professionisti.
Come spiega la relazione tecnica al decreto legge, l'obbligo riguarda la concessione di vantaggi economici in senso lato e dunque sovvenzioni, contributi, sussidi finanziari, ma anche corrispettivi e compensi a persone per forniture, servizi, incarichi e consulenze. I dati dovranno essere caricati su internet in formato tabellare accessibile in modo semplice ai motori di ricerca. Le amministrazioni dovranno indicare il nome del soggetto beneficiario e i suoi dati fiscali, l'importo, la norma o il titolo a base dell'attribuzione, l'ufficio e il funzionario o dirigente responsabile del relativo procedimento amministrativo e le modalità seguite per l'individuazione del beneficiario.
Dovrà inoltre essere indicato un link al progetto selezionato, al curriculum del soggetto incaricato, nonché al contratto e capitolato della prestazione, fornitura o servizio. Come detto, la pubblicazione dei dati su internet costituirà condizione legale di efficacia del beneficio. L'inadempimento dovrà essere rilevato d'ufficio dagli organi dirigenziali e di controllo sotto la propria diretta responsabilità. Non solo. La mancata pubblicazione potrà essere denunciata anche dal beneficiario del contributo o del pagamento e anche da chiunque altro vi abbia interesse «ai fini del risarcimento del danno da parte dell'amministrazione, mediante azione davanti al tribunale amministrativo regionale».
Servizi pubblici locali. Il decreto crescita (si veda ItaliaOggi del 06/06/2012) alleggerisce gli adempimenti burocratici per facilitare la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Ma a farne le spese è l'Antitrust che vede sensibilmente ridotti i propri poteri. La delibera quadro con cui i comuni devono giustificare la mancata apertura al mercato e il mantenimento di diritti di esclusiva andrà trasmessa all'Authority solo se il valore del servizio da assegnare senza gara supera i 200 mila euro (la stessa soglia per gli affidamenti diretti in house).
Il parere dell'Antitrust, inoltre, non costituirà più una condicio sine qua non per l'adozione della delibera. E varrà il principio del silenzio-assenso: in caso di mancata risposta entro il termine di 60 giorni, il parere dell'organismo presieduto da Giovanni Pitruzzella si intenderà favorevolmente acquisito. La delibera quadro potrà comunque essere adottata trascorsi 90 giorni dalla trasmissione all'Antitrust.
Le novità intervengono a modificare la disciplina delle liberalizzazioni delle utility riscritta dal governo Berlusconi con la manovra di Ferragosto 2011 (l'intervento si rese necessario a seguito dell'abrogazione delle norme previgenti a opera dei referendum). E puntano, come si legge nella relazione illustrativa del provvedimento, a «semplificare le procedure relative all'approvazione della delibera quadro, quando non strettamente necessaria ai fini della promozione della concorrenza».
Federalismo demaniale, le miniere dalle province alle regioni. Lo schema di decreto interviene anche a correggere il dlgs sul federalismo demaniale (n. 85/2010) rimasto finora sulla carta per la mancata approvazione dei dpcm attuativi. Le miniere, originariamente attribuite alle province anche se queste non hanno alcuna competenza in materia, vengono trasferite al patrimonio indisponibile delle regioni a cui la riforma del Titolo V ha attribuito la competenza legislativa e gestionale in materia (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2012 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIElenco dei revisori, tutto pronto per l'invio delle domande. Via alle istanze quando l'avviso pubblico sarà approdato in gazzetta ufficiale.
Tutto pronto per la presentazione delle domande di inserimento nell'elenco dei revisori dei conti degli enti locali. Infatti, a breve sarà pubblicato in G.U. l'avviso pubblico contenente le indicazioni per poter richiedere l'inserimento nel predetto elenco, al momento riservato agli enti locali ricadenti nei territori delle regioni a statuto ordinario. Le domande dovranno essere presentate esclusivamente per via telematica, entro trenta giorni dalla predetta pubblicazione e sottoscritte con firma digitale.
È quanto contenuto nell'avviso pubblico per la presentazione delle domande di inserimento nell'elenco dei revisori dei conti (solo per la fase di prima applicazione), che è stato approvato dal recente decreto Mininterno 05/06/2012.
I requisiti. Alla data di scadenza del termine utile per la presentazione, ovvero trenta giorni decorrenti dalla pubblicazione dell'avviso in Gazzetta Ufficiale (termine questo perentorio), l'avviso rende noto che i soggetti richiedenti dovranno essere in possesso dei requisiti indicati all'articolo 4 del citato dm 15/02/2012.
In pratica, per i comuni fino a 5.000 abitanti (fascia 1 del dm) è necessaria l'iscrizione da almeno due anni nel registro dei revisori legali o all'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, l'aver già avanzato richiesta di svolgere la funzione quale organo di revisione di ente locale e aver conseguito almeno 15 crediti formativi, acquisiti nel triennio 2009-2011 e riconosciuti dai competenti ordini professionali.
Per gli enti locali tra 5.000 e 15.000 abitanti (fascia 2), occorrerà l'iscrizione da almeno 5 anni nel registro dei revisori legali, l'aver già svolto un incarico di revisore per almeno tre anni e il conseguimento di almeno 15 crediti formativi. Per gli enti con maggiore dimensione (fascia 3) sono inseriti i richiedenti con almeno dieci anni di iscrizione, l'aver svolto almeno due incarichi di revisore dei conti, ciascuno per la durata di tre anni e il conseguimento di almeno 15 crediti formativi.
L'iter di presentazione. L'avviso specifica che le domande vanno presentate al dipartimento per gli affari interni e territoriali del Viminale esclusivamente per via telematica, tramite apposito modello contenente i dati anagrafici e la dichiarazione del possesso dei requisiti. A tal fine, sul sito www.finanzalocale.interno.it, sarà attivato il link «elenco revisori enti locali». Al termine della compilazione, sarà generato un file che il richiedente dovrà sottoscrivere con firma digitale e trasmettere alla casella di posta elettronica certificata indicata al momento dell'accesso nel portale.
Al fine di supportare i richiedenti nella compilazione del modello, l'avviso rende noto che sul sito sopra indicato saranno messe a disposizione degli utenti, apposite istruzioni anche in forma audio-video. Nell'istanza, i richiedenti dovranno altresì autocertificare il possesso dei requisiti, fermo restando che il mininterno potrà esercitare i poteri di controllo sulla loro veridicità.
Precisazioni. Dall'elenco formato al termine della procedura, saranno estratti (a sorte) i nominativi dei revisori in fase di prima applicazione, ovvero sino al 28.02.2013. Saranno nominati, per ciascun organo di revisione da rinnovare sia i soggetti designati che eventuali subentranti in ordine di estrazione.
In breve, nel caso di organo di revisione collegiale i primi tre nominativi estratti saranno designati per la nomina e, in caso di rinuncia o impedimento ad assumere l'incarico, subentreranno gli altri nominativi estratti in rigoroso ordine dal quarto sino al nono (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOSSERVATORIO VIMINALE/ Enti liberi sugli organici. Dai dirigenti incarichi ai dipendenti di categoria D. I manager possono delegare il potere di emanare i pareri di propria competenza.
Un comune che ha nella dotazione organica n. 11 posizioni dirigenziali, di cui n. 9 coperte da dirigenti assunti a tempo determinato, con contratto in scadenza, e n. 2 da dirigenti a tempo indeterminato –che non può rinnovare i predetti contratti in quanto il rapporto tra la spesa di personale e la spesa corrente supera il 40%- può istituire le posizioni organizzative e attribuire ai titolari delle stesse, con delega del dirigente, le attività di cui all'art. 107 del dlgs 267/2000, nonché i pareri di cui all'art. 49 del medesimo decreto legislativo? È necessario, al termine del procedimento, il visto ovvero la firma del dirigente?
La struttura organizzativa è tipica manifestazione dell'autonomia di cui gode ogni singolo ente che, attraverso lo strumento del regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, stabilisce le modalità di conferimento dei compiti ai dirigenti ovvero ai responsabili degli uffici, dettando, altresì, i criteri secondo i quali gli stessi devono dirigere gli uffici.
Il citato regolamento provvede, inoltre, all'individuazione delle posizioni organizzative e, al fine di assicurare l'efficacia e l'efficienza dell'azione amministrativa, a collocare nell'ambito di ciascuna unità organizzativa, i vari procedimenti amministrativi.
A tal proposito si rammenta che l'art. 5 della legge 241/1990 (e successive modificazioni e integrazioni) prevede espressamente che il dirigente di ciascuna unità organizzativa possa assegnare a sé, o ad altro dipendente addetto all'unità, la responsabilità dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento nonché l'adozione del provvedimento finale, compatibilmente con le vigenti norme in materia di competenza nell'emanazione dei vari atti.
In merito, l'istituzione dell'area delle posizioni organizzative, ai sensi dell'art. 8 del Ccnl 31/03/1999, è caratterizzata proprio dall'assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato per lo svolgimento anche di funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità e caratterizzate da elevato grado di autonomia, sia gestionale che organizzativa.
Conseguentemente, il comune potrebbe procedere a una nuova organizzazione amministrativa creando due macrostrutture al vertice delle quali porre i due dirigenti assunti a tempo indeterminato.
All'interno di dette strutture potrebbero essere previsti i vari servizi o settori con l'istituzione delle posizioni organizzative, secondo la disciplina del richiamato art. 8.
Gli incarichi di posizione organizzativa dovranno essere conferiti dai dirigenti, ai dipendenti di categoria D, previa determinazione di criteri generali fissati dall'ente.
Con il meccanismo della delega potranno, quindi, essere delegate ai predetti dipendenti talune particolari funzioni o attività, ivi compresa la possibilità di emanare i pareri di propria competenza.
Pertanto, fermo restando che il conferimento delle funzioni dirigenziali ex art. 107 del dlgs 267/2000 ai responsabili degli uffici e dei servizi è previsto dal comma 2 dell'art. 109 del medesimo dlgs 267/2000 solo per i comuni privi di personale di qualifica dirigenziale, devono essere mantenuti in ogni caso in capo al dirigente i poteri di indirizzo, di coordinamento e di controllo dell'attività svolta dai titolari di posizione organizzativa (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2012 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATADal 31 maggio fonti rinnovabili nei titoli edilizi.
Dal 31.05.2012 la presentazione dei titoli edilizi dovrà obbligatoriamente essere integrata dalle fonti energetiche rinnovabili negli edifici.

È l'articolo 11 del dlgs 03.03.2011, n. 28 a prevede che le fonti rinnovabili debbano coprire i «consumi di calore, di elettricità e per il raffrescamento secondo i principi minimi di integrazione e le decorrenze di cui all'allegato 3». È l'allegato 3 al dlgs 03.03.2011, n. 28 a stabilire che gli obblighi sono previsti solo a partire dal 31.05.2012 e sono crescenti nel tempo.
Nel caso di edifici nuovi o edifici sottoposti a ristrutturazioni rilevanti, gli impianti di produzione di energia termica devono essere progettati e realizzati in modo da garantire il contemporaneo rispetto della copertura, tramite il ricorso a energia prodotta da impianti alimentati da fonti rinnovabili, del 50% dei consumi previsti per l'acqua calda sanitaria più una percentuale variabile calcolata sulla somma dei consumi previsti per l'acqua calda sanitaria, il riscaldamento e il raffrescamento.
Le percentuali variabili, secondo i tempi delle relative costruzioni sono: 20% se la richiesta del titolo edilizio è presentata dal 31.05.2012 al 31.12.2013; 35% se la richiesta del titolo edilizio è presentata dall'01.01.2014 al 31.12.2016; il 50% quando la richiesta del pertinente titolo edilizio è rilasciato dall'01.01.2017. Questi obblighi non si applicano qualora l'edificio sia allacciato ad una rete di teleriscaldamento che ne copra l'intero fabbisogno di calore per il riscaldamento degli ambienti e la fornitura di acqua calda sanitaria. Il dlgs 28/2001 ha ridefinito la tempistica e i criteri di integrazione delle energie rinnovabili negli edifici di nuova costruzione e negli edifici «sottoposti a ristrutturazione rilevante».
È l'articolo 2, comma 1, lettera m), del dlgs 28/2011 che contiene la definizione di «edificio sottoposto a ristrutturazione rilevante». Definendolo come un «edificio che ricade in una delle due seguenti categorie: edificio esistente avente superficie utile superiore a 1000 metri quadrati, soggetto a ristrutturazione integrale degli elementi edilizi costituenti l'involucro; edificio esistente soggetto a demolizione e ricostruzione anche in manutenzione straordinaria».
L'articolo 11, 2 comma, del dlgs 28/2011 prevede che le disposizioni suindicate non vengono applicate agli edifici protetti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (dlgs 22.01.2004, n. 42) e a quelli specificamente individuati come tali negli strumenti urbanistici, qualora il progettista evidenzi che il rispetto delle prescrizioni implica un'alterazione incompatibile con il loro carattere o aspetto, con particolare riferimento ai caratteri storici e artistici.
Per gli edifici pubblici gli obblighi di integrazione sono incrementati del 10%. Le regioni possono stabilire anche valori di integrazione superiori a quelli stabiliti dal dlgs 28/2011 (articolo ItaliaOggi del 07.06.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCorte dei conti. La sezione Puglia ha riconosciuto le somme incentivanti destinate ai dipendenti comunali che svolgono controlli nel 2012.
Restano i compensi per chi accerta l'Ici.

Via libera ai compensi incentivanti al personale comunale dell'ufficio tributi, commisurati al gettito Ici. La previsione contenuta nell'articolo 59, lettera p), Dlgs 446/1997, non è stata infatti abrogata.
La conferma giunge dal parere reso in questi giorni, in sede consultiva, dalla Corte dei Conti della Puglia.
Il dubbio nasceva dal fatto che la legge 44/2012 ha eliminato l'articolo 59 suddetto dalle norme richiamate ai fini dell'Imu. Ciò ha reso inapplicabile la disposizione in oggetto nell'ambito del nuovo tributo comunale. Per il 2012, tuttavia, i progetti di recupero dell'evasione non hanno a oggetto l'Imu ma l'attività di controllo dell'Ici. Da qui il quesito rivolto da un Comune in ordine alla possibilità di deliberare, in via regolamentare, anche quest'anno programmi che prevedano l'erogazione di compensi parametrati al gettito dell'Ici.
La Corte dei Conti della Puglia ha risposto positivamente, osservando come nessuna disposizione abbia abrogato l'articolo 59, del Dlgs 446/1997. Tale articolo, essendo specificamente rivolto all'Ici, non appare altresì in alcun modo incompatibile con l'ordinamento attuale.
Va inoltre evidenziato che anche la circolare n. 3 del 2012 del Dipartimento delle politiche fiscali, sul punto, si è limitata a rilevare che il medesimo articolo 59 «non può trovare applicazione per l'Imu». Nulla è invece precisato in ordine alla sua vigenza nel contesto della gestione dell'Ici. Il problema si porrà non appena inizieranno i controlli dell'Imu. E appare incoerente promuovere la lotta all'evasione con la collaborazione dei Comuni, eliminando uno strumento che si è già rivelato di indubbia utilità allo scopo (articolo Il Sole 24 Ore 07.06.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAAnche la Funzione Pubblica conferma: spetta alla P.A. richiedere il DURC.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica ricorda che nei pubblici appalti e nei lavori privati in edilizia, spetta alla P.A. richiedere il rilascio del DURC alle Amministrazioni preposte al rilascio ed alle Cassa Edili le quali, a loro volta, dovranno inviarlo per PEC.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con
circolare 31.05.2012 n. 6/2012, conferma che, in virtù del D.L. n. 5/2012, convertito con modificazioni dalla Legge n. 35/2012, è escluso che un privato possa consegnare il DURC all’Amministrazione nei pubblici appalti e nei lavori privati in edilizia, perché spetta alla P.A. richiedere il rilascio dello stesso alle Amministrazioni preposte al rilascio ed alle Cassa Edili.
Tuttavia il privato può richiedere il rilascio del DURC -su cui dovrà essere apposta a pena di nullità la dicitura: “Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della P.A. o ai privati gestori di servizi pubblici”- da consegnare ad altro privato.
Unico caso in cui le Amministrazioni procedenti potranno accettare una dichiarazione sostitutiva è quello in cui sia la normativa di settore ad ammetterlo ma, in tal caso, le Amministrazioni dovranno verificare la veridicità di quanto dichiarato dal privato.
In relazione ai lavori pubblici, sottolinea inoltre la circolare, è necessario che il DURC sia acquisito d’ufficio in tempi rapidi, sia nella fase di gara che in quella successiva in cui il controllo sulla regolarità contributiva è condizione necessaria per il pagamento degli stati avanzamento lavori e per il pagamento del saldo finale.
In conclusione, la Funzione Pubblica invita le Amministrazioni ad utilizzare, per l’inoltro della richiesta del DURC, il servizio on-line disponibile all’indirizzo www.sportellounicoprevidenziale.it, mentre gli Istituti previdenziali e le Casse edili dovranno utilizzare, per la trasmissione del certificato, la PEC.
Nel caso in cui il certificato sia rilasciato d’ufficio, sullo stesso deve essere apposta la dicitura: “rilasciato ai fini dell’acquisizione d’ufficio” (06.06.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAIl Durc sopravvive su carta. Le indicazioni del ministero del lavoro.
Il Durc sopravvive alla decertificazione. Per i rapporti tra privati, infatti, resta ancora richiedibile in formato cartaceo (per esempio per la verifica da parte del committente o del responsabile dei lavori dell'idoneità tecnico professionale delle imprese affidatarie, come impone il T.u. sicurezza); in tutti i rapporti tra le p.a., invece, l'obiettivo è la sua completa dematerializzazione con ricorso alla Pec, canale obbligatorio di consegna del Durc a partire dall'01.07.2013.
È quanto precisa, tra l'altro, il Ministero del lavoro nella
circolare 01.06.2012 n. 12/2012.
Il ministero sottolinea, in primo luogo, che le stazioni appaltanti sono tenute ad acquisire d'ufficio il Durc non soltanto nell'ambito dei lavori pubblici (in tutti i contratti pubblici), ma anche nei lavori privati dell'edilizia. In quest'ultimo ambito, tuttavia, sopravvive la possibilità di emissione del Durc a privati, ai fini dell'utilizzo esclusivo nei rapporti fra privati.
Ciò è previsto, precisa il ministero, dal T.u. sicurezza laddove richiede, a carico del committente o del responsabile dei lavori privati, alcuni adempimenti concernenti la verifica dell'idoneità tecnico-professionale delle imprese affidatarie, delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi anche attraverso il Durc (adempimenti peraltro sanzionati penalmente).
In secondo luogo, il ministero ribadisce quanto già affermato in precedenza circa l'impossibilità di sostituire il Durc con un'autocertificazione, in quanto la regolarità contributiva non può essere «oggetto di sicura conoscenza». Rispetto a quanto avviene per stati, qualità personali e fatti, è cosa del tutto diversa, spiega il ministero, la certificazione relativa al regolare versamento dei contributi obbligatori, poiché non costituisce una mera certificazione del versamento di una somma a titolo di contribuzione, ma è un'attestazione di istituti previdenziali e casse edili circa la «correttezza della posizione contributiva di una realtà aziendale».
Tuttavia, aggiunge il ministero, resta possibile per l'impresa presentare la dichiarazione in luogo del Durc nelle specifiche ipotesi previste dalla legge (nei contratti di forniture e servizi fino a 20 mila euro tra p.a. e società in house). Il ministero, ancora, spiega che, per il necessario risparmio di risorse economiche e amministrative, gli istituti previdenziali e le pubbliche amministrazioni sono tenute ad adottare ogni accorgimento utile per la dematerializzazione del Durc.
In particolare, il ministero ritiene che la sua acquisizione non possa più operarsi attraverso i canali della posta cartacea che, oltre a dare luogo a costi elevati, non garantiscono certezza dei tempi di consegna materiale del certificato. Pertanto, gli istituti sono tenuti ad attivare ogni iniziativa utile alla progressiva diffusione dell'utilizzo della Pec per la consegna del Durc, fermo restando l'obbligatorietà dell'invio esclusivo a partire dall'01.07.2013.
Infine, nel ribadire l'esclusività delle casse edili abilitate alla competenza e al rilascio del Durc nel settore edile, il ministero precisa che eventuali certificazioni di regolarità rilasciate da casse edili non abilitate, pur se accompagnate da certificazioni di regolarità separate da parte degli istituti di previdenza, non potranno in alcun modo sostituirsi al Durc, ancorché le predette casse abbiano in passato sottoscritto accordi a livello locale e abbiano in corso contenzioso sul loro riconoscimento.
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Un garbuglio infinito. Indicazioni contrastanti sul documento.
Il garbuglio infinito del Durc si arricchisce di un nuovo filone. La circolare 01.06.2012 n. 12/2012 del ministero del lavoro posta a risolvere alcune questioni concernenti il Durc dopo la disciplina della cosiddetta decertificazione, si pone indirettamente in contraddizione con precedenti note dello stesso ministero e di Inps e Inail.
Si tratta della nota ministeriale 16.01.2012, n. 619 e della nota congiunta di 513/2012, con le quali si è sostenuta la tesi secondo la quale il Durc sfuggirebbe all'applicazione delle nuove regole sui certificati (che ne determinano l'invalidità se scambiati tra amministrazioni pubbliche) disposte dall'articolo 15 della legge 183/2012.
Secondo tali note, il Durc come certificato continuerebbe a sopravvivere, per la semplice ragione che i suoi contenuti, caratterizzati da una rilevante attività di tipo tecnico, non sono del tutto conoscibili dai privati. Che, di conseguenza, non potrebbero presentare dichiarazioni sostitutive del documento, il quale, del resto, deve essere acquisito d'ufficio dalle amministrazioni appaltanti.
Molti hanno fatto notare che tale tesi non regge per una serie di motivi, il principale dei quali consiste nell'espressa previsione contenuta nell'articolo 38, comma 2, del dlgs 163/2006 da cui discende la piena autocertificabilità del Durc, a sua volta qualificato espressamente come certificato dall'articolo 6, comma 1, del dpr 207/2010.
Ora, la circolare 37/2012 del ministero del lavoro indirettamente contribuisce a privare ulteriormente di pregio le indicazioni precedenti. Nel paragrafo dedicato alla validità trimestrale del Durc, detta circolare indica: «Ha validità trimestrale il Durc emesso ai fini del controllo delle autocertificazioni presentate ai sensi del dpr n. 445/2000 che attesta la regolarità alla data dell'autocertificazione che è stata indicata nella richiesta». Smentendo totalmente i precedenti assunti, dunque, il ministero considera perfettamente legittimo che le imprese, nell'ambito degli appalti pubblici, presentino autocertificazioni, precisando la validità trimestrale del Durc emesso, poi, in risposta alle richieste delle amministrazioni appaltanti in merito alla verifica della veridicità di quanto dichiarato dalle imprese.
La circolare, per altro, si pone a sua volta in contrasto con la decertificazione. Scopo primo e fondamentale dell'articolo 15 della legge 183/2011 è vietare in via assoluta che le amministrazioni tra loro dialoghino mediante scambio di certificati. Ammettere che la verifica del contenuto delle autocertificazioni in merito alla posizione contributiva e previdenziale degli appaltatori si svolga mediante il rilascio del Durc, significa legittimare la violazione frontale e irrimediabile della disciplina della decertificazione e indicare indirettamente, ma senza alcun fondamento legislativo, che sul Durc non vada inserita la dicitura prevista dall'articolo 40, comma 02, del dpr 445/2000.
In senso diametralmente opposto al pronunciamento del ministero del lavoro è, invece, la
circolare 31.05.2012 n. 6/2012 della funzione pubblica, secondo la quale il Durc ricade pienamente nella disciplina dell'articolo 15 della legge 183/2011. Un contrasto di opinioni che disorienterà non poco operatori e imprese, tale da meritare un urgente ripensamento della normativa sulla semplificazione che, a ben vedere, come si dimostra, di semplificazione ha ben poco (articolo ItaliaOggi del 06.06.2012).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAIl richiamo di Patroni Griffi alle p.a.. Durc da acquisire solo on-line.
L'acquisizione d'ufficio del Durc (il documento unico di regolarità contributiva) da parte delle p.a. deve avvenire in tempi rapidi in modo da non provocare ritardi nei pagamenti che possono far scattare responsabilità erariale a carico del dipendente pubblico. Per questo le pubbliche amministrazioni per richiedere il certificato dovranno utilizzare, «salvo motivati casi eccezionali», i servizi on-line offerti dal portale www.sportellounicoprevidenziale.it. Gli istituti di previdenza e le casse edili dal canto loro dovranno trasmettere il Durc esclusivamente tramite Pec (posta elettronica certificata).
A richiamare l'attenzione delle p.a. sulle novità in materia di decertificazione contenute nella legge di stabilità 2012 (legge n.183/2011) è il ministero per la pubblica amministrazione e la semplificazione nella
circolare 31.05.2012 n. 6/2012.
Nella nota, il ministro Filippo Patroni Griffi, ricorda che negli appalti pubblici e nei lavori privati di edilizia il Durc non può più essere consegnato dal privato all'amministrazione, ma sarà la p.a. a doverlo chiedere agli enti preposti al suo rilascio.
Se la normativa di settore lo prevede, al posto del Durc il privato potrà presentare una dichiarazione sostitutiva, la cui attendibilità andrà attentamente valutata dall'amministrazione. Il privato potrà richiedere il rilascio del Durc se intende consegnarlo ad altro privato, ma sul documento dovrà essere apposta la dicitura «il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi».
Ribaditi i paletti normativi imposti dalla legge di stabilità e dal decreto semplificazioni di Mario Monti (dl n. 5/2012), la nota di Patroni Griffi raccomanda che l'acquisizione d'ufficio del documento avvenga in tempi rapidi «sia nella fase di gara che in quella successiva nella quale il controllo della regolarità contributiva è condizione necessaria per il pagamento degli stati di avanzamento lavori o delle prestazioni relative a servizi e forniture o per il pagamento del saldo finale».
«In queste ultime ipotesi», scrive il ministro, «un eventuale ritardo nella richiesta del Durc può tradursi in uno slittamento dei pagamenti con conseguente maggiore onerosità degli stessi e responsabilità erariale del dipendente incaricato». Per questo va usato il portale di cui sopra che attraverso un apposito applicativo consente di verificare in tempo reale l'inoltro della richiesta di Durc da parte delle p.a. (articolo ItaliaOggi del 05.06.2012).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATALe PP.AA. devono acquisire il DURC d’ufficio.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali fornisce chiarimenti sul rilascio del DURC, con riferimento ai lavori edili pubblici e privati, in relazione alla possibilità di sostituire il DURC con l’autocertificazione e sulla sua validità, sulla dematerializzazione e consultazione dello stesso ed infine sulle Casse Edili abilitate al rilascio.
Con la
circolare 01.06.2012 n. 12/2012, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha fornito indicazioni sul rilascio del DURC per gli operatori del settore e per uniformare il comportamento del personale ispettivo.
DURC per lavori edili pubblici e privati
Innanzitutto la circolare ministeriale chiarisce che nell’ambito dei lavori pubblici le stazioni appaltanti sono tenute ad acquisire d’ufficio il DURC, sia in forza dell’art. 16-bis, c. 10, del D.L. n. 185/2008, convertito dalla Legge n. 2/2009, sia in forza dell’art. 44-bis del DPR n. 445/2000. Inoltre, anche l’art. 14, c. 6-bis, D.L. n. 5/2012, le Amministrazioni pubbliche devono acquisire d’ufficio il DURC sia nell’ambito dei lavori pubblici che nei lavori privati dell’edilizia.
Nell’ambito dei lavori privati in edilizia è comunque possibile, da parte dei privati richiedere il Documento ai fini di un suo utilizzo nei rapporti fra privati ma, in tal caso, gli Istituti e le Casse Edili devono apporre sulla certificazione, a pena di nullità, la dicitura “il presente certificato non può essere prodotto agli organi della P.A. o ai privati gestori di servizi pubblici" (art. 40, c. 2, DPR n. 445/2000).
Per quanto concerne, invece, l’acquisizione del DURC da parte dell’Amministrazione concedente, l’acquisizione del DURC relativo alle imprese affidatarie, alle imprese esecutrici ed ai lavoratori autonomi interessati deve essere effettuata d’ufficio dalla medesima amministrazione.
Sostituzione del DURC con autocertificazione
Come già chiarito in altre occasioni, il Ministero del Lavoro conferma che la regolarità contributiva non può essere autocertificabile. Cosa diversa è la certificazione relativa al regolare versamento della contribuzione obbligatoria che non costituisce mera certificazione del versamento di una somma a titolo di contribuzione, per cui l’impresa può presentare una dichiarazione in luogo del DURC in specifiche ipotesi previste dal Legislatore, come nel caso dell’art. 38, c. 1, lett. i), del D.Lgs. n. 163/2006 e l’art. 14-bis del D.L. n. 70/2011, convertito dalla Legge n. 106/2011 (contratti di forniture e servizi fino a 20.000 € stipulati con la P.A. e con le società in house)
Validità del DURC
La circolare n. 12/2012, costituisce occasione per il Ministero per ricordare che il DURC, anche nell’ambito pubblico ha validità trimestrale, inoltre:
- nell’ambito delle procedure di selezione del contraente, va acquisito un DURC per ciascuna procedura e lo stesso ha validità trimestrale; analogamente ha validità trimestrale il DURC emesso ai fini del controllo delle autocertificazioni presentate ex DPR n. 445/2000 che attesta la regolarità alla data dell’autocertificazione che è stata indicata nella richiesta. In entrambi i casi il DURC può essere utilizzato dalla stazione appaltante all’interno della medesima procedura di selezione, anche ai fini dell’aggiudicazione e sottoscrizione del contratto, purché ancora in corso di validità.
- per le fasi di stato avanzamento lavori o stato finale/regolare esecuzione - fermo restando l’obbligo di richiedere un nuovo DURC per ciascun SAL o stato finale riferiti ad ogni singolo contratto
- il DURC ha validità trimestrale.
- il DURC deve essere richiesto anche nel caso di appalti relativi all’acquisizione di beni, servizi e lavori effettuati in economia ex art. 125, c. 1, lett. b), D.Lgs. n 163/2006 ed ha validità trimestrale con riferimento allo specifico contratto.
Dematerializzazione e consultazione del DURC
Gli Istituti e le PP.AA. devono adottare ogni possibile misura per dematerializzare il DURC e quindi per diffonde l’uso della PEC per la consegna. Gli Istituti, inoltre, potranno adottare misure tecniche per rendere accessibili via web, a chi abbia un interesse qualificato (Casse edili abilitate comprese), le informazioni concernenti richieste e contenuti dei DURC già rilasciati. DURC e Casse Edili abilitate. Infine, la circolare n. 12/2012 ribadisce che le stazioni appaltanti debbono tenere in conto solo le certificazioni rilasciate dalle Casse Edili abilitate al rilascio del DURC.
Eventuali certificazioni rilasciate da Casse edili non abilitate non possono sostituire il DURC anche se le Casse abbiano in passato sottoscritto accordi a livello locale o abbiano in corso contenziosi relativi alla possibilità di rilasciare attestazioni di regolarità (04.06.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI SERVIZILiberalizzazioni. Ancora fermo lo schema di delibera-quadro per l'analisi di mercato.
La burocrazia sposta al 2013 la riforma dei servizi pubblici. L'impasse sui decreti rende impossibile rispettare i tempi.
VUOTI NORMATIVI/ Mancano anche le misure per assoggettare al Patto di stabilità le imprese in house e le aziende speciali.

Il processo per i nuovi affidamenti dei servizi pubblici locali è partito, ma i ritardi nell'emanazione di alcuni decreti attuativi rischiano di rendere impossibile il rispetto delle scadenze nel corso per 2012, per l'attribuzione dei diritti di esclusiva e in relazione alla cessione delle gestioni esistenti.
Il 31 maggio era l'ultima data utile per i Comuni che volevano definire proposte per Ato con dimensionamento diverso da quello provinciale, da presentare alle Regioni per la revisione di ambiti e bacini per i servizi a rete, che dovrà essere adottata entro il 30 giugno di quest'anno.
Lo sviluppo di questa fase, strategica per servizi come il ciclo integrato dei rifiuti, è stato però fortemente penalizzato dalla mancanza di un riferimento certo per la verifica istruttoria che gli enti locali devono fare sull'attribuzione dei diritti di esclusiva: le particolarità rilevabili in un Ato possono infatti risultare decisive per orientare gli enti affidanti sull'opzione della gestione unitaria.
Il decreto ministeriale che doveva essere adottato entro il 31 marzo è, invece, ancora in itinere (dopo un passaggio nella Conferenza unificata del 19 aprile, al quale non ha avuto seguito la produzione di un nuovo testo ufficiale) e il ritardo compromette l'avvio dei processi di affidamento entro l'anno.
Come rilevato da Federutility (si veda anche il grafico a fianco) la mancanza del decreto ministeriale e, quindi, l'assenza di parametri certi per la definizione della delibera-quadro, incidono sulla possibilità degli enti affidanti di rispettare la prima scadenza fondamentale, individuata nella data del 13.08.2012, entro la quale dovranno trasmettere all'Antitrust l'istruttoria complessiva sui servizi pubblici liberalizzabili o riconducibili a un unico gestore.
La situazione rischia di condurre a una corsa contro il tempo, ma, soprattutto, di produrre il congestionamento del l'Authority per i troppi pareri da rendere. L'autorità, una volta investita della richiesta di parere, deve rendere la sua valutazione entro 60 giorni, con una proiezione che permetterebbe agli enti affidanti di avere solo alla metà di ottobre (nella migliore e più teorica delle ipotesi) il quadro di analisi dei servizi da liberalizzare e di quelli da affidare in base al l'articolo 4 della legge 148/2011, per poter definire la delibera-quadro.
Il passaggio è, peraltro, obbligatorio per poter procedere almeno all'avvio dei nuovi affidamenti entro la prima scadenza del 31.12.2012, prevista per gli affidamenti in house non più compatibili con i riferimenti normativi.
Lo slittamento della verifica istruttoria per l'attribuzione dei diritti di esclusiva renderebbe impossibile il rispetto della tempistica prevista per il periodo transitorio, mentre l'ipotesi di un meccanismo di silenzio-assenso rispetto al parere dell'Agcm rischierebbe di vanificare il significato stesso della verifica.
Il decreto ministeriale, inoltre, dovrebbe risolvere alcuni punti oscuri del quadro normativo generale, primo tra tutti lo scioglimento del dubbio circa la necessità o meno che la verifica per l'attribuzione dei diritti di esclusiva debba essere fatta anche in relazione agli affidamenti in house (compresi quelli alle potenziali società uniche d'ambito). Oltre al Dm sulla delibera-quadro mancano, tuttavia, altri decreti attuativi di norme cruciali per il sistema dei servizi pubblici locali.
Il più rilevante è senza dubbio quello che deve definire i criteri per l'applicazione del Patto di stabilità alle società in house, previsto sia dall'articolo 18 della legge 133/2008 sia dallo stesso articolo 4 della legge 148/2011. Altrettanto critica risulta la mancata adozione, ad oggi, del decreto per l'assoggettamento al Patto di stabilità delle aziende speciali (articolo Il Sole 24 Ore del 04.06.2012 - link a www.corteconti.it).

APPALTIAppalti e gare pubbliche. Tutte le novità per gli affidamenti della PA.
Iter più snello per «conquistare» un contratto. Oggi è possibile accedere alle procedure utilizzando sempre l'autocertificazione.

La valanga di ben 70 modifiche correttive del Codice dei contratti pubblici disperse nel l'ultimo anno in 15 provvedimenti (dal decreto sviluppo di maggio 2011 a quello sulla spending review di pochi giorni fa) ha avuto almeno il merito di introdurre strumenti e soluzioni che semplificano l'accesso alla gara degli operatori economici, in particolar modo delle Pmi.
Le Pmi
Per le micro, piccole e medie imprese le norme contenute nel l'articolo 13 della legge 180/2011 (Statuto delle imprese) facilitano la partecipazione alle procedure selettive, con l'introduzione di un principio di suddivisione in lotti funzionali degli appalti, trasformato in obbligo vero e proprio dal decreto salva Italia (Dl 201/2011), con una specifica previsione, condizionata a una valutazione di economicità e convenienza da parte delle amministrazioni.
Lo Statuto delle imprese sollecita le stazioni appaltanti a semplificare le regole di gara, per consentire la maggiore partecipazione di raggruppamenti temporanei tra micro, piccole e medie imprese, ma prevede anche ottimizzazioni della procedura, attraverso requisiti di capacità non sproporzionati rispetto all'appalto, oppure limitando il controllo dei requisiti all'aggiudicataria e consentendo l'autocertificazione di tutti i requisiti.
L'autocertificazione
Questo aspetto è stato esteso a tutte le tipologie di gara con le disposizioni sulla "decertificazione", introdotte nel Testo unico sulla documentazione amministrativa (Dpr 445/2000) dalla legge di stabilità (legge 183/2011) dal primo gennaio di quest'anno.
Con tali disposizioni, infatti, le dichiarazioni sostitutive di certificazione e di atto di notorietà diventano definitive, in quanto i certificati emessi da pubbliche amministrazioni (ad esempio un certificato del casellario giudiziale) non possono più essere utilizzati nei confronti di soggetti pubblici. Le stazioni appaltanti, quindi, non possono più chiedere certificati ai concorrenti e sono tenute ad acquisire i riscontri per le dichiarazioni sostitutive rese, mediante verifiche d'ufficio. Così come d'ufficio sarà l'acquisizione della documentazione antimafia presso le Prefetture, secondo quanto sta per chiarire il decreto che anticipa l'entrata in vigore del Codice antimafia, approvato in prima lettura dal Consiglio dei ministri il 25 maggio.
Ma c'è un risvolto della medaglia: le imprese e gli operatori devono essere molto attenti a preparare le autocertificazioni. Devono verificare, ad esempio, se tutti gli amministratori e i vertici della società non abbiano, ad esempio, magari cartelle esattoriali in sospeso o condanne per reati che incidono sulla moralità professionale. La sanzione per le false dichiarazioni rese con dolo o colpa grave è stata di recente graduata (Dl 5/2012, in vigore dal 10 febbraio) e consiste nell'esclusione dal mercato fino a un anno, a giudizio dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
Le imprese possono comunque richiedere i certificati attestanti lavori, forniture o servizi eseguiti presso il committente pubblico. Questi documenti, meglio se aggiornati, possono risultare utilissimi per controllare tutte le informazioni da rendere in sede di partecipazione alla gara. Una delle modifiche più significative al Codice dei contratti è l'introduzione del principio della tassatività delle cause di esclusione, i cui termini applicativi sono definiti nel comma 1-bis dell'articolo 46 del Dl sviluppo (Dl 70/2011).
Ora le stazioni appaltanti possono inserire nei bandi clausole che prevedano l'esclusione solo in rapporto a obblighi prescritti dal Codice, dal regolamento attuativo o da norme di legge (ad esempio il pagamento del contributo all'Autorità contratti), nonché per ragioni legate alla completezza o alla segretezza delle offerte (ad esempio in caso di lesione del plico). Se il bando o il disciplinare prevedono clausole non rispondenti a questo principio, queste sono nulle. L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici sta elaborando dei bandi-tipo, che conterranno le clausole di esclusione specifiche.
I requisiti
Un'impresa che voglia partecipare a una gara di lavori, servizi o forniture deve comunque possedere un'ampia serie di requisiti di ordine generale, che dimostrano l'insussistenza di cause ostative a contrattare con le pubbliche amministrazioni. Il catalogo di questi requisiti è delineato dall'articolo 38 del Codice dei contratti pubblici, più volte integrato negli ultimi mesi (articolo Il Sole 24 Ore del 04.06.2012 - link a www.ecostampa.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi sono i soggetti tenuti alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti rinvenuti negli alvei?
Nel caso di abbandono di rifiuti lungo le sponde di corsi d’acqua appare anzitutto necessario individuare il limite tra la proprietà privata e l’alveo di un corso d’acqua pubblico appartenente, ai sensi dell’articolo 822 del Codice Civile, al Pubblico Demanio dello Stato. Il limite dell’alveo coincide con il punto di intersezione della sponda del corso d’acqua con il livello di piena ordinaria del fiume (1).
Volendo quindi procedere ad una delimitazione fra la proprietà privata e l’alveo demaniale, è sufficiente eseguire preventivamente la lettura del livello dell’acqua (al momento in cui si eseguono i rilievi) sull’idrometro più prossimo al cespite da delimitare del quale si conosce la quota di piena ordinaria e, con una livellazione, aggiungere (o sottrarre) alla (o dalla) quota dell’acqua che lambisce il terreno la differenza di lettura fra la quota di piena ordinaria e la quota del fiume in quel momento. Il punto di intersezione fra la linea orizzontale corrispondente al livello dell’acqua -sommato algebricamente alla differenza anzidetta ed il terreno- determinerà il confine fra proprietà privata e alveo del fiume (2).
Si ritiene che, per competenza funzionale spetti alla Provincia l’individuazione della titolarità della proprietà privata, poiché il registro dei beni demaniali ed il catasto dei terreni solitamente sono presso gli Uffici provinciali, dopo di che la Provincia potrà indicare al Comune competente il destinatario dell’ordine della rimozione dei rifiuti.
Il comune quindi provvederà emettendo l’ordinanza di cui all’art. 192, per la rimozione dei rifiuti abbandonati. Destinatario del provvedimento sarà o il proprietario dell’area o il gestore dell’alveo del fiume, a seconda dell’ubicazione dei rifiuti abbandonati.
Relativamente alle eventuali responsabilità si riporta quanto affermato dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione nella sentenza 25.02.2009, n. 4472: “In tema di abbandono di rifiuti, sebbene l'art. 14, comma 3, del d.lgs. 05.02.1997, n. 22 (applicabile "ratione temporis") preveda la corresponsabilità solidale del proprietario o dei titolari di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, solo in quanto la violazione sia agli stessi imputabile a titolo di dolo o colpa, tale riferimento va inteso, per le sottese esigenze di tutela ambientale, in senso lato, comprendendo, quindi, qualunque soggetto che si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto (detenzione), tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente; per altro verso, il requisito della colpa postulato da tale norma può ben consistere nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un’efficace custodia. (Fattispecie relativa ad ordinanza nei confronti di un Consorzio di Bonifica per provvedere alla rimozione, all'avvio al recupero, allo smaltimento ed alla messa in sicurezza dei rifiuti depositati lungo un fiume)”. (SM)
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(1) Si tratta di una quota che venne individuata in passato (ormai da molti anni e non più aggiornata) che, per definizione, corrisponde alla quota raggiunta dalle acque defluenti nell’alveo di un corso d’acqua con la frequenza del 75% dei casi.
La "piena ordinaria" è quella che si verifica tre volte su quattro: non è il livello di massima piena e non quello di magra, bensì un livello intermedio che l’Ufficio Idrografico ha calcolato in passato, quando però le condizioni idrogeologiche del territorio e del bacino imbrifero erano completamente diverse. Il livello di piena ordinaria -immutato ormai da anni- viene riferito ad idrometri che l’Ufficio del Genio Civile aveva dislocato lungo il corso dei più importanti fiumi.
(2) AA.VV: “Le accessioni fluviali nella pregressa e nell’attuale normativa”, contributo pubblicato sul sito del il Sole 24 ore
(08.06.2012 - link a www.tuttoambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTII comuni possono con regolamento prevedere una tariffa, avente natura corrispettiva, in luogo della TARES? (04.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAI “materiali da riporto” saranno disciplinati nel decreto interministeriale sull’utilizzo delle terre e rocce da scavo? (04.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa vicinitas ad una discarica legittima al ricorso contro il provvedimento autorizzativo? (04.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI - TRIBUTIQuale organo comunale è competente a modificare la TIA? (04.06.2012 - link a www.ambientelegale.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Obbligo di apertura di procedimento amministrativo e di comunicazione di avvio del procedimento a seguito di istanza di accesso.
Il Sig. ... ha sottoposto a questa Commissione i seguenti quesiti:
1 – se ogni istanza di accesso agli atti amministrativi determini l’obbligo di avvio di un procedimento amministrativo;
2 – se la comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della l. n. 241/1990 e s.m.i. debba essere inviata tempestivamente al richiedente l’accesso agli atti anche quando la documentazione richiesta non sia detenuta dalla P.A. a cui è stata presentata la richiesta o anche quando la documentazione richiesta non sia stata ancora formata;
3 – se la suddetta comunicazione possa essere omessa nel caso in cui entro il termine previsto per il suo inoltro la P.A. comunichi, al richiedente l’accesso, l’impossidenza, da parte della stessa P.A., o l’inesistenza dell’atto richiesto.
La risposta al primo quesito non può che essere affermativa: ogni istanza apre un procedimento amministrativo, sia in caso di accesso informale (art. 5, d.P.R. n. 184/2006) che formale (art. 6, stesso d.P.R.). Lo si deduce dai principi generali introdotti dalla l. n. 241/1990, art. 4, 5 e 6, nonché dai citati artt. 5 e 6 del d.P.R. n. 184/2006, ove si fa riferimento a specifica normativa regolamentare da adottare da ogni singola amministrazione in ordine alle modalità di esercizio del diritto di accesso, alla previsione della preposizione di un responsabile del procedimento e all’obbligo di comunicazione ad eventuali controinteressati.
I due successivi quesiti involgono l’obbligo (e la tempestività) della comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7, l. n. 241/1990.
Ritiene questa Commissione che a tal riguardo non sussista l’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento secondo le modalità ed i contenuti di cui agli artt. 7 e 8 della l. n. 241/1990.
Infatti, ai sensi della prima parte del comma 1 del citato art. 7, la sussistenza di ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento –che escludono l’obbligo di comunicazione- sono ravvisabili sia nell’ipotesi di accesso informale (che può concludersi contestualmente alla richiesta) che in quella formale (che deve concludersi nel termine di trenta giorni)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Accesso a documenti amministrativi di cittadino residente.
Il Comune di Pescara ha negato al Sig. ... l’accesso agli atti relativi ai finanziamenti del progetto socio-sportivo “Più sport meno alcol” di iniziativa della società sportiva ... Pescara (di cui era stato aderente con funzioni amministrative), sul presupposto della mancanza in capo al medesimo di una situazione giuridica qualificata dal possesso di un interesse diretto, concreto ed attuale.
Il diniego opposto dall’amministrazione comunale è illegittimo.
Infatti, per quanto riguarda la legittimazione all’accesso agli atti adottati da enti locali, la consolidata giurisprudenza di questa Commissione distingue la diversa posizione dei cittadini residenti e non. Per i primi, cittadini residenti (siano essi persone fisiche, associazioni o persone giuridiche), il principio fondamentale che informa l’orientamento consolidato della Commissione sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è quello di “specialità”: si ritiene cioè che il legislatore abbia adottato una disciplina specifica per gli enti locali versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n. 267/2000.
Tale specialità comporta, in linea generale, che le norme contenute nella l. n. 241/1990 si applicano al TUEL solo in via suppletiva, ove necessario, e nei limiti in cui siano con esso compatibili. E mentre, per l’accesso agli atti di amministrazioni centrali dello Stato (e sue articolazioni periferiche) l’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990 prevede che la legittimazione all’accesso spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece alcuna restrizione e si limita a prevedere l’esistenza di un’area di atti (non precisata) il cui accesso o è assolutamente precluso per legge o è differibile (tale essendo l’effetto pratico della necessaria dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti da un apposito regolamento, a tutela della riservatezza.
Secondo la Commissione i diversi contenuti delle due disposizioni citate caratterizzano la specificità del diritto di accesso dei cittadini comunali configurandolo alla stregua di un’azione popolare che non deve essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante né da un’adeguata motivazione.
Nella specie, inoltre, l’istanza di accesso acquista ulteriore legittimazione dalla dichiarata necessità del richiedente di tutelare la propria posizione giuridica
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Quesito circa la sussistenza di effetti pregiudizievoli all’azionabilità davanti all’autorità giudiziaria della presentazione di istanza di accesso a documenti amministrativi ex lege n. 241/1990.
L’avv. ... ha partecipato ad una “selezione pubblica per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo determinato di n. 1 dirigente per la direzione per la gestione finanziaria e patrimoniale” presso l’Istituto di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di Borgo Grotta Gigante.
A seguito della comunicazione della sua esclusione dalla selezione per assunta mancanza di requisito soggettivo, ha deciso di esercitare il diritto di accesso ai documenti amministrativi relativi alla procedura concorsuale in questione per conoscere, in particolare, i motivi della mancata o negativa valutazione della propria esperienza professionale posta a fondamento della esclusione.
Con l’istanza in oggetto chiede a questa Commissione se l’esercizio del diritto di accesso ex lege n. 241/1990 potrebbe pregiudicargli l’ulteriore esercizio dell’azione giudiziaria dinanzi l’autorità competente.
Il timore paventato dall’Avv. ... è infondato, se riferito alla possibilità di promuovere un’azione giudiziaria dinnanzi il giudice amministrativo per l’eventuale diniego totale o parziale della domanda di accesso presentata (art. 25, comma 5, l. n. 241/1990). Ed è altrettanto infondato se riferito, invece, alla possibilità di invocare in via giudiziaria l’illegittimità della sua esclusione dalla procedura selettiva.
In quest’ultimo caso, peraltro, il ricorso è sottoposto a termine di decadenza che, nella specie, a fronte della comunicazione della esclusione del settembre 2010 sembra scaduto
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Accesso di cittadino residente a documenti in materia edilizia.
L’Avv. ... lamenta che il Comune di Sannicandro Garganico, in contrasto con le disposizioni contenute nell’art. 10, TUEL, gli abbia negato l’accesso ad atti che riguardano la materia edilizia in generale (progettazioni, autorizzazioni a costruire e simili).
Il diniego dell’amministrazione comunale, ai sensi del richiamato art. 10 del TUEL è illegittimo.
Per quanto riguarda la legittimazione all’accesso agli atti adottati da enti locali, la consolidata giurisprudenza di questa Commissione distingue la diversa posizione dei cittadini residenti e non. Per i primi, cittadini residenti (siano essi persone fisiche, associazioni o persone giuridiche), il principio fondamentale che informa l’orientamento consolidato della Commissione sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è quello di “specialità”: si ritiene cioè che il legislatore abbia adottato una disciplina specifica per gli enti locali versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n. 267/2000.
Tale specialità comporta, in linea generale, che le norme contenute nella l. n. 241/1990 si applicano al TUEL solo in via suppletiva, ove necessario, e nei limiti in cui siano con esso compatibili. E mentre, per l’accesso agli atti di amministrazioni centrali dello Stato (e sue articolazioni periferiche) l’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990 prevede che la legittimazione all’accesso spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece alcuna restrizione e si limita a prevedere l’esistenza di un’area di atti (non precisata) il cui accesso o è assolutamente precluso per legge o è differibile (tale essendo l’effetto pratico della necessaria dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti da un apposito regolamento, a tutela della riservatezza.
Secondo la Commissione i diversi contenuti delle due disposizioni citate caratterizzano la specificità del diritto di accesso dei cittadini comunali configurandolo alla stregua di un’azione popolare che non deve essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante né da un’adeguata motivazione.
Ovviamente, a tutela del buon andamento dell’ordinaria attività amministrativa degli uffici comunali, l’amministrazione ha la facoltà di stabilire tempi e modalità di accesso alla documentazione richiesta
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso dei consiglieri comunali agli atti di una fondazione privata.
Con mail del 05.08.2011 un consigliere comunale ha fatto presente che la Fondazione Asilo Infantile, avente sede nel comune, aveva negato in parte l’accesso ad informazioni relative ai costi del personale dipendente in quanto, quale ente di diritto privato, non poteva essere ricompresa tra le aziende o enti dipendenti dal Comune.
Ciò premesso, l’istante ha chiesto di conoscere se, a parere di questa Commissione, i consiglieri comunali abbiano diritto di ottenere le informazioni richieste ai sensi dell’art. 43 del TUEL, segnalando che il Consiglio Comunale, oltre a nominare il consiglio di amministrazione della fondazione, eroga contributi in favore di quest’ultima.
La Commissione ritiene che si possa rispondere in senso positivo al quesito posto dal consigliere comunale.
L’art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 attribuisce ai consiglieri comunali e provinciali il “…diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie ed informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato…”.
Si tratta, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza, cui la Commissione si è sempre uniformata, di un diritto pubblico funzionale, correlato all’assolvimento del munus publicum di consigliere comunale o provinciale.
Nel caso di specie, l’accessibilità agli atti richiesti dai consiglieri comunali discende dal fatto che la predetta fondazione, pur avendo natura formalmente privatistica (quale soggetto sottoposto alla disciplina del codice civile ex art. 14 e ss c.c.), è un ente dipendente dal Comune di Pandino. La “dipendenza” della fondazione in parola risulta sia dal fatto che essa persegue finalità pubblicistiche riferibili al Comune stesso (gestione della scuola dell’infanzia), sia dal fatto che il Consiglio comunale nomina l’organo gestorio (consiglio di amministrazione) ed eroga contributi pubblici in favore della fondazione.
Si deve concludere, pertanto, che sono pienamente accessibili tutti gli atti inerenti ad attività poste in essere dalla fondazione, nel perseguimento delle sue finalità istituzionali
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Richiesta di parere concernente il diritto di accesso a pratiche edilizie.
L’amministrazione istante solleva dubbi sulla legittimità della richiesta di accesso, formulata dal proprietario di un immobile, alla documentazione edilizia (permesso di costruire, concessioni in sanatoria) relativa ad opere realizzate dal confinante, il quale si è opposto all’accesso in quanto difetterebbe in capo all’accedente un interesse giuridicamente rilevante. E’ poi precisato che l’accesso è funzionale all’eventuale innesco, da parte dell’accedente, di un giudizio civile per il mancato rispetto delle distanze legali.
E’ indubbio, osserva questa Commissione, che l’istanza di accesso provenga da cittadino non residente e conseguentemente, in tale quadro, l’accesso dovrà essere valutato dall’ente civico ai sensi degli artt. 22 e ss della legge n. 214/1990 che lo riconosce a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, prevalendo comunque l’accesso rispetto alla riservatezza se esercitato per la cura o la difesa di un interesse giuridico, fermi restando i limiti previsti dall’art. 24 co. 7 della legge n. 241/1990.
Nella specie, pare incontestabile l’interesse che l’istante, in qualità di proprietario finitimo, possa vantare alla verifica che le opere edilizie realizzate sul fondo confinante non ledano propri diritti, ed in particolare quelli al rispetto delle distanze legali, con la conseguenza che l’opposizione del controinteressato non appare giustificata e dunque l’istanza di accesso merita accoglimento 
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Diritto di accesso ad ordinanza di sgombero di appartamento da parte del proprietario confinante.
Il comune di Cassago Brianza ha chiesto a questa Commissione se il proprietario di un appartamento confinante con altro, dichiarato inabitabile ed antigienico, possa ottenere il rilascio dell’ordinanza di sgombero. In particolare, l’ente civico dubita della legittimità all’accesso della documentazione richiesta poiché non sussisterebbe un interesse giuridicamente rilevante in capo all’istante.
E’ noto che la diversità di posizione tra cittadino residente e quello non residente nel Comune dà luogo ad un doppio regime del diritto di accesso secondo quanto disposto dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 che ha presupposti diversi dal diritto di accesso previsto dalla normativa generale di cui all’art. 22 della l. n. 241/1990 (arg. ex TAR Puglia Lecce Sez. II, 12-04-2005, n. 2067; TAR Marche, 12-10-2001, n. 1133).
Qualora l’istante risieda nel territorio del comune, si deve ritenere che egli possa accedere a tutti i documenti dell’ente locale, ai sensi dell’art. 10, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, senza essere condizionato alla titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione giuridica differenziata né alla necessità di motivare la sua istanza con riferimento ad uno specifico interesse all’accesso, atteso che l’esercizio di tale diritto, secondo la costante giurisprudenza amministrativa e le pronunce di questa stessa Commissione, è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell’azione amministrativa.
Nel caso contrario, ossia se l’istante non fosse cittadino residente, l’accesso potrà essere consentito previa dimostrazione della titolarità di una situazione giuridicamente rilevante e sufficientemente qualificata ex art. 22, co. 1, lett. b, della legge n. 241/1990, circostanza che allo stato non pone dubbi, attesa la qualità di proprietario di un immobile confinante con quello oggetto dell’ordinanza di sgombero, fatta salva la previa comunicazione all’eventuale soggetto contro interessato secondo quanto previsto dall’art. 3 del d.P.R. n. 184/2006
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Regolamento sul diritto di accesso dei consiglieri comunali del comune di Casalzuigno. Richiesta parere.
Il Comune di Casalzuigno ha chiesto un parere in ordine al Regolamento sull’accesso dei consiglieri comunali approvato con delibera n. 54 del 18.12.2010. Esaminata la bozza di regolamento inviata, la Commissione rappresenta quanto segue:
- art. 2, comma 1: la richiesta di accesso va indirizzata normalmente al dirigente o al responsabile o addetto dell’ufficio competente ad autorizzare in via generale l’accesso e non al Sindaco o all’assessore; pertanto, la norma in questione non appare conforme all’art. 6, co. 6, d.P.R. n. 184/2006 e comunque potrebbe determinare in astratto un’arbitraria forma di controllo limitando la prerogativa dei consiglieri comunali riconosciuta all’art. 43 TUEL. Si consiglia dunque di riformulare la disposizione nel senso che
- art. 2, commi 2 e 3: stando alla lettera della disposizione, sembra riconoscersi al consigliere comunale il diritto ad ottenere copie dei documenti solo successivamente alla presa visione. In tal modo, appare fortemente limitato l’accesso dei consiglieri comunali poiché la presa visione è congegnata come un adempimento preliminare all’ottenimento dell’atto richiesto.
Va, invece, considerato che sia la visione che il diritto ad ottenere copia dei documenti dell’ente sono alcune delle espressioni in cui si sostanzia lo speciale accesso dei consiglieri comunali previsto dal citato art. 43. “l’accesso alle notizie ed informazioni è soddisfatto mediante accesso personale e diretto del consigliere al responsabile del servizio competente che fornirà le notizie ed informazioni richieste”;
Si consiglia di cancellare le seguenti locuzioni
- art. 2, comma 4; art. 4 comma 1: va precisato che la richiesta di accesso, fermo restando il termine previsto dei 10 giorni lavorativi, va evasa di norma, immediatamente e in ogni caso nei tempi più celeri e ragionevoli possibili, onde evitare il rischio di concreta soppressione delle prerogative del consigliere nei casi di procedimenti o discussioni urgenti ovvero che richiedano l’espletamento delle funzioni politiche entro un termine inferiore a quello previsto: “successivamente”; “quindi” e “successiva”;
Si consiglia dunque di integrare le disposizioni citate
- art. 2, comma 5: è assolutamente superfluo il mero rinvio normativo all’art. 13 del d.lgs. n. 163/2006, che disciplina l’accesso alle procedure di affidamento dei contratti pubblici, in quanto meramente ripetitivo di disposizioni legislative vigenti; anche in armonia con quanto previsto dall’art. 4, comma 5, prevedendo all’art. 2, comma 4, che “l’evasione delle richieste avverrà, di norma, senza indugio e comunque entro i successivi 10 giorni lavorativi” e all’art. 4 comma 1 aggiungendo dopo la parola “richiedente” “…di norma senza indugio e comunque…”;
si consiglia di espungere la disposizione
- art. 3, co 2: quanto agli atti ancora da adottare, si segnala che essi sono accessibili in base all’art. 22, co. 1, lett. d), legge n. 241/1990 che ricomprende anche gli atti interni (relativi o meno ad uno specifico procedimento) e, per consolidato orientamento del giudice amministrativo, gli atti preparatori, relazioni o pareri informali e persino “brogliacci di giunta”; quanto agli atti adottati successivamente ad una certa data o intere categorie di documenti, si rammenta che, seppur anche le richieste di accesso ai documenti avanzate dai Consiglieri comunali ai sensi dell’art. 43, co. 2, d.lgs. n. 267/2000 debbano rispettare il limite di carattere generale -valido per qualsiasi richiesta di accesso agli atti- della non genericità della richiesta medesima (cfr. C.d.S., Sez. V, n. 4471 del 02.09.2005 e n. 6293 del 13.11.2002), non è generica l’istanza relativa all’accesso a tutti gli atti precedenti e successivi a quelli specificamente indicati qualora nell’istanza siano indicati gli elementi necessari e sufficienti alla puntuale identificazione dei documenti richiesti; peraltro, la fattispecie relativa alla genericità della richiesta è superflua in quanto implicita nella previsione del comma 1 dell’art. 3;
si consiglia pertanto di eliminare la disposizione
- art. 7, comma 1 e 2: non v’è alcuna valida ragione per precludere l’accesso dei consiglieri comunali alle minutazioni, registrazioni o appunti delle sedute degli organi collegiali in quanto l’ampiezza di tale diritto, come riconosciuto dall’art. 43 TUEL, determina, di riflesso, che possa in astratto indirizzarsi verso qualsiasi “notizia” o “informazione” (in questo senso, cfr., da ultimo, parere Commissione 20.04.2009);;
si consiglia di espungere la disposizione
- art. 7, comma 3: la preclusione dell’accesso ad atti cd riservati o segreti (nella specie, atti di consulenza e patrocinio legale o atti oggetto di vertenza giudiziaria o conciliativa) non appare conforme all’ampiezza del diritto riconosciuto dall’art. 43, co. 2, del TUEL ai consiglieri comunali. La segretezza che pure opera nei confronti del consigliere comunale non è quella legata alla natura dell’atto ma al suo comportamento che non può essere divulgativo (“nei casi specificamente determinati dalla legge”) del contenuto degli atti ai quali ha avuto accesso, stante il vincolo previsto dal citato art. 43 all’osservanza del segreto d’ufficio nelle ipotesi specificatamente determinate dalla legge nonché al divieto di divulgazione dei dati personali ai sensi del d.lgs. 196/2003 e successive modificazioni (cfr. in senso favorevole TAR Toscana Firenze Sez. II, 06.04.2007, n. 622); infine, l’art. 7 viene ad introdurre un’ulteriore illegittima limitazione dell’accesso dei consiglieri comunali nei casi di atti segretati su disposizione del Sindaco per un periodo massimo di 3 anni, in contrasto con l’ampiezza riconosciuta ex art. 43 TUEL. Si consiglia l’espunzione della disposizione.
 La Commissione resta quindi in attesa di un nuovo testo, modificato nei sensi su indicati
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta parere sulla legittimazione a richiedere l’accesso a documenti amministrativi.
Con e-mail del 07.09.2011 è stato chiesto a questa Commissione se la domanda di accesso ai documenti amministrativi (effettuata tramite un legale di fiducia) necessiti di una procura generale, speciale ovvero di una semplice delega.
Al riguardo, l’art. 5, co. 2, del d.P.R. n. 184/2006 precisa che “il richiedente deve… dimostrare…, ove occorra, i propri poteri di rappresentanza del soggetto interessato”; l’art. 6, co. 1, stesso decreto dispone, tra l’altro, che “qualora… sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente, sulla sua identità, sui suoi poteri rappresentativi …..l’amministrazione invita l’interessato a presentare richiesta d’accesso formale…”.
Alla stregua delle citate disposizioni, la Commissione è del parere che una semplice delega ad un legale soddisfi il requisito minimo essenziale per legittimare terzi alla richiesta di accesso ai documenti amministrativi, fermo restando che, ove sorgano dubbi sulla legittimazione dell’istante o comunque sulla titolarità del potere di rappresentanza in capo ad esso, l’amministrazione ben potrà invitare l’interessato a regolarizzare l’istanza
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 27.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Diritto di accesso di consigliere provinciale ad atti dell’Ambito Territoriale Caccia “SP”.
Il consigliere provinciale in epigrafe chiedeva al Dirigente del Settore Caccia della Provincia di La Spezia documentazione in possesso dell’Ambito Territoriale della Caccia A.T.C. SP, e precisamente:
1 – Relazione dei revisori dei conti;
2 – Verbale di approvazione del Bilancio Consuntivo 2009-2010 dell’ATC SP;
3 – Fatture di acquisto della selvaggina e relativa documentazione;
4 – Copia di una Convenzione stipulata dalla Provincia citata nel Bilancio;
5 – Dettaglio spesa controllo cinghiale progetto Pignone;
6 – Dettaglio spesa controllo cinghiale progetto Castelnuovo/Ortonovo;
7 – Dettaglio spesa collaborazioni e sorveglianza.
Il Presidente dell’ATC SP ha risposto che nei confronti dell’organismo di gestione dell’ATC SP non trovano applicazione le norme sull’accesso agli atti amministrativi di cui alla l.n. 241/1990 (e neppure quelle di cui al d.p.r. 445/2000), che la richiesta è immotivata e non è stata dimostrata la titolarità di un interesse giuridicamente qualificato e che, in particolare, le fatture di acquisto oggetto della domanda di accesso non sono annoverate tra i documenti e le modalità di cui all’art. 21, co. 2, lett. f/bis) della L.R. 29/1994 (istitutiva degli ATC), né tra quelli di cui agli artt. 8, comma 5, e 13, comma 11 dello Statuto ATC SP, adottato ai sensi del citato art. 21, l.r. n. 29/1994 (che disciplinano le modalità e i soggetti che possono accedere alle deliberazioni assunte e alle informazioni sull’attività svolta dal Comitato di Gestione dell’ATC).
L’interessato rivendica il proprio diritto di accesso facendo leva sul contenuto dell’art. 43, co. 2, TUEL secondo il quale i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere tutte le notizie ed informazioni in possesso dei rispettivi uffici comunali e provinciali nonché delle loro aziende ed enti dipendenti, fra i quali andrebbe annoverato l’ATC, ancorché l’art. 20, co. 1 della l. n. 29/1994 della Regione Liguria stabilisca che gli ambiti territoriali di caccia sono gestiti da strutture associative di natura privata.
Dalla premessa che l’ATC, ancorché gestito da struttura associativa privata, non può non considerarsi soggetto pubblico “dipendente” dalla Provincia (i contenuti e le finalità della l.r. n. 29/1994 depongono in tal senso), derivano due conseguenze giuridiche:
a. l’applicabilità in generale della normativa sull’accesso ai documenti amministrativi;
b. l’applicabilità, in particolare, dell’art. 43, co. 2, che consente al consigliere provinciale, in esecuzione del suo mandato, di accedere ad ogni tipo di notizia e/o informazione collegata all’attività della Provincia o di enti dipendenti.
Il diniego opposto dal Presidente dell’ATC SP risulta, pertanto, giuridicamente illegittimo, specie allorché lo giustifica, circa le fatture di acquisto (facenti parte della richiesta), con il rinvio all’art. 21, co. 2, lett. f/bis della l.r. n. 29/1994, che rimette si allo Statuto la disciplina delle modalità attraverso le quali devono essere garantite a tutti i cacciatori iscritti l’accessibilità alle deliberazioni assunte e l’informazione sull’attività svolta dal Comitato di gestione, ma con riferimento appunto ai cacciatori iscritti e non certo ai consiglieri provinciali
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto. Accesso di consigliere comunale (di minoranza) al giornale di cassa.
Il Dipartimento in indirizzo sottopone a questa Commissione il quesito posto, in ordine di tempo, dal Responsabile del Settore Economico Finanziario e da un consigliere comunale di minoranza del Comune di Sant’Agata di Puglia (FG) in ordine al diritto di quest’ultimo di:
- avere visione e di estrarre copia del giornale di cassa 2010 del Comune;
- avere copia dei Mod. 770 degli anni dal 2005 al 2008 con relativi dati contabili di tutti i dipendenti.
Quanto al primo punto, l’amministrazione comunale ha sospeso l’accesso in attesa del parere richiesto; quanto al secondo, ha negato l’accesso ai documenti contabili del personale per la tutela della privacy.
Sulle questioni oggetto del parere richiesto si richiama la consolidata giurisprudenza di questa Commissione (cfr., parere del 07.07.2011, in linea con quella del giudice amministrativo) secondo cui <<il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art 43 del d.lgs. n. 267/2000 (TU degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla l.n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (a maggior ragione, per ovvie considerazioni, qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza). A tal proposito, il Giudice amministrativo individua la situazione giuridica in capo ai consiglieri comunali con l’espressione “diritto soggettivo pubblico funzionalizzato”, vale a dire un diritto che “implica l’esercizio di facoltà finalizzate al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate direttamente al consiglio comunale”.
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi.
Ogni limitazione all’esercizio del diritto sancito dall’art. 43, TUEL interferisce inevitabilmente con la potestà istituzionale del consigliere comunale di sindacare la gestione dell’ente, onde assicurare –in uno con la trasparenza e la piena democraticità– anche il buon andamento. Evidentemente, il diritto di accesso non può essere garantito nell’immediatezza in tutti i casi, e, dunque, rientrerà nella facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale adempimento straordinario con l’esigenza di assicurare l’adempimento dell’attività ordinaria, concedendo ovviamente, nel frattempo, la facoltà di prendere visione di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli uffici comunali.
In ordine alla tutela della privacy dei soggetti evocati nei documenti acceduti, si ricorda che –sempre ai sensi dell’art. 43, TUEL- i consiglieri comunali sono tenuti a preservare la riservatezza del contenuto dei documenti e rispondono verso i terzi del pregiudizio arrecato dalla loro illegittima divulgazione
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(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: richiesta di accesso ad atti di gara da parte di un’impresa non partecipante.
Con nota del 31.08.2011, lo Stato Maggiore della Marina ha rappresentato a questa Commissione che:
- nel gennaio 2011 aveva affidato in appalto alla RTI Trenitalia spa e FS Logistica spa il servizio di trasporto “su ferrovia” di masserizie del personale delle forze armate;
- contemporaneamente, aveva affidato alla società JAS Jet Air Service spa il diverso servizio di trasporto “su gomma” di masserizie del personale delle forze armate;
- quest’ultima società aveva chiesto l’accesso a copia delle singole prestazioni (effettuate o affidate e non ancora effettuate) del servizio di spedizione/trasporto su ferrovia eseguite dalla RTI Trenitalia e FS Logistica nel corso del 2011 al fine di verificare quali fossero i criteri di affidamento dei servizi di trasporto al vettore ferroviario anziché al vettore su gomma, potendo in astratto le modalità esecutive del contratto d’appalto aggiudicato alla RTI Trenitalia comportare un grave pregiudizio in termini di riduzione di fatturato.
A fronte di tale istanza di accesso, l’amministrazione militare adduce forti dubbi sull’accoglibilità della richiesta di accesso in ragione della valutata insussistenza di profili di interesse concreto, diretto ed attuale, corrispondente a situazioni giuridicamente rilevanti e collegate ai documenti richiesti, non avendo l’istante preso parte alla procedura di gara per i servizi di trasporto su ferrovia affidati alla RTI Trenitalia e Fs Logistica.
La Commissione osserva che, di recente, il Consiglio di Stato (cfr. decisione sez. VI n. 5062 del 30.07.2010) ha affermato che le disposizioni contenute nella legge 241/1990 devono trovare applicazione tutte le volte in cui non si rinvengono disposizioni derogatorie contenute nel Codice dei contratti pubblici (ove l’art. 13 del d.lgs. n 163/2006 stabilisce che <<salvo quanto espressamente previsto nel presente codice, il diritto d’accesso [.] è disciplinato dalla legge 07.08.1990, n. 241>>). Partendo da questo presupposto, quindi, occorre interpretare il comma 6° dell’art. 13 -secondo cui “è comunque consentito l’accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei suoi interessi”- non come un “restringimento” dei requisiti di legittimazione all’accesso sul piano soggettivo (solo ai “concorrenti”) in quanto, anche nelle procedure ad evidenza pubblica, deve comunque sopravvivere quel diritto generalizzato all’accesso in capo a tutti coloro che dimostrino di averne un interesse reale e concreto: quindi, indipendentemente dalla loro partecipazione alla gara.
Pertanto, se la richiesta d’accesso provenga da un concorrente ad una pubblica gara, allora tale richiesta deve sicuramente essere evasa, ma ciò non significa tout court che, anche in altri casi -ovvero qualora la richiesta risulti formulata da un non-concorrente- non sussista ancora un interesse reale e concreto a prendere visione della documentazione, che l’istante deve motivatamente palesare e che la P.A. è obbligata a compiutamente verificare dovendo, in caso affermativo, concedere certamente l’accesso.
Nella specie, la Commissione rileva non soltanto che la società IAS non ha preso parte alla gara per l’affidamento dei servizi di trasporto su ferrovia, i cui atti hanno formato oggetto della citata richiesta di accesso documentale, ma che, ulteriormente, non può in capo ad essa nemmeno ravvisarsi un interesse legittimante l'accesso documentale agli atti della procedura stessa, non potendo rilevare in proposito l’interesse della JAS, aggiudicataria dei servizi di trasporto su gomma, di acquisire chiarimenti sulle modalità esecutive dell’appalto o sui criteri di selezione dei servizi su ferrovia rispetto a quelli su gomma.
Ed infatti, l'istanza ostensiva non deve costituire uno strumento surrettizio di sindacato generalizzato sull'azione amministrativa nell'ambito di una procedura concorsuale cui si è rimasti volontariamente estranei, non essendo ammissibile piegare lo strumento dell'accesso al perseguimento di una generica attività informativa ed esplorativa, attraverso l'enunciazione di un interesse meramente esplorativo
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Reiterate richieste di accesso a documenti da parte di cittadino residente. Limiti all’esercizio dell’accesso.
Il Ministero istante -premesso che un cittadino residente nel Comune di Angri aveva chiesto all’ente locale di ottenere “chiarimenti” sui motivi dell’approvazione di due delibere di Giunta, aventi ad oggetto il riconoscimento di debiti fuori bilancio per notevoli importi in favore di terzi- chiede a questa Commissione un parere sull’accoglibilità della richiesta di accesso, segnalando che l’istante, in qualità di “utente e contribuente comunale” invoca la titolarità di un interesse diretto e personale ai sensi dell’art. 22 legge n. 241/1990 e che l’art. 24, comma 3, legge n. 241/1990 non ammette richieste dirette ad operare un controllo generalizzato sull’operato della pubblica amministrazione.
Circa la prima questione, secondo l’orientamento consolidato della Commissione, il diritto di accesso agli atti degli enti locali del cittadino-residente –come quello di specie- non è condizionato (diversamente a quanto l’art. 22, comma 1, lett. b, legge n. 241/1990 prescrive per l’accesso ai documenti di amministrazioni centrali dello Stato) alla titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione giuridica differenziata, atteso che l’esercizio di tale diritto è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell’azione amministrativa. Non è, pertanto, possibile subordinare il diritto di accesso del cittadino-residente alla dimostrazione della titolarità di un interesse giuridicamente rilevante.
Quanto alla seconda questione, è possibile nella specie negare l'accesso in quanto dalle delibere comunali, già rese accessibili all’istante, appare evincibile a sufficienza il percorso motivazionale posto dall’amministrazione a fondamento delle delibere adottate, con la conseguenza che risulta infondata la richiesta di accesso volta ad ottenere non meglio precisati “chiarimenti” sui motivi di adozione delle delibere stesse
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Diritti di ricerca e visura presso il Comune di Matera.
L’istante, in qualità di procuratore legale di un cittadino residente, lamenta che l’amministrazione comunale in indirizzo abbia disposto, in virtù di una delibera adottata il 09.04.2010 che rimodulava l’importo dei diritti di segreteria per l’accesso a copie di documenti, il pagamento per l’accesso ad una pratica della somma forfettaria di euro 50,00 (che lievita a 70,00 euro nel caso di accesso a più pratiche), oltre al costo delle fotocopie dei documenti, da determinare a parte e da corrispondersi al momento della presentazione della domanda indipendentemente dal suo esito.
Assumendo la vessatorietà della misura adottata, ha chiesto un parere sulla esosità dei diritti di segreteria richiesti dall’ente civico per l’esercizio dell’accesso.
Sul tema la Commissione si è già pronunciata in passato, ritenendo che i diritti di ricerca e visura possono essere richiesti legittimamente dall’ente locale in quanto per costo –secondo la giurisprudenza amministrativa (cfr. C.d.S., Sez. V 25.10.1999, n. 1709), alla quale si è allineata anche quella di questa Commissione (cfr. parere 01.07.2008)– non deve intendersi solo quello di riproduzione del documento, ma anche tutti gli altri sostenuti dall’amministrazione (quali, per esempio, quelli concernenti la ricerca dei documenti e/o l’istruzione della pratica), ma in questo caso l’importo (che non può essere predeterminato a livello generale, ma deve costituire oggetto di responsabile valutazione da parte di ogni singola amministrazione) deve essere equo e non esoso, in quanto la richiesta di un importo elevato costituisce un limite all’esercizio del diritto di accesso.
Nella specie, i costi tariffati per l’accesso appaiono eccessivi (diritti di ricerca di euro 50,00 o euro 70,00 a seconda del numero delle pratiche) e illegittimi se debbano essere versati indipendentemente dal numero dei documenti richiesti e dall’esito dell’istanza di accesso. Infatti, la nuova delibera comunale di rimodulazione dei costi per l’accesso si pone in netto contrasto con l'art. 25, co. 1, legge n. 241/1990 secondo cui "l'esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura" nonché con la previsione di cui all'art. 7, c. 6, del d.P.R. 12.04.2006, n. 184 che prevede: "in ogni caso, la copia dei documenti è rilasciata subordinatamente al pagamento degli importi dovuti ai sensi dell'articolo 25 della legge secondo le modalità determinate dalle singole amministrazioni. Su richiesta dell'interessato, le copie possono essere autenticate").
Ne consegue che i costi indicati si atteggiano a irragionevole e sproporzionata misura volta a scoraggiare l’accedente dall’esercitare un diritto soggettivo
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: richiesta di accesso di consigliere comunale a documenti inerenti le indennità corrisposte al sindaco.
Un funzionario comunale lamenta l’abusività delle reiterate richieste di accesso agli atti di bilancio provenienti da un consigliere comunale, adducendo in particolare dubbi sulla legittimità della istanza di accesso alle indennità del sindaco negli ultimi dieci anni (1999–2011) in quanto, per il numero di atti richiesti e per l’ampiezza della richiesta, si tradurrebbe in un eccessivo e minuzioso controllo dell’ente estranea alla funzione di controllo dei consiglieri e determinerebbe un rischio di paralisi delle ordinarie attività amministrative.
La Commissione osserva anzitutto che, secondo l’articolo 11 del d.lgs. n. 150/2009, la trasparenza amministrativa -che sta assumendo tendenzialmente portata generale, tanto che rientra, nei livelli essenziali delle prestazioni disciplinate nella Costituzione (articolo 117, comma 2, lett. m)- è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione e l’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali. In tale ottica, è stato imposto ad ogni amministrazione l’obbligo di pubblicare sul proprio sito istituzionale, tra l’altro, i curricula e le retribuzioni di coloro che rivestono incarichi di indirizzo politico amministrativo (vedi art 11 comma 8 lett. h).
Tale ampio regime di pubblicità delle informazioni inerenti la situazione reddituale dei titolari di cariche elettive attribuisce, di conseguenza, anche il diritto di accedere ai documenti formati dalla pubblica amministrazione e a qualsiasi informazione concernente indennità e altri emolumenti corrisposti dall’Amministrazione a favore del Sindaco e degli assessori. Ciò è peraltro conforme all’art 43 d.lgs. n. 267/2000 che attribuisce ai consiglieri comunali un diritto pieno e non comprimibile ad accedere a tutte le notizie e le informazioni in possesso degli uffici, utili all’espletamento del proprio mandato che è quello di controllare l’attività degli organi istituzionali del Comune.
In secondo luogo, in conformità al consolidato orientamento giurisprudenziale amministrativo (cfr., fra le molte, C.d.S., Sez. V, 22.05.2007, n. 929), riguardo le modalità di  accesso alle informazioni e alla documentazione richieste dai consiglieri comunali ex art 43 TUEL, la Commissione ribadisce che il diritto di accesso agli atti di un consigliere comunale non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’Ente, tali da ostacolare l’esercizio del suo mandato istituzionale, con l’unico limite di poter esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività di tipo corrente: ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza che possano aggravare l’ordinaria attività amministrativa.
Pertanto, in merito alle problematiche esposte, la Commissione ritiene che la richiesta di accesso in esame rientri senza dubbio nelle facoltà di esercizio del munus del consigliere comunale, sia sufficientemente specifica e possa essere evasa, senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa, anche avvalendosi dei sistemi telematici o di supporti informatici
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 13.09.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Necessità o meno di comunicare ai controinteressati l’istanza di accesso presentata ai sensi dell’art. 391-quater cod. proc. pen..
Il dirigente del Comune di Rieti in indirizzo chiede il parere di questa Commissione in ordine alla necessità di comunicare ai controinteressati (ex art. 3, d.p.r. n. 184/2006) la domanda di accesso formulata i sensi dell’art. 391-quater cod. proc. pen. da un avvocato per conto del suo cliente ed avente ad oggetto il rilascio di copia della documentazione relativa a pratiche edilizie appartenenti a terzi e non riconducibili al procedimento penale in cui il suo assistito è coinvolto.
A parere del dirigente comunale la comunicazione ai terzi controinteressati non sarebbe necessaria in quanto la suddetta documentazione è finalizzata esclusivamente alla redazione di memorie da parte del legale.
Ritiene questa Commissione di poter condividere tale assunto.
La notifica ai controinteressati ex art. 3, d.p.r. n. 184/2006 è un atto dovuto dall’amministrazione in ogni caso in cui la richiesta di accesso coinvolga la tutela della riservatezza del terzo, il quale ha il diritto di presentare o meno una motivata opposizione all’accesso entro dieci giorni dalla comunicazione. Questa procedura, la cui osservanza non può dipendere dal giudizio sulla sua fondatezza che la stessa amministrazione maturi anche in virtù di consolidata giurisprudenza, può essere superata nei casi in cui la legge stabilisca l’obbligo di ostensione del documento richiesto o il consenso dell’autorità giudiziaria e in quelli in cui il soggetto terzo, pur individuato nel documento, rivesta la posizione di controinteressato solo in senso formale (è l’ipotesi della richiesta di accesso di un candidato di una procedura concorsuale ad accedere a verbali o elaborati di altri candidati della stessa procedura).
Nel caso di specie, sembra ricorrere la prima ipotesi considerato che l’art. 391-quater cod. proc. pen. –secondo cui “Ai fini delle indagini difensive, il difensore può chiedere i documenti in possesso della pubblica amministrazione e di estrarne copia”- prevede, al terzo comma, che in caso di rifiuto al rilascio da parte della P.A. si applicano gli artt. 367 e 368 cod. proc. pen., che devolvono al P.M. (art. 367) e al GIP (art. 368) la decisione su richieste istruttorie nel corso delle indagini preliminari. Non è, dunque, il terzo controinteressato che può opporsi alla domanda di accesso, ma solo l’autorità giudiziaria può valutarne l’ammissibilità
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.07.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere in merito all’accesso agli elenchi firme allegati alle mozioni/interrogazioni di consiglieri comunali.
L’amministrazione comunale istante ha chiesto il parere della Commissione al fine di conoscere:
a) se, a fronte della pubblicazione in albo pretorio di delibere consiliari, approvate su mozioni o interrogazioni presentate in base a raccolte di firme, contenenti dati personali di cittadini (come nome, cognome e residenza), sia legittima o meno l’integrale pubblicazione anche dell’elenco firme allegato alla delibera;
b) se i consiglieri comunali, all’atto della raccolta firme dei cittadini, debbano informare questi ultimi che i relativi dati personali saranno divulgati ovvero se dalla raccolta della firma possa implicitamente desumersi il consenso del cittadino alla pubblicazione dei dati;
c) se per l’accesso a copia dell’elenco firme occorra specificare l’interesse giuridicamente rilevante, senza violare i principi di riservatezza.
Premesso che i primi due quesiti in oggetto vertono su questioni assolutamente estranee alla materia nella quale la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi è competente ad esprimere pareri, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera a), del d.P.R. n. 184/2006, non venendo in rilievo né atti con i quali sono individuate categorie di documenti sottratti all’accesso, né atti attinenti all’esercizio ed all’organizzazione del diritto di accesso, la Commissione si dichiara incompetente ad emettere il richiesto parere, dal momento che la tutela della riservatezza rientra nella distinta competenza del Garante per la protezione dei dati personali.
Per quanto concerne, invece, l’ultimo quesito, si osserva che l’eventuale pubblicazione in albo dell’elenco contenente dati personali, non esclude il rispetto delle vigenti discipline in materia di accesso. Si rammenta, al riguardo, che ai sensi dell’art. 59 d.lgs. n 196/2003 i presupposti, i limiti e le modalità per l’esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti “dati personali”, come nella specie quelli contenuti negli elenchi firme raccolte, restano disciplinati dalla legge n. 241/1990 e dalle altre disposizioni di legge in materia nonché dai relativi regolamenti di attuazione.
Alla luce di tali disposizioni, se con la pubblicazione in albo può già ritenersi realizzato il diritto di accesso, quantomeno nell’aspetto della visione dell’elenco firme, tuttavia è ben vero che terzi possano fare richiesta di rilascio di copia della delibera e dell’allegato elenco. In tali ipotesi, soprattutto quando la pubblicazione sia limitata nel tempo, come quella effettuata tramite albo, una volta trascorso il periodo di pubblicità, il diritto di accesso sarà esercitato nei limiti della generale disciplina dell’accesso ex lege n 241/1990, verificando la motivazione della domanda d’accesso all’elenco di dati personali nonché curando la riservatezza delle persone, fatti salvi comunque i diversi e più ampi limiti previsti dagli altri regimi speciali di accesso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.07.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: Richiesta di parere in merito all’accesso agli atti da parte di un consigliere comunale.
Il Segretario del Comune di Felitto rappresenta alla Commissione che un consigliere eletto in altro comune (quello di Albanella) -con cui condivideva un’unità di personale addetta al servizio tecnico- aveva richiesto di accedere agli atti di gara e ad incarichi esterni per lavori e progettazioni di esclusivo interesse del Comune di Felitto. L’istante, dubitando che il consigliere di un comune possa avvalersi della prerogativa ex art 43 TUEL per accedere ad atti e notizie inerenti all’attività di altro e diverso comune, chiede di conoscere quale sia la rilevanza del convenzionamento dei servizi tecnici ai fini del regime giuridico cui assoggettare le richieste di accesso del consigliere di un diverso comune.
La Commissione osserva che lo speciale diritto di accesso ex art 43 TUEL è riconosciuto al singolo consigliere comunale ai fini del sindacato ispettivo sull’azione amministrativa del Comune che rappresenta e non anche di altro e diverso comune, essendo del tutto irrilevante la circostanza che i due comuni cogestiscano il servizio tecnico mediante un’unità di personale. Ne consegue l’inapplicabilità, alla fattispecie, della prerogativa di accesso riconosciuta al consigliere comunale.
Resta ferma la possibilità che la richiesta di accesso, avanzata da un consigliere di un comune diverso da quello istante, sia valutata non in base alla disciplina contenuta nel Capo V della legge n. 241/1990 che attribuisce tale diritto espressamente ed esclusivamente i soggetti privati bensì più correttamente alla stregua del principio di leale cooperazione istituzionale che informa di sé i rapporti tra pubbliche amministrazioni ex art. 22, comma 5, e dell’art. 5, co. 4, del Dpr n 184/2006 in cui si stabilisce che “l’acquisizione di documenti da parte di soggetti pubblici, ove non rientrante nella previsione dell’art. 43, comma 2, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, si informa al principio di leale cooperazione istituzionale
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.07.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Richiesta di parere in merito all’oscuramento dei dati personali dei candidati in caso di accesso agli atti di una procedura selettiva.
L’ente istante rappresenta che -in ottemperanza all’invito formulato da questa Commissione che aveva accolto favorevolmente il ricorso presentato da un concorrente, risultato non utilmente collocato in graduatoria, per accedere ai documenti della procedura selettiva avviata per il conferimento di un incarico di collaborazione coordinata e continuativa Progetto In La Sicilia- aveva concesso al candidato di visionare le domande di partecipazione degli altri concorrenti.
Tuttavia, l’amministrazione segnala che nel rilasciare le copie dei documenti richiesti ha oscurato i dati personali degli altri candidati a tutela della riservatezza. Sulla questione viene chiesto il parere di questa Commissione, facendo presente l’inopportunità di rendere visibili i dati personali.
Al riguardo, la Commissione osserva che male ha fatto l’amministrazione ad oscurare i dati personali delle domande di partecipazione degli altri concorrenti utilmente graduati, non sussistendo alcuna esigenza di tutela della riservatezza, dal momento che i concorrenti, prendendo parte alla selezione pubblica, hanno implicitamente accettato che i loro dati personali esposti nei documenti della procedura stessa potessero essere resi conoscibili da tutti gli altri concorrenti a ciò interessati (quali sono senza dubbio i concorrenti non utilmente graduati)
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 20.07.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: accesso del consigliere comunale a provvedimenti urbanistici in itinere.
Il Sig. ..., Consigliere comunale di Garbagnate Milanese (MI), ha chiesto il parere di questa Commissione sul comportamento degli Uffici comunali che gli hanno consentito l’accesso per sola visione ad un provvedimento urbanistico in itinere, peraltro già trasmesso ai comuni limitrofi per il parere di competenza, differendo la chiesta consegna di copia in formato digitale del provvedimento ad una data successiva all’approvazione del provvedimento stesso.
Al riguardo la Commissione fa presente che nell’attuale disciplina del diritto d’accesso è scomparsa la figura dell’accesso per sola visione, e che ai sensi dell’art. 43 del T.U.E.L. i consiglieri hanno diritto di ottenere, dai competenti Uffici comunali, senza eccezioni, tutte le notizie e tutti i documenti necessari per l’esercizio delle loro funzioni ed in possesso dell’Ente.
L’indicato differimento deve quindi ritenersi privo di giustificazione
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOGGETTO: accesso dei consiglieri comunali a tutti i documenti protocollati dal Comune.
Il Segretario comunale di Grotteria ha comunicato che un consigliere comunale ha chiesto di avere notizia, con deposito quotidiano di apposito elenco presso l’ufficio protocollo, di tutti i documenti protocollati dall’ente nella giornata precedente, con specifica delle informazioni relative ad oggetto, mittente destinatario e numero progressivo di identificazione. Chiede pertanto di conoscere se, ad avviso di questa Commissione, una domanda di tale ampiezza possa ritenersi ammissibile.
Osserva la Commissione che anche per i consiglieri comunali deve ritenersi operante il limite dell’art. 2 del regolamento approvato con dPR 12.04.2006 n. 184, secondo cui “la pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le domande d’accesso”. Pertanto, la richiesta di predisporre ex novo apposito dettagliato elenco quotidiano da depositare presso l’Ufficio protocollo deve ritenersi priva di giustificazione normativa.
Va peraltro tenuto presente che il consigliere comunale ha diritto d’accesso al protocollo informatico del Comune, e quindi può liberamente trarre dalla relativa consultazione tutte le notizie ritenute necessarie
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Accesso a licenze ed autorizzazioni per l’apertura di supermercato.
Il Sig. ..., cittadino residente, ha chiesto l’accesso a licenze ed autorizzazioni relativi all’apertura di un supermercato in quanto “vicinante” di tale futura apertura di esercizio commerciale.
Il Comune ha opposto il suo diniego perché il contenuto della domanda non presenta le caratteristiche di interesse diretto, concreto ed attuale e perché, ai sensi dell’art. 29 del regolamento comunale sull’esercizio del diritto di accesso non sussistono gli elementi che ne consentano l’individuazione e la legittimazione e per mancanza della motivazione con eventuale specificazione dell’interesse connesso.
Per quanto riguarda la legittimazione all’accesso agli atti adottati da enti locali, la consolidata giurisprudenza di questa Commissione distingue la diversa posizione dei cittadini residenti e non. Per i primi, cittadini residenti (siano essi persone fisiche, associazioni o persone giuridiche), il principio fondamentale che informa l’orientamento consolidato della Commissione sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è quello di “specialità”: si ritiene cioè che il legislatore abbia adottato una disciplina specifica per gli enti locali versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n. 267/2000.
Tale specialità comporta, in linea generale, che le norme contenute nella l. n. 241/1990 si applicano al TUEL solo in via suppletiva, ove necessario, e nei limiti in cui siano con esso compatibili. E mentre, per l’accesso agli atti di amministrazioni centrali dello Stato (e sue articolazioni periferiche) l’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990 prevede che la legittimazione all’accesso spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece alcuna restrizione e si limita a prevedere l’esistenza di un’area di atti (non precisata) il cui accesso o è assolutamente precluso per legge o è differibile (tale essendo l’effetto pratico della necessaria dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti da un apposito regolamento, a tutela della riservatezza.
Secondo la Commissione i diversi contenuti delle due disposizioni citate caratterizzano la specificità del diritto di accesso dei cittadini comunali configurandolo alla stregua di un’azione popolare che non deve essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante né da un’adeguata motivazione.
Nella specie, il diniego opposto dal Comune appare illegittimo nella sua motivazione sia allorché fa riferimento alla titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale di cui all’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990, sia quando, richiamando analoga disposizione contenuta nel regolamento comunale (art. 29) sottolinea la mancanza degli elementi che non ne consentirebbero la individuazione (che, al contrario, sembrano sussistere) e la mancanza dell’eventuale specificazione dell’interesse connesso (anche questo sufficientemente espresso, e comunque ulteriormente chiarito con e-mail del 19.05.2011, allegata agli atti).
L’istanza di accesso andrebbe pertanto accolta
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Accesso a documenti contabili del Comune da parte dei consiglieri comunali.
Il Comune in indirizzo chiede a questa Commissione di formulare il proprio parere in ordine alla richiesta di accesso di alcuni consiglieri di minoranza ad una serie di documenti contabili (impegni di spesa, fatture, richieste di pagamento, ecc) relativi a documentazione ricevuta in seguito alle ultime interpellanze consiliari dalla quale si evincerebbe un grave deficit finanziario.
Il Comune chiede se l’istanza, nei modi come formulata, possa essere utilmente evasa, entro quali termini e con quali modalità considerata l’indeterminatezza e genericità della stessa; chiede, inoltre, se:
1. i consiglieri comunali sono tenuti o meno al segreto nei casi specificati dalla legge;
2. l’amministrazione abbia l’obbligo o meno di valutare l’estensione dell’istanza al fine di verificare se sia o meno capace di “paralizzare” l’attività dell’ufficio che detiene i documenti;
3. la richiesta di rilascio copie possa essere generica e indiscriminata.
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (TU degli Enti locali) che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato”.
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento in capo al consigliere comunale di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del Comune di residenza (art. 10, T.U. enti locali) sia, più in generale, nei confronti della P.A. quale disciplinato dalla l. n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (a maggior ragione, per ovvie considerazioni, qualora il consigliere comunale appartenga alla minoranza, istituzionalmente deputata allo svolgimento di compiti di controllo e verifica dell’operato della maggioranza).
A tal proposito, il Giudice amministrativo individua la situazione giuridica in capo ai consiglieri comunali con l’espressione “diritto soggettivo pubblico funzionalizzato”, vale a dire un diritto che “implica l’esercizio di facoltà finalizzate al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate direttamente al consiglio comunale”.
A tal fine il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la P.A. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell’organo deputato all’individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Ogni limitazione all’esercizio del diritto sancito dall’art. 43, TUEL interferisce inevitabilmente con la potestà istituzionale del consigliere comunale di sindacare la gestione dell’ente, onde assicurare –in uno con la trasparenza e la piena democraticità– anche il buon andamento. Evidentemente, il diritto di accesso non può essere garantito nell’immediatezza in tutti i casi, e, dunque, rientrerà nella facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale adempimento straordinario con l’esigenza di assicurare l’adempimento dell’attività ordinaria, concedendo ovviamente, nel frattempo, la facoltà di prendere visione di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli uffici comunali.
Detto del diritto di accesso dei consiglieri comunali così come configurato dalla giurisprudenza alla luce dell’art. 43, TUEL, e ritenuto che la domanda dei consiglieri di minoranza in questione sia sufficientemente determinata e non generica, si risponde agli ulteriori quesiti posti dal Comune di Castelfranci:
1. i consiglieri comunali sono tenuti a preservare la riservatezza del contenuto dei documenti acceduti e rispondono verso i terzi del pregiudizio arrecato dalla loro illegittima divulgazione;
2. l’amministrazione non può sindacare la richiesta di accesso dei consiglieri comunali sotto nessun profilo, nemmeno quello della sua estensione – ma può modulare il suo adempimento nel tempo al fine di evitare la paralisi dell’ordinaria attività amministrativa;
3. la richiesta di accesso non può mai essere generica ed indiscriminata
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: diritto di accesso dei consiglieri comunali. Modifiche al Regolamento del Comune di Teverola (Ce). Richiesta parere.
Il Ministero dell’Interno, in seguito ad una nota inviata dal sindaco del Comune di Teverola, chiede un parere in ordine alle modifiche e integrazioni che il Consiglio comunale intende apportare al Regolamento sull’accesso dei consiglieri comunali, prevedendo, in particolare, di:
1) escludere le richieste di accesso dei consiglieri che rappresentino reiterazione di altre già presentate;
2) prolungare il termine per concedere la visione e il rilascio di copie degli atti da 3 a 7 gg.;
3) ammettere all’accesso solo il capogruppo e non i singoli consiglieri che fanno parte del gruppo;
4) organizzare nell’ufficio di segreteria gli spazi necessari per la visione e il rilascio di copia degli atti.
Al riguardo, la Commissione rappresenta che:
● quanto ai quesiti sub 1) e sub 3) -da esaminare congiuntamente inerendo a connesse problematiche- non potrebbe negarsi al singolo consigliere comunale di ottenere informazioni o atti detenuti dall'amministrazione comunale, anche quando la richiesta di accesso sia analoga a quella presentata da altri consiglieri comunali del gruppo, in quanto la prerogativa è riconosciuta al singolo rappresentante politico in funzione dello svolgimento del proprio mandato.
Tuttavia, la reiterazione di istanze di accesso da parte dei medesimi consiglieri in assenza di elementi di novità potrebbe costituire un abuso del diritto all’informazione, un abuso del diritto, permanendo l'esigenza che le istanze di accesso non abbiano carattere emulativo e non aggravino eccessivamente, superando i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità dell'amministrazione comunale (arg. ex Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.09.2005, n. 4471);
● quanto al quesito sub 2), l’ampliamento del termine per evadere la richiesta di accesso (da 3 a 7 gg.), seppur complessivamente contenuto sotto il profilo temporale, potrebbe comunque determinare il rischio di concreta soppressione delle prerogative del consigliere nei casi di procedimenti urgenti o che richiedano l’espletamento delle funzioni politiche entro un termine inferiore a quello previsto.
Onde scongiurare tale pericolo, è necessario che l’ente garantisca l’accesso al consigliere comunale nell’immediatezza e in ogni caso nei tempi più celeri e ragionevoli possibili. Nel caso in cui l’accesso non possa essere garantito subito (per eccessiva gravosità della richiesta), rientrerà nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie, ferma restando la facoltà del consigliere comunale di prendere visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli uffici comunali competenti, anche con mezzi informatici;
● quanto al quesito sub 4), l’individuazione di spazi presso la segreteria dell’ente civico, da destinare alla presa visione e/o al rilascio di copie di atti, appare una misura organizzativa, tra le altre possibili in astratto, pienamente compatibile con il regime di accesso dei consiglieri comunali
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri comunali. Modifiche al Regolamento del Comune di Parabita (Le). Richiesta parere.
Il Ministero dell’Interno, a seguito di una nota inviata da un consigliere del Comune di Parabita, chiede un parere in ordine alle modifiche e integrazioni che il Consiglio comunale intende apportare al Regolamento approvato con deliberazione n. 69 del 30.06.1992, stabilendo, in particolare, che è escluso l’accesso “agli atti non ancora emanati al momento della richiesta” (art. 5, comma 3); che il responsabile del settore ha facoltà di differire l’accesso agli atti legali o tecnici afferenti liti in potenza o in atto (art 6 comma 4) e che i consiglieri possono prendere visione di tutti gli atti per soli due giorni settimanali ed in determinate fasce orarie (art. 9).
In merito alle segnalazioni ed osservazioni del Ministero istante, la Commissione rappresenta che:
sub 1) non v’è alcuna valida ragione per limitare il diritto di accesso dei consiglieri comunali in quanto l’ampiezza di tale diritto, come riconosciuto dall’art 43 TUEL, determina, di riflesso, che possa in astratto indirizzarsi, oltre che verso qualsiasi “notizia” o “informazione”, anche verso tutti gli atti non ancora formalmente emanati, ricomprendendo gli atti preparatori, relazioni o pareri informali anche se non hanno una autonoma rilevanza, estendendo tale diritto anche a bozze o a brogliacci (in questo senso, cfr., da ultimo, parere Commissione 20.04.2009);
sub 2) non appare legittimo il differimento dell’accesso agli atti legali o tecnici afferenti liti in potenza o in atto perché il potere di differimento previsto dalla generale disciplina della legge n. 241/1990 (art. 24) e del DPR n 184/2006 (art. 9) risulta incompatibile con l’ampio e speciale diritto di accesso dei consiglieri comunali ex art. 43 TUEL, in quanto per regola l’accesso dei consiglieri comunali non tollera limiti.
Diversamente opinando gli Uffici comunali potrebbero sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un Consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato, in tal modo pregiudicando la cura di un interesse pubblico connesso al mandato conferito. Restano ovviamente salve le eccezionali ipotesi in cui l’accesso sia piegato ad esigenze meramente personali, al perseguimento di finalità emulative o che comunque aggravino eccessivamente, al di là dei limiti di proporzionalità e ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa;
sub 3) la limitazione dell’orario d’accesso agli uffici non lede di per sé le prerogative del consigliere comunale, dal momento che il diritto ad ottenere i documenti amministrativi e le notizie richieste non comporta anche quello di disporre senza limiti del tempo del personale degli uffici.
Quindi, la disposizione non sembra contenere irregolarità sembrando ispirata all’esigenza di evitare ritardi e disservizi nell’ordinaria attività amministrativa. Tuttavia, resta ferma la necessità che l’accesso sia consentito nei tempi più celeri e ragionevoli possibili in modo tale da consentire il concreto espletamento del mandato, come nei casi di discussioni politiche o procedimenti amministrativi urgenti o in corso
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 07.07.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: accesso dei consiglieri comunali all’albo pretorio on-line.
Con nota del 09.05.2011 il segretario comunale di Castelgrande, premesso che l’attuale art. 32 della legge n. 69/2009 ha disposto che le pubblicazioni effettuate su carta non hanno più valore legale e che di conseguenza tutte le delibere e tutte le determine dei responsabili di servizio di tale Comune vengono pubblicate e mantenute in un apposito albo pretorio on-line, ha chiesto di conoscere se il regolamento comunale sull’accesso ai documenti amministrativi possa prevedere che gli interessati all’accesso, ed in particolare i consiglieri comunali, non possano più richiedere copia cartacea di quanto pubblicato nel suddetto albo.
Al riguardo la Commissione esprime il parere che, in linea di massima, al quesito debba essere data una risposta negativa, sia perché l’esercizio del diritto d’accesso non ha alcun rapporto con il valore legale del documento al quale si chiede di accedere sia perché non tutti possono essere in grado di connettersi con la rete comunale e di navigare in essa; sicché il mancato rilascio della chiesta copia cartacea potrebbe costituire una discriminazione dei soggetti privi di adeguata cultura informatica, con conseguente lesione sia del principio generale di uguaglianza sia dello specifico diritto d’accesso, che pure attiene a quelle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti a tutti i cittadini e su tutto il territorio nazionale.
Va però considerato che il citato art. 32 fa parte del pacchetto delle misure adottate dal legislatore per comprimere le spese correnti, finalità che com’è noto rientra tra le esigenze generali prioritarie della politica economica finanziaria nazionale. Ora tali esigenze non vengono compromesse qualora le copie in forma cartacea (quelle rilasciate per e-mail sono praticamente a costo zero e quindi gratuite) siano richieste da privati cittadini, dal momento che in tal caso l’accesso è subordinato ad un sia pur limitato onere finanziario; possono però essere compromesse nel caso in cui consiglieri comunali avanzino richieste generalizzate, o comunque di dimensioni manifestamente esorbitanti, di copie in forma cartacea, con conseguente ingiustificato aggravio economico ed operativo per il Comune; e pongano così in essere comportamenti non consoni ai principi di leale cooperazione tra gli uffici dell’amministrazione e che pertanto potrebbero formare oggetto di segnalazione alle competenti autorità giudiziarie ed amministrative.
Attesa peraltro la difficoltà, nell’attuale stato della legislazione, di introdurre in via regolamentare precisi limiti al diritto d’accesso dei consiglieri comunali, si esprime l’avviso che l’indicata esigenza economica finanziaria possa essere in concreto soddisfatta solo praeter legem, e cioè mediante intese con i cui i gruppi consiliari concordino responsabilmente un atteggiamento comune in materia, al fine di evitare inutili sprechi delle risorse disponibili.
Un accordo del genere potrebbe essere facilitato se una copia di tutte le delibere e di tutte le determine comunali venisse depositata presso il consiglio comunale, a libera consultazione da parte di tutti i suoi componenti
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Accesso a documentazione relativa a domanda di riconoscimento di infermità dipendente da causa di servizio.
Il Sig. ... ha presentato al Comando Legione CC. Lazio-S.M. Ufficio Personale in data 15.02.2010 richiesta di estrazione di copia della intera documentazione relativa alla domanda di riconoscimento di infermità dipendente da causa di servizio. L’Amministrazione rispondeva in data 18.11.2010 di aver inoltrato la richiesta all’Ufficio competente, ma da quel giorno l’interessato non ha ricevuto alcuna comunicazione.
In ordine al silenzio osservato dall’Amministrazione, il Sig. ... chiede parere a questa Commissione invitandola ad assumere le conseguenti determinazioni, dandone comunicazione all’Ufficio interessato.
Ritiene questa Commissione che l’Amministrazione adita non abbia alcun motivo giuridico per ritardare o tanto più negare l’accesso alla documentazione oggetto dell’istanza del Sig. ..., avendo egli un interesse diretto, concreto ed attuale (art. 22, comma 1, lett. b, l. n. 241/1990) ad acquisire copia di documentazione relativa ad una pratica avviata con domanda del medesimo attinente a procedimento concernente uno stato di salute di rilievo assolutamente personale.
Quanto alle determinazioni conseguenti al parere in tali termini espresso, si sottolinea come questa Commissione non ha poteri per renderlo effettivo ed esecutivo nei confronti dell’Amministrazione ma solo di comunicarlo per l’ulteriore corso che la stessa Amministrazione vorrà discrezionalmente dargli
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Richiesta parere in ordine a domanda di accesso a documentazione relativa a corso (di brand developer) finanziato con fondi europei.
Il Dr. ..., avendo preso parte ad un corso di “brand developer” finanziato dal Fondo sociale europeo, in data 21.02.2011 chiedeva alla Provincia di Ancona di poter accedere a documentazione relativa a sé medesimo ed altri partecipanti. In sede di accesso i documenti contenenti i dati di terze persone venivano oscurati. Contro tale diniego il ... presentava ricorso alla Commissione che si pronunciava nella seduta del 10.05.2011 dichiarando la propria incompetenza (in quanto atto di ente locale) e di conseguenza l’inammissibilità dello stesso.
Il Dr. ... sottopone ora a questa Commissione, per acquisirne parere, la legittimità dell’operato dell’Amministrazione che aveva subordinato il rilascio della documentazione richiesta alla previa comunicazione dell’istanza di accesso ai controinteressati (gli altri corsisti) ai sensi dell’art. 3, comma 1, d.p.r. n. 184/20006.
Sostiene il ... che l’Amministrazione avrebbe dovuto accogliere la sua domanda senza subordinarla alla previa comunicazione agli altri corsisti, in quanto solo in questo modo la tutela della riservatezza avrebbe operato non in maniera discriminata, e cioè solo a vantaggio dei terzi e non anche nei suoi confronti, atteso che sarebbe stato costretto a rivelare il proprio nominativo ai propri colleghi di corso incidendo negativamente sul piano relazionale.
Il quesito che viene sottoposto alla Commissione non è nuovo e su di esso si è già formata una consolidata giurisprudenza. Si tratta della questione relativa all’operatività dell’obbligo della comunicazione ai terzi interessati (ex art. 3, comma 1, d.p.r. n. 184/2006) della domanda di accesso a documenti (verbali, elaborati, ecc.) attinenti corsi e/o concorsi i cui partecipanti sono sottoposti ad una valutazione comparativa.
L’orientamento del giudice amministrativo in materia di accesso nell’ambito di procedure concorsuali (cui ha aderito questa Commissione, v. pareri del 12.03 e del 16.12.2008) è nel senso che deve essere esclusa in radice l’esigenza di riservatezza a tutela dei terzi relativamente ai documenti prodotti dai candidati, ai verbali, alle schede di valutazione e agli elaborati (cfr., TAR Lazio, Roma, sez. III, 08.07.2008 n. 6450; TAR Campania, Napoli, se. V, 12.09 2007 n. 7538; Cons. Stato, se. VI, 11.02.1997 n 260), in quanto i concorrenti, nel partecipare ad una competizione per propria natura di carattere comparativo, accettano l’uscita di tali atti dalla propria sfera personale e la loro acquisizione alla procedura e, pertanto, ai fini della domanda di accesso, non assumono, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. c, l. n. 241/1990, la veste di controinteressati in senso tecnico.
La condizione posta dall’Amministrazione è conseguentemente illegittima e il Dr. ... ha diritto all’accesso alla documentazione richiesta senza la previa comunicazione della sua istanza agli altri corsisti
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Accesso a “permessi a costruire.
L’ing. ..., unitamente agli Ing. ... e ..., hanno chiesto in data 26.01.2011 al Comune di Mottola (TA) di prendere visione di alcuni “permessi a costruire” con relativi elaborati rilasciati dal Responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale.
Con nota del 24.02.2011 il Responsabile dell’Ufficio ha negato l’accesso agli atti per l’opposizione dei controinteressati ai quali in data 03.02.2011 aveva comunicato la presentazione dell’istanza in questione: Il diniego viene giustificato dall’assenza in capo ai richiedenti di un interesse diretto, concreto ed attuale richiesto quale requisito legittimante l’accesso dall’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990.
Gli interessati con nota pervenuta a questa Commissione il 16.05.2011 propongono ricorso avverso il diniego opposto dall’amministrazione comunale di Mottola e nel caso in cui fosse decorso il termine ne chiedono il parere.
Il termine di trenta giorni decorrenti dalla piena conoscenza del provvedimento negativo per proporre ricorso avverso il diniego del Comune di Mottola comunicato con nota del 24.02.2011 è effettivamente scaduto (art. 25, comma 4, l. n. 241/1990 e art. 12, comma 2, d.p.r. n. 184/2006), per cui questa Commissione, così come richiesto dagli istanti, può procedere solo ad esprimere in merito il proprio parere. E questo, alla luce della consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo e di questa stessa Commissione, non può che essere di accoglimento della domanda di accesso in oggetto.
Infatti, il diritto di accesso agli atti degli enti locali del cittadino-residente ex art 10, co. 1, TUEL non è condizionato, diversamente a quanto l’art. 22, comma 1, lett. b, legge n. 241/1990 prescrive per l’accesso ai documenti di amministrazioni centrali dello Stato, alla titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione giuridica differenziata, atteso che l’esercizio di tale diritto è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell’azione amministrativa. Di conseguenza, a nulla può valere l’opposizione manifestata dai controinteressati, imperniata su disposizioni normative che non si applicano nella fattispecie (cfr., parere del 31.05.2011).
Nel caso in cui l’istanza provenisse da cittadino non residente, con conseguente applicazione della disciplina ex lege n 241/1990 -fermo restando l’obbligo di valutare di volta in volta i motivi di opposizione- prevarrà comunque il diritto di accesso rispetto alla riservatezza, qualora il diritto di accesso è esercitato per la cura o la difesa di un interesse giuridico, fermi restando i limiti previsti dall’art 24, co. 7, della legge n. 241/1990
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Istanza di accesso alle delibere di Consiglio comunale decorso il periodo di pubblicazione di cittadino non residente.
Il Comune di Monterosso al Mare ha chiesto parere a questa Commissione su un’istanza di accesso del Sig. M.E ad alcune delibere adottate nella seduta del Consiglio comunale del 29.09.2010.
Poiché l’istante è titolare di beni immobili nel territorio comunale ma non cittadino residente, l’autorità comunale ha chiesto all’accedente di motivare più specificamente i motivi della sua richiesta sotto il profilo della titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), della l.n. 241/1990 e s.m.i..
Il Sig. M.E. ha riproposto formale richiesta di accesso motivandola come segue:
1 – delibera n. 23/2010: poiché lo scrivente risulta essere contribuente comunale per quanto riguarda il versamento dei tributi relativi ai rifiuti solidi urbani, credo che sia lecito essere a conoscenza dei tempi e ragione sociale delle aziende che forniscono tale servizio e concorrono quindi a determinare l’ammontare dei tributi pagati dallo scrivente;
2 – delibera n. 24-25-26/2010: in qualità di regolare contribuente che con i propri versamenti (vedi ICI) concorre alla formazione del bilancio comunale credo sia lecito essere a conoscenza di come la A.C. impiega il denaro pubblico (e quindi anche quello dello scrivente) acquistando ad esempio beni immobiliari e concorrendo ad interessare direttamente il bilancio comunale e le sue variazioni/equilibri;
3 – delibera n. 27/2010: credo sia lecito da parte di ogni cittadino conoscere i regolamenti comunali già al momento della loro approvazione proprio per snellire e favorire il conseguente funzionamento degli uffici pubblici;
4 – delibera n. 29/2010: in qualità di cittadino che paga regolarmente le cartelle relative alla fornitura di acqua potabile e relative al collegato servizio di depurazione acque credo sia perfettamente lecito poter visionare la delibera che tratta lo statuto della società pubblica ACAM che fornisce detti servizi sul territorio comunale.
Le motivazioni del Sig. M.E. sono state ritenute dal Comune di Monterosso al Mare generiche e prive della dimostrazione di un interesse diretto e concreto giuridicamente tutelato.
La Prefettura di La Spezia, intervenuta sulla vicenda con nota del 01.02.2011, dopo aver chiesto chiarimenti all’autorità comunale, ha suggerito, facendo leva su precedenti giurisprudenziali del giudice amministrativo, di riconsiderare l’istanza di accesso in questione. Da qui la richiesta di parere alla Commissione per l’accesso.
Per quanto riguarda la legittimazione all’accesso agli atti adottati da enti locali, correttamente il Comune di Monterosso al Mare (SP) richiama il principio del “doppio regime”, distinguendo, in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Commissione, la diversa posizione dei cittadini residenti e non.
Per i primi, cittadini residenti (siano essi persone fisiche, associazioni o persone giuridiche), il principio fondamentale che informa l’orientamento consolidato della Commissione sull’applicazione dell’art. 10, TUEL è quello di “specialità”: si ritiene cioè che il legislatore abbia adottato una disciplina specifica per gli enti locali versata nel TUEL approvato con il d.lgs. n. 267/2000.
Tale specialità comporta, in linea generale, che le norme contenute nella l.n. 241/1990 si applicano al TUEL solo in via suppletiva, ove necessario, e nei limiti in cui siano con esso compatibili. E mentre, per l’accesso agli atti di amministrazioni centrali dello Stato (e sue articolazioni periferiche) l’art. 22, comma 1, lett. b), l.n. 241/1990 prevede che la legittimazione all’accesso spetti soltanto ai soggetti titolari di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, l’art. 10 del TUEL non stabilisce invece alcuna restrizione e si limita a prevedere l’esistenza di un’area di atti (non precisata) il cui accesso o è assolutamente precluso per legge o è differibile (tale essendo l’effetto pratico della necessaria dichiarazione del Sindaco) nei casi previsti da un apposito regolamento, a tutela della riservatezza.
Secondo la Commissione i diversi contenuti delle due disposizioni citate caratterizzano la specificità del diritto di accesso dei cittadini comunali configurandolo alla stregua di un’azione popolare che non deve essere accompagnata né dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante né da un’adeguata motivazione.
La mancanza del requisito della residenza nel soggetto interessato all’accesso a documenti adottati da amministrazioni locali impedisce l’applicazione della più favorevole disposizione dell’art. 10, TUEL, facendo rivivere l’operatività dei presupposti stabiliti dal richiamato art. 22, comma 1, lett. b), della l.n. 241/1990 e s.m.i..
E’ dunque alla luce dell’esistenza in capo al Sig. M.E. di un interesse diretto, concreto ed attuale che deve essere valutata l’ammissibilità della sua istanza in riferimento alla tipologia dei singoli atti richiesti.
Secondo la consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo, correttamente citata nella nota della Prefettura di La Spezia, <<…ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento della attività amministrativa, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione.>>
Nella fattispecie, per fare alcuni esempi, si potrebbe configurare un interesse diretto, concreto ed attuale, correlato al diritto di proprietà su immobili insistenti sul territorio comunale, nei casi in cui un atto dell’Ente incidesse su tale diritto (provvedimento di variazione urbanistica o edilizia, rilascio di permesso di costruire su un terreno limitrofo, ecc.) e, in riferimento alla posizione di contribuente (requisito soggettivo rivendicato a sostegno della domanda di accesso), nei casi di provvedimento che influisse sullo specifico rapporto tributario connesso al possesso del bene immobile o di istanze aventi ad oggetto (per citare fattispecie ricorrente nei pareri di questa Commissione) l’accesso all’elenco dei contribuenti (senza che venga peraltro pregiudicato il diritto alla riservatezza).
Nessuna di tali ipotesi ricorre nella specie per cui l’interesse del Sig. M.E. sottostante alla sua domanda di accesso. non perde il carattere di genericità che ne impedisce l’ammissibilità. Diversamente opinando si avallerebbe l’equiparazione del titolare di un diritto di proprietà immobiliare al cittadino residente, eludendo il dettato normativo così come ritenuto operativo dalla consolidata giurisprudenza.
Non vi è nessun motivo giuridico di opporsi alla richiesta di accesso al Regolamento comunale -come anche segnalato dalla Prefettura nella citata nota– atto generale la cui conoscenza costituisce diritto di ogni cittadino. Ma alla pubblicità di tale atto, così come delle delibere comunali, il Comune di Monterosso ha già provveduto rendendo operativo, dal 01.01.2011, il sito istituzionale informatico in ossequio anche alle disposizioni introdotte dall’art. 32, l.n. 69/2009
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Parere su regolamento di accesso da parte dei consiglieri comunali a documenti amministrativi.
Un consigliere comunale ha rappresentato che l’ente civico, nel rielaborare la bozza di regolamento comunale per l’esercizio dell’accesso dei consiglieri comunali, a suo tempo inviata dal Comune, non si era attenuto alle modifiche suggerite dalla Commissione. Pertanto, ha chiesto alla Commissione di esprimere una valutazione sui punti della bozza regolamentare contrarie ai principi di trasparenza dell’ente.
La Commissione, prima di esprimere qualsiasi giudizio, ritiene opportuno attendere che il Comune si pronunci con formale proposta di delibera sulle modifiche suggerite da questa Commissione, tenuto anche conto dell’impossibilità di evincere dalla bozza allegata dall’istante quali sarebbero gli specifici punti del regolamento oggetto delle lamentele
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Parere su modifica regolamentare del diritto di accesso da parte dei consiglieri comunali.
L’istante ha chiesto il parere di questa Commissione in ordine alla legittimità della modifica apportata dalla maggioranza consiliare al regolamento per il funzionamento del Consiglio Comunale nella parte in cui sopprime il limite di 30 gg. entro cui rispondere ad interrogazioni ed interpellanze con risposta in Consiglio Comunale ex art. 43, comma 3, TUEL.
La Commissione, pur comprendendo la delicatezza ed importanza della questione prospettata, che inerisce allo svolgimento del potere di controllo del consiglio -esercitato dai consiglieri comunali attraverso vari mezzi, quali le interrogazioni, le interpellanze e le semplici domande- osserva che la questione proposta non riguarda l’esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali né l’interpretazione della relativa disciplina contenuta nell’art. 43, comma 2, TUEL, vertendo invece sul diritto dei consiglieri, nell’esercizio del sindacato ispettivo, ad ottenere entro 30 gg. risposta alle interrogazioni e ad ogni altra istanza rivolta al sindaco o al presidente della provincia o agli assessori.
Alla stregua di quanto sopra esposto, tenuto conto degli ambiti di competenza attribuiti dall’art. 11 del DPR n 184/2006 la Commissione non può esprimersi sul quesito di cui in premessa 
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Richiesta di parere in tema di estensione e limiti del diritto di accesso ai documenti da parte dei consiglieri provinciali.
Viene chiesto a questa Commissione di esprimere parere in ordine alla estensione e ai limiti del segreto che i consiglieri della provincia autonoma di Bolzano sono tenuti ad osservare relativamente a documenti ai quali hanno avuto accesso in funzione del mandato elettivo, ed in particolare a contratti (conclusi tra Società Elettrica Altoatesina ed Enel o Edison) che tuttavia contengono clausole di riservatezza fra le parti contraenti.
L’art. 43, co. 2, Tuel nel disporre che i consiglieri comunali e provinciali sono tenuti al segreto nei casi espressamente stabiliti dalla legge, intende ribadire la regola secondo cui, lecitamente acquisite le informazioni e le notizie utili all'espletamento del mandato consiliare, il consigliere è tenuto a preservare la riservatezza del contenuto dei documenti acceduti assumendosi la personale responsabilità del pregiudizio eventualmente arrecato a terzi della loro divulgazione
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 23.06.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Consigliere comunale: accesso a pareri legali: divieto - limiti.
Con e-mail del 29.04.2011 la Sig.ra ..., consigliere comunale di minoranza del Comune di Trebaseleghe, ha comunicato a questa Commissione:
- di aver chiesto l’accesso al parere legale rilasciato al progettista del piano comunale degli interventi per la regolamentazione del biogas, parere che in consiglio comunale il sindaco aveva letto solo parzialmente;
- di averne ricevuto un rifiuto dal responsabile del settore, su conforme avviso del progettista, sia perché il consigliere comunale di minoranza non sarebbe legittimato ad accedere ad un parere legale rilasciato al sindaco sia perché “in caso contrario verrebbe violato il segreto professionale del legale e la stessa privacy dell’organo decidente che deve restare libero nell’acquisizione dei pareri che ritiene necessari per la formazione di una propria corretta volontà”.
A sostegno di tale assunto l’Amministrazione ricorda che è indirizzo del Consiglio di Stato (Sez. V, 02.04.2001 n. 1893) e di questa Commissione che i pareri legali sono accessibili solo se versati in atti di un giudizio o citati a sostegno dei provvedimenti adottati dal soggetto che li ha richiesti: condizioni che non ricorrerebbero nel caso in esame.
Al riguardo la Commissione osserva quando segue:
● In primo luogo va ricordato che tutti consiglieri comunali hanno gli stessi poteri di accesso ai documenti amministrativi ed alle notizie in possesso degli uffici comunali e devono fruire di un’identica collaborazione da parte di tali uffici. Pertanto è palesemente illegittimo discriminare i consiglieri comunali a seconda che siano di maggioranza o di minoranza.
● In secondo luogo la citata giurisprudenza è inconferente, dal momento che nel caso in esame, in concreto, non si ravvisa alcun segreto professionale da tutelare. Infatti, il progettista non può invocare alcun segreto professionale, dal momento che ha spontaneamente trasmesso al Comune il parere legale in questione, mettendolo così a piena e insindacabile disposizione dei competenti uffici del Comune e –di conseguenza– a disposizione di tutti indistintamente i consiglieri comunali eventualmente interessati.
E l’Amministrazione comunale dal canto suo non può ignorare che in consiglio comunale il sindaco ha letto –sia pure parzialmente- il testo dell’indicato parere legale, facendone così un documento progettuale e riconoscendo in tal modo il carattere non segreto di tale documento.
D’altronde una volta che il sindaco aveva ritenuto necessario sottoporre -sia pure parzialmente- alla valutazione del consiglio comunale il parere in questione quest’ultimo doveva ritenersi accessibile nella sua totalità da qualsiasi consigliere comunale, dal momento che un parere legale va valutato nella sua totalità e non sulla sola base di una sua parte che, isolatamente considerata, potrebbe non rispecchiare con esattezza il pensiero dell’esperto che il parere ha rilasciato.
Si esprime pertanto il parere che la domanda d’accesso del consigliere debba essere accolta
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 31.05.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Difensore Civico della Regione Liguria: competenze.
Con nota del 18.04.2011 n. PG/2011/54626 codesto Difensore Civico ha fatto presente:
- che un cittadino di Orero (Genova) ha presentato una richiesta di accesso a documenti amministrativi del proprio Comune;
- che sulla richiesta si è formato il silenzio rifiuto;
- che, non essendo stato istituito il difensore civico comunale, il cittadino ha presentato ricorso al difensore civico provinciale;
- che quest’ultimo ha peraltro declinato la propria competenza in favore del difensore civico regionale, atteso un accordo in tal senso intervenuto nel 2006 tra la Regione Liguria e il Comune di Orero;
- che, non condividendo tale declinatoria, in quanto essa derogherebbe all’ordine legale delle competenze stabilito in via generale dal legislatore nazionale, codesto Difensore Civico ha restituito gli atti al difensore civico provinciale.
Sulla questione di competenza viene comunque chiesto il parere di questa Commissione.
Al riguardo si osserva quanto segue.
Il suindicato accordo tra Regione Liguria e Comune di Orero è intervenuto nel 2006 in attuazione dell’art. 5, comma 6, della legge regionale Liguria 05.08.1986 n. 17. Tale articolo, come sostituito dall’art. 1 della legge regionale 14.03.2000 n. 14, dispone: “Previa specifica deliberazione assunta dagli organi competenti dei Comuni, delle Province, delle Comunità montane o tramite convenzione con l’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale, l’attività del Difensore Civico” (regionale) “potrà riguardare anche le pratiche presso gli enti suddetti”; ed al successivo comma 7 dispone: “E’ di competenza del Difensore civico” (regionale) “l’intervento sull’attività degli uffici:…e) degli enti locali e di quelli destinatari di deleghe da parte della Regione presso i quali non siano operanti difensori civici”. Tra le competenze attribuite al Difensore Civico Regionale non figura quella di decidere ricorsi in materia di diritto d’accesso.
Il citato accordo del 2006, all’art. 1, prevede che le funzioni del Difensore Civico “sono quelle disciplinate dall’art. 5 della legge regionale 05.08.1986 n. 17, modificato dalla legge regionale 14.03.2000 n. 14”, con conseguente implicita esclusione del diritto d’accesso.
Infine la legge regionale 25.11.2009 n. 56, all’art. 25, dispone: “In caso di diniego dell’accesso, espresso o tacito, o di differimento dello stesso, si applicano le disposizioni di cui all’art. 25, commi 4, 5, 5-bis e 6, della legge 241/1990 e successive modifiche e integrazioni”; e quindi recepisce espressamente anche la disposizione dell’indicato comma 4 secondo cui, qualora il difensore civico competente per ambito territoriale non sia stato istituito, “la competenza è assunta dal difensore civico competente per l’ambito territoriale immediatamente superiore”.
Ciò stante, in considerazione sia della non menzione della materia dell’accesso tra quelle oggetto dell’accordo del 2006 sia dell’espresso rinvio alla disciplina della legge 241/1990, deve ritenersi che la competenza a decidere sul ricorso amministrativo in questione sia effettivamente del Difensore Civico Provinciale
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 31.05.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Accesso: oneri per il rilascio dei documenti amministrativi richiesti.
Con e-mail del 25 aprile scorso il Sig. ... ha chiesto di conoscere quali oneri debba sostenere per avere copie anche non conformi di un verbale della polizia stradale relativo ad un incidente stradale.
Al riguardo si fa presente che, ai sensi degli artt. 25 della legge n. 241/1990 e 7, comma 6, del dPR n. 184/2006, il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione del documento richiesto, salvo il pagamento del bollo e degli eventuali diritti di segreteria nel caso di rilascio di copia autentica
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 31.05.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Accesso pratiche edilizie.
Il Comune istante, a seguito dell’incremento delle istanze di accesso alle pratiche edilizie da parte di cittadini che si ritengono pregiudicati nei propri interessi dai permessi edilizi, ha formulato a questa Commissione una serie di quesiti, inerenti ai presupposti e limiti del diritto di accesso, onde verificare la correttezza della procedura seguita. In particolare, l’amministrazione ha chiesto di conoscere:
1) se i titolari della concessioni e i progettisti siano qualificabili come controinteressati;
2) se tutti gli elaborati progettuali allegati alla pratica siano accessibili;
3) quali potrebbero essere i motivi di opposizioni all’accesso;
4) se sia sufficiente, ai fini dell’accesso, una presunta lesione degli interessi;
5) se un numero troppo ampio di richieste di accesso si configuri quale controllo generalizzato dell’operato della p.a.
Quanto al primo quesito, relativo alla qualifica dei controinteressati, posto che in linea generale la qualità di controinteressato va individuata con riferimento alla titolarità di un interesse analogo e contrario a quello che legittima l’accesso, senza dubbio sussiste un interesse contrario all’accesso in capo ai titolari della concessione edilizia ed anche in capo ai progettisti, in considerazione del pregiudizio derivante, ai primi, per la loro proprietà (in termini di amenità, visuale, privacy, ecc.) ed al secondo in relazione all’interesse a che non venga divulgata senza autorizzazione la documentazione oggetto di prestazione professionale, anche ai fini della tutela apprestata dall’ordinamento al diritto di autore.
Circa il secondo quesito, si rileva che tutti gli elaborati progettuali allegati alla pratica possono essere rilasciati in copia, sia perché rientrano nell’amplissima formulazione data dalla legge n. 241/1990 (art. 22, co. 1, lett. d) -comprendente ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie, detenuta da una Pubblica Amministrazione e relativa ad attività di pubblico interesse- sia perché, anche se opera di ingegno, si deve escludere che il diritto d'autore ne impedisca l'accesso ove siano strumentali alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti (arg. ex Cons. Stato, Sez. V, 10.01.2005 n. 34).
I restanti quesiti possono essere trattati congiuntamente, presupponendo a monte la definizione dei distinti regimi giuridici dell’accesso. Come è noto, infatti, il diritto di accesso agli atti degli enti locali del cittadino-residente ex art. 10, co. 1, TUEL non è condizionato, diversamente a quanto l’art. 22, comma 1, lett. b, legge n. 241/1990 prescrive per l’accesso ai documenti di amministrazioni centrali dello Stato, alla titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione giuridica differenziata, atteso che l’esercizio di tale diritto è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell’azione amministrativa.
Di conseguenza, quanto al terzo quesito -a prescindere dalle singole motivazioni dei controinteressati, la cui valutazione deve essere rimessa caso per caso alla discrezionalità della p.a.- a nulla può valere l’opposizione manifestata dal 184 del 2006, la cui applicazione anche all’ambito delle autonomie locali finirebbe per operare un’indebita compressione dei più ampi diritti riconosciuti dalla disciplina speciale in favore dei cittadini residenti (cfr. altresì plenum 16.09.2008). Nel caso in cui l’istanza provenisse da cittadino non residente, con conseguente applicazione della disciplina ex lege n 214/1990 -fermo restando l’obbligo di valutare di volta in volta i motivi di opposizione- prevarrà comunque il diritto di accesso rispetto alla riservatezza, qualora il diritto di accesso è esercitato per la cura o la difesa di un interesse giuridico, fermi restando i limiti previsti dall’art. 24, co. 7, della legge n. 241/1990.
Circa il quarto quesito, relativo alla sufficienza della presunta lesione degli interessi invocati dall’accedente, si osserva che: se l’istanza di accesso è stata avanzata da cittadino non residente (ex lege n 241/1990), il richiedente deve addurre la sussistenza della titolarità di una situazione giuridicamente rilevante e sufficientemente qualificata rispetto a quella del quisque de populo, senza che la pa possa verificare l’effettiva lesione di tali interessi giuridici posti a fondamento dell’accesso.
Diversamente, nel caso di accesso del cittadino residente ex art 10 TUEL, non si fa menzione alcuna della necessità di dichiarare la sussistenza di tale situazione al fine di poter valutare la legittimazione all’accesso del richiedente, con la conseguenza che la pa non potrà utilizzare il “filtro” costituito dalla titolarità di una situazione giuridicamente rilevante (di cui, peraltro, nel caso di specie non v’è dubbio sussistere, in quanto si tratta di istanti risiedere nelle zone confinanti).
Infine, circa il quinto quesito, se l’accesso del cittadino residente ex art. 10 TUEL non pone le problematiche esposte trattandosi di azione popolare, tuttavia è ben possibile che l’accesso dal cittadino non residente assuma la finalità di porre in essere un controllo generalizzato sull’operato dell’amministrazione comunale, e ciò nei casi in cui la richiesta non sia indirizzata a specifici documenti o riguardi periodi di tempo non ragionevolmente delimitati, ma non nell’ipotesi in cui le pur reiterate richieste, riguardanti una stessa materia o settore di attività amministrativa individuino specifici documenti accedenti ad altrettanto specificate pratiche o fascicoli amministrativi
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 31.05.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Prerogative consiglieri comunali.
Con nota del 30.03.2011 l’Avv. ..., consigliere comunale di Fontegreca, ha fatto presente a questa Commissione che, su disposizione del sindaco:
1) il suo l’accesso ai documenti amministrativi dell’ente è subordinato alla presentazione di una domanda scritta, a differenza di quanto invece praticato nei confronti di tutti gli altri consiglieri comunali;
2) viene estromessa da ogni forma di informazione riguardante la svolgimento dei compiti istituzionali connessi all’attività di programmazione e gestione dell’ente;
3) le vengono preclusi l’accesso al protocollo informatico dell’ente e la possibilità di essere tempestivamente informata dell’attività dell’ente.
L’interessata chiede in proposito il parere di questa Commissione.
Al riguardo si fa presente:
1) che l’amministrazione comunale deve garantire a tutti indistintamente i consiglieri parità di condizioni di accesso e di informazione, attesa la parità delle funzioni da ciascuno di essi esercitate. Eventuali disparità di trattamento devono quindi ritenersi contra legem e possibile causa di responsabilità;
2) che tutti gli atti formati o detenuti dagli uffici comunali sono accessibili dal consigliere comunale, senza alcuna distinzione di settore o di materia, con la sola eccezione di quelli di natura strettamente personale e non utilizzati nell’attività amministrativa;
3) che il consigliere comunale ha diritto di accedere sia al protocollo informatico ed all’archivio informatico sia all’archivio cartaceo del Comune;
3) che il consigliere comunale ha pertanto il diritto di ottenere dagli uffici del Comune tutti i documenti amministrativi e tutte le informazioni da lui ritenute utili per l’espletamento del proprio mandato che non possa agevolmente ottenere direttamente in via informatica, eventualmente avvalendosi della collaborazione degli uffici stessi
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Accesso ad accertamenti ispettivi da parte del Servizio Ispezione del Lavoro.
L’Azienda istante è stata sottoposta ad accertamenti ispettivi da parte del Servizio Ispezione del Lavoro della Direzione Provinciale del Lavoro di Varese, a conclusione dei quali sono stati notificati 11 processi verbali di accertamento e contestazione di illecito amministrativo ex artt. 194 e 200 del Codice della Strada.
Con istanza del 21.02.2011 la Società in indirizzo chiedeva l’accesso ad una serie di documenti amministrativi fra i quali le dichiarazioni di due lavoratori e della denuncia di un altro lavoratore, poi dimessosi. Con nota del 15.03.2011 la DPL di Varese ha negato l’accesso alla documentazione richiesta specificando che le dichiarazioni dei lavoratori sono sottratte al diritto di accesso in base all’art. 2, lett. c), del D.M. n. 757/1994 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, mentre per gli altri documenti il diniego era motivato dalla loro assimilazione a quelli contenenti notizie sulla programmazione dell’attività di vigilanza, nonché sulle modalità ed i tempi di svolgimento di essa sottratta al diritto di accesso per cinque anni in base allo stesso D.M..
L’art. 2, lett. c), del d.m. n. 757/1994 vieta l’accesso ai documenti contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi.
La più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha richiamato l’esigenza di evitare possibili pregiudizi per i lavoratori (Cons. St., sez. VI, 09.02.2009 n. 736; Cons. St., sez. VI, 22.04.2008 n. 1842), così superando la precedente giurisprudenza secondo cui le norme regolamentari (che precludono l’accesso alla documentazione contenente le dichiarazioni rese in sede ispettiva da dipendenti delle imprese che richiedono l’accesso, fondate su un particolare aspetto della riservatezza, quello cioè attinente all’esigenza di preservare l’identità degli autori delle dichiarazioni per sottrarli a potenziali azioni discriminatorie, pressioni indebite o ritorsioni da parte del datore di lavoro) recedono a fronte dell’esigenza contrapposta di tutela della difesa dei propri interessi giuridici, essendo la realizzazione del diritto alla difesa garantita “comunque” dall’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990 (Cons. St., sez. VI: 29.07.2008 n. 3798; 10.04.2003 n. 1923; 03.05.2002 n. 2366, 26.01.1999 n. 59).
Si afferma infatti che le disposizioni in materia di diritto di accesso mirano a coniugare la ratio dell’istituto, quale fattore di trasparenza e garanzia di imparzialità dell’Amministrazione –nei termini di cui all’art. 22, l. n. 241/1990– con il bilanciamento da effettuare rispetto ad interessi contrapposti e fra questi –specificamente– quelli dei soggetti “individuati o facilmente individuabili” che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza” (art. 22 cit., co. 1, lett. c).
Il successivo art. 24 della medesima legge, che disciplina i casi di esclusione dal diritto in questione, prevede al comma 6 i casi di possibile sottrazione all’accesso in via regolamentare e fra questi –al punto d)– quelli relativi ai “documenti che riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all’Amministrazione dagli stessi soggetti a cui si riferiscono”.
In rapporto a tale quadro normativo, si è osservato che se è vero che, in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono ritenute prioritarie rispetto alla riservatezza di soggetti terzi (Cons. St., ad plen., 04.02.1997 n. 5) ed in tal senso il dettato normativo richiede l’accesso sia garantito “comunque” a chi debba acquisire la conoscenza di determinati atti per la cura dei propri interessi giuridicamente protetti (art. 20, co. 7, l. n. 241/1990); la medesima norma tuttavia –come successivamente modificata tra il 2001 e il 2005 (art. 22 l. n. 45/2001, art. 176, comma 1, d.lgs. n. 196/2003 e art. 16 l. n. 15/2005)– specifica come non bastino esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi ed ammettendosi solo nei limiti in cui sia “strettamente indispensabile” la conoscenza di documenti, contenenti “dati sensibili e giudiziari”.
Ferma restando, dunque, una possibilità di valutazione “caso per caso”, che potrebbe talvolta consentire di ritenere prevalenti le esigenze difensive in questione (cfr. Cons. St., sez. VI, n. 3798/2908 del 29.07.2008, che ammette l’accesso al contenuto delle dichiarazioni di lavoratori agli ispettori del lavoro, ma “con modalità che escludano l’identificazione degli autori delle medesime”), non può però dirsi sussistente una generalizzata soccombenza dell’interesse pubblico all’acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro (a cui sono connessi valori, a loro volta, costituzionalmente garantiti), rispetto al diritto di difesa delle società o imprese sottoposte ad ispezione.
Il primo di tali interessi, infatti, non potrebbe non essere compromesso dalla comprensibile reticenza di lavoratori, cui non si accordasse la tutela di cui si discute, mentre il secondo risulta comunque garantito dall’obbligo di motivazione per eventuali contestazioni, dalla documentazione che ogni datore di lavoro è tenuto a possedere, nonché dalla possibilità di ottenere accertamenti istruttori in sede giudiziaria.
In virtù dell’orientamento del Consiglio di Stato si deve pertanto affermare che la sottrazione all’accesso degli atti dell’attività ispettiva in materia di lavoro postula che risulti un effettivo pericolo di pregiudizio per i lavoratori, sulla base di elementi di fatto concreti, e non per presunzione assoluta. Si può anche ritenere che il pericolo di pregiudizio sia presunto, ma la presunzione va ritenuta relativa e suscettibile di prova contraria da parte del richiedente l’accesso.
Va poi considerato che il successivo art. 3, co. 1, lett. c), del citato d.m. 757/1994 dispone specificamente che la sottrazione all’accesso permane finché perduri il rapporto di lavoro, salvo che le notizie contenute nei documenti di tale categoria risultino a quella data sottoposti al segreto istruttorio penale.
Su tale orientamento si è consolidata anche la giurisprudenza di questa Commissione (cfr., parere del 07.10.2008).
Peraltro, ancora più recentemente, il Consiglio di Stato (Sez. VI 16.12.2010 n. 9103) ha operato una rivisitazione della posizione giurisprudenziale sull’accesso agli atti di accertamento degli ispettori del lavoro propendendo per la prevalenza all’esibizione degli stessi. Nella sentenza si legge, infatti, che le finalità delle disposizioni preclusive del diritto di accesso alla documentazione –fondate su un particolare aspetto della riservatezza, quello cioè attinente all’esigenza di preservare l’identità dei dipendenti autori delle dichiarazioni allo scopo di sottrarli a potenziali azioni discriminatorie, pressioni indebite o ritorsioni da parte del datore di lavoro– recedono a fronte dell’esigenza contrapposta di tutela della difesa dei propri interessi giuridici.
La prevalenza del diritto di difesa (da parte dei datori di lavoro), in proiezione giurisdizionale, dei propri interessi giuridicamente rilevanti non necessita di specificazioni ulteriori in ordine alle concrete esigenze di difesa perseguite, allorquando tale specificazione sia sufficientemente contenuta nell’allegazione che la conoscenza delle dichiarazioni è necessaria per approntare la difesa in sede di azione di accertamento della legittimità dell’operato dell’amministrazione.
Alla luce della richiamata più recente giurisprudenza del giudice amministrativo e di fronte alla motivata richiesta di accesso della società istante finalizzata alla difesa dei propri interessi giuridici il diniego opposto dall’amministrazione non appare sorretto da giuridico fondamento 
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Inottemperanza della Giunta alle richieste di accesso di consiglieri comunali.
Il Gruppo consiliare in indirizzo ha fatto pervenire ad una serie di autorità amministrative un’istanza nella quale, dopo aver esposto l’inottemperanza entro i termini di legge da parte dell’amministrazione comunale di Atrani alle loro richieste di accesso, chiedono che “vengano presi i provvedimenti del caso e venga ripristinata una normale situazione, nel rispetto dei principi sanciti dalla normativa vigente.”
Poiché l’istanza ha per oggetto l’adozione di atti che esulano dalla competenza di questa Commissione, si ritiene di non poter dare seguito alla richiesta e si archivia la pratica
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Accesso di consiglieri comunali a documentazione relativa a “project financing.
A fronte della richiesta di accesso ad una serie di documenti ed in particolare del ”Project financing impianto ludico-sportivo natatorio+centro welness e servizi”, il Comune in indirizzo si chiede se sia legittimo un differimento dell’istanza a tutela della par condicio degli offerenti nell’ambito della procedura ad evidenza pubblica attivata.
L’opportunità del differimento dell’accesso alla documentazione relativa alla procedura in atto (per gli altri documenti oggetto dell’istanza di accesso dei consiglieri comunali non sussistono motivi giuridici per opporvisi, neppure temporaneamente) trova conforto giuridico nell’art. 13, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 163/2006 Codice dei contratti pubblici che, appunto, autorizza il differimento del diritto di accesso alle offerte fino all’approvazione dell’aggiudicazione.
Tale norma ha valenza generale ed è applicabile anche nei confronti dei consiglieri comunali che pur godono nell’esercizio delle loro funzioni dell’ampio potere di accesso definito dall’art. 43, TUEL
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OGGETTO: Diritto di accesso dei consiglieri comunali ai dati anagrafici dei cittadini.
Con e-mail del 15.10. 2010, il Comune di Valle Aurina aveva chiesto a questa Commissione di conoscere:
-) se i consiglieri comunali possano accedere ai dati anagrafici dei cittadini comunali, avvalendosi della generale prerogativa loro riconosciuta dall’art. 43 d.lgs. n 267/2000 ovvero se tale diritto sia limitato dalla disciplina sulla tenuta degli atti anagrafici ex art. 34 dpr n 223/1989 che consente invece la comunicazione degli elenchi della popolazione residente esclusivamente ad altre pubbliche amministrazioni per usi di pubblica utilità ovvero anche ad altri soggetti per soli fini statistici e di ricerca (come di solito avviene per il coro della chiesa locale e l’orchestra locale che chiedono i dati anagrafici per trasmettere inviti ai cittadini);
-) se il responsabile dell'ufficio anagrafico -responsabile del trattamento dei dati personali ai sensi del D.lgs. 196/2003- possa essere soggetto a sanzioni nel caso il consigliere comunale divulghi i dati anagrafici a terzi privati interessati a conoscerli.
Quanto al primo quesito, esaminato il parere reso dal garante dei dati personali con nota 08.03.2011 (pervenuta il successivo 24 marzo), la Commissione ritiene legittima la trasmissione degli elenchi anagrafici anche al consigliere comunale e provinciale alla luce della specifica disposizione dell’art. 43, co 2, TUEL.
La Commissione non ignora che, allo specifico quesito se sia possibile rilasciare gli elenchi anagrafici ad un consigliere comunale in forza dell'art. 43 del d.lgs. n. 267/2000, il Ministero dell’Interno abbia risposto negativamente, affermando che la richiesta di elenchi anagrafici deve comunque rispettare i requisiti stabiliti dall'art. 34 dpr n 223/1989 (Min Interno 15.09.2003 prot. 03004817-15100/336). Ne conseguirebbe che la richiesta di accesso all'archivio dei residenti avanzata dai Consiglieri comunali, potrebbe essere soddisfatta, di volta in volta, con il rilascio di elenchi e di supporti magnetici, a condizione che i dati anagrafici vengano resi anonimi ed aggregati e solo per fini statistici e di ricerca.
Tuttavia, tale orientamento non è condivisibile per una serie di ragioni.
Anzitutto, alla stregua di quanto ha ribadito il garante dei dati personali, resta fermo il diritto dei consiglieri comunali di ottenere dagli uffici del comune di riferimento tutte le notizie ed le informazioni in loro possesso utili all’espletamento del loro mandato ai sensi dell’art 43 TUEL, stante la clausola di riserva dell’art 59 Codice privacy (Dlgs n 196/2003) che fa salve le altre disposizioni che consentono l’accesso anche ai documenti amministrativi contenenti dati personali.
Inoltre, il trattamento dei dati personali da parte di soggetti pubblici, e dunque anche del consigliere comunale, è consentito per lo svolgimento di funzioni istituzionali (art. 18, co. 2, d.lgs. n. 196/2003), in particolare per funzioni di controllo e indirizzo politico, direttamente connesse
all’espletamento del mandato elettivo (arg. ex art. 67, co. 1, lett. A; art. 65, co. 4, lett. b) e nel rispetto dei principi di pertinenza ed utilità rispetto allo svolgimento dei loro compiti (art. 11, co 1, lett. d), d.lgs. cit.).
In tale quadro normativo, l’art 43 TUEL costituisce una fonte idonea a legittimare la comunicazione di dati personali da parte delle pp.aa. al consigliere comunale, senza che la disciplina specifica dell’anagrafe della popolazione residente, contenuta nell’art. 34 dpr n 223/1989 possa circoscrivere la conoscibilità dei dati personali.
Le citate disposizioni costituiscono norme speciali operanti in settori e con limiti diversi, l’una (art 34 dpr n 223/1989) assicurando la comunicazione di dati personali alle sole amministrazioni pubbliche per esclusivo uso di pubblica utilità (ovvero a terzi interessati in modo anonimo e aggregato per fini statistici e di ricerca o anche per fini di comunicazione istituzionale ex art. 177 d.lgs. n. 196/2003), l’altra (art. 43 TUEL) assicurando l’accesso ai dati personali ai consiglieri comunali per scopi inerenti il mandato elettivo.
Atteso il diverso ambito di operatività, la perdurante applicabilità dell’art. 34 dpr n. 223/1989 non pregiudica la disposizione dell’art. 43 TUEL.
In secondo luogo, un consolidato indirizzo giurisprudenziale da cui la Commissione non ha motivo di discostarsi (da ultimo C.d.S., sez. V, 09.10.2007, n. 5264; Cons. Stato Sez. V, 17-09-2010, n. 6963) afferma che i consiglieri comunali hanno un incondizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato.
Tale orientamento interpretativo lascia intendere che non vi sono settori o aspetti dell'attività comunale che possano essere negati alla conoscenza dei consiglieri e che l'acquisizione di tale conoscenza può essere legittimata anche in base ad una mera valutazione di opportunità, senza un'assoluta e specifica necessità dell'informazione non solo al fine di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione ma anche nell’esigenza di mantenere i rapporti con i cittadini e gli elettori, non essendo l’attività del consigliere limitata alla partecipazione alle determinazioni consiliari.
Se il diritto di informazione dei consiglieri comunali ex art. 43 TUEL non tollera tendenzialmente limitazioni o condizionamenti di sorta, la disposizione dell’art. 34 dpr n. 223/1989 costituirebbe un ingiustificato limite all’ampio diritto dei consiglieri comunali.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative o abnormi o piegate ad interessi meramente personali, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso.
Infatti, sarebbe incongruo che gli uffici dell'ente possano avere alcuna ingerenza o esercitare alcun sindacato in ordine alle concrete ragioni che inducono il consigliere ad acquisire determinate notizie ed informazioni, poiché altrimenti si determinerebbe un illegittimo ostacolo all'esercizio delle loro funzioni politiche.
Quanto al secondo quesito -fermo restando che, ai sensi dell’art. 43, TUEL i consiglieri comunali “sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”, essendo ad essi imposto di non divulgare a terzi il contenuto delle informazioni e degli atti ai quali hanno avuto accesso, incorrendo in caso negativo in responsabilità personale- nessuna responsabilità potrà incombere in capo al responsabile dell'ufficio anagrafico nel caso il consigliere comunale abbia svelato i dati a terzi non titolari di tale diritto o senza il rispetto delle modalità previste
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Accesso agli atti inerenti erogazione di contributi economici ad associazioni.
Un comune chiede a questa Commissione di esprimere un parere sulla legittimità dell’accesso richiesto da un segretario locale di una formazione politica (Sezione Lega Nord “La Bassa”) che intende conoscere l’entità dei contributi economici stanziati a favore delle diverse associazioni del territorio. L’ente precisa di avere negato l’accesso poiché presentato da soggetto privo di interesse diretto concreto ed attuale e dunque in difetto delle condizioni ex lege n 241/1990.
Come è noto la diversità di posizione tra cittadino residente e quello non residente nel Comune dà luogo ad un doppio regime del diritto di accesso, secondo quanto disposto dall’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 che ha presupposti diversi dal diritto di accesso previsto dalla normativa generale di cui all’art. 22 della legge n. 241/1990 (arg. ex TAR Puglia-Lecce, Sez. II, 12/04/2005, n. 2067; TAR Marche, 12/10/2001, n.1133).
In conformità all’orientamento espresso da questa Commissione (e da cui non v’è motivo di discostarsi), nel caso in cui l’istante sia un cittadino residente nel comune il diritto di accesso non è soggetto alla disciplina dettata dalla legge n. 241/1990 -che in effetti richiede la titolarità di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento richiesto- bensì alla speciale disciplina di cui all’art. 10, co. 1, del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL), che sancisce espressamente ed in linea generale il principio della pubblicità di tutti gli atti ed il diritto dei cittadini di accedere agli atti ed alle informazioni in possesso delle autonomie locali, senza fare menzione alcuna della necessità di dichiarare la sussistenza di tale situazione al fine di poter valutare la legittimazione all’accesso del richiedente.
Ebbene, considerato che il diritto di accesso ex art. 10 TUEL si configura alla stregua di un’azione popolare, il cittadino residente -come nella specie anche il segretario della sezione politica locale- può accedere agli atti amministrativi dell'ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento alla sussistenza di un interesse personale e concreto e senza necessità della previa indicazione delle ragioni della richiesta
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Accesso agli atti inerenti ad un fascicolo processuale inerente una controversia giudiziale innanzi al Consiglio di Stato.
L’associazione ..., a quanto è dato capire, rappresenta di aver chiesto alla polizia locale del Comune di Bollate di visionare, ed eventualmente estrarre copia, dell’incartamento inerente un ricorso giurisdizionale amministrativo, a suo tempo presentato e di recente rigettato dal Consiglio di Stato, onde verificare se la p.a. abbia commesso alcune illegittimità, anche alla luce dei motivi di rigetto del predetto ricorso (che farebbe riferimento ad un procedimento penale archiviato), e poter decidere eventuali contromisure.
A fronte del diniego di accesso agli atti da parte della polizia locale, ritenuto più economico rispetto all’accesso ottenibile dal Consiglio di Stato, l’istante chiede di valutare la legittimità o meno della mancata visione ostensione degli atti richiesto.
Al riguardo, si osserva che secondo l’orientamento consolidato della Commissione, il diritto di accesso (in termini di visione ed estrazione di copia) agli atti degli enti locali del cittadino residente ex art. 10 d.lgs. n. 267/2000 non è condizionato (diversamente a quanto l’art. 22, comma 1, lett. b, legge n. 241/1990 prescrive per l’accesso ai documenti di amministrazioni centrali dello Stato) alla titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione giuridica differenziata, atteso che l’esercizio di tale diritto è equiparabile all’attivazione di un’azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all’attività amministrativa dell’ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell’azione amministrativa.
Con riguardo al caso di specie, sebbene l’istante non abbia dedotto quali siano i motivi del diniego di accesso opposti dalla p.a., è indubbio che anche l’associazione, con sede nello stesso comune destinatario dell’istanza di accesso, possa avvalersi del diritto sancito dell’art 10, co. 2, D.lgs. n 267/2000, qualificandosi come “cittadino residente”, con la conseguenza che sotto tale profilo il diniego di accesso appare illegittimo
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, risposta del Plenum in seduta del 10.05.2011 - link a www.commissioneaccesso.it).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: Congedo matrimoniale: la decorrenza non deve necessariamente coincidere con il giorno delle nozze, ma può essere differita.
Investita della questione inerente a quale sia, ai sensi del R.D.L. 1334/1937, la decorrenza del congedo matrimoniale ivi previsto, la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con sentenza 06.06.2012 n. 9150, ha rilevato come questa non debba necessariamente iniziare dal giorno del matrimonio. In mancanza, infatti, di una specifica disciplina contrattuale collettiva sul punto, l’articolo unico del regio decreto indicato si limita a prevedere esclusivamente il diritto degli impiegati privati ad un congedo straordinario per contrarre matrimonio non eccedente la durata di 15 giorni.
Benché la norma stabilisca che il congedo spetti per contrarre matrimonio, non ritiene la Corte, in assenza di specifica disciplina collettiva ed essendo essa diretta a tutelare le personali esigenze del lavoratore in occasione delle nozze, anche costituzionalmente tutelate (art. 30, co. 1, Cost.) che tale periodo debba decorrere in ogni caso a partire dal giorno del matrimonio. Quest’ultimo deve piuttosto essere inteso come la causa che fa sorgere il diritto del lavoratore, non come il dies a quo dello stesso.
In materia soccorrono i principi di correttezza e di buona fede nell’adempimento delle obbligazioni (art. 1175 c.c.) nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.), sicché, contemperando le esigenze personali del lavoratore in occasione del matrimonio e quelle organizzative dell’impresa, i giudici di legittimità ritengono che il periodo di fruizione del congedo debba essere sicuramente giustificato dall’evento matrimonio e che tale inevitabile collegamento, da un lato, non impone che il giorno del matrimonio debba essere necessariamente ricompreso nei 15 giorni di congedo ma, dall’altro, non può neanche comportare che la relativa fruizione sia del tutto svincolata dall’evento giustificativo.
Tanto premesso, conclude la Corte che il congedo per matrimonio, che il lavoratore deve richiedere con sufficiente anticipo, spetta, in difetto di specifica disciplina contrattuale collettiva, laddove il periodo richiesto sia ragionevolmente connesso, in senso temporale, con la data delle nozze per mantenere il necessario rapporto causale con l’evento. Nel caso sottoposto all’attenzione degli Ermellini, il datore di lavoro è stato avvertito con congruo anticipo dell’evento matrimonio e il congedo è stato richiesto, sempre con adeguato anticipo, per un periodo ragionevolmente connesso (circa dieci giorni) alle nozze, sicché il rifiuto di accordarlo, in assenza di comprovate ragioni organizzative o produttive ostative, risulta illegittimo (commento tratto da www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il proprietario di immobile confinante con quello oggetto di permesso di costruire non può essere qualificato come soggetto direttamente interessato al provvedimento, con la conseguenza che non sussiste alcuna lesione delle sue facoltà procedimentali -comunque salvaguardate dalla possibilità di intervento volontario nel procedimento di rilascio del titolo ai sensi dell’art. 9 della legge n. 241/1990- poiché non vi è alcun obbligo per l’amministrazione di comunicazione dell’avvio del procedimento preordinato al rilascio del permesso di costruire.
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Secondo piani principi, il procedimento amministrativo è regolato dal principio tempus regit actum, con la conseguenza che la legittimità dell’atto va valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato, essendo il rapporto cui l’atto inerisce sensibile ai mutamenti della normativa di riferimento fino a quando non sia irretrattabilmente definito.
Ciò è avvenuto, nella specie, solo mediante il rilascio del permesso di costruire su istanza dell’interessato, non avendo quest’ultima alcun effetto definitorio del rapporto.

Si condivide, invero, a riguardo il rilievo del primo giudice, secondo cui l’inedificabilità, per l’appellante, di una fascia di 5 metri di distanza dal confine discende direttamente dall’applicazione del punto 3 dell’art. 14 delle N.T.A. del piano di fabbricazione del Comune di Muro Leccese, secondo cui, salva l’ipotesi di costruzione in aderenza con altro edificio, il proprietario del fondo deve edificare rispettando la distanza dai confini di proprietà non inferiore a mt. 5,00.
Dovendosi, pertanto, ricollegare a tale disposizione -e non alla realizzazione dell’impianto ed al rispetto delle relative distanze di 10 metri tra edifici- il sacrificio dello ius aedificandi lamentato dall’appellante, non può essere riconosciuto nei suoi riguardi alcun effetto diretto ricollegabile al provvedimento di rilascio del permesso di costruire ed alle relative distanze da osservare, da cui derivi l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento.
In quanto proprietario di immobile confinante con quello oggetto di permesso di costruire, egli non può essere qualificato come soggetto direttamente interessato al provvedimento, con la conseguenza che non sussiste alcuna lesione delle sue facoltà procedimentali -comunque salvaguardate dalla possibilità di intervento volontario nel procedimento di rilascio del titolo ai sensi dell’art. 9 della legge n. 241/1990- poiché non vi è alcun obbligo per l’amministrazione di comunicazione dell’avvio del procedimento preordinato al rilascio del permesso di costruire (Cons. St. Sez. IV, 27.10.2011, n. 5789; 06.07.2009, n. 4300).
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Parimenti infondato è il terzo motivo, con cui si lamenta l’applicazione da parte dell’amministrazione della disciplina vigente al momento del rilascio del permesso di costruire anziché a quello della presentazione dell’istanza.
Secondo piani principi, il procedimento amministrativo è regolato dal principio tempus regit actum, con la conseguenza che la legittimità dell’atto va valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato (Cons. St. Sez. VI, 12.10.2011, n. 5515; 12.01.2011, n. 112), essendo il rapporto cui l’atto inerisce sensibile ai mutamenti della normativa di riferimento fino a quando non sia irretrattabilmente definito.
Ciò è avvenuto, nella specie, solo mediante il rilascio del permesso di costruire su istanza dell’interessato, non avendo quest’ultima alcun effetto definitorio del rapporto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.06.2012 n. 3343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’inserimento della strada nel contesto della rete viaria comunale, in quanto idonea a soddisfare le esigenze di carattere generale della comunità territoriale mediante l’uso pubblico, non ne fa venire meno la natura di strada “vicinale”, cui occorre fare riferimento ai fini della distanza da applicare ai sensi dell’art. 26, che non contiene alcuna distinzione tra uso pubblico o privato delle strade vicinali.
Infondato è anche l’ulteriore mezzo, con cui l’appellante censura la sentenza di primo grado per avere erroneamente giudicato non violato l’obbligo di distanza di 20 metri dalle strade locali comunali, sancito dall’art. 26, c. 2, D.P.R. 495/1992, rilevandosi una distanza inferiore tra l’impianto e la strada “Carruttata”.
Va, preliminarmente, osservato che ai sensi dell’art. 26, comma 2, del Regolamento di cui al D.P.R. n. 495 del 1992, la distanza delle costruzioni dalla sede stradale è di 20 metri per le strade di tipo F (ossia di interesse locale) diverse dalle strade vicinali, e di 10 metri per le strade vicinali.
Nella specie, la c.d. strada Carruttata risulta dalla certificazione comunale del 20.09.2010 e dalla pianta allegata come strada comunale esterna denominata “strada vicinale Carottata”.
L’inserimento della strada nel contesto della rete viaria comunale, in quanto idonea a soddisfare le esigenze di carattere generale della comunità territoriale mediante l’uso pubblico, non ne fa venire meno la natura di strada “vicinale” (cfr. Cons. Stato Sez. V, 23-05-2005, n. 2584), cui occorre fare riferimento ai fini della distanza da applicare ai sensi dell’art. 26, che non contiene alcuna distinzione tra uso pubblico o privato delle strade vicinali.
La sentenza di primo grado fa, quindi, corretta applicazione della disciplina in materia di distanze dalle strade vicinali, che è di 10 metri e nella specie risulta rispettata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.06.2012 n. 3343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il Collegio ritiene di aderire alla tesi che limita l’applicabilità del citato art. 38/C), sull’obbligo di esclusione nell’ipotesi di omessa dichiarazione, ai soli amministratori della spa e non anche ai procuratori speciali o “ad negotia”, i quali “non sono amministratori, e ciò a prescindere dall’esame dei poteri loro assegnati”, dovendosi “ancorare l’applicazione della norma su basi di oggettivo rigore formale”, occorrendo avere riguardo alla posizione formale del singolo nell’organizzazione societaria piuttosto che a malcerte indagini “sostanzialistiche”, e ciò anche per non scalfire garanzie di certezza del diritto sotto il profilo della possibilità di partecipare a pubblici appalti (sez. V, n. 513/2011 cit., in cui si ribadisce che “una norma che limiti la partecipazione alle gare e la libertà di iniziativa economica delle imprese… assume carattere eccezionale ed è, quindi, insuscettibile di applicazione analogica a situazioni diverse, quale è quella dei procuratori”).
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In tema di verifica della congruità della offerta si è affermato che:
- nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara il Giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute dall'Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, ma non può verificare in via autonoma la congruità della offerta presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio, non erroneo né illogico, formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, il Giudice violerebbe il fondamentale principio della separazione dei poteri;
- il giudizio di verifica della congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura globale e sintetica, vertendo sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme. L'attendibilità della offerta va cioè valutata nel complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dalla incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme, ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro rilevanza ed incidenza complessiva, potrebbero rendere l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell'Amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità;
- sul piano strettamente motivazionale è ormai sedimentata l’elaborazione giurisprudenziale in base alla quale il giudizio di anomalia richiede una motivazione rigorosa e analitica ove si concluda in senso sfavorevole all'offerente, mentre non si richiede, di contro, una motivazione analitica nell'ipotesi di esito positivo della verifica. In quest’ultimo caso è sufficiente una motivazione “per relationem” riferita alle giustificazioni presentate dal concorrente (sempre che a loro volta adeguate). Di conseguenza, in questa seconda evenienza grava su colui il quale contesti l'aggiudicazione l'onere di individuare gli specifici elementi da cui il Giudice amministrativo possa evincere che la valutazione tecnico -discrezionale della Stazione appaltante sia stata manifestamente irragionevole, ovvero basata su fatti erronei o travisati.

L’interpretazione dell’art. 38 del codice dei contratti pubblici, nella parte in cui prevede l’esclusione dalla procedura qualora i fatti indicati dalla lettera c) della disposizione riguardino, nel caso delle s.p.a., quale è quello della società Gesteco, “gli amministratori muniti di potere di rappresentanza”, o il direttore tecnico, ha formato oggetto di diversi orientamenti giurisprudenziali (per un riepilogo delle diversificate posizioni di questo Consiglio si rinvia a Cons. St., sez. V, n. 513 del 2011).
Il Collegio, nel condividere le più recenti decisioni di questa Sezione sulla questione (v. Cons. St. , sez. V, nn. 1186 del 2012 e 513 del 2011; si vedano anche –sempre della sez. V- le sentenze nn. 6136, 3069 e 1782 del 2011, cui si rinvia anche ai sensi degli articoli 60, 74 e 88, comma 2, lett. d) del c.p.a.), ritiene di aderire alla tesi che limita l’applicabilità del citato art. 38/C), sull’obbligo di esclusione nell’ipotesi di omessa dichiarazione, ai soli amministratori della spa e non anche ai procuratori speciali o “ad negotia”, i quali “non sono amministratori, e ciò a prescindere dall’esame dei poteri loro assegnati” (così CdS, V, n. 513/11 cit.), dovendosi “ancorare l’applicazione della norma su basi di oggettivo rigore formale” (Cons. St., V, n. 3069/2011), occorrendo avere riguardo alla posizione formale del singolo nell’organizzazione societaria piuttosto che a malcerte indagini “sostanzialistiche”, e ciò anche per non scalfire garanzie di certezza del diritto sotto il profilo della possibilità di partecipare a pubblici appalti (sez. V, n. 513/2011 cit., in cui si ribadisce che “una norma che limiti la partecipazione alle gare e la libertà di iniziativa economica delle imprese… assume carattere eccezionale ed è, quindi, insuscettibile di applicazione analogica a situazioni diverse, quale è quella dei procuratori”).
Nel caso di specie l’onere, per le procuratrici speciali, di rendere la dichiarazione ex art. 38/C) non emergeva in alcun modo nemmeno dalla formulazione della “lex specialis”, le disposizioni della quale andavano interpretate avendo riguardo al senso proprio delle espressioni usate, senza estensioni o sviluppi interpretativi del loro oggettivo contenuto.
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In tema di verifica della congruità della offerta, la Sezione (v. , di recente, la sent. n. 1183/2012 e, ivi, numerosi riferimenti giurisprudenziali ulteriori) ha affermato che:
- nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara il Giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute dall'Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, ma non può verificare in via autonoma la congruità della offerta presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio, non erroneo né illogico, formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, il Giudice violerebbe il fondamentale principio della separazione dei poteri;
- il giudizio di verifica della congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura globale e sintetica, vertendo sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme. L'attendibilità della offerta va cioè valutata nel complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dalla incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme, ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro rilevanza ed incidenza complessiva, potrebbero rendere l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell'Amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità;
- sul piano strettamente motivazionale è ormai sedimentata l’elaborazione giurisprudenziale in base alla quale il giudizio di anomalia richiede una motivazione rigorosa e analitica ove si concluda in senso sfavorevole all'offerente, mentre non si richiede, di contro, una motivazione analitica nell'ipotesi di esito positivo della verifica. In quest’ultimo caso è sufficiente una motivazione “per relationem” riferita alle giustificazioni presentate dal concorrente (sempre che a loro volta adeguate).
Di conseguenza, in questa seconda evenienza grava su colui il quale contesti l'aggiudicazione l'onere di individuare gli specifici elementi da cui il Giudice amministrativo possa evincere che la valutazione tecnico -discrezionale della Stazione appaltante sia stata manifestamente irragionevole, ovvero basata su fatti erronei o travisati
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.06.2012 n. 3340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La commissione di gara, per individuare l'offerta economicamente più vantaggiosa, gode di un'ampia discrezionalità nella suddivisione del punteggio da attribuire agli elementi costituenti l'offerta tecnica, secondo i criteri predefiniti nella “lex specialis” di gara.
Tale discrezionalità, di natura tecnico-amministrativa, non può essere oggetto di sindacato giurisdizionale se non in presenza di evidenti irrazionalità e incongruenze, non potendosi ritenere tali l'elaborazione, da parte della commissione, di modalità di graduazione del punteggio.
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Le clausole di esclusione poste dalla legge o dal bando in ordine alle dichiarazioni cui é tenuta l’impresa partecipante alla gara sono di stretta interpretazione, dovendosi dare esclusiva prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, e restando preclusa ogni forma di estensione analogica diretta ad evidenziare significati impliciti, che rischierebbe di vulnerare l’affidamento dei partecipanti, la “par condicio” dei concorrenti e l’esigenza della più ampia partecipazione.
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Qualora la partecipazione a una pubblica gara avvenga in RTI, solo i requisiti generali di partecipazione, in quanto relativi alla regolarità della gestione delle singole imprese sotto gli aspetti dell’ordine pubblico e della moralità devono essere posseduti da tutte le imprese raggruppate, data la preminenza dell’interesse pubblico alla moralità e all’affidabilità del soggetto chiamato a eseguire l’appalto; diversamente, i requisiti di natura economico –finanziaria sono ritenuti pacificamente cumulabili nella ipotesi di partecipazione riunita, con la conseguenza che i requisiti vanno riferiti al raggruppamento quale unico soggetto che si avvale delle sue articolazioni organizzative.
Detto altrimenti, una diversa interpretazione, conforme alla tesi dell’appellante, sarebbe contraria alla “ratio” delle ATI e degli RTI, che tendono ad estendere la partecipazione alle gare anche ad imprese che, singolarmente, non sarebbero in grado di sostenere l’onere dell’ appalto, con conseguente ampliamento della dinamica concorrenziale.
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Nelle procedure a evidenza pubblica per la scelta del contraente la cauzione provvisoria versata dai partecipanti svolge una duplice funzione di garanzia per l'amministrazione appaltante, sia per il caso in cui l'affidatario non si presti a stipulare il relativo contratto, sia per la veridicità delle dichiarazioni fornite dalle imprese in sede di partecipazione alla gara in ordine al possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa prescritti dal bando o dalla lettera di invito, così da garantire l'affidabilità della offerta, il cui primo indice é rappresentato proprio dalla correttezza e serietà del comportamento del concorrente in relazione agli obblighi derivanti dalla disciplina della gara.
La cauzione provvisoria rappresenta, salvo prova di maggior danno, una liquidazione anticipata dei danni derivanti all’Amministrazione dall’inadempimento di tale obbligo di serietà da parte del concorrente.
Con il versamento della cauzione provvisoria in contanti è stata pienamente soddisfatta la funzione di garanzia perseguita dall’Amministrazione appaltante; è stata assolta l’esigenza di garantire l‘affidabilità dell’offerta, e la necessita di una liquidazione anticipata dei danni derivanti all’Amministrazione dall’inadempimento di tale obbligo di serietà da parte del concorrente, e questo a prescindere dal fatto che il suddetto versamento sia stato eseguito a nome di una associazione facente parte dell’ATI, dall’ATI nel suo complesso o da tutte le associazioni che compongono l’ATI.

In termini generali va osservato che la commissione di gara, per individuare l'offerta economicamente più vantaggiosa, gode di un'ampia discrezionalità nella suddivisione del punteggio da attribuire agli elementi costituenti l' offerta tecnica, secondo i criteri predefiniti nella “lex specialis” di gara.
Tale discrezionalità, di natura tecnico-amministrativa, non può essere oggetto di sindacato giurisdizionale se non in presenza di evidenti irrazionalità e incongruenze, non potendosi ritenere tali l'elaborazione, da parte della commissione, di modalità di graduazione del punteggio.
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Il bando, a pag. 4, prevedeva che occorresse depositare, “a dimostrazione della solidità finanziaria ed economica”, una “referenza bancaria”.
La referenza è stata presentata solo da Adriatika Nuoto, anziché da Adriatika e da Fiorentina Nuoto.
Il TAR ha ritenuto non invocabile l’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 dato che la gara riguarda l’affidamento di una concessione. In base all'articolo 30, comma settimo, del medesimo decreto legislativo –ha proseguito il TAR-, la procedura non è in sé soggetta al codice dei contratti pubblici, di cui sono applicabili solo le disposizioni della parte IV ("Contenzioso") e l'articolo 143, comma settimo (che riguarda le caratteristiche sotto il profilo economico-finanziario dell'offerta e del contratto), in quanto compatibile. Per il resto l'articolo 30, comma terzo, impone solamente: "La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi".
L’appellante osserva che, trattandosi di referenza bancaria, la referenza stessa doveva essere prodotta da entrambe le partecipanti. E poiché nell’ATI orizzontale ogni impresa riunita è responsabile, nei confronti della stazione appaltante, della esecuzione della intera opera o del servizio, ne discende che ambedue le componenti dell’RTI aggiudicatario avevano l’obbligo di presentare autonoma referenza bancaria. Non avendolo fatto, l’RTI Adriatika Nuoto -Fiorentina Nuoto andava escluso. Il TAR avrebbe errato nel ritenere inapplicabile, alla procedura “de qua”, la disciplina di cui al codice dei contratti pubblici, trattandosi di concessione ex art. 30 del decreto n. 163/2006. L’appellante rileva che la stazione appaltante ha inteso autovincolarsi alla normativa in tema di pubblici appalti, con conseguente diretta applicazione del codice dei contratti pubblici. Si noti infine che a pag. 4 del bando, nel caso di associazione non ancora costituita, era previsto quanto segue: “…assume l’impegno, in caso di aggiudicazione, a uniformarsi alla disciplina vigente in tema di contratti pubblici con riguardo alle associazioni temporanee…”.
Il Collegio ritiene che, indipendentemente dalla soluzione da dare alla questione che riguarda l’applicabilità, alla fattispecie, dell’art. 30, comma 7, del d.lgs. n. 163/2006, o del codice degli appalti pubblici nel suo complesso, il motivo dedotto sia infondato e vada respinto.
Anche muovendo dall’assunto, dal quale prendono le mosse tutte le parti in causa, dell’applicabilità del codice, resta che il bando di gara, a pag. 4, nell’elencare i documenti da presentare e da inserire nella busta A, prevedeva anche la “referenza bancaria, a dimostrazione della solidità finanziaria ed economica”, senza specificare nulla per il caso in cui il richiedente fosse una ATI non ancora costituita. Ora, in assenza di una espressa disposizione nel disciplinare di gara, come è accaduto nel caso di specie, la presentazione da parte del solo mandatario delle referenze bancarie assolve la dimostrazione del requisito, tenuto conto che il raggruppamento si qualifica dimostrando cumulativamente il possesso dei requisiti richiesti per il singolo partecipante.
Di contro il bando, nel disciplinare i requisiti di partecipazione, specificava le integrazioni documentali occorrenti nel caso in cui la domanda di partecipazione fosse presentata da un RTI non ancora costituito, come nell’ipotesi di cui a pag. 4, punto 2), lett. s) e t).
In generale, per la giurisprudenza, in materia di procedure ad evidenza pubblica, le clausole di esclusione poste dalla legge o dal bando in ordine alle dichiarazioni cui é tenuta l’impresa partecipante alla gara sono di stretta interpretazione, dovendosi dare esclusiva prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, e restando preclusa ogni forma di estensione analogica diretta ad evidenziare significati impliciti, che rischierebbe di vulnerare l’affidamento dei partecipanti, la “par condicio” dei concorrenti e l’esigenza della più ampia partecipazione (Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 3213 del 2010).
In questa prospettiva, sussistendo elementi di incertezza nella formulazione del bando, il criterio interpretativo adottato dalla commissione non poteva che essere coerente con il principio diretto a favorire la massima partecipazione delle imprese alle procedure di gara (giurisprudenza univoca sul punto).
Peraltro, qualora la partecipazione a una pubblica gara avvenga in RTI, solo i requisiti generali di partecipazione, in quanto relativi alla regolarità della gestione delle singole imprese sotto gli aspetti dell’ordine pubblico e della moralità devono essere posseduti da tutte le imprese raggruppate, data la preminenza dell’interesse pubblico alla moralità e all’affidabilità del soggetto chiamato a eseguire l’appalto; diversamente, i requisiti di natura economico –finanziaria sono ritenuti pacificamente cumulabili nella ipotesi di partecipazione riunita, con la conseguenza che i requisiti vanno riferiti al raggruppamento quale unico soggetto che si avvale delle sue articolazioni organizzative. Detto altrimenti, una diversa interpretazione, conforme alla tesi dell’appellante, sarebbe (stata) contraria alla “ratio” delle ATI e degli RTI, che tendono ad estendere la partecipazione alle gare anche ad imprese che, singolarmente, non sarebbero in grado di sostenere l’onere dell’ appalto, con conseguente ampliamento della dinamica concorrenziale.
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Nelle procedure a evidenza pubblica per la scelta del contraente la cauzione provvisoria versata dai partecipanti svolge una duplice funzione di garanzia per l'amministrazione appaltante, sia per il caso in cui l'affidatario non si presti a stipulare il relativo contratto, sia per la veridicità delle dichiarazioni fornite dalle imprese in sede di partecipazione alla gara in ordine al possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa prescritti dal bando o dalla lettera di invito, così da garantire l'affidabilità della offerta, il cui primo indice é rappresentato proprio dalla correttezza e serietà del comportamento del concorrente in relazione agli obblighi derivanti dalla disciplina della gara (Cons. St., V, n. 3746/2009 e sez. IV n. 4789/2004).
La cauzione provvisoria rappresenta, salvo prova di maggior danno, una liquidazione anticipata dei danni derivanti all’Amministrazione dall’inadempimento di tale obbligo di serietà da parte del concorrente.
Con il versamento della cauzione provvisoria in contanti è stata pienamente soddisfatta la funzione di garanzia perseguita dall’Amministrazione appaltante; è stata assolta l’esigenza di garantire l‘affidabilità dell’offerta, e la necessita di una liquidazione anticipata dei danni derivanti all’Amministrazione dall’inadempimento di tale obbligo di serietà da parte del concorrente, e questo a prescindere dal fatto che il suddetto versamento sia stato eseguito a nome di una associazione facente parte dell’ATI, dall’ATI nel suo complesso o da tutte le associazioni che compongono l’ATI.
In modo condivisibile il TAR ha affermato che la prescrizione del bando sulla cointestazione della polizza fideiussoria a mandante e mandataria è estranea alla fattispecie in esame, nella quale la cauzione provvisoria è stata costituita mediante versamento in contanti, come espressamente consentito dal bando
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.06.2012 n. 3339 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della razionalità dell’azione amministrativa e del rispetto del principio costituzionale di buon andamento, l’Amministrazione comunale deve esaminare contestualmente l’eventuale pluralità di istanze di sanatoria prodotte in riferimento a un medesimo complesso edilizio, e ciò al fine precipuo di contrastare –ove ne ricorra il caso- artificiose frammentazioni che, in luogo di una corretta qualificazione unitaria dell’abuso e di una conseguente identificazione unitaria del titolo edilizio che sarebbe stato necessario o che può ora essere rilasciato, prospettino una scomposizione virtuale dell’intervento finalizzata all’elusione dei presupposti e dei limiti di ammissibilità della sanatoria stessa.
La valutazione dell’abuso edilizio presuppone dunque una visione complessiva e non atomistica dell’intervento giacché il pregiudizio recato al regolare assetto del territorio deriva non dal singolo intervento ma dall’insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio.

Con il secondo motivo l’appellante lamenta l’illegittimità del diniego di sanatoria nella parte in cui rileva che l’omessa ottemperanza a un precedente ordine di demolizione, relativo ad una parte di fabbricato non oggetto della ’istanza di accertamento di conformità, impedisce la sanatoria. Essa aggiunge di aver presentato nel 2004 al Comune due distinte istanze di condono edilizio, per due autonomi interventi eseguiti in tempi diversi: una riferita al fabbricato oggetto di demolizione e ricostruzione, un’altra ad un ampliamento costituente un appendice, indipendente funzionalmente e strutturalmente, dal predetto fabbricato.
Il rilievo è infondato.
Dagli atti del processo risulta che i due interventi (ricostruzione dell’annesso agricolo e chiusura della tettoia) siano stati contestuali (cfr. ordinanza di ingiunzione a demolire del 10.06.2009, prot. n. 14712) risultando entrambi ultimati il 30.01.2003 (cfr. relazione dell’Ufficio abusivismo edilizio e paesaggistico dell’11.05.2011). Ciò comporta che i due interventi -come correttamente rilevato dall’Amministrazione comunale– non possono qui essere artificiosamente frammentati, per il solo fatto della presentazione di due istanze messa in opera dalla ricorrente, ma vanno ricondotti in realtà ad un unico ed unitario intervento, che è quello che ha nei fatti, dunque nella realtà materiale, portato alla creazione di un organismo edilizio che è diverso per forma e dimensioni da quello preesistente.
Invero, ai fini della razionalità dell’azione amministrativa e del rispetto del principio costituzionale di buon andamento, l’Amministrazione comunale deve esaminare contestualmente l’eventuale pluralità di istanze di sanatoria prodotte in riferimento a un medesimo complesso edilizio, e ciò al fine precipuo di contrastare –ove ne ricorra il caso- artificiose frammentazioni che, in luogo di una corretta qualificazione unitaria dell’abuso e di una conseguente identificazione unitaria del titolo edilizio che sarebbe stato necessario o che può ora essere rilasciato, prospettino una scomposizione virtuale dell’intervento finalizzata all’elusione dei presupposti e dei limiti di ammissibilità della sanatoria stessa.
La valutazione dell’abuso edilizio presuppone dunque una visione complessiva e non atomistica dell’intervento giacché il pregiudizio recato al regolare assetto del territorio deriva non dal singolo intervento ma dall’insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio.
Così ha, doverosamente e correttamente, operato il Comune di Piombino (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.06.2012 n. 3330 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIVa annullata la procedura di gara poiché l’apertura della busta contenente la documentazione tecnica ed economica è avvenuta in forma riservata, così che risulta irrimediabilmente pregiudicata l’intera e successiva attività procedimentamentale, atteso che la puntuale osservanza degli obblighi di trasparenza e par condicio tra i soggetti di gara impongono un metodo di selezione immune da qualsivoglia sospetto di parzialità, così che ogni singolo atto del procedimento, anche di natura materiale, costituisce un momento essenziale della procedura competitiva e deve essere informato, sia sotto il profilo formale, che sostanziale agli indicati principi assolutamente inderogabili, se non pregiudicando la natura stessa e la funzione della competizione.
Considerato che la censura avanzata dalla parte ricorrente è fondata, risultando, dagli atti di causa, che l’apertura della busta contenente la documentazione tecnica ed economica è avvenuta in forma riservata, così che risulta irrimediabilmente pregiudicata l’intera e successiva attività procedimentamentale, atteso che la puntuale osservanza degli obblighi di trasparenza e par condicio tra i soggetti di gara impongono un metodo di selezione immune da qualsivoglia sospetto di parzialità, così che ogni singolo atto del procedimento, anche di natura materiale, costituisce un momento essenziale della procedura competitiva e deve essere informato, sia sotto il profilo formale, che sostanziale agli indicati principi assolutamente inderogabili, se non pregiudicando la natura stessa e la funzione della competizione (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 06.06.2012 n. 780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Se appare ragionevole ipotizzare che in tema di prestazioni di opere dell’ingegno, con specifico riguardo alle attività del progettista, il rapporto tra costi e ricavi possa essere diverso rispetto a quanto avviene per gli appalti di lavori pubblici, giacché nei lavori pubblici incidono in modo sensibile i costi delle materie prime, del cantiere, per la manodopera e per l’acquisto o il noleggio di macchinari, mentre l’attività di progettazione, come avviene per ogni prestazione d’opera intellettuale, è affidata in via prevalente al lavoro intellettuale del progettista, non va però sottaciuto che la giurisprudenza, nel determinare il risarcimento del danno da lucro cessante in materia di lavori pubblici (ma anche di attività di progettazione) applica, di regola, il cosiddetto “criterio del decimo” limitando il risarcimento per equivalente alla misura massima del 10% del prezzo offerto.
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Vanno impiegati criteri equitativi per quantificare il cosiddetto danno curriculare richiesto dagli appellanti.
Ci si riferisce al ristoro del pregiudizio economico connesso alla impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico collegato alla esecuzione della attività di progettazione. L’impiego di criteri equitativi induce a riconoscere questa voce di danno nella misura del 10 % dell’utile economico (detto altrimenti, nel 2% del prezzo offerto). Poiché il danno curriculare si concretizza nel nocumento alla immagine sociale della impresa, o del professionista, con riferimento all’aspetto del radicamento nel territorio, risulta evidente la contiguità con quello che in perizia viene qualificato come “danno per il mancato ritorno di immagine”.

... per la riforma della sentenza del TAR PIEMONTE-TORINO -SEZIONE I, n. 303/2008, resa tra le parti, concernente risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo affidamento dell'incarico di progettazione del restauro e adeguamento funzionale delle Officine Grandi Riparazioni a sede espositiva, museale ed Urban Center Torino in favore del R.T. SO.TEC. srl;
...
Quanto all’utile economico che sarebbe derivato agli appellanti dalla esecuzione della attività di progettazione, la “perizia di stima del danno” arch. Filippi, depositata in giudizio il 28.12.2011, richiama, a pagina 2, le statistiche elaborate dalla Agenzia delle Entrate in base ai dati degli studi di settore relativi alle società e ai professionisti operanti nel campo delle prestazioni professionali di ingegneri e architetti. Dai dati messi a disposizione dall’Agenzia si rileva che nel settore interessato, su scala nazionale, l’utile sarebbe rappresentato da una percentuale variabile tra il 40% e il 60% dei ricavi. Il mancato utile netto dei ricorrenti/appellanti viene stimato, in via cautelativa, nella percentuale minima “pari al 40% dell’importo corrisposto ai progettisti”.
Il Collegio ritiene eccessiva la quantificazione del mancato utile indicata in perizia.
In primo luogo è verosimile che, sul piano statistico, i dati forniti dall’Agenzia delle Entrate con riferimento alle prestazioni professionali di ingegneri e architetti –dati che, considerando numerose variabili idonee a influenzare il risultato economico del professionista, valgono come mere ipotesi probabilistiche- riguardino, in misura predominante, contrattazioni tra privati, contrattazioni che non soggiacciono alle regole proprie delle procedure pubbliche e che possono quindi consentire margini di guadagno superiori rispetto a queste ultime.
In secondo luogo, se appare ragionevole ipotizzare che in tema di prestazioni di opere dell’ingegno, con specifico riguardo alle attività del progettista, il rapporto tra costi e ricavi possa essere diverso rispetto a quanto avviene per gli appalti di lavori pubblici, giacché nei lavori pubblici incidono in modo sensibile i costi delle materie prime, del cantiere, per la manodopera e per l’acquisto o il noleggio di macchinari, mentre l’attività di progettazione, come avviene per ogni prestazione d’opera intellettuale, è affidata in via prevalente al lavoro intellettuale del progettista, non va però sottaciuto che la giurisprudenza, nel determinare il risarcimento del danno da lucro cessante in materia di lavori pubblici (ma anche di attività di progettazione: v. Cons. St., VI, nn. 115/2012 e 1774/2003) applica, di regola, il cosiddetto “criterio del decimo” limitando il risarcimento per equivalente alla misura massima del 10% del prezzo offerto.
In questo contesto, il Collegio stima equo determinare il mancato utile nella misura della metà di quanto specificato nella perizia di parte, vale a dire nella misura del 20% del prezzo indicato nella offerta economica del RTP PCA.
Poiché nella perizia il mancato guadagno è ragguagliato non solo all’incarico di progettazione dell’intervento e al coordinamento della sicurezza, ma anche a “integrazioni di onorari” per attività ulteriori, deliberate a partire dal 18.12.2003 e che esulano dall’oggetto specifico della procedura, occorre precisare che la determinazione del mancato guadagno dovrà essere parametrata in via esclusiva alla offerta economica presentata dal RTP PCA nella procedura che si è conclusa nella seduta del 18.10.2002.
Occorre inoltre puntualizzare –v. “supra”, p. 3.2., “in finem”, e 4.1.- che nel quantificare le somme da versare agli appellanti si terrà conto del fatto che il giudizio è stato proposto solo da tre dei cinque partecipanti alla procedura, non avendo proposto ricorso gli offerenti RPA e MEDIF. Stando alla perizia, sul punto non contestata dalla difesa comunale (v. pag. 8), gli appellanti vantavano nel complesso una percentuale del 65% sull’importo dei compensi, data dalla somma delle rispettive percentuali parziali. La quantificazione del danno dovrà pertanto essere proporzionalmente ridotta sulla base del riparto “pro quota” indicato nella perizia.
Vanno impiegati criteri equitativi per quantificare il cosiddetto danno curriculare richiesto dagli appellanti (v. pag. 20 ric. app.) .
Ci si riferisce al ristoro del pregiudizio economico connesso alla impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico collegato alla esecuzione della attività di progettazione. L’impiego di criteri equitativi induce a riconoscere questa voce di danno nella misura del 10 % dell’utile economico (detto altrimenti, nel 2% del prezzo offerto). Poiché il danno curriculare si concretizza nel nocumento alla immagine sociale della impresa, o del professionista, con riferimento all’aspetto del radicamento nel territorio (cfr., sul punto, Cons. St., VI, n. 2751/2008), risulta evidente la contiguità con quello che in perizia viene qualificato come “danno per il mancato ritorno di immagine”.
Non sono invece liquidabili le spese e i costi sostenuti dal RTP PCA per la preparazione dell’offerta e più in generale della documentazione di gara (v. pag. 4 perizia). La partecipazione alla gara implica infatti oneri che, almeno di regola, restano a carico del soggetto che abbia inteso prendere parte a una procedura di selezione, e ciò sia nel caso di aggiudicazione, sia nella ipotesi di mancata aggiudicazione: le spese di partecipazione alla gara sono il “prezzo dell’acquisto di una opportunità di guadagno” (così Cons. St., V, 541/2012 e 808/2010, p. 17.3.; v. anche IV, n. 6485 del 2010, § 44, cui si rinvia ai sensi degli articoli 60, 74 e 88, comma 2, lett. d), del cod. proc. amm.).
Non è riconoscibile nemmeno il pregiudizio economico sofferto per la gestione della gara, incluso quello connesso alla assistenza e alla consulenza legale e alle spese di difesa giudiziale, con riguardo al giudizio impugnatorio terminato con la sentenza Cons. St., V, n. 1805/2005. In sede di liquidazione del risarcimento del danno per mancata aggiudicazione non è, infatti, ravvisabile una responsabilità delle parti per spese legali e per danni processuali atteso che, per quanto riguarda in particolare le spese legali si tratta di danni successivi all’aggiudicazione, come tali non riconoscibili.
In materia di spese processuali trova inoltre applicazione non la disciplina dell’illecito aquiliano dettata dall’art. 2043 cod. civ., ma la disciplina di cui agli articoli 90 e seguenti c. p.c., disposizioni applicabili anche nei giudizi amministrativi (conf. Cons. St., V, 541/2012, 6873/2009 e IV, 3340/2008; v. anche CdS, VI, n. 2751/2008, cui si rinvia ex c. p. a.). Le spese per reperire la documentazione necessaria per “la procedura di ricorso” (v. pag. 5 perizia), in quanto propedeutiche rispetto alle spese propriamente legali, vanno assoggettate al “regolamento” appena stabilito per quest’ultima tipologia di spese.
Va soggiunto che, trattandosi di debito di valore, agli appellanti spetta anche la rivalutazione monetaria dal giorno della stipulazione del contratto da parte della società dichiarata illegittimamente aggiudicataria fino alla pubblicazione della presente sentenza, a decorrere dalla quale, in forza della liquidazione giudiziale, il debito di valore si trasforma in debito di valuta.
Sulla somma totale, calcolata secondo le indicazioni fatte sopra, vanno invece computati gli interessi legali dalla data del deposito della presente sentenza sino all'effettivo soddisfo (giurisprudenza pacifica, il che esime da citazioni particolari) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.06.2012 n. 3314 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini del rilascio della concessione edilizia è necessaria una relazione qualificata a contenuto reale dell'istante con il bene, e cioè la qualità di proprietario, superficiario, affittuario di fondi rustici, usufruttuario dello stesso, anche se in formazione, non essendo sufficiente il solo rapporto obbligatorio, in quanto il diritto a costruire è una proiezione del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento che autorizzi a disporre un intervento costruttivo.
All'usufruttuario è comunque riconosciuta la legittimazione al rilascio del permesso di costruire dal momento che l'art. 11, d.P.R. n. 380 del 2001 individua tra i soggetti legittimati oltre al proprietario anche coloro che «abbiano titolo per richiederlo», sicché non vi è dubbio che tra gli aventi titolo rientri anche l'usufruttuario del bene, che, quale titolare di un diritto reale di godimento, gode di una relazione qualificata con il bene medesimo.
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Nel ricorso proposto avverso il permesso di costruire rilasciato al vicino la vicinitas è condizione necessaria, ma non sufficiente a radicare, ferma la legittimazione, l'interesse al ricorso, il quale richiede anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà dominicali del ricorrente.
La dimostrata titolarità a chiedere ed ottenere la concessione edilizia su un fondo, da parte dell’usufruttuario, importa che lo stesso in via di principio sia legittimato a contestare la legittimità del permesso di costruire rilasciato al vicino, purché sussistano i presupposti della vicinitas e del concreto pregiudizio alle facoltà dominicali, che si è visto essere il proprium della legittimazione ad agire in subiecta materia.
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Per costante quanto condivisibile giurisprudenza della Corte di Cassazione l’usufruttuario al cospetto dei terzi esercita i diritti del pieno possessore (“l'usufruttuario, ancorché possessore rispetto ai terzi, è, nel rapporto con il nudo proprietario, mero detentore del bene, con la conseguenza che egli può usucapirne la proprietà solo ponendo in essere un atto d'interversione del possesso, esteriorizzato in maniera inequivocabile e riconoscibile, vale a dire attraverso un'attività durevole, contrastante e incompatibile con il possesso altrui”) e pertanto i diritti nascenti da detta posizione giuridica non possono essere condizionati dalla sussistenza –o meno– di un rapporto di detenzione con il bene materiale (è appena il caso di rammentare che per tradizione risalente al diritto romano classico il possesso può esercitarsi “solo animo”).

Deve premettersi che la giurisprudenza amministrativa, muovendo dal tenore letterale dell’art. 11 del dPR n. 380/2001, ha costantemente affermato che ”ai fini del rilascio della concessione edilizia è necessaria una relazione qualificata a contenuto reale dell'istante con il bene, e cioè la qualità di proprietario, superficiario, affittuario di fondi rustici, usufruttuario dello stesso, anche se in formazione, non essendo sufficiente il solo rapporto obbligatorio, in quanto il diritto a costruire è una proiezione del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento che autorizzi a disporre un intervento costruttivo” (Consiglio Stato, sez. IV, 08.06.2007, n. 3027); ”all'usufruttuario è comunque riconosciuta la legittimazione al rilascio del permesso di costruire dal momento che l'art. 11, d.P.R. n. 380 del 2001 individua tra i soggetti legittimati oltre al proprietario anche coloro che «abbiano titolo per richiederlo», sicché non vi è dubbio che tra gli aventi titolo rientri anche l'usufruttuario del bene, che, quale titolare di un diritto reale di godimento, gode di una relazione qualificata con il bene medesimo” (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 07.03.2011, n. 1318).
Costituisce altresì principio fondante in materia quello per cui “nel ricorso proposto avverso il permesso di costruire rilasciato al vicino la vicinitas è condizione necessaria, ma non sufficiente a radicare, ferma la legittimazione, l'interesse al ricorso, il quale richiede anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà dominicali del ricorrente” (Consiglio Stato, sez. IV, 24.01.2011, n. 485).
La dimostrata titolarità a chiedere ed ottenere la concessione edilizia su un fondo, da parte dell’usufruttuario, importa che lo stesso in via di principio sia legittimato a contestare la legittimità del permesso di costruire rilasciato al vicino, purché sussistano i presupposti della vicinitas e del concreto pregiudizio alle facoltà dominicali, che si è visto essere il proprium della legittimazione ad agire in subiecta materia.
Posto che nel caso di specie la vicinitas è certamente sussistente, ed il petitum proposto dall’appellante in primo grado era volto a censurare, tra l’altro, anche la violazione del regime delle distanze, appare al Collegio doveroso affermare che in via astratta fosse incontestabile la legittimazione ad agire dell’appellante.
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E’ ben noto al Collegio che la funzionalizzazione del concetto di proprietà (comprensivo dei diritti reali “parziari” o “minori”) ascrivibile non soltanto all’art. 42 della Costituzione induca a ritenere ormai privo di cittadinanza, nel sistema, il brocardo romanistico secondo cui il proprium dello statuto proprietario si ravvisa nel “ius utendi fruendi et abutendi” .
Tuttavia resta incontestabile che le facoltà attribuite dal titolo costitutivo all’usufruttuario di un bene immobile possano essere liberamente esercitabili da questo; che la scelta di non esercitarle sia allo stesso liberamente rimessa; che a cagione di tale omesso esercizio, e sino alla eventuale prescrizione estintiva del diritto (art. 1014, n.1, del codice civile) quest’ultimo si conservi immutato e legittimi il titolare all’esercizio di tutte le azioni a difesa del proprio diritto.
Si rammenta in proposito che, per costante quanto condivisibile giurisprudenza della Corte di Cassazione l’usufruttuario al cospetto dei terzi esercita i diritti del pieno possessore (“l'usufruttuario, ancorché possessore rispetto ai terzi, è, nel rapporto con il nudo proprietario, mero detentore del bene, con la conseguenza che egli può usucapirne la proprietà solo ponendo in essere un atto d'interversione del possesso, esteriorizzato in maniera inequivocabile e riconoscibile, vale a dire attraverso un'attività durevole, contrastante e incompatibile con il possesso altrui” - Cassazione civile, sez. II, 10.01.2011, n. 355) e pertanto i diritti nascenti da detta posizione giuridica non possono essere condizionati dalla sussistenza –o meno– di un rapporto di detenzione con il bene materiale (è appena il caso di rammentare che per tradizione risalente al diritto romano classico il possesso può esercitarsi “solo animo”).
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Tale legittimazione, peraltro, spetta certamente all’usufruttuario (semmai, con riferimento a particolari aspetti, si potrebbe forse dubitare della legitimatio ad causam del nudo proprietario: “la servitù determina un rapporto tra fondi -di cui uno fornisce utilità all'altro-, la legittimazione processuale, attiva e passiva, nei giudizi ove è contestata l'esistenza di detto rapporto, compete a coloro che al momento della domanda sono titolari delle situazioni giuridiche dominicali rispettivamente avvantaggiate e svantaggiate dalla servitù.
Tuttavia, quando il godimento completo del bene, cui si riferisce -in linea di vantaggio o di svantaggio- la contestata situazione di servitù, spetta non al proprietario, ma al titolare del diritto di usufrutto, al quale è assimilabile il concessionario di bene demaniale, a tale soggetto -usufruttuario o concessionario- si estende la legittimazione processuale, attiva e passiva, ai sensi dell'art. 1012, comma 2, c.c., che, legittimando espressamente l'usufruttuario all'azione confessoria per la difesa della servitù costituita a favore del fondo, implica di per sé la legittimazione passiva alla negatoria -costituente l'aspetto negativo della confessoria-, salvo l'onere -in base alla norma citata- di chiamare in causa il proprietario che, quindi, deve partecipare al giudizio come litisconsorte necessario dell'usufruttuario o del concessionario
” Cassazione civile, sez. II, 29.01.1983, n. 819).
E ciò a prescindere dalla circostanza che l’usufruttuario fosse anche detentore del bene.
Sotto altro profilo, appare senz’altro inammissibile, per quanto si è finora chiarito (ma si veda anche: ”ove su di un immobile coesistano il diritto del nudo proprietario e quello dell'usufruttuario, il possesso che acquista rilievo ai fini dell'usucapione è, in primo luogo, configurabile a favore dell'usufruttuario, il quale può esercitarlo anche a vantaggio del nudo proprietario, ampliandone il godimento anche attraverso la costituzione di servitù attive; peraltro, se il nudo proprietario ha, di fatto, la disponibilità del bene, possono assumere rilievo anche gli atti di possesso dal medesimo compiuti, l'esercizio dei quali costituisce onere probatorio della parte che lo invochi” -Cassazione civile, sez. II, 14.10.2010, n. 21231-) che la inerzia del nudo proprietario possa pregiudicare il diritto di difesa dell’usufruttuario (e viceversa): anche le dette eccezioni devono pertanto essere disattese, e, per concludere sul tema, nessuna refluenza spiega sull’odierno giudizio la circostanza prospettata alle pagg. 10 ed 11 della memoria depositata dalla Parco Costruzioni Srl secondo cui il padre dell’appellante Signor P.P. avrebbe posto in vendita il complesso immobiliare di propria pertinenza (e ciò sia perché, in ossequio al principio nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet, tale volontà dismissiva non potrebbe riguardare l’usufrutto di pertinenza dell’appellante; sia perché la volontà di alienare un bene non implica rinuncia alle azioni proposte, e men che meno sopravvenuta carenza di interesse, posto che l’esito favorevole di una lite potrebbe in ipotesi arrecare un incremento di valore del bene dallo stesso posseduto, sia, infine, perché a tale volontà di alienare la proprietà del bene non è seguita, comunque, la stipulazione di alcuna compravendita: in ogni caso l’appellante ha proposto azione risarcitoria, e ciò esclude la ravvisabilità di profili di sopravvenuta carenza di interesse)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.06.2012 n. 3300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. "vicinitas", quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a ché il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia”.
Ciò che si vuole rimarcare, però, è che la “conoscenza” non può essere sfalsata, o procrastinata sine die, a cagione della situazione soggettiva del terzo asseritamente leso: questi è certamente libero di non risiedere nel sito di propria pertinenza, e disinteressarsi di ciò che accade nelle vicinanze dello stesso, ma non può giovarsi di tale circostanza per proporre gravami tardivi.
Più che di effettiva conoscenza, quindi, deve farsi riferimento al concetto di “conoscibilità” della possibile lesione giuridica al proprio “statuto proprietario” arrecata dalla costruzione limitrofa, quale termine a partire dal quale decorre la proponibilità dell’azione giurisdizionale (quantomeno laddove un titolo vi sia, ed in disparte la differente ipotesi in cui vengano intrapresi lavori abusivi in carenza di provvedimento abilitativo).
Ciò per non lasciare che l’azione amministrativa culminata nel rilascio di titoli abilitativi ai controinteressati rimanga esposta alla proposizione di azioni demolitorie intentate a rilevante distanza temporale dal rilascio (e per salvaguardare altresì l’affidamento del latore del titolo abilitativo rilasciatogli sulla legittimità di quest’ultimo).
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A conoscenza effettiva e completa della concessione edilizia rilasciata a terzi -che deve essere provata da chi eccepisce la tardività dell'impugnazione- si verifica di regola, in mancanza di diversi mezzi di inoppugnabile prova, con l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile e non con solo il loro inizio occorre pertanto che le parti evidenzino elementi di prova di una conoscenza anteriore dell'opera assentita e della sua consistenza o una ultimazione dei lavori in epoca anteriore oltre sessanta giorni rispetto alla proposizione del ricorso.

Non ignora il Collegio che consolidata e condivisibile giurisprudenza abbia con continuità affermato che “la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. "vicinitas", quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a ché il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia
” Consiglio Stato, sez. IV, 05.01.2011, n. 18).
Ciò che si vuole rimarcare, però, è che la “conoscenza” non può essere sfalsata, o procrastinata sine die, a cagione della situazione soggettiva del terzo asseritamente leso: questi è certamente libero di non risiedere nel sito di propria pertinenza, e disinteressarsi di ciò che accade nelle vicinanze dello stesso, ma non può giovarsi di tale circostanza per proporre gravami tardivi.
Più che di effettiva conoscenza, quindi, deve farsi riferimento al concetto di “conoscibilità” della possibile lesione giuridica al proprio “statuto proprietario” arrecata dalla costruzione limitrofa, quale termine a partire dal quale decorre la proponibilità dell’azione giurisdizionale (quantomeno laddove un titolo vi sia, ed in disparte la differente ipotesi in cui vengano intrapresi lavori abusivi in carenza di provvedimento abilitativo).
Ciò per non lasciare che l’azione amministrativa culminata nel rilascio di titoli abilitativi ai controinteressati rimanga esposta alla proposizione di azioni demolitorie intentate a rilevante distanza temporale dal rilascio (e per salvaguardare altresì l’affidamento del latore del titolo abilitativo rilasciatogli sulla legittimità di quest’ultimo).
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Come è noto, la giurisprudenza amministrativa di primo grado ha a più riprese affermato che “a conoscenza effettiva e completa della concessione edilizia rilasciata a terzi -che deve essere provata da chi eccepisce la tardività dell'impugnazione- si verifica di regola, in mancanza di diversi mezzi di inoppugnabile prova, con l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile e non con solo il loro inizio occorre pertanto che le parti evidenzino elementi di prova di una conoscenza anteriore dell'opera assentita e della sua consistenza o una ultimazione dei lavori in epoca anteriore oltre sessanta giorni rispetto alla proposizione del ricorso” (TAR Liguria Genova, sez. I, 19.12.2006, n. 1711).
Ritiene il Collegio che detta evenienza (la “prova inoppugnabile” cui fa riferimento la giurisprudenza) sia avvenuta nel caso in esame, proprio tenuto conto delle doglianze contenute nel mezzo di primo grado, volte a dolersi della demolizione e della ricostruzione violativa del regime delle distanze: non si tratta, come è evidente, di affermare un insussistente obbligo del titolare di un diritto reale di risiedere a tempo pieno nell’immobile di propria pertinenza, al fine di potere contestare (asseritamente) illegittime iniziative edificatorie da altri intraprese, al fine di ritualmente contestarle.
Si tratta di verificare, caso per caso, e tenuto conto delle particolari circostanze concrete, con una tolleranza possibile laddove lo scostamento temporale sia minimo, il momento in cui la lesione era concretamente avvertibile e percepibile, e da tal momento individuare il dies a quo di proposizione del gravame.
Nel caso di specie, a fronte di uno scostamento temporale che per le già chiarite ragioni appare assai ampio, non sussistono motivi per dilatare oltremisura –siccome richiesto dall’appellante- i termini di proposizione del gravame: la sentenza impugnata merita quindi piena conferma sul punto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.06.2012 n. 3300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L'Amministrazione non ha l'obbligo, ma il potere discrezionale, di agire in autotutela, con la conseguenza che istanze volte a sollecitare l'esercizio di tale potere hanno una funzione di mera denuncia o sollecitazione, ma non creano in capo alla p.a. alcun obbligo di provvedere e non danno luogo a formazione di silenzio-inadempimento in caso di mancata definizione dell'istanza.
Ulteriore autonomo caso in cui non si ravvisa alcun obbligo di provvedere sulla istanza del privato, si ravvisa laddove l'istanza volta all'esercizio del potere di autotutela abbia ad oggetto un provvedimento già impugnato in sede giurisdizionale e "sub judice" al momento dell'istanza stessa: e ciò all'evidente scopo di evitare la proliferazione di inutili e dispendiose iniziative giurisdizionali in relazione ad un'unica vicenda sostanziale.

Le doglianze dell’appellante si fondano su una non corretta esegesi dell’art. 27 del dPR n. 380/2001, a torto invocato nel caso in esame.
Stabilisce infatti la richiamata disposizione che: “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa.
Per le opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 29.10.1999, n.490, o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il Soprintendente, su richiesta della regione, del comune o delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero decorso il termine di 180 giorni dall'accertamento dell'illecito, procede alla demolizione, anche avvalendosi delle modalità operative di cui ai commi 55 e 56 dell'articolo 2 della legge 23.12.1996, n. 662 .
Ferma rimanendo l'ipotesi prevista dal precedente comma 2, qualora sia constatata, dai competenti uffici comunali d'ufficio o su denuncia dei cittadini, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile dell'ufficio, ordina l'immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all'adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall'ordine di sospensione dei lavori. Entro i successivi quindici giorni dalla notifica il dirigente o il responsabile dell'ufficio, su ordinanza del sindaco, può procedere al sequestro del cantiere.
Gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi in cui vengono realizzate le opere non sia esibito il permesso di costruire, ovvero non sia apposto il prescritto cartello, ovvero in tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia, ne danno immediata comunicazione all'autorità giudiziaria, al competente organo regionale e al dirigente del competente ufficio comunale, il quale verifica entro trenta giorni la regolarità delle opere e dispone gli atti conseguenti
”.
Secondo parte appellante detto potere-dovere di vigilanza integra un preciso dovere dell’Amministrazione, cui la stessa deve ottemperare sia ex officio, che ove (come del caso di specie) sollecitata da una diffida di privati: l’eventuale diniego all’adozione dei richiesti provvedimenti repressivi sfocia in una manifestazione (seppure negativa) di potere avente contenuto provvedimentale, autonomamente impugnabile.
Il Collegio, seppur il linea di principio concordi con talune affermazioni contenute nei richiamati motivi di appello, ritiene che la pur abilmente formulata prospettazione dell’appellante non abbia alcuna possibilità di accoglimento.
Invero, ciò che l’appellante trascura di rilevare è che la sollecitazione all’esercizio del detto potere di vigilanza e repressivo, si innestava in una pendente vicenda contenziosa, già devoluta al vaglio giurisdizionale e, soprattutto, non trattavasi di iniziativa sollecitatoria volta a stimolare l’amministrazione a reprimere condotte di edificazione abusiva sine titulo (vedasi il comma 2 della citata disposizione), ma di diffida all’esercizio di poteri di autotutela in quanto volti al ritiro od autoannullamento di atti ampliativi precedentemente resi (e per di più già impugnati in sede giurisdizionale).
Appare al Collegio evidente, pertanto, che se l’oggetto dell’attività “sollecitata” all’amministrazione riposava nella repressione di asserite violazioni edilizie, avuto riguardo alla non secondaria circostanza che erano già stati emessi provvedimenti ampliativi, in realtà ciò che si pretendeva da parte dell’appellante riposava nell’esercizio di attività di autotutela da parte del comune.
Rammenta il Collegio che, per condivisa quanto pacifica giurisprudenza “l'Amministrazione non ha l'obbligo, ma il potere discrezionale, di agire in autotutela, con la conseguenza che istanze volte a sollecitare l'esercizio di tale potere hanno una funzione di mera denuncia o sollecitazione, ma non creano in capo alla p.a. alcun obbligo di provvedere e non danno luogo a formazione di silenzio-inadempimento in caso di mancata definizione dell'istanza” (Consiglio Stato, sez. VI, 11.02.2011, n. 919).
In particolare, poi, si è condivisibilmente rimarcato da parte della giurisprudenza di merito che, ulteriore autonomo caso in cui non si ravvisa alcun obbligo di provvedere sulla istanza del privato, si ravvisa laddove l'istanza volta all'esercizio del potere di autotutela abbia ad oggetto un provvedimento già impugnato in sede giurisdizionale e "sub judice" al momento dell'istanza stessa: e ciò all'evidente scopo di evitare la proliferazione di inutili e dispendiose iniziative giurisdizionali in relazione ad un'unica vicenda sostanziale (TAR Liguria, sez. II, 10.05.2007; cfr. altresì TAR Campania Napoli, sez. III, 19.03.2008, n. 1410 e ancor più di recente, TAR Lazio Roma, sez. II, 22.09.2010, n. 32400)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.06.2012 n. 3300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORivalutazioni senza le ritenute. Cds sul calcolo degli stipendi nella p.a..
Per le differenze retributive dovute al dipendente pubblico, ad esempio perché ha svolto mansioni superiori, il calcolo degli interessi e della rivalutazione monetaria deve avvenire al netto delle ritenute assistenziali, previdenziali e erariali.
Lo chiarisce una volta per tutte l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 05.06.2012 n. 18.
Il massimo consesso di palazzo Spada fuga ogni dubbio e mette a tacere i giudici dissenzienti. Il punto della questione sta nell'articolo 22 della legge 724/1994 in tema di finanza pubblica: il divieto del cumulo fa in modo che la rivalutazione monetaria non sia più compenetrata con il credito retributivo, ma costituisca un elemento distinto che rappresenta unicamente una tecnica liquidatoria del danno da ritardo; il credito da lavoro, insomma, non risulta diverso dalle altre obbligazioni di natura pecuniaria. Tanto la rivalutazione quanto gli interessi che spettano al dipendente pubblico, rappresentano soltanto un effetto del ritardo e quindi non possono essere inglobati nel credito fin dall'origine.
Sbaglia il lavoratore cui non tornano i conti: secondo il travet il calcolo degli accessori doveva essere operato al lordo sugli importi nominali di ogni rateo e fino all'adempimento tardivo e non sull'importo netto come ha fatto l'amministrazione.
Fa bene invece l'ufficio a considerare come la base di calcolo la somma dovuta a titolo principale al netto delle ritenute fiscali e previdenziali: deve essere applicata la tecnica liquidatoria imperniata sul successivo calcolo separato di interessi e rivalutazione sul valore nominale del credito, mentre è definitivamente superata la tesi che propugnava la rivalutazione con il credito contributivo. E ciò anche perché l'articolo 429 cpc non ha trasformato il debito creditorio in debito di valore (sia pure indicizzabile secondo una particolare disciplina).
Non bisogna dimenticare, poi, la rilevanza della ritenuta alla fonte, che il sostituto d'imposta effettua in base a una delega di legge: il denaro corrispondente, infatti, non sarebbe comunque mai entrato nella disponibilità del dipendente, mentre può produrre interessi e resta soggetto ai meccanismi di attualizzazione del credito soltanto il denaro che è posto a disposizione del creditore e che effettivamente ne incrementa il patrimonio (articolo ItaliaOggi del 09.06.2012 - link a www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - SINDACATI: Va confermata la piena legittimazione delle organizzazioni sindacali ad azionare il diritto di accesso, sia iure proprio, sia a tutela di interessi giuridicamente rilevanti della categoria rappresentata, purché esso non configuri una forma di preventivo e generalizzato controllo dell’intera attività dell’Amministrazione datrice di lavoro.
Vanno decisamente in questo senso altre sentenze del Consiglio di Stato, applicando più generali principi messi in luce da precedenti sentenze che hanno riconosciuto in via estesa e sistematica il diritto di accesso a tutela di interessi collettivi e diffusi, con il limite che esso “non giustifica un generalizzato e pluricomprensivo diritto alla conoscenza di tutti i documenti riferiti all’attività di un gestore di un servizio.
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L’esercizio del diritto di accesso costituisce, rispetto ai diritti di informazione riconosciuti per legge al sindacato, uno strumento del tutto autonomo, ma è per converso legittimato dallo stesso tipo di interesse e dalla stessa ratio che sostiene le norme sul diritto di informazione. L’esistenza di queste dimostra in modo tangibile che i dati in materia non corrispondono ad interessi di singoli, ma ad un interesse tipicamente collettivo, in quanto riguardano la verifica della osservanza di criteri oggettivi attraverso il confronto di una pluralità di casi e l’esame di singole situazioni anomale alla luce dei criteri fissati.
Si tratta quindi di un interesse specifico e proprio del sindacato, del tutto distinto da quello che i singoli associati potrebbero far valere. Non solo, ma questo interesse va oltre quello dei propri associati: un sindacato non solo tutela i propri iscritti, ma anche quelli dei non iscritti e tende ad accrescere la sua forza agendo per acquisire nuovi iscritti e maggiore rappresentatività.
Tale interesse è inoltre concreto e attuale perché in grado di determinare corrispondenti iniziative del sindacato a tutela degli interessi collettivi che gli sono propri e che si riferiscono alla intera categoria rappresentata, la quale è certamente nel suo complesso interessata ad evitare disparità di trattamento di casi analoghi tra i dipendenti, siano o meno iscritti al sindacato, mentre i singoli associati, ove avvantaggiati, potrebbero esserlo molto meno.
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Non basta avere un interesse valido e giuridicamente rilevante se la richiesta configura una forma di controllo generalizzato sulla pubblica amministrazione, in quanto questo limite all’accesso è posto esplicitamente dall’articolo 24, comma 3, a prescindere dalla esistenza di un interesse ancorché qualificato.
La richiesta di accesso ha, infatti, carattere accessorio e complementare rispetto a diritti di informazione che hanno la stessa portata, differenziandosi solo per il contenuto. Essa è pertanto strumentale alla medesima finalità ed è quindi -per definizione normativa- una forma di controllo consentita e legittima con riferimento ad uno specifico settore di attività, che è quello definito dal corrispondente diritto di informazione. Pertanto, il diritto di informazione non si confonde, ma costituisce un valido presupposto per l’esercizio di una richiesta di accesso con diversi contenuti aventi la stessa portata spaziale e temporale.

Anzitutto va confermata la piena legittimazione delle organizzazioni sindacali ad azionare il diritto di accesso, sia iure proprio, sia a tutela di interessi giuridicamente rilevanti della categoria rappresentata, purché esso non configuri una forma di preventivo e generalizzato controllo dell’intera attività dell’Amministrazione datrice di lavoro.
Vanno decisamente in questo senso le sentenze del Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 1351/2009 e n. 24/2010, applicando più generali principi messi in luce da precedenti sentenze che hanno riconosciuto in via estesa e sistematica il diritto di accesso a tutela di interessi collettivi e diffusi, con il limite che esso “non giustifica un generalizzato e pluricomprensivo diritto alla conoscenza di tutti i documenti riferiti all’attività di un gestore di un servizio..” (Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 555/2006).
Occorre dunque verificare nel caso di specie:
a) l’esistenza di un interesse collettivo proprio del sindacato ad azionare il diritto di accesso nella materia indicata;
b) la non opponibilità di limiti previsti dalle norme in vigore e, in modo specifico, sia quelli derivanti dal divieto di esercitare nella forma dell’accesso un controllo generalizzato su attività amministrative, sia quelli derivanti dal diritto alla riservatezza delle persone interessate.
Per dirimere ognuno di questi diversi aspetti, il Collegio ritiene necessario delineare il quadro normativo nel quale la richiesta di accesso si colloca. Quest’ultima si aggiunge ad un diritto di informazione già normativamente previsto, nella stessa materia, dall’art. 7, comma 3, del D.P.R. n. 254/1999, che riconosce al sindacato l’informazione relativa al “numero delle assegnazioni temporanee e dei relativi rinnovi”, e dall’articolo 24 dello stesso decreto che conferma questo diritto di informazione in materia quanto “ai criteri generali e alle iniziative concernenti:….b) la mobilità del personale a domanda”.
Richiamare tali norme non significa confondere il diritto di informazione da esse sancito con il diritto di accesso ai documenti relativi, come sostenuto nell’appello. Al contrario, vi è una precisa distinzione tra la tutelata aspettativa ad essere informati su alcuni aspetti e l’esercizio del diritto di accesso su altri aspetti della stessa materia.
Dalla disciplina della materia nel quadro normativo e contrattuale in vigore per il personale di polizia, si evince però che la materia è tra quelle di massimo interesse del sindacato in rapporto alle condizioni specifiche del rapporto di lavoro nell’ambito delle forze di polizia, ove la questione della sede di assegnazione e della mobilità a domanda è tra quelle che incidono maggiormente sulla vita degli operatori e delle loro famiglie.
L’esercizio del diritto di accesso costituisce, rispetto ai diritti di informazione riconosciuti per legge al sindacato, uno strumento del tutto autonomo, ma è per converso legittimato dallo stesso tipo di interesse e dalla stessa ratio che sostiene le norme sul diritto di informazione. L’esistenza di queste dimostra in modo tangibile che i dati in materia non corrispondono ad interessi di singoli, ma ad un interesse tipicamente collettivo, in quanto riguardano la verifica della osservanza di criteri oggettivi attraverso il confronto di una pluralità di casi e l’esame di singole situazioni anomale alla luce dei criteri fissati.
Si tratta quindi di un interesse specifico e proprio del sindacato, del tutto distinto da quello che i singoli associati potrebbero far valere. Non solo, ma questo interesse va oltre quello dei propri associati: un sindacato non solo tutela i propri iscritti, ma anche quelli dei non iscritti e tende ad accrescere la sua forza agendo per acquisire nuovi iscritti e maggiore rappresentatività.
Tale interesse è inoltre concreto e attuale perché in grado di determinare corrispondenti iniziative del sindacato a tutela degli interessi collettivi che gli sono propri e che si riferiscono alla intera categoria rappresentata, la quale è certamente nel suo complesso interessata ad evitare disparità di trattamento di casi analoghi tra i dipendenti, siano o meno iscritti al sindacato, mentre i singoli associati, ove avvantaggiati, potrebbero esserlo molto meno.
Dimostrato il carattere collettivo e propriamente sindacale dell’interesse sottostante l’accesso, non sfugge al Collegio che questa stessa Sezione ha anche di recente affermato -nella sentenza n. 519/2012- che non basta avere un interesse valido e giuridicamente rilevante se la richiesta configura una forma di controllo generalizzato sulla pubblica amministrazione, in quanto questo limite all’accesso è posto esplicitamente dall’articolo 24, comma 3, a prescindere dalla esistenza di un interesse ancorché qualificato. Occorre dunque escludere che la richiesta in oggetto, pur se sostenuta da un valido interesse, configuri una forma di controllo generalizzato. Anche a questo fine risulta decisiva l’analisi del quadro normativo sopra ricordato.
La richiesta di accesso ha, infatti, carattere accessorio e complementare rispetto a diritti di informazione che hanno la stessa portata, differenziandosi solo per il contenuto. Essa è pertanto strumentale alla medesima finalità ed è quindi -per definizione normativa- una forma di controllo consentita e legittima con riferimento ad uno specifico settore di attività, che è quello definito dal corrispondente diritto di informazione. Pertanto, il diritto di informazione non si confonde, ma costituisce un valido presupposto per l’esercizio di una richiesta di accesso con diversi contenuti aventi la stessa portata spaziale e temporale.
E’ invece diverso il caso dei limiti che la richiesta di accesso può incontrare per il necessario rispetto dei diritti di riservatezza del personale interessato alle assegnazioni provvisorie disposte. Il TAR ha dimostrato di tener conto di questo aspetto, disponendo l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle persone nominativamente indicate nel ricorso come destinatarie di provvedimenti di assegnazione provvisoria e prevedendo nel dispositivo che il diritto della “CONSAP” di prendere visione degli atti da essa richiesti sussisteva limitatamente alla posizione dei controinteressati intimati.
Tale limite deve essere confermato in sede di appello, ma deve essere accentuato e integrato, stabilendo in aggiunta che l’Amministrazione deve adempiere all’accesso nei limiti e con modalità tali che consentano di rispettare il diritto alla riservatezza delle persone interessate per i dati da considerare sensibili alla stregua di quanto previsto dal provvedimento generale n. 29823 del 09.07.2003 dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.06.2012 n. 2559 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATATenuto conto del lungo tempo intercorso dalla presentazione della SCIA e delle numerose integrazioni documentali, è illegittimo il provvedimento di demolizione recante un mero richiamo alla presunta contrarietà dell’opera alle NTA vigente e senza alcun cenno ai presupposti per l’esercizio del potere di autotutela, come del resto stabilito dalla prevalente giurisprudenza in analoghe fattispecie, nelle quali l’esercizio del potere repressivo in materia edilizia non è stato preceduto dal rituale esercizio del potere ex art. 21-nonies della legge 241/1990.
L’ordinanza di demolizione concerne un’opera (box per auto), realizzata dall’esponente in esecuzione della SCIA depositata il 24.05.2011 e successivamente integrata attraverso la produzione documentale del 21.06.2011 e del 13.09.2011 (cfr. doc. 1 del ricorrente).
A fondamento della propria decisione, il Comune assume la presunta difformità dell’opera rispetto agli elaborati progettuali (distanza dal fabbricato principale di metri 4,2 anziché 5 ed altezza di metri 2,92 anziché 2,5).
L’art. 19 della legge 241/1990, nel testo attualmente vigente relativo alla SCIA, consente all’Amministrazione, in caso di accertata carenza dei requisiti di legge per la segnalazione certificata di inizio attività, di adottare provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività o di rimozione degli effetti, entro 30 giorni dal ricevimento della SCIA in materia edilizia (così il combinato disposto dei commi 3 e 6-bis dell’art. 19).
Dopo la scadenza del suddetto termine, è consentito l’intervento dell’Amministrazione per la tutela di beni giuridici di particolare valore (ambiente, salute ed altri), oppure l’esercizio del potere di autotutela ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies della legge 241/1990 (così i commi 3 e 4 dell’art. 19).
Nel caso di specie, l’ordinanza di demolizione è stata adottata il 13.02.2102 (cfr. doc. 1 del ricorrente), allorché l’ultima produzione documentale integrativa da parte dell’esponente era avvenuta il 19.12.2011, come del resto ammesso anche nel provvedimento ivi impugnato.
Nell’ordinanza di demolizione, manca ogni accenno ai presupposti per l’esercizio del potere di autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies sopra citato, né è fatto riferimento ad un eventuale pericolo di danno per il patrimonio artistico od altro, ai sensi del comma 4 dell’art. 19.
Il Comune si limita infatti, nell’ordinanza stessa, a sostenere la presunta contrarietà dell’intervento edilizio all’art. 13 delle NTA del vigente PRG, senza altro addurre per giustificare il provvedimento di carattere demolitorio adottato nei confronti della SCIA dell’esponente.
Tenuto conto del lungo tempo intercorso dalla presentazione per la prima volta della SCIA (24.05.2011) e che l’ultima delle –peraltro numerose– integrazioni documentali é stata effettuata il 19.11.2011, il provvedimento di demolizione del 13.02.2012, recante un mero richiamo alla presunta contrarietà dell’opera alle NTA vigente e senza alcun cenno ai presupposti per l’esercizio del potere di autotutela, appare illegittimo, come del resto stabilito dalla prevalente giurisprudenza in analoghe fattispecie, nelle quali l’esercizio del potere repressivo in materia edilizia non è stato preceduto dal rituale esercizio del potere ex art. 21-nonies della legge 241/1990 (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1405; TAR Marche, 27.09.2010, n. 3305 e TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16562).
Si conferma pertanto l’accoglimento del ricorso, con assorbimento di ogni altra censura e con conseguente annullamento dell’ordinanza comunale del 13.02.2012 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.06.2012 n. 1515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Conferimento dell’incarico di patrocinio legale.
Con la presentazione della domanda di partecipazione alla gara e con la predisposizione e l’inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una posizione differenziata e qualificata e, di conseguenza, l’Amministrazione che ha bandito la gara, ove intenda annullarla in autotutela, deve provvedere, ai sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990, a comunicare loro l'avviso di avvio del relativo procedimento al fine di consentire la difesa del bene della vita dato dalla chance di aggiudicazione.
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La domanda di risarcimento del danno quantificata dal ricorrente in € 24.000,00 non può trovare accoglimento per mancato raggiungimento, sia sotto il profilo del danno emergente che del lucro cessante, della prova del danno lamentato, non avendo il ricorrente dimostrato, sotto il primo profilo, la perdita patrimoniale riveniente dall’illegittimo annullamento della procedura comparativa, e non avendo addotto, sotto il secondo profilo, elementi puntuali (ad esempio, titoli professionali di particolare valore o maggior convenienza della offerta economica presentata) dai quali si possa legittimamente inferire, secondo un giudizio prognostico di tipo probabilistico, che il ricorrente medesimo sarebbe stato preferito, ai fini del conferimento dell’incarico de quo, rispetto agli altri aspiranti.
Ritiene, invece, il collegio che possa essere riconosciuto al ricorrente il danno da perdita di chance, che costituisce una forma di lucro cessante che si concreta nella mera perdita della effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene; tale forma di danno non costituisce, infatti, un’aspettativa di fatto, ma un’entità giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione.
Ai fini della determinazione del quantum, il collegio ritiene di poter quantificare, in via equitativa, il danno da perdita di chance (sulla base del criterio già previsto dall’art. 345 della legge 20.03.1865 n. 2248 allegato F per l’ipotesi di esercizio della facoltà di recesso da parte dell’amministrazione committente), rapportandolo in termini percentuali all’utile in astratto conseguibile e determinandolo nella misura del 10% del compenso che sarebbe spettato al ricorrente in caso di affidamento dell’incarico de quo
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... per l'annullamento della Determinazione n. 29 (Reg. Gen. n. 148) del 17.02.2011, con al quale il Segretario generale del Comune di Carovigno ha annullato la determinazione n. 1056 del 30.12.2010 (con la quale veniva indetto un avviso pubblico per il conferimento dell’incarico di patrocinio legale dell’Ente), della Deliberazione n. 44 del 25.02.2011, con la quale la Giunta comunale di Carovigno ha autorizzato il Sindaco al conferimento di incarico di patrocinio legale dell’Ente ad un avvocato di propria fiducia nonché del decreto del 1° marzo 2011, con il quale il Sindaco del Comune di Carovigno ha nominato l'avv.to Alberto Magli quale difensore e patrocinante del Comune di Carovigno dall'01.03 al 31.08.2011;
...
Anzitutto, non può essere condivisa la tesi sostenuta dalla Amministrazione resistente secondo la quale, nel caso di specie, ai fini dell’esercizio dei poteri di ritiro, non era necessaria la comunicazione di avvio del procedimento, di cui all’art. 7 della l. n. 241/1990. L’Amministrazione resistente richiama alcune pronunce giurisprudenziali che escludono, nell’ambito delle procedure di evidenza pubblica per l’aggiudicazione degli appalti, la doverosità della predetta comunicazione con riguardo all’annullamento e alla revoca dell’aggiudicazione provvisoria, che è notoriamente un atto endoprocedimentale ad effetti instabili ed interinali. Nel caso di specie, l’Amministrazione comunale ha invece annullato, in autotutela, la determinazione con la quale veniva indetta una selezione, mediante procedura comparativa, per il conferimento di un incarico professionale, ossia un atto di natura provvedimentale.
Orbene, il collegio fa rilevare che con la presentazione della domanda di partecipazione alla gara e con la predisposizione e l’inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una posizione differenziata e qualificata e, di conseguenza, l’Amministrazione che ha bandito la gara, ove intenda annullarla in autotutela, deve provvedere, ai sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990, a comunicare loro l'avviso di avvio del relativo procedimento al fine di consentire la difesa del bene della vita dato dalla chance di aggiudicazione (Consiglio di Stato, Sez. V, 07.01.2009 n. 17).
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Ad avviso del collegio, la domanda di risarcimento del danno quantificata dal ricorrente in € 24.000,00 non può trovare accoglimento per mancato raggiungimento, sia sotto il profilo del danno emergente che del lucro cessante, della prova del danno lamentato, non avendo il ricorrente dimostrato, sotto il primo profilo, la perdita patrimoniale riveniente dall’illegittimo annullamento della procedura comparativa, e non avendo addotto, sotto il secondo profilo, elementi puntuali (ad esempio, titoli professionali di particolare valore o maggior convenienza della offerta economica presentata) dai quali si possa legittimamente inferire, secondo un giudizio prognostico di tipo probabilistico, che il ricorrente medesimo sarebbe stato preferito, ai fini del conferimento dell’incarico de quo, rispetto agli altri aspiranti.
Ritiene, invece, il collegio che possa essere riconosciuto al ricorrente il danno da perdita di chance, che costituisce una forma di lucro cessante che si concreta nella mera perdita della effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene; tale forma di danno non costituisce, infatti, un’aspettativa di fatto, ma un’entità giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione.
Ai fini della determinazione del quantum, il collegio, conformemente ad un orientamento giurisprudenziale consolidato (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI 16.09.2011 n. 5168; Sez. V 08.07.2002 n. 3796), ritiene di poter quantificare, in via equitativa, il danno da perdita di chance (sulla base del criterio già previsto dall’art. 345 della legge 20.03.1865 n. 2248 allegato F per l’ipotesi di esercizio della facoltà di recesso da parte dell’amministrazione committente), rapportandolo in termini percentuali all’utile in astratto conseguibile e determinandolo nella misura del 10% del compenso che sarebbe spettato al ricorrente in caso di affidamento dell’incarico de quo e, quindi, nella misura onnicomprensiva di € 2.400,00 (euro duemilaquattrocento/00)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 01.06.2012 n. 995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il procedimento di mobilità volontaria esterna tra Pubbliche Amministrazioni è atto di gestione del rapporto di lavoro ed il relativo contenzioso rientra nella giurisdizione del giudice ordinario; la mobilità, infatti, determina una semplice cessione del contratto di lavoro del dipendente tra l’Amministrazione di provenienza e quella di destinazione con continuità del suo contenuto (art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001) e non la costituzione di un nuovo rapporto di pubblico impiego o una nuova assunzione.
Ciò sia nel caso in cui la mobilità venga posta in essere mediante selezione del personale attraverso una procedura comparativa, sia nell’ipotesi in cui essa avvenga mediante passaggio diretto, “in quanto le diverse modalità scelte dall’Amministrazione al fine di attivare la mobilità esterna non possono snaturare l’essenza stessa dell’istituto tracciata dalla norma”; né la giurisdizione dell’uno o dell’altro giudice può “dipendere dalle scelte dell’Amministrazione e quindi radicarsi in maniera diversa a seconda delle concrete modalità (selezione comparativa o passaggio diretto) attraverso cui la mobilità viene attuata, ma essa sussiste a monte, unico essendo l’istituto e ferma restando la natura gestionale dei relativi atti.
Il discrimine, pertanto, è rappresentato dalla costituzione del rapporto di lavoro alla dipendenza delle pubbliche amministrazioni; tutte le vicende che interessano la fase di gestione del rapporto di lavoro e le modifiche soggettive ed oggettive che dovessero intervenire in costanza di esso (ivi compresa la mobilità volontaria) devono, perciò, essere conosciute dal giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, residuando la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie in materia di procedure concorsuali finalizzate all’assunzione dei dipendenti, ossia relative alla fase antecedente alla costituzione del rapporto di impiego".
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La mobilità volontaria prevista dal D.Lgs. 03.02.1993, n. 29, art. 33, come modificato dalla L. 28.11.2005, n. 246, art. 16, integra una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro, con il consenso di tutte le parti, e quindi una cessione del contratto”; infatti “in materia di riparto di giurisdizione nelle controversie relative al pubblico impiego contrattualizzato solo le procedure selettive di tipo concorsuale per l'attribuzione a dipendenti di p.a. della qualifica superiore, che comportino il passaggio da un'area ad un'altra, hanno una connotazione peculiare e diversa, assimilabile alle "procedure concorsuali per l'assunzione", e valgono a radicare -ed ampliare- la fattispecie eccettuata rimessa alla giurisdizione del giudice amministrativo di cui al comma 4, dell'art. 63 citato D.Lgs.; fuori da questa ipotesi non opera detta fattispecie eccettuata del comma 4, dell'art. 63 e conseguentemente si riespande la regola del primo comma della medesima disposizione, che predica in generale la giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie aventi ad oggetto il lavoro pubblico privatizzato”, con la conseguenza che “le procedure di mobilità volontaria interna, che comportino una mera modificazione soggettiva del rapporto di lavoro e non già la costituzione di un nuovo rapporto mediante una procedura selettiva concorsuale".

La Sezione, invero, ha già avuto modo di pronunciarsi sulla questione relativamente a fattispecie del tutto analoghe a quella in esame (cfr. sentenze n. 2039 del 28.09.2010 e n. 2346 del 26.10.2010, quest’ultima confermata in appello da Cons. Stato, sez. V, 20.07.2011, n. 4402, alle cui statuizioni il Collegio interamente rimanda).
Giova comunque evidenziare in questa sede che il procedimento di mobilità volontaria esterna tra Pubbliche Amministrazioni è atto di gestione del rapporto di lavoro ed il relativo contenzioso rientra nella giurisdizione del giudice ordinario; la mobilità, infatti, determina una semplice cessione del contratto di lavoro del dipendente tra l’Amministrazione di provenienza e quella di destinazione con continuità del suo contenuto (art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001) e non la costituzione di un nuovo rapporto di pubblico impiego o una nuova assunzione (TAR Sardegna - Cagliari, Sez. II, 28.06.2010, n. 1695; Cons. Stato, Sez. V, 26.10.2009, n. 6541; TAR Puglia - Lecce, Sez. II, 16.03.2009, n. 480; Cass. Civ., Sez. Un., 06.03.2009, n. 5458; TAR Campania – Napoli, Sez. III, 09.09.2008, n. 10060; Cass. Civ. Sez. Un. 12.12.2006, n. 26420).
Ciò sia nel caso in cui la mobilità venga posta in essere mediante selezione del personale attraverso una procedura comparativa, sia nell’ipotesi in cui essa avvenga mediante passaggio diretto, “in quanto le diverse modalità scelte dall’Amministrazione al fine di attivare la mobilità esterna non possono snaturare l’essenza stessa dell’istituto tracciata dalla norma”; né la giurisdizione dell’uno o dell’altro giudice può “dipendere dalle scelte dell’Amministrazione e quindi radicarsi in maniera diversa a seconda delle concrete modalità (selezione comparativa o passaggio diretto) attraverso cui la mobilità viene attuata, ma essa sussiste a monte, unico essendo l’istituto e ferma restando la natura gestionale dei relativi atti.
Il discrimine, pertanto, è rappresentato dalla costituzione del rapporto di lavoro alla dipendenza delle pubbliche amministrazioni; tutte le vicende che interessano la fase di gestione del rapporto di lavoro e le modifiche soggettive ed oggettive che dovessero intervenire in costanza di esso (ivi compresa la mobilità volontaria) devono, perciò, essere conosciute dal giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, residuando la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie in materia di procedure concorsuali finalizzate all’assunzione dei dipendenti, ossia relative alla fase antecedente alla costituzione del rapporto di impiego
” (cfr. TAR Lecce, II, 28.09.2010, 2039, cit.).
La procedura indetta dal Comune di Taranto non comporta la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro con i soggetti selezionati, ma soltanto la cessione del contratto di lavoro già in essere con la originaria Amministrazione di appartenenza, non potendosi condividere la tesi secondo cui la valutazione dei titoli e del colloquio da parte della Commissione giudicatrice integri una vera e propria procedura concorsuale, trattandosi invece di strumenti atti semplicemente a verificare la concreta rispondenza dei candidati alle specifiche esigenze dell’Amministrazione attraverso l’apprezzamento delle loro attitudini e professionalità.
L’art. 30, comma 1, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, stabilisce che “le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante cessione di contratto di lavoro dei dipendenti appartenenti alla stessa qualifica in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento”, aggiungendo che “le amministrazioni devono in ogni caso rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta”.
Tale principio è stato di recente affermato anche dalla Corte regolatrice della giurisdizione (Corte di Cassazione, SS.UU. 09.09.2010, n. 19251), secondo cui “la mobilità volontaria prevista dal D.Lgs. 03.02.1993, n. 29, art. 33, come modificato dalla L. 28.11.2005, n. 246, art. 16, integra una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro, con il consenso di tutte le parti, e quindi una cessione del contratto”; infatti “in materia di riparto di giurisdizione nelle controversie relative al pubblico impiego contrattualizzato solo le procedure selettive di tipo concorsuale per l'attribuzione a dipendenti di p.a. della qualifica superiore, che comportino il passaggio da un'area ad un'altra, hanno una connotazione peculiare e diversa, assimilabile alle "procedure concorsuali per l'assunzione", e valgono a radicare -ed ampliare- la fattispecie eccettuata rimessa alla giurisdizione del giudice amministrativo di cui al comma 4, dell'art. 63 citato D.Lgs.; fuori da questa ipotesi non opera detta fattispecie eccettuata del comma 4, dell'art. 63 e conseguentemente si riespande la regola del primo comma della medesima disposizione, che predica in generale la giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie aventi ad oggetto il lavoro pubblico privatizzato”, con la conseguenza che “le procedure di mobilità volontaria interna, che comportino una mera modificazione soggettiva del rapporto di lavoro e non già la costituzione di un nuovo rapporto mediante una procedura selettiva concorsuale…”.
Né a conclusioni diverse si giunge in considerazione del fatto che oggetto del gravame è il provvedimento con cui l’Amministrazione ha negato il ritiro degli atti relativi alla procedura di mobilità di cui si discute; ed invero, nonostante formalmente il ricorrente abbia impugnato il diniego di autotutela, in sostanza ciò che intende far valere in questa sede -e che costituisce il “petitum” sostanziale della controversia in esame- è la propria pretesa ad ottenere il trasferimento presso il Comune di Copertino, assumendo la non correttezza degli atti relativi al procedimento di mobilità posto in essere dall’Amministrazione (che, si ribadisce, è atto di gestione del rapporto di lavoro ed il relativo contenzioso rientra nella giurisdizione del giudice ordinario); in altri termini, l’interesse ad impugnare il diniego di autotutela viene in rilievo solo in via mediata ed indiretta, essendo la pretesa principale quella di far valere il proprio diritto alla mobilità, che il ricorrente assume essere stato leso per effetto della scorretta valutazione dei titoli di accesso richiesti dall’Avviso in capo ai candidati che lo precedono in graduatoria (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 01.06.2012 n. 994 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla legittimità della deliberazione di un consiglio comunale che ha affidato in house alla propria società strumentale il servizio di accertamento e riscossione volontaria di alcuni tributi locali
Sussiste il c.d. "controllo analogo" anche nel caso di un comune socio di minoranza della società.

E' legittima la deliberazione di un consiglio comunale che ha affidato in house alla propria società strumentale il servizio di accertamento e riscossione volontaria di alcuni tributi locali, in quanto coerente con la specifica normativa settoriale a quel momento vigente [art. 7, c. 2, lett. gg-ter) e gg-quater) del d.l. n. 70 del 2011], che, nel prevedere una chiara limitazione all'affidamento del servizio di riscossione alle società private concessionarie e ai poteri da queste esercitati, appare diretta, oltre che a semplificare e rendere meno gravosa per il contribuente, sotto il profilo finanziario, l'operazione di riscossione dei tributi locali, anche a finalità di contenimento della spesa pubblica degli enti locali.
Vero è, che detta disposizione è stata modificata, in sede di conversione del d.l., nel senso che l'affidamento esterno del servizio è stato precluso solo riguardo alla c.d. riscossione "coattiva", con la conseguenza che la riscossione c.d. "spontanea" rimane tuttora disciplinata dall'art. 52 del D.Lgs. n. 446 del 1997, che prevede, oltre all'affidamento in house allo stesso Comune o a società strumentale a capitale interamente pubblico, anche altre modalità prevedenti l'indizione di gara pubblica preordinata alla scelta o della società privata concessionaria del servizio o del socio privato di una costituenda società a capitale misto, tuttavia, nel peculiare caso di specie, l'originario testo della norma contenuto nel d.l., è comunque idoneo ad integrare valido supporto motivazionale alla scelta (che in quel momento costituiva un obbligo, essendo contenuta in un d.l.) del Comune di procedere all'affidamento del servizio a una società pubblica, senza previa indizione di una gara per l'individuazione o del concessionario o del socio privato.
Ne consegue la legittimità della deliberazione comunale impugnata sia in riferimento agli oneri motivazionali previsti dal citato art. 52 del D.Lgs. n. 446 del 1997 nelle ipotesi di affidamento in house del servizio in parola, sia riguardo al testo definitivo della norma, come risultante dalla legge di conversione.
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E' legittimo l'affidamento diretto del servizio a società strumentale da parte di un comune socio di minoranza della società, qualora il necessario controllo analogo sulla stessa sia esercitato congiuntamente da parte delle amministrazioni locali socie per la totalità del capitale sociale (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 31.05.2012 n. 380 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva, quando la consumazione è differenziata.
Per la consumazione della lottizzazione bisogna distinguere tra acquirente e venditore.
La Corte di Cassazione affronta in termini pertinenti il delicato tema dell'accertamento del momento consumativo del reato di lottizzazione edilizia, la cui soluzione riverbera i propri effetti anche ai fini della prescrizione.
Il tema è reso delicato dal rilievo che la lottizzazione abusiva “negoziale” (cfr. articolo 30 del dpr n. 380 del 2001) ha carattere generalmente plurisoggettivo, poiché in essa normalmente confluiscono condotte convergenti verso un’operazione unitaria caratterizzata dal nesso causale che lega i comportamenti dei vari partecipi [venditore ed acquirente] diretti a condizionare la riserva pubblica di programmazione territoriale.
In questa prospettiva, l’acquirente dell’immobile non può considerarsi, solo per tale sua qualità, “terzo estraneo” al reato, essendo al contrario ravvisabile la sua cooperazione nel reato con l’adesione, anche non preordinata o concordata, al disegno criminoso del venditore, posta in essere anche solo attraverso la violazione (deliberata o per trascuratezza) di specifici doveri di informazione e conoscenza in ordine alla legittimità dell’acquisto che costituiscono diretta esplicazione dei doveri di solidarietà sociale di cui all’articolo 2 della Costituzione.
Nel caso, sarà l’acquirente a poter e dover dimostrare di avere agito “in buona fede”, senza rendersi conto cioè -pur avendo adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento dei suddetti doveri di informazione e conoscenza- di partecipare ad un’operazione di illecita lottizzazione.
Quanto detto non esclude, però, che la diversità delle posizioni non debba essere tenuta in conto ai fini della consumazione del reato.
Così esattamente si esprime la Cassazione, affermando che, appunto per l’accertamento della consumazione del reato di lottizzazione edilizia, rilevante anche per la prescrizione, occorre distinguere la posizione di coloro che hanno dato corso alla lottizzazione (venditore-lottizzatore) e quella di coloro che hanno successivamente partecipato come acquirenti di specifici lotti.
Infatti, mentre per i primi sussistono profili di responsabilità che discendono dalle condotte poste in essere dai singoli acquirenti, così che la permanenza del reato per il venditore-lottizzatore cessa solo con il cessare delle ultime condotte altrui o con il verificarsi di interventi esterni che incidono sul reato (sequestro preventivo; intervento dell’ente territoriale competente), per i singoli acquirenti, che non hanno dato causa alla lottizzazione nei termini fissati dall’articolo 41 c.p., occorre di regola guardare alle condotte poste in essere con riferimento al proprio lotto (tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.05.2012 n. 20671).

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Come notorio, già con la legge 142/1990 (poi recepita nel D.Lgs. 267/2000, art. 107) è stata introdotta la netta separazione tra l'esercizio dei poteri politici, di spettanza esclusiva degli organi di amministrazione del comune, e l'esercizio di quelli amministrativi, tra cui rientra senz'altro la nomina della commissione di concorso, di spettanza esclusiva degli organi burocratici.
Ne consegue che gli atti impugnati devono essere annullati per incompetenza della giunta comunale ad adottare atti espressione dell'esercizio di un potere amministrativo, tra cui la nomina della commissione di concorso, di spettanza esclusiva dei dirigenti dell'ente, con conseguente annullamento delle operazioni di gara e l’assorbimento degli altri motivi di ricorso.

Preliminarmente deve essere esaminata la censura di illegittimità delle deliberazioni di nomina della commissione giudicatrice del concorso e della delibera di C.C. n. 79/1995, art. 48, co. 1, di approvazione del regolamento organico del comune di Latina (vigente in virtù dell’art. 47 delle norme regolamentari sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, approvate con delibera commissariale n. 122/2011) per incompetenza della giunta comunale, organo politico, alla nomina della commissione di concorso in luogo del dirigente, organo burocratico.
La censura merita accoglimento posto che, come notorio, già con la legge 142/1990 (poi recepita nel D.Lgs. 267/2000, art. 107) è stata introdotta la netta separazione tra l'esercizio dei poteri politici, di spettanza esclusiva degli organi di amministrazione del comune, e l'esercizio di quelli amministrativi, tra cui rientra senz'altro la nomina della commissione di concorso (cfr. TAR Sardegna n. 1093, del 29.09.2003), di spettanza esclusiva degli organi burocratici.
Ne consegue che gli atti impugnati devono essere annullati per incompetenza della giunta comunale ad adottare atti espressione dell'esercizio di un potere amministrativo, tra cui la nomina della commissione di concorso, di spettanza esclusiva dei dirigenti dell'ente, con conseguente annullamento delle operazioni di gara e l’assorbimento degli altri motivi di ricorso (TAR Lazio-Latina, sentenza 29.05.2012 n. 412 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Negare la sanatoria di una veranda al piano primo adibita a lavanderia, in quanto “l’intervento per ubicazione, consistenza e materiali utilizzati alterano negativamente il sito oggetto di tutela” risulta che la motivazione è apodittica ed insufficiente ad evidenziare le ragioni per cui l'opera sarebbe incompatibile con le esigenze di tutela paesaggistica.
Nei casi in cui la discrezionalità tecnico/amministrativa abbia un ruolo considerevole, un diniego di nulla-osta deve essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di non ammettere un determinato intervento: affermare che un determinato intervento compromette gli equilibri ambientali della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero postulato apodittico.
Per quanto concerne la motivazione idonea a sorreggere un provvedimento di diniego del richiesto nulla-osta per la costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, deve chiarirsi che l'Amministrazione non può limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.

... per l'annullamento del provvedimento comunale 03.12.1997 prot. 54510/19610/10 di diniego concessione in sanatoria.
...
E' fondato il secondo motivo, in forza del quale il parere della CEI -cui rinvia il provvedimento impugnato- è affetto da carenza di motivazione. Infatti, come già accennato, la CEI ha espresso parere negativo, in relazione alla sanatoria della veranda al piano primo adibita a lavanderia, in quanto “l’intervento per ubicazione, consistenza e materiali utilizzati alterano negativamente il sito oggetto di tutela”.
Tale motivazione, per costante giurisprudenza, è apodittica ed insufficiente ad evidenziare le ragioni per cui l'opera sarebbe incompatibile con le esigenze di tutela paesaggistica.
L'amministrazione, infatti, ha negato il rilascio della concessione in sanatoria stante l'asserita incompatibilità degli interventi con il vincolo e tale incompatibilità viene fatta genericamente derivare dalla “consistenza” dell’intervento e dai materiali utilizzati, il tutto senza che sia offerta alcuna descrizione del vincolo, delle strutture e dei materiali e, tantomeno, senza che siano individuate le specifiche caratteristiche dell'opera che si porrebbero concretamente in contrasto con le esigenze di tutela poste dal vincolo.
In fattispecie affini alla presente, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di precisare che "nei casi in cui -come quello in esame- la discrezionalità tecnico/amministrativa abbia un ruolo considerevole, un diniego di nulla-osta deve essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di non ammettere un determinato intervento: affermare che un determinato intervento compromette gli equilibri ambientali della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero postulato apodittico" (TAR Liguria, sez. I, 22.12.2008, n. 2187).
Ed ancora: "Per quanto concerne la motivazione idonea a sorreggere un provvedimento di diniego del richiesto nulla osta per la costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, deve chiarirsi che l'Amministrazione non può limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche" (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23751).
Alla luce di tali precisazioni, risulta di tutta evidenza come lo stringato rilievo posto a fondamento degli impugnati provvedimenti di diniego sia del tutto inidoneo a costituire sufficiente supporto motivazionale degli stessi, poiché esso non rende conto in alcun modo né delle caratteristiche del bene tutelato né delle specifiche ragioni per cui le opere sarebbero incompatibili con l'ambiente.
Si tratta, perciò, di motivazione solo apparente che, come correttamente rilevato dalla difesa della ricorrente, non consente all'interessata di individuare gli elementi specifici delle opere che siano eventualmente in contrasto con il bene tutelato e, in ipotesi, di apprestare interventi di adeguamento alle esigenze di tutela.
Per queste ragioni, il ricorso è fondato e deve essere accolto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.05.2012 n. 738 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, cui l'articolo 32 della legge 28.02.1985 n. 47 subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere eseguite su aree sottoposte a determinati vincoli, è richiesto anche per le opere eseguite anteriormente all'imposizione dei vincoli stessi.
L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha infatti chiarito che "La pubblica amministrazione, sulla quale a norma dell'articolo 97 Cost. incombe più pressante l'obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone; pertanto, la disposizione di portata generale di cui all'articolo 32, primo comma, della Legge 28.02.1985 n. 47, relativa ai vincoli che appongono limiti all'edificazione, non recando nessuna deroga a questi principi, deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo, atteso che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente".
Conseguentemente, anche nel caso in cui un immobile sia stato edificato prima dell’imposizione del vincolo, la disciplina applicabile rimane sempre quella di cui all'art. 32 della L. 47/1985 e l'opera diventa sanabile ove intervenga il parere favorevole dell’autorità preposta alla gestione del vincolo.
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Ai sensi dell'art. 32, l. 28.02.1985 n. 47 l'esistenza di un vincolo paesaggistico esclude la possibilità della formazione del silenzio assenso sulle domande di rilascio di concessione edilizia in sanatoria.
Dal combinato disposto degli art. 35, comma 19, e 32, comma 1, della l. 28/2/1985 n. 47 si evince che, in caso d’istanza di sanatoria edilizia per opere abusive realizzate in aree sottoposte a vincolo, il silenzio assenso per decorso del termine di ventiquattro mesi dall'emissione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo si forma solo nel caso di parere favorevole, e non anche di parere contrario, poiché il rilascio della concessione in sanatoria per abusi in zone vincolate presuppone necessariamente il parere favorevole, e non il parere "sic et simpliciter" della predetta autorità.
Di conseguenza, nel caso di specie, trattandosi di area vincolata e mancando il parere favorevole dell'autorità competente, il termine normativamente previsto per la formazione del silenzio assenso non ha mai cominciato a decorrere.

Non può però ritenersi fondata la prima censura, secondo la quale, nel caso di vincolo sopravvenuto, il rilascio della concessione in sanatoria non è subordinato al parere della commissione edilizia integrata. Infatti, è consolidato l'insegnamento giurisprudenziale in base al quale il parere dell'Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, cui l'articolo 32 della legge 28.02.1985 n. 47 subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere eseguite su aree sottoposte a determinati vincoli, è richiesto anche per le opere eseguite anteriormente all'imposizione dei vincoli stessi.
L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha infatti chiarito che "La pubblica amministrazione, sulla quale a norma dell'articolo 97 Cost. incombe più pressante l'obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone; pertanto, la disposizione di portata generale di cui all'articolo 32, primo comma, della Legge 28.02.1985 n. 47, relativa ai vincoli che appongono limiti all'edificazione, non recando nessuna deroga a questi principi, deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo, atteso che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente" (cfr. A.P., 22.07.1999 n. 20).
Deve conseguentemente ritenersi che, anche nel caso in cui un immobile sia stato edificato prima dell’imposizione del vincolo, la disciplina applicabile rimane sempre quella di cui all'art. 32 della L. 47/1985 e l'opera diventa sanabile ove intervenga il parere favorevole dell’autorità preposta alla gestione del vincolo (cfr. Consiglio di Stato, VI, 13.03.2008 n. 1077).
Ugualmente infondato è il quarto motivo di ricorso in base al quale, l'istanza di condono sarebbe da ritenersi già accolta per silenzio assenso.
Infatti, in primo luogo, si osserva che la legge sul primo condono edilizio n. 47/1985, in base alla quale è stata avanzata la richiesta di sanatoria (a differenza della legge sul condono successivo n. 724/1994, non applicabile ratione temporis alla fattispecie), non ha previsto l’istituto del silenzio assenso per il parere delle speciali autorità preposte alla tutela dei vincoli, e nemmeno quello del silenzio significativo in termini di diniego, bensì la formazione del silenzio rifiuto (un silenzio, cioè, che esprime l’inerzia dell’amministrazione rispetto all’obbligo generale di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro termini certi), con la conseguenza che l’autorità preposta non perde il potere di provvedere una volta scaduto il termine per il rilascio del parere.
In secondo luogo, quanto al preteso silenzio assenso sulla domanda di sanatoria, si osserva che per costante giurisprudenza, "Ai sensi dell'art. 32, l. 28.02.1985 n. 47 l'esistenza di un vincolo paesaggistico esclude la possibilità della formazione del silenzio assenso sulle domande di rilascio di concessione edilizia in sanatoria" (Tar Umbria, I, 2/2010); come pure precisato, "Dal combinato disposto degli art. 35, comma 19, e 32, comma 1, della l. 28/2/1985 n. 47 si evince che, in caso d’ istanza di sanatoria edilizia per opere abusive realizzate in aree sottoposte a vincolo, il silenzio assenso per decorso del termine di ventiquattro mesi dall'emissione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo si forma solo nel caso di parere favorevole, e non anche di parere contrario, poiché il rilascio della concessione in sanatoria per abusi in zone vincolate presuppone necessariamente il parere favorevole, e non il parere "sic et simpliciter" della predetta autorità" (Tar Lombardia, Brescia, I, 2459/2010).
Di conseguenza, nel caso di specie, trattandosi di area vincolata e mancando il parere favorevole dell'autorità competente, il termine normativamente previsto per la formazione del silenzio assenso non ha mai cominciato a decorrere (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.05.2012 n. 738 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa maggioritaria ha sempre ancorato il dies a quo per l’impugnazione in sede giurisdizionale della concessione edilizia (ed in generale dei titoli abilitativi all’edificazione), per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato, alla data in cui sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica, con la conseguenza che il termine decadenziale per l'impugnazione del permesso di costruire decorre quindi dalla piena conoscenza dell'esistenza e dell'entità delle violazioni urbanistiche o dal contenuto specifico del progetto edilizio, il che postula la conoscenza non solo dell'effetto pratico, ma anche delle ragioni formali che sono alla base del titolo abilitativo.
Tale piena conoscenza del provvedimento impugnato deve essere comprovata dalla parte che eccepisce l'irricevibilità del ricorso e la relativa eccezione va disattesa ove la parte processuale che l'ha sollevata non fornisca la prova idonea a dimostrare che il ricorrente fosse a conoscenza degli atti impugnati.
Il collegio non ignora che una parte della giurisprudenza ritenga che, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire, il requisito della piena conoscenza non postuli necessariamente la conoscenza di tutti i suoi elementi, essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quali l'autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo, salva la possibilità di proporre motivi aggiunti ove dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità (il caso tipico è quello del cartello di cantiere).
In realtà, sia nell’uno che nell’altro caso, può ricavarsi un minimo comune denominatore costituito dalla percezione, per il terzo, delle caratteristiche essenziali dell'opera e dell'eventuale non conformità del permesso di costruire al titolo o alla disciplina urbanistica; il che fa decorrere il termine di impugnazione in modo diverso, a seconda della tipologia di censure proposte, quindi sia dal completamento dei lavori come pure dalla data del loro inizio (qualora si deduca, ad esempio, l'assoluta inedificabilità dell'area o analoghe censure).
Di certo, in mancanza dell’inizio dei lavori, il termine non può che decorrere dalla conoscenza dell’esistenza effettiva di una concessione edilizia, la cui portata lesiva sia apprezzabile.
Il che equivale, in mancanza di un’attività materiale sul campo, alla piena conoscenza del contenuto del provvedimento, posto che, in caso contrario, il ricorrente si esporrebbe ad un ricorso del tutto temerario, non avendo neppure la contezza dell’esistenza stessa del provvedimento lesivo, del quale, quindi, non potrebbe censurare neppure la potenziale illegittimità.
In sintesi, la decorrenza del termine decadenziale per ricorrere al giudice contro l'atto amministrativo consegue alla maturata attualità e concretezza dell'interesse a ricorrere.
Questo, nel caso di ignoto titolo trasformativo del territorio, sorge solo “quando è raggiunta la piena conoscenza da parte del chiunque della ragione giuridica, dall'effetto per lui pregiudizievole, che è alla base del provvedimento”, e quindi “quando le ragioni che sono a base del titolo abilitativo sono davvero divenute note al chiunque, per cui questi vi si può, responsabilmente, opporre in giudizio. Il sospetto in questione lo carica solo dell'onere di chiedere senza indugio alcuno di accedere agli atti dell'amministrazione competente all'abilitazione: e solo in difetto di una tale condotta diligente egli può essere considerato comunque decaduto, trascorso il termine, dai mezzi di tutela in giustizia”.
La giurisprudenza sopra citata ha altresì ribadito che “a voler seguire l'impostazione opposta, il titolare dell'interesse legittimo per tutelare adeguatamente la propria situazione senza incorrere in decadenze dovrebbe adempiere, oltre ogni ragionevole esigibilità, al gravoso onere della proposizione di una diretta azione giurisdizionale, con il suo consistente costo, con l'onerosa assistenza di un professionista, e con l'alea aggiuntiva della mancanza della possibilità di stimarne preventivamente il fondamento e la probabilità di successo. Egli cioè dovrebbe proporre un'impugnazione -il cui fondamento gli è a quel momento ignoto- al solo fine di non incorrere nella decadenza, salvo poi abbandonarla qualora la documentazione acquisita agli atti del processo dimostri la legittimità dell'operato dell'Amministrazione; e l'impossibilità pratica di una pronuncia favorevole gli impedirebbe, anche in questo caso, la rifusione delle spese affrontate.”

La giurisprudenza amministrativa maggioritaria, pertanto, ha sempre ancorato il dies a quo per l’impugnazione in sede giurisdizionale della concessione edilizia (ed in generale dei titoli abilitativi all’edificazione), per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato, alla data in cui sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica, con la conseguenza che il termine decadenziale per l'impugnazione del permesso di costruire decorre quindi dalla piena conoscenza dell'esistenza e dell'entità delle violazioni urbanistiche o dal contenuto specifico del progetto edilizio (Cons. St., sez. IV, 23.01.2012 n. 284; id. 05.01.2011, n. 18; sez. VI, 16.09.2011, n. 5170; id., 10.12.2010, n. 8705; Tar Catania, sez. I, 22.03.2012 n. 800), il che postula la conoscenza non solo dell'effetto pratico, ma anche delle ragioni formali che sono alla base del titolo abilitativo.
Tale piena conoscenza del provvedimento impugnato deve essere comprovata dalla parte che eccepisce l'irricevibilità del ricorso e la relativa eccezione va disattesa ove la parte processuale che l'ha sollevata non fornisca la prova idonea a dimostrare che il ricorrente fosse a conoscenza degli atti impugnati (Tar Salerno, sez. II, 26.01.2012, n. 139).
Il collegio non ignora che una parte della giurisprudenza ritenga che, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire, il requisito della piena conoscenza non postuli necessariamente la conoscenza di tutti i suoi elementi, essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quali l'autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo, salva la possibilità di proporre motivi aggiunti ove dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità (il caso tipico è quello del cartello di cantiere) (in questo senso Cons. St., sez. IV, 02.09.2011 n. 4973; Tar Toscana, sez. III, 26.03.2012 n. 594).
In realtà, sia nell’uno che nell’altro caso, può ricavarsi un minimo comune denominatore costituito dalla percezione, per il terzo, delle caratteristiche essenziali dell'opera e dell'eventuale non conformità del permesso di costruire al titolo o alla disciplina urbanistica; il che fa decorrere il termine di impugnazione in modo diverso, a seconda della tipologia di censure proposte, quindi sia dal completamento dei lavori come pure dalla data del loro inizio (qualora si deduca, ad esempio, l'assoluta inedificabilità dell'area o analoghe censure).
Di certo, in mancanza dell’inizio dei lavori, il termine non può che decorrere dalla conoscenza dell’esistenza effettiva di una concessione edilizia, la cui portata lesiva sia apprezzabile.
Il che equivale, in mancanza di un’attività materiale sul campo, alla piena conoscenza del contenuto del provvedimento, posto che, in caso contrario, il ricorrente si esporrebbe ad un ricorso del tutto temerario, non avendo neppure la contezza dell’esistenza stessa del provvedimento lesivo, del quale, quindi, non potrebbe censurare neppure la potenziale illegittimità.
In sintesi, la decorrenza del termine decadenziale per ricorrere al giudice contro l'atto amministrativo consegue alla maturata attualità e concretezza dell'interesse a ricorrere.
Questo, nel caso di ignoto titolo trasformativo del territorio, sorge solo “quando è raggiunta la piena conoscenza da parte del chiunque della ragione giuridica, dall'effetto per lui pregiudizievole, che è alla base del provvedimento”, e quindi “quando le ragioni che sono a base del titolo abilitativo sono davvero divenute note al chiunque, per cui questi vi si può, responsabilmente, opporre in giudizio. Il sospetto in questione lo carica solo dell'onere di chiedere senza indugio alcuno di accedere agli atti dell'amministrazione competente all'abilitazione: e solo in difetto di una tale condotta diligente egli può essere considerato comunque decaduto, trascorso il termine, dai mezzi di tutela in giustizia” (così Cons. St., sez. VI, 5170/2011, cit.).
La giurisprudenza sopra citata ha altresì ribadito che “a voler seguire l'impostazione opposta, il titolare dell'interesse legittimo per tutelare adeguatamente la propria situazione senza incorrere in decadenze dovrebbe adempiere, oltre ogni ragionevole esigibilità, al gravoso onere della proposizione di una diretta azione giurisdizionale, con il suo consistente costo, con l'onerosa assistenza di un professionista, e con l'alea aggiuntiva della mancanza della possibilità di stimarne preventivamente il fondamento e la probabilità di successo. Egli cioè dovrebbe proporre un'impugnazione -il cui fondamento gli è a quel momento ignoto- al solo fine di non incorrere nella decadenza, salvo poi abbandonarla qualora la documentazione acquisita agli atti del processo dimostri la legittimità dell'operato dell'Amministrazione; e l'impossibilità pratica di una pronuncia favorevole gli impedirebbe, anche in questo caso, la rifusione delle spese affrontate.”
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Il condominio (in persona del suo amministratore, investito di apposita delibera approvata con il quorum richiesto dall'art. 1136 c.c.) possiede la legittimazione e l'interesse ad agire per l'impugnazione, per difformità dalle prescrizioni urbanistico-edilizie, della concessione assentita a terzi (tale principio riguarda, normalmente, la costruzione di stabili sul fondo confinante e, quindi, vale a maggior ragione per costruzioni interne allo stabile comune).
Ciò avviene sia perché sussiste in capo al condominio uno stabile collegamento con la zona (cd. vicinitas), e quindi, nel caso di specie, con la sua stessa struttura, sia (anche senza che venga lamentato un danno specifico) in ragione del pregiudizio che è insito nella violazione edilizia a danno di tutti i membri della collettività e consistente nel sacrificio derivante dall'aggravio connesso alla presenza, nel caso di concreto, di un ulteriore ottavo piano.
La finalità di assicurare e garantire l'uso e la conservazione delle cose comuni, ìnsita nella creazione del condominio di un edificio come centro di imputazione d'interessi, giustifica la titolarità in capo al medesimo dell'azione di annullamento nei confronti dell'illegittima esplicazione dello ius aedificandi anche se ad opera di un condòmino, poiché le azioni promosse a difesa dei diritti e degli interessi legittimi dei condomini esplicano efficacia sull'intero raggruppamento degli occupanti dell'edificio e rappresentano una modalità della realizzazione dell'interesse comune.

La giurisprudenza amministrativa ha costantemente sostenuto che il condominio (in persona del suo amministratore, investito di apposita delibera approvata con il quorum richiesto dall'art. 1136 c.c.) possiede la legittimazione e l'interesse ad agire per l'impugnazione, per difformità dalle prescrizioni urbanistico-edilizie, della concessione assentita a terzi (tale principio riguarda, normalmente, la costruzione di stabili sul fondo confinante e, quindi, vale a maggior ragione per costruzioni interne allo stabile comune).
Ciò avviene sia perché sussiste in capo al condominio uno stabile collegamento con la zona (cd. vicinitas), e quindi, nel caso di specie, con la sua stessa struttura, sia (anche senza che venga lamentato un danno specifico) in ragione del pregiudizio che è insito nella violazione edilizia a danno di tutti i membri della collettività e consistente nel sacrificio derivante dall'aggravio connesso alla presenza, nel caso di concreto, di un ulteriore ottavo piano (cfr. Cons. St., V, 15.02.2010 n. 809).
La finalità di assicurare e garantire l'uso e la conservazione delle cose comuni, ìnsita nella creazione del condominio di un edificio come centro di imputazione d'interessi, giustifica la titolarità in capo al medesimo dell'azione di annullamento nei confronti dell'illegittima esplicazione dello ius aedificandi anche se ad opera di un condòmino, poiché le azioni promosse a difesa dei diritti e degli interessi legittimi dei condomini esplicano efficacia sull'intero raggruppamento degli occupanti dell'edificio e rappresentano una modalità della realizzazione dell'interesse comune (arg. Tar Brescia, 06.05.2005, n. 410; Cass. civ., III, 20.02.2009, n. 4245).
Il Condominio Alfa, pertanto, aveva dunque una piena legittimazione ad adire questo Tribunale (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa comunicazione di avvio del procedimento non è dovuta in relazione ai procedimenti promossi ad iniziativa di parte quale la richiesta di concessione edilizia in sanatoria.
In primo luogo, è infondato il primo motivo del ricorso principale, in quanto la comunicazione di avvio del procedimento non è dovuta in relazione ai procedimenti promossi ad iniziativa di parte quale la richiesta di concessione edilizia in sanatoria (giurisprudenza pacifica, ex plurimis, recentemente, Cons. St., sez. IV, 13.07.2011 n. 4257; Tar Toscana, sez. III, 27.02.2009 n. 350 e 06.02.2008 n. 102)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' pacifico che possa parlarsi di opere di manutenzione straordinaria tutte le volte in cui il rifacimento di alcune parti di un manufatto preesistente, nel senso sopra indicato, non comporti variazioni plano-volumetriche delle stesse, laddove, per contro, interventi edilizi che determinino un aumento delle altezze e un mutamento di destinazione d'uso vanno qualificati come “ristrutturazione edilizia".
Pertanto, seppur il rifacimento o il puro rinnovo di un manufatto preesistente possa essere inquadrato nella categoria della manutenzione straordinaria, ciò presuppone la mancata alterazione di volumi e superfici: in sostanza, deve sussistere un duplice requisito, funzionale e strutturale, consistente sia nella finalità delle opere che nel rispetto dell’obbligo di cui sopra.

Orbene, è pacifico che possa parlarsi di opere di manutenzione straordinaria tutte le volte in cui il rifacimento di alcune parti di un manufatto preesistente, nel senso sopra indicato, non comporti variazioni plano-volumetriche delle stesse, laddove, per contro, interventi edilizi che determinino un aumento delle altezze e un mutamento di destinazione d'uso vanno qualificati come “ristrutturazione edilizia” (Tar Lecce, sez. III, 29.09.2011 n. 1694; Tar Lazio, sez. I, 01.08.2011 n. 6834).
Pertanto, seppur il rifacimento o il puro rinnovo di un manufatto preesistente possa essere inquadrato nella categoria della manutenzione straordinaria, ciò presuppone la mancata alterazione di volumi e superfici: in sostanza, deve sussistere un duplice requisito, funzionale e strutturale, consistente sia nella finalità delle opere che nel rispetto dell’obbligo di cui sopra (Tar Napoli, sez. II, 01.04.2011 n. 1902; Cons. St., sez. IV, 22.03.2007 n. 1388) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'adempimento garantistico di partecipazione e di conoscenza di cui all'art. 7, l. n. 241 del 07.08.1990 è atto dovuto per tutti i procedimenti di autotutela o di secondo grado che mirano all' annullamento od alla revoca di ufficio di un provvedimento amministrativo, posto che tale decisione dell’Amministrazione pregiudica la sfera giuridica del soggetto che in origine aveva beneficiato del provvedimento annullato.
Tale adempimento è obbligatorio in tutti i casi di provvedimenti di secondo grado, ad iniziativa d’ufficio, posto gli stessi sono certamente caratterizzati da un contenuto estremamente discrezionale e sono adottati dall’Amministrazione come frutto di una scelta precisa, non soggetta ad alcun potere impositivo o ad alcuna pretesa da parte del privato, al punto che sull’eventuale istanza sollecitatoria esterna non può mai formarsi un silenzio-inadempimento.
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Normalmente, l’esercizio del potere di autotutela non può prescindere dall’espressa valutazione dell’interesse pubblico sotteso alla decisione amministrativa (e questo anche prima della legge n. 15 del 2005 che ha introdotto gli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge 241/1990, rispettivamente dedicati alla revoca e all’annullamento d’ufficio, così codificando principi già sanciti in epoca passata e relativi alla necessaria valutazione, in sede di autotutela procedimentale, del tempo trascorso dall’adozione del provvedimento ritirato, dell’affidamento ingenerato nei terzi e, soprattutto, dell’interesse pubblico al ritiro del provvedimento), fatta eccezione per quei casi in cui l’interesse pubblico sia in re ipsa.
Anche se in materia urbanistica le esigenze del ripristino della legalità sono, generalmente, idoneo supporto dell'esercizio dell'autotutela, sicché una motivazione sull’interesse pubblico è sovente ritenuta superflua, nel caso oggetto del presente giudizio deve ritenersi che da parte del Comune sarebbe stato necessario fornire le spiegazioni circa le ragioni del provvedimento, stante la particolarità della situazione e la pendenza di un giudizio amministrativo sull’atto sostanzialmente presupposto a quello di autotutela.

Venendo al ricorso per motivi aggiunti avverso l’annullamento, in autotutela, del certificato provvisorio di agibilità, è sicuramente fondato il primo motivo di ricorso, sotto il profilo della mancata comunicazione dell’avvio del procedimento di annullamento d’ufficio.
L'adempimento garantistico di partecipazione e di conoscenza di cui all'art. 7, l. n. 241 del 07.08.1990 è, infatti, atto dovuto per tutti i procedimenti di autotutela o di secondo grado che mirano all' annullamento od alla revoca di ufficio di un provvedimento amministrativo, posto che tale decisione dell’Amministrazione pregiudica la sfera giuridica del soggetto che in origine aveva beneficiato del provvedimento annullato (Cons. St., sez. V, 27.04.2011 n. 2456; Tar Campania, sez. V, 01.02.2012 n. 512; Tar Sardegna, sez. II, 08.08.2011 n. 882).
Tale adempimento, a parere del collegio, e secondo la giurisprudenza maggioritaria, è obbligatorio in tutti i casi di provvedimenti di secondo grado, ad iniziativa d’ufficio, posto gli stessi sono certamente caratterizzati da un contenuto estremamente discrezionale (ex multis, Cons. St., sez. VI, 23.09.1998, n. 1276) e sono adottati dall’Amministrazione come frutto di una scelta precisa, non soggetta ad alcun potere impositivo o ad alcuna pretesa da parte del privato (Tar Campania, sez. III, 08.11.2011 n. 5172; Tar Umbria, 28.07.2011 n. 250), al punto che sull’eventuale istanza sollecitatoria esterna non può mai formarsi un silenzio-inadempimento (Tar Lazio, sez. II, 27.06.2011 n. 5661).
Nel caso in esame, al ricorrente non è stata data formale comunicazione di avvio del procedimento diretto all’annullamento del certificato di agibilità della discoteca (datato 01.03.2000), né sono state evidenziate particolari ragioni di urgenza nell'adozione del provvedimento di annullamento, con la conseguenza che già sotto questo profilo il provvedimento impugnato è illegittimo.
Invero, la partecipazione procedimentale del ricorrente avrebbe potuto contribuire alla completezza della fase istruttoria del procedimento stesso, apportando elementi di valutazione utili a definire la vicenda, anche in ragione della circostanza che l’agibilità era stata pacificamente concessa in relazione al vecchio impianto (anch’esso oggetto di istanza di sanatoria edilizia), e che la nuova struttura, sotto un profilo strettamente igienico – sanitario, era certamente più idonea di quella precedente.
L’accoglimento del motivo precedente è sufficiente per affermare la fondatezza del ricorso per motivi aggiunti.
Per completezza il collegio precisa che il contenuto discrezionale del provvedimento di autotutela, in relazione alle specificità della fattispecie concreta, consente l’accoglimento anche del secondo motivo dei motivi aggiunti, che censura il difetto di motivazione sotto il profilo della mancanza del riferimento all’interesse pubblico al ritiro dell’atto annullato.
Normalmente, infatti, l’esercizio del potere di autotutela non può prescindere dall’espressa valutazione dell’interesse pubblico sotteso alla decisione amministrativa (e questo anche prima della legge n. 15 del 2005 che ha introdotto gli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge 241/1990, rispettivamente dedicati alla revoca e all’annullamento d’ufficio, così codificando principi già sanciti in epoca passata e relativi alla necessaria valutazione, in sede di autotutela procedimentale, del tempo trascorso dall’adozione del provvedimento ritirato, dell’affidamento ingenerato nei terzi e, soprattutto, dell’interesse pubblico al ritiro del provvedimento), fatta eccezione per quei casi in cui l’interesse pubblico sia in re ipsa.
Anche se in materia urbanistica le esigenze del ripristino della legalità sono, generalmente, idoneo supporto dell'esercizio dell'autotutela (ex multis, Cons. St., sez. V, 20.04.2012 n. 2322), sicché una motivazione sull’interesse pubblico è sovente ritenuta superflua, nel caso oggetto del presente giudizio deve ritenersi che da parte del Comune sarebbe stato necessario fornire le spiegazioni circa le ragioni del provvedimento, stante la particolarità della situazione e la pendenza di un giudizio amministrativo sull’atto sostanzialmente presupposto a quello di autotutela.
Infatti, la motivazione posta a sostegno dell’annullamento d’ufficio del certificato provvisorio di agibilità della discoteca (in data 29.10.2001) è stata fatta coincidere, da parte del Comune, esclusivamente con l’emissione del diniego di sanatoria (datato 29.01.2001).
Non si tratta, dunque, di un mancato rilascio dell’agibilità conseguente all’accertamento dell’abusività dell’edificio (circostanza in ordine alla quale, la giurisprudenza amministrativa, dopo una fase di incertezza, è generalmente propensa nel ritenere la legittimità del diniego, si veda Cons. St., sez. V, 30.04.2009, n. 2760; id., 03.02.2000, n. 592), bensì di un ritiro ex post di un provvedimento emesso –in data 01.03.2000- in favore di un edificio la cui sanatoria era già stata richiesta, giustificato esclusivamente sulla base di un successivo diniego di sanatoria.
In pratica, al momento del rilascio dell’agibilità provvisoria (marzo 2000), la situazione di fatto dell’immobile era identica a quella esistente al momento del ritiro del provvedimento (ottobre 2011), eccezion fatta per l’intervenuto diniego di sanatoria.
Ne consegue che sarebbe stato doveroso, per l’Amministrazione, giustificare il proprio operato sotto il profilo della valutazione operata e della lesione dell’affidamento del terzo e considerato che, nel frattempo, il predetto diniego era stato oggetto di ricorso giurisdizionale (ricorso notificato il 05.04.2001).
Può quindi affermarsi che il suddetto provvedimento, non constando nel rilievo di una illegittimità ab origine, ma solo successiva, non avrebbe dovuto essere qualificato come “annullamento d’ufficio” ma semmai come “revoca” (in quanto il mutamento della situazione di fatto è successivo all’emissione del provvedimento originario, ed i suoi effetti si producono ex nunc), sicché la semplice motivazione avente ad oggetto il preteso rapporto di presupposizione/consequenzialità tra agibilità e sanatoria edilizia (per cui venendo meno la seconda va ritirata anche la prima) non costituisce una giustificazione legittima, sotto il profilo dell’interesse pubblico, dell’attività posta in essere dall’ente locale.
Sotto questo profilo, il diniego di sanatoria avrebbe dovuto essere funzionalmente motivato anche in ragione dei profili di merito censurati nel ricorso principale, comparandosi l'interesse pubblico con quello del privato che incolpevolmente ha confidato sulla legittimità dei provvedimenti originari dell'amministrazione (Tar Salerno, sez. II, 31.05.2011 n. 1053) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è in parte orientata nel ritenere che il rilascio dell’agibilità debba aver riguardo non solo alla regolarità igienico-sanitaria dell’edificio, ma anche alla sua conformità urbanistico-edilizia.
Ancor prima della logica giuridica è d'altronde la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualunque destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela degli interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata (corretto uso del suolo, difesa dell'ambiente, salubrità degli abitati, sicurezza e stabilità delle costruzioni, ecc.).
In primo luogo deve rilevarsi che l’art. 221 del T.U. delle Leggi Sanitarie è stato abrogato, a decorrere dal 30.06.2003, dall’articolo 136, comma 2, lettera a), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come modificato dall’articolo 3 del D.L. 20.06.2002, n. 122.
L’attuale disciplina del certificato di agibilità è contenuta agli artt. 24, 25 e 26 del T.U. 380/2001, e la giurisprudenza, come chiarito al capo precedente della presente sentenza, è in parte orientata nel ritenere che il rilascio dell’agibilità debba aver riguardo non solo alla regolarità igienico-sanitaria dell’edificio, ma anche alla sua conformità urbanistico-edilizia (Cons. St., sez. V, 30.04.2009, n. 2760; id., 03.02.2000, n. 592; Tar Calabria, sez. II, 22.11.2011 n. 1398 e 09.07.2011 n. 1009).
Pur dando atto dell’esistenza di giurisprudenza, anche recente, di segno opposto (cfr., tra le più recenti, Tar Lazio, sez. II-bis, 23.11.2011 n. 9212), il collegio rileva come sia la stessa legge ad individuare, nella necessaria conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie, il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del suddetto certificato.
In tal senso depongono sia l'art. 24, comma 3, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (“... il soggetto titolare del permesso di costruire ... (è) tenut(o) a chiedere il certificato di agibilità”) sia, con specifico riferimento alla normativa sul condono, l'art. 35, comma 20, della L. 28.02.1985, n. 47 (“A seguito della concessione ... in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di ... agibilità”).
Ancor prima della logica giuridica è d'altronde la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualunque destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela degli interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata (corretto uso del suolo, difesa dell'ambiente, salubrità degli abitati, sicurezza e stabilità delle costruzioni, ecc.).
Tali ragionamenti possono perfettamente applicarsi anche al tempo in cui il ricorso è stato presentato, e, quindi, vigente l’art. 221 T.U. Leggi Sanitarie.
Pertanto non coglie nel segno il motivo rivolto a censurare il provvedimento di autotutela, sotto il profilo della mancanza di collegamento tra il certificato di agibilità e l’assenza dei presupposti di legittimità urbanistico-edilziia del fabbricato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’omessa pubblicità delle operazioni si pone in radicale antitesi all’indirizzo giurisprudenziale, da ultimo recepito dal diritto positivo (art. 12 d.l. 07.05.2012 n. 52 integrativo dell’art. 120, comma 2, d.P.R. 05.10.2010 n. 207) che, per un verso, ha esteso la pubblicità delle operazioni della Commissione all’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche; e, per l’altro, ha ribadito che la pubblicità delle sedute, posta a presidio dei principi di correttezza e imparzialità, va osservata per tutte le fasi in cui s’articola la procedura di gara specie se conformata al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
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La Commissione di gara che non ha adottato alcuna misura idonea ad assicurare la segretezza e l’integrità degli atti di gara e la generica affermazione del presidente della Commissione, riprodotta nei verbali delle sedute, che “la segreteria tecnica è incaricata della custodia”, non garantisce affatto l’adozione di specifiche cautele idonee ex ante ed in astratto.

Risulta per tabulas, ossia dagli atti di gara depositati in giudizio, che l’apertura delle offerte, avvenuta il 20.09.2011, è stata effettuata da tre funzionari comunali, prima dell’insediamento e della costituzione della Commissione di gara di cui alla deliberazione del 14.11.2011.
Vero è che la relativa seduta concerneva l’esame delle richieste d’invito formulate dalle imprese aspiranti, nondimeno l’art. 84 d.Lgs. n. 163/2006 demanda la totalità delle operazioni di gara, relative all’aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, alla Commissione giudicatrice, non già ai funzionari incardinati nell’organigramma della stazione appaltante (cfr., Cons. St., sez. V, 13.10.2010 n. 7470; Tar Piemonte, sez. I, 09.04.2009 n. 986).
Del resto, sulla scorta del verbale della seduta, s’evince che i funzionari hanno proceduto alla verifica dell’integrità ed all’apertura dei plichi contenti, oltre la richiesta d’invito, le dichiarazioni sul possesso dei requisiti per l’ammissione alla gara.
Ossia un’attività propedeutica ed essenziale della procedura di gara non solo non è stata effettuata dalla Commissione, vale a dire da organo terzo ed imparziale appositamente costituito nella composizione necessaria ad assicurare il possesso delle competenze tecniche richieste in capo ai singoli membri, ma, per quel che più rileva, non è avvenuta in seduta pubblica.
L’omessa pubblicità delle operazioni si pone in radicale antitesi all’indirizzo giurisprudenziale, da ultimo recepito dal diritto positivo (art. 12 d.l. 07.05.2012 n. 52 integrativo dell’art. 120, comma 2, d.P.R. 05.10.2010 n. 207) che, per un verso, ha esteso la pubblicità delle operazioni della Commissione all’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche; e, per l’altro, ha ribadito che la pubblicità delle sedute, posta a presidio dei principi di correttezza e imparzialità, va osservata per tutte le fasi in cui s’articola la procedura di gara specie se conformata al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Aggiungasi, venendo ad altra censura che s’appunta sulle modalità di esecuzione delle operazioni, riferita all’ulteriore iter della gara, che la Commissione non ha adottato alcuna misura idonea ad assicurare la segretezza e l’integrità degli atti di gara.
La generica affermazione del presidente della Commissione, riprodotta nei verbali delle sedute, che “la segreteria tecnica è incaricata della custodia”, non garantisce affatto l’adozione di specifiche cautele idonee ex ante ed in astratto (cfr., sul criterio de quo, perspicuamente, Tar Liguria, sez. II, 22.10.2009 n. 2955) ad evitare la manomissione dei plichi (cfr., da ultimo, Cons. St., sez. V, 28.03.2012 n. 1862).
In definitiva la sussistenza dei due vizi richiamati inficia alla base le operazioni di gara: comporta il conseguente assorbimento dei residui motivi di censura e l’annullamento degli atti impugnati (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato, deve essere collegata alla data in cui sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
Si è pertanto osservato che, eccetto nell'ipotesi in cui si deduca l'inedificabilità dell'area, il dies a quo per la decorrenza del termine di impugnazione va individuato non tanto nell'inizio dei lavori, quanto nel loro completamento, con la conseguenza che l’argomentazione in rito non è accoglibile trattandosi di opere non ultimate alla data di spedizione del ricorso.

Quanto alla presunta tardività, deve rammentarsi che la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato, deve essere collegata alla data in cui sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica (Consiglio di Stato, Sez. VI, 23.01.2012 n. 284; 10.12.2010 n. 8705; Sez. V, 24.08.2007 n. 4485).
Si è pertanto osservato che, eccetto nell'ipotesi in cui si deduca l'inedificabilità dell'area, il dies a quo per la decorrenza del termine di impugnazione va individuato non tanto nell'inizio dei lavori, quanto nel loro completamento (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.05.2010 n. 3378), con la conseguenza che l’argomentazione in rito non è accoglibile trattandosi di opere non ultimate alla data di spedizione del ricorso (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.05.2012 n. 2400 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mancata quantificazione del contributo di urbanizzazione non costituisce un requisito di legittimità del titolo edilizio, in quanto il procedimento di determinazione del contributo di urbanizzazione è diverso e autonomo rispetto al procedimento di rilascio del titolo edilizio, sia perché persegue finalità sue proprie, sia perché si conclude con un provvedimento diverso da quello concessivo del titolo a costruire, che è autonomamente impugnabile e suscettivo di annullamento senza ripercussioni sulla concessione.
Secondo condivisibile indirizzo pretorio, la mancata quantificazione del contributo di urbanizzazione non costituisce un requisito di legittimità del titolo edilizio, in quanto il procedimento di determinazione del contributo di urbanizzazione è diverso e autonomo rispetto al procedimento di rilascio del titolo edilizio, sia perché persegue finalità sue proprie, sia perché si conclude con un provvedimento diverso da quello concessivo del titolo a costruire, che è autonomamente impugnabile e suscettivo di annullamento senza ripercussioni sulla concessione (Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.04.2009 n. 2438 e 31.01.1995 n. 37) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.05.2012 n. 2400 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Trattandosi di proprietà finitime, sussiste una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con l’area coinvolta dalla costruzione che, qualora illegittimamente assentita, è idonea ad arrecare un pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima che legittima la proposizione del ricorso.
Pertanto, nel caso di specie, la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a creare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo altresì la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse di rilevanza giuridica, riferibile a norme di diritto privato o di diritto pubblico.

Neppure coglie nel segno l’eccezione di inammissibilità per carenza di interesse, considerato che la Sig.ra Maria Teresa Camerlengo è comproprietaria confinante dell’area interessata dal progetto edilizio de quo.
Trattandosi quindi di proprietà finitime, sussiste una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con l’area coinvolta dalla costruzione che, qualora illegittimamente assentita, è idonea ad arrecare un pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima che legittima la proposizione del ricorso.
Non resta quindi che fare applicazione del consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui il Collegio non ritiene di discostarsi, secondo cui la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a creare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo altresì la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse di rilevanza giuridica, riferibile a norme di diritto privato o di diritto pubblico (Consiglio di Stato, Sez. IV, 23.01.2012 n. 284; 05.01.2011 n. 18; 04.05.2010 n. 2565; 29.07.2009 n. 4756; 31.05.2007 n. 2849; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 08.04.2011 n. 2028)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.05.2012 n. 2400 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro, cartellini marcatempo, falsa attestazione, reato, non configurabilità.
Non integra il delitto di falso ideologico in atto pubblico la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, in quanto documenti che non hanno natura di atto pubblico, ma di mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, documenti che, peraltro, non contengono manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili alla P.A. (1)
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(*) Riferimenti normativi: art. 479 c.p.
(1) Cfr. Cass. Pen., SS.UU., sentenza 11.04.2006 n. 15983
(Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 21.05.2012 n. 19299 - link a www.altalex.com).
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Pausa pranzo senza timbrare? Dipendente pubblico non commette reato.
La questione sottoposta all'esame della presente pronuncia (se, cioè, integri il reato di falso ideologico in atto pubblico la mancata timbratura, da parte del dipendente pubblico, del cartellino segnatempo in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro), comporta l'esame e la soluzione di altra, preliminare questione e, cioè, se il cartellino marcatempo (che meccanicamente annota gli orari di ingresso e di uscita dal luogo di lavoro) ed i fogli di presenza (che assolvono ad analoga funzione) dei pubblici dipendenti abbiano o meno natura di atto pubblico.
La prevalente giurisprudenza di legittimità si è al riguardo positivamente orientata, sulla considerazione che tali atti svolgerebbero la loro funzione non solo in riferimento al rapporto di lavoro tra impiegati pubblici e pubblica amministrazione, ma anche in relazione alla organizzazione stessa di quest'ultima, con riflessi sulla sua funzionalità, essendo, perciò, essi "destinati a produrre effetti per la stessa pubblica amministrazione", anche in ordine al "controllo dell'attività e regolarità dell'ufficio"; tali attestazioni, quindi, sarebbero "preordinat(e) ad attestare la certezza dello svolgimento della pubblica funzione da parte di coloro che ne sono preposti", non rilevando al riguardo la natura privatistica del rapporto di lavoro tra pubblico dipendente e pubblica amministrazione (Cass. pen., sez. V, n. 5676 del 2005; Cass. pen., sez. V, n. 16503 del 2004; Cass. pen., sez. V, n. 43844 del 2004; Cass. pen., sez. V, n. 42245 del 2004).
L'opposto minoritario indirizzo giurisprudenziale fa leva, in sostanza, sulla considerazione che siffatte attestazioni rilevano "in via diretta ed immediata unicamente ai fini della retribuzione e comunque del regolare svolgimento della prestazione di lavoro e solo indirettamente, e mediatamente, ai fini del regolare svolgimento del servizio" (Cass. pen., sez. V, n. 44689 del 2005).
Posto, difatti, che la condotta di falsificazione ideologica del pubblico ufficiale ipotizzata dall’art. 479 c.p. (come quella materiale di cui all’art. 476 c.p.) deve sostanziarsi in una attività svolta "nell'esercizio delle sue funzioni" pubblicistiche, appare ineludibile distinguere, nell'attività del pubblico impiegato -ed in un contesto in cui il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti ha assunto connotazioni privatistiche (a seguito della disciplina introdotta con il D.Lgs. 29/1993, modificata dal D.Lgs. 80/1998, ora trasfusa nel D.Lgs. 165/2001)- "gli atti che sono espressione della pubblica funzione e/o del pubblico servizio e che tendono a conseguire gli obiettivi dell'ente pubblico" da quelli "strettamente attinenti alla prestazione" di lavoro, "ed aventi, perciò, esclusivo rilievo sul piano contrattuale e non anche su quello funzionale" (Cass. pen., Sez. V, n. 12789 del 2003).
Premesso, invero, che secondo la costante giurisprudenza di Cass. pen., 8151/1976 e la prevalente dottrina, "agli effetti delle norme sul falso documentale, il concetto di atto pubblico è più ampio rispetto a quello che si desume dalla definizione contenuta nell'art. 2699 c.c., in quanto comprende non soltanto quei documenti che sono redatti con le richieste formalità da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede, ma anche i documenti formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato incaricato di pubblico servizio nell'esercizio delle sue funzioni, attestanti fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine ad assumere rilevanza giuridica", rimane che -come si esprime autorevole dottrina- "la falsa rappresentazione della realtà che viene documentata deve essere rilevante in relazione alla specifica attività del pubblico ufficiale ... e ciò significa che la falsità deve investire un fatto che, in relazione al concreto esercizio della funzione o attribuzione pubblica, abbia la potenzialità di produrre effetti giuridici".
Deve, allora, convenirsi che, la falsa attestazione della propria presenza in ufficio (cui può essere equiparata la omessa segnalazione della assenza) da parte di un Pubblico ufficiale non configura il delitto di falso ideologico in atti pubblici ex art. 479 c.p..

PUBBLICO IMPIEGOIl foglio di presenza degli impiegati pubblici ha natura di atto pubblico, in quanto il dipendente che dichiara la sua presenza in ufficio assume il ruolo di pubblico ufficiale chiamato ad attestare un fatto rilevante non soltanto in funzione delle competenze retributive, ma anche di tutto ciò che possa inerire al regolare svolgimento del pubblico servizio.
Considerato in diritto:
Il ricorso è fondato; non integra, infatti, il delitto di falso ideologico in atto pubblico la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, in quanto documenti che non hanno natura di atto pubblico, ma di mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, documenti che, peraltro, non contengono manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili alla P.A. (Sez. U, n. 15983 del 11/04/2006, Sepe, cui si è conformata la successiva giurisprudenza: La falsa attestazione del pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili; cfr. sez. 2, n. 34210 del 06/10/2005, Buttiglieri) (tratto da www.diritto.it - Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 21.05.2012 n. 19299).

EDILIZIA PRIVATAL’Amministrazione comunale fonda le proprie pretese su porzione della fascia di rispetto controversa sulla presunzione di proprietà pubblica delle strade ex art. 22 della legge n. 2248/1865, All. F, di cui in particolare per quanto qui rileva, sono considerati parte integrante –testualmente- “i fossi laterali che servono unicamente o principalmente agli scoli..”; e per vincere tale presunzione -iuris tantum- è necessario fornire –piena- prova contraria del carattere privato dell’area.
Il punto che resta controverso è dunque la natura pubblica o privata di una porzione tale area (si ribadisce quella sulla quale insisterebbe il canale di scolo), il cui accertamento rileva ai fini del dimensionamento della volumetria edificabile. L’atto impugnato contiene un chiaro riferimento alla “...discrepanza derivante dalla non corrispondenza tra la realtà e la restituzione del rilievo catastale...” per cui vi sarebbe “...una consistente quota di suolo che la ditta ha sostenuto che facesse parte della superificie sulla quale far sorgere l’immobile privato…”.
La quota mancante, secondo la prospettazione di parte ricorrente, coinciderebbe con l’intera fascia di rispetto in discussione. A riprova dell’assunto, la stessa allega l’atto di compravendita del 23.05.2006 a rogito del notaio D’Agosto, dal quale in effetti emerge l’acquisto di un’area con superficie reale dichiaratamente più estesa di quella catastale (mq. 536 a fronte di mq. 336), ricadente “...nel vigente PdF parte in zona B1 (zona di completamento) e parte su fascia di rispetto stradale”.
Tali risultanze sono tuttavia insufficienti a fornire la prova decisiva della proprietà privata secondo l’insegnamento della Suprema Corte (Cass. n. 3568/2002); parallelamente, tuttavia, non sono dirimenti le risultanze catastali, le quali hanno semplice valore indiziario (Cass., Sez. II, 09.07.1980, n. 4372).
L’Amministrazione comunale fonda invece le proprie pretese su porzione della fascia di rispetto controversa -come detto- sulla presunzione di proprietà pubblica delle strade ex art. 22 della legge n. 2248/1865, All. F , di cui in particolare per quanto qui rileva, sono considerati parte integrante –testualmente- “i fossi laterali che servono unicamente o principalmente agli scoli..”; e per vincere tale presunzione -iuris tantum- è necessario fornire –piena- prova contraria del carattere privato dell’area (cfr. Cass. civ., sez. II, 02.03.2007 n. 4975 e 09.11.2009, n. 23705; in termini Sez. II, 27.05.2002, n. 7708) (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 18.05.2012 n. 957 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Pozzo chiuso per ordine del sindaco? Decide il T.S.A.P..
Rientra nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche una controversia avente a oggetto l'impugnazione di un'ordinanza, con cui il Sindaco ha disposto l'immediata chiusura di un pozzo per l'attingimento di acque di falda ubicato in proprietà privata e ordinato alla Provincia di revocare la relativa concessione.
Il deducente ha impugnato l’ordinanza con cui il Sindaco del Comune di appartenenza aveva ingiunto al medesimo la chiusura ad horas del pozzo esistente nella sua proprietà, con mezzi idonei da non consentire l'attingimento delle acque di falda per qualsiasi uso e/o scopo e, all'Amministrazione provinciale, di provvedere alla revoca di eventuali concessioni con chiusura e sigillatura del pozzo in questione.
Costituitasi in giudizio, la civica P.A. ha eccepito, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo, ritenendo sussistente la giurisdizione del Tribunale Superiore della Acque Pubbliche.
Siffatta eccezione è stata ritenuta fondata.
Sul punto, il TAR capitolino ha rammentato come, ai sensi dell'art. 143, comma 1, lett. a), R.D. n. 1775/1933 (T.U. delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici), appartengono alla cognizione diretta del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche tutti "i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti ... presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche".
Sicché, in virtù di un consolidato orientamento, l’adito Tribunale ha precisato come la menzionata disposizione avrebbe dovuto intendersi nel senso che rientrano nella giurisdizione del T.S.A.P. i gravami contro provvedimenti caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, ancorché adottati da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 12.06.2009, n. 3678; idem, 25.05.2010, n. 3325; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 02.12.2010, n. 4059).
Al riguardo, al fine di una maggiore compiutezza dell’analisi del gravame, il giudicante ha richiamato la notoria decisione della Suprema Corte, secondo cui: "… sono devoluti alla cognizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche tutti i ricorsi avverso i provvedimenti che, per effetto della loro incidenza sulla realizzazione, sospensione o eliminazione di un'opera idraulica riguardante acque pubbliche, concorrono, in concreto, a disciplinare le modalità di utilizzazione di dette acque, onde in tale ambito vanno ricompresi anche i ricorsi avverso i provvedimenti che, pur costituendo esercizio di un potere non strettamente attinente alla materia delle acque e inerendo a interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, riguardino comunque l'utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera diretta e immediata sul regime delle acque.
Per converso, sono escluse dalla giurisdizione di detto Tribunale le controversie aventi a oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati a incidere sul regime delle acque, le quali non richiedono le competenze giuridiche e tecniche, ritenute dal legislatore necessarie -attraverso la configurazione di uno speciale organo giurisdizionale, nella particolare composizione richiesta- per la soluzione dei problemi posti dalla gestione delle acque pubbliche
" (Cass. Civ., SS. UU., 11.05.2007, n. 10750).
Parallelamente, ha osservato come il Tribunale Superiore delle Acque avesse affermato la propria giurisdizione: "… quando i provvedimenti amministrativi impugnati siano caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, concorrendo, in concreto, a disciplinare direttamente la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche e i rapporti con i concessionari o a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o a influire nella loro realizzazione, mediante sospensione e revoca dei relativi provvedimenti, come quelli relativi a opere dirette a trasferire (galleria) e utilizzare (centrale idroelettrica) acque pubbliche che, quindi, proprio in relazione ai loro connotati oggettivi e teleologici, abbiano effetti immediati e diretti sul regime delle acque pubbliche" (T.S.A.P., 13.07.2007, n. 123).
Di tal ché, con riferimento alla vicenda, il Collegio ha ritenuto che il provvedimento impugnato avesse spiegato incidenza diretta sul regime delle acque pubbliche, in quanto contenente l’ordine, rivolto al ricorrente, di chiusura dei pozzi esistenti nella sua proprietà per l’attingimento delle acque di falda, nonché l’ordine, rivolto all’Amministrazione provinciale, di procedere alla revoca di eventuali concessioni con la chiusura e sigillatura dei pozzi in questione.
Di conseguenza, ha rilevato come la cognizione della controversia esulasse dalla giurisdizione del Giudice amministrativo per rientrare nella giurisdizione del Tribunale Superiore della Acque Pubbliche.
Né, ha osservato, a differente conclusione poteva condurre la circostanza per cui il gravato provvedimento avesse fatto seguito a una nota del Commissario di Governo nella quale era stato ordinato al Sindaco, in qualità di massima autorità sanitaria locale, di provvedere a emettere apposita ordinanza di interdizione all’utilizzo dei pozzi risultati contaminati, nonché alla Provincia di provvedere alla revoca delle concessioni dei pozzi con la chiusura e la sigillatura degli stessi.
Alla stregua di siffatte argomentazioni, il TAR di Roma ha pertanto dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione del G.A., rientrando la controversia nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, dinanzi al quale la domanda dovrà essere riproposta a norma dell'art. 11, D.Lgs n. 104/2010 (tratto da www.ipsoa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 14.05.2012 n. 4296 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti, il Comune può escludere l’impresa indagata per turbativa d’asta.
Un comune può escludere dall’elenco delle imprese di fiducia una ditta il cui titolare è stato rinviato a giudizio per aver commesso reati contro la stessa amministrazione comunale.

Il TAR Palermo ha respinto il ricorso presentato da una ditta che era stata esclusa dall’albo delle imprese di fiducia di un Comune, e a cui in seguito era stata revocata l’aggiudicazione definitiva di alcuni lavori, in quanto imputata per turbativa d’asta.
Il Comune in questione aveva indetto una gara di appalto, da aggiudicarsi mediante la procedura di cottimo fiduciario, avente ad oggetto i lavori di “Manutenzione straordinaria a contratto aperto della viabilità cittadina – (strade, marciapiedi, aree pubbliche e parapetti)”. La partecipazione alla gara era stata riservata esclusivamente alle imprese che, all’atto dell’indizione del bando e della successiva presentazione delle offerte, risultavano regolarmente iscritte all’albo delle imprese di fiducia del Comune stesso. La gara veniva vinta dall’impresa edile di fiducia Portelli Antonio.
Successivamente all’aggiudicazione definitiva dei lavori oggetto di gara, l’amministrazione appaltante scopriva che il titolare della ditta aggiudicataria era stato coinvolto nell’operazione Octopus che riguardava i reati contro la libertà degli incanti commesso nel 2003 ai danni del Comune. Pertanto l’amministrazione dopo aver escluso la ditta dall’albo delle imprese di fiducia, le revocava l’aggiudicazione definitiva dei lavori oggetto dell’appalto. Decisione questa che dava seguito alla direttiva comunale “percorso di legalità” atta ad escludere dall’albo di fiducia le imprese con carichi pendenti per determinati reati.
Il titolare della ditta impugnava i provvedimenti proponendo ricorso al Tar di Palermo, che lo ha rigettato ritenendolo infondato.
Per il Tribunale amministrativo infatti, la revoca dell’aggiudicazione, “è stata adottata –in via di autotutela– non per motivi di legittimità bensì per motivi di opportunità”. Anche se infatti non era stata accertata con sentenza irrevocabile la responsabilità penale del titolare, la circostanza che lo stesso era stato rinviato a giudizio per fatti penalmente rilevanti, a lui riferibili, in relazione a gare per l’affidamento di lavori nello stesso comune, “è più che sufficiente per giustificare appieno i provvedimenti di revoca impugnati”.
Riguardo poi, la contestazione che i reati per i quali il titolare è imputato, “associazione a delinquere nella forma semplice” (art. 416 c.p.) e “turbata libertà degli incanti” (art. 353 c.p.), non erano ricompresi nella determina comunale che elencava le fattispecie penali ostative all’inserimento nell’albo delle imprese fiduciarie, il Tar di Palermo ha ritenuto illogico che la giunta, secondo il ricorrente, abbia voluto escludere determinati titoli di reato pertinenti con le aggiudicazioni dei lavori.
Per il Tar, dunque, il rinvio a giudizio per reati commessi contro il comune è stato, indubbiamente, più che sufficiente a creare sfiducia nei confronti dell’impresa e a legittimarne l’esclusione con la conseguente revoca dell’aggiudicazione definitiva (commento tratto da www.leggioggi.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 14.05.2012 n. 972 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Limitazione della sanatoria ai soli reati urbanistici.
Il rilascio in sanatoria del permesso di costruire, determina l'estinzione dei soli "reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti" e quindi si riferisce esclusivamente alle contravvenzioni concernenti la materia che disciplina l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio, ossia alle violazioni della stessa legge, in cui sono contemplate le ipotesi tipiche suscettibili di sanatoria.
Ne deriva l'inapplicabilità della causa estintiva agli altri reati che riguardino altri aspetti delle costruzioni ed aventi oggettività giuridica diversa rispetto a quella della mera tutela urbanistica del territorio, come i reati relativi a violazioni di disposizioni in materia di costruzioni in zona sismica, o in materia di opere in conglomerato cementizio, ovvero in materia di tutela delle zone di particolare interesse ambientale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.05.2012 n. 17825 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Materiali provenienti da demolizioni.
I materiali provenienti da demolizioni rientrano nei novero dei rifiuti in quanto oggettivamente destinati all'abbandono; l'eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l'obbligo di disfarsi.
L'eventuale assoggettamento di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implica la dimostrazione, da parte di chi lo invoca, della sussistenza di tutti presupposti previsti dalla legge (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.05.2012 n. 17823 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAL’articolo 33 (interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità) comma 2 del t.u. dell’edilizia, infatti, ammette l’irrogazione di una sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria qualora, sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi <<non sia possibile>>.
Trattasi di disposizione, riferita agli interventi di ristrutturazione edilizia effettuati in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, avente natura eccezionale.
E’ senz’altro possibile che l’amministrazione fissi dei criteri sulla base dei quali dovrà poi modellarsi, di volta in volta, il giudizio di possibilità o meno, ma, ciò che invece non pare essere consentito dalla legge, è che la discrezionalità amministrativa si spinga oltre la lettera della stessa, fino a prefigurare un parametro non già di possibilità/impossibilità, bensì di “opportunità” o meno di procedere alla demolizione delle opere abusive.
Non sembra in altri termini che la legge, all’atto della valutazione relativa alla sostituibilità della disposta sanzione ripristinatoria con quella pecuniaria, ammetta deroghe ispirate a parametri diversi da quelli della materiale o comunque tecnica impossibilità di demolire (art. 33, co. 2 cit.) e che per loro natura contraddicono la sopracitata natura eccezionale della disposizione. La valutazione sulla opportunità o meno di demolire -infatti- muta il profilo stesso della valutazione, introducendo a pieno titolo un contenuto discrezionale i cui spazi giustificativi non appaiono rinvenibili nella norma considerata.

L’articolo 33 (interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità) comma 2 del t.u. dell’edilizia, infatti, ammette l’irrogazione di una sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria qualora, sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi <<non sia possibile>>. Come rilevato in giurisprudenza (cfr. TAR Lazio, II, 24/09/2002 n. 8106; TAR Campania, Napoli, IV 26/10/2001 n. 4703; TAR Marche 29/04/1992 n. 259) trattasi di disposizione, riferita agli interventi di ristrutturazione edilizia effettuati in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, avente natura eccezionale.
E’ senz’altro possibile, ad avviso del collegio, che l’amministrazione fissi dei criteri sulla base dei quali dovrà poi modellarsi, di volta in volta, il giudizio di possibilità o meno, ma, ciò che invece non pare essere consentito dalla legge, è che la discrezionalità amministrativa si spinga oltre la lettera della stessa, fino a prefigurare un parametro non già di possibilità/impossibilità, bensì di “opportunità” o meno di procedere alla demolizione delle opere abusive, come appunto fatto dal comune con la cd. direttiva, che specifica poi tale criterio di opportunità nella seguente elencazione tipologica: <<interventi di modesta entità, non autonomamente utilizzabili, quali ampliamenti o sopraelevazioni a fabbricati conformi, parziali trasformazioni della destinazione d’uso, tettoie, verande ecc che non compromettono l’aspetto estetico degli immobili e il tessuto socio economico del territorio tipicamente correlato all’attività edilizia>>.
Non sembra in altri termini al Tribunale che la legge, all’atto della valutazione relativa alla sostituibilità della disposta sanzione ripristinatoria con quella pecuniaria, ammetta deroghe ispirate a parametri diversi da quelli della materiale o comunque tecnica impossibilità di demolire (art. 33, co. 2 cit.) e che per loro natura contraddicono la sopracitata natura eccezionale della disposizione. La valutazione sulla opportunità o meno di demolire -infatti- muta il profilo stesso della valutazione, introducendo a pieno titolo un contenuto discrezionale i cui spazi giustificativi non appaiono rinvenibili nella norma considerata.
Illegittimamente pertanto l’amministrazione, nella specie, ha dettato la direttiva in parola, contemplante una serie di interventi esclusi dalla demolizione (fra cui quello riconducibile al manufatto “de quo”) sulla base d’un criterio valutativo estraneo alla legge (TAR Basilicata, sentenza 11.05.2012 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: L'adozione dell'ordinanza ex art. 14, comma 3, D.Lg.vo n. 22/1997, trattandosi di un atto di gestione (più precisamente di un provvedimento sanzionatorio), rientra nella competenza del Dirigente comunale e non del Sindaco.
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Il principio statuito dall'art. 107, comma 5, D.Lg.vo n. 267/2000, secondo cui dall'entrata in vigore di quest’ultimo decreto le norme che conferiscono al Sindaco (od anche al Consiglio Comunale o alla Giunta Comunale) la competenza ad adottare atti di gestione amministrativa vanno interpretate nel senso che tale competenza spetta ai Dirigenti comunali, si applica anche alle norme emanate successivamente all'entrata in vigore del D.Lg.vo n. 267/2000, in quanto ai sensi dell'art. 1, comma 4, del medesimo "le Leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe al presente Testo Unico, se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni" e l'ultimo periodo dell'art. 192, comma 3, D.Lg.vo n. 152/2006, il quale riproduce pedissequamente il contenuto dell'ultima frase del precedente art. 14, comma 3, D.Lg.vo n. 22/1997, non prevede espressamente una deroga al menzionato art. 107.

... per l'annullamento dell’ordinanza sindacale n. 14 del 02/04/2010, di rimozione e smaltimento rifiuti abbandonati alla contrada Gaudo, nei pressi della strada prov.le ex s.s. 93 e la strada vicinale denominata "Selvaggio".
...
E’ fondato il dedotto vizio di incompetenza, come da giurisprudenza di questo TAR (cfr. 28/09/2007 n. 620).
Infatti, ai sensi dell'art. 107, comma 5, D.Lg.vo n. 267/2000 "a decorrere dall'entrata in vigore del presente Testo Unico" (cioè ai sensi dell'art. 10, comma 1, Disp. Prelim. al C.C. dal 13.10.2000: 15° giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del predetto D.Lg.vo n. 267/2000) "le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al Capo I del Titolo III" (cioè il Consiglio Comunale, la Giunta Comunale ed il Sindaco: cfr. artt. 36-54) "l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai Dirigenti, salvo quanto previsto dall'art. 50, comma 5, e dall'art. 54".
Mentre ai sensi dell'art. 50, comma 5, D.Lg.vo n. 267/2000 spetta al Sindaco "in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica" soltanto l'adozione delle ordinanze contingibili ed urgenti (come quelle di "eccezionale ed urgente necessità di tutela della salute pubblica e dell'ambiente e non si possa altrimenti provvedere", previste anche dall'art. 13 D.Lg.vo n. 22/1997, per le quali è prevista la competenza del Sindaco, quando gli effetti dell'emergenza sanitaria e/o ambientale investono il solo territorio comunale), tra le quali non rientrano quelle disciplinate dall'art. 14, comma 3, D.Lg.vo n. 22/1997, in quanto tali ordinanze hanno un carattere sanzionatorio (cfr. TAR Parma Emilia Romagna sez. I, 12.07.2011, n. 255), essendo previste soltanto per le violazioni imputabili "a titolo di dolo o colpa", rientrante nell'ordinaria gestione amministrativa di spettanza dirigenziale. Mentre l'art. 54, comma 2, D.Lg.vo n. 267/2000 prevede soltanto l'adozione da parte del Sindaco (nella qualità di Ufficiale del Governo) di ordinanze contingibili ed urgenti, al fine di prevenire ed eliminare gravi percoli che minacciano l'incolumità dei cittadini, cioè trattasi di ordinanze contingibili ed urgenti che riguardano una fattispecie diversa da quella oggetto della controversia in esame.
Pertanto, l'adozione dell'ordinanza ex art. 14, comma 3, D.Lg.vo n. 22/1997, trattandosi di un atto di gestione (più precisamente di un provvedimento sanzionatorio), rientra nella competenza del Dirigente comunale e non del Sindaco, per cui l'Ordinanza Sindacale impugnata con il presente ricorso non risulta affetta dal vizio di incompetenza (cfr. TAR Basilicata Sentenze n. 878 del 18.09.2003, n. 658 del 20.06.2003, n. 873 dell'11.12.2001 e n. 675 del 27.08.2001; TAR Napoli Sez. I Sentenze n. 7532 del 12.06.2003, n. 1291 del 12.03.2002 e n. 5324 del 07.12.2001; TAR Brescia Sent. n. 792 del 25.09.2001).
Al riguardo va pure precisato che il principio statuito dal suddetto art. 107, comma 5, D.Lg.vo n. 267/2000, secondo cui dall'entrata in vigore di quest’ultimo decreto le norme che conferiscono al Sindaco (od anche al Consiglio Comunale o alla Giunta Comunale) la competenza ad adottare atti di gestione amministrativa vanno interpretate nel senso che tale competenza spetta ai Dirigenti comunali, si applica anche alle norme emanate successivamente all'entrata in vigore del D.Lg.vo n. 267/2000, in quanto ai sensi dell'art. 1, comma 4, del medesimo "le Leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe al presente Testo Unico, se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni" e l'ultimo periodo dell'art. 192, comma 3, D.Lg.vo n. 152/2006, il quale riproduce pedissequamente il contenuto dell'ultima frase del precedente art. 14, comma 3, D.Lg.vo n. 22/1997, non prevede espressamente una deroga al menzionato art. 107 (TAR Basilicata, sentenza 11.05.2012 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa previsione speciale e derogatoria dell’art. 14 del D.Lvo 285 del 1992 è giustificata dal fatto evidente che <la pulizia della strada interferisce direttamente con la stessa funzionalità dell’infrastruttura e con la sicurezza della viabilità e non può non fare capo direttamente al soggetto gestore (proprietario, concessionario o comunque affidatario della gestione del bene);… del resto, sarebbe illogico imporre al comune il dovere di rimuovere i rifiuti accumulati sulla strada e sue pertinenze, poiché tale attività implicherebbe l’occupazione della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il trasporto, il transito di operatori ecologici e altre attività incompatibili con il normale flusso della circolazione stradale, o comunque interferenti con essa; attività che solo l’ente gestore della strada può razionalmente programmare ed attuare “in sicurezza”, con la contestuale, necessaria adozione di tutte le misure e le cautele idonee a garantire la sicurezza della circolazione e degli operatori addetti alle pulizie>; si tratta, quindi, della semplice rilevazione della possibile interferenza delle attività di raccolta dei rifiuti con le esigenze di sicurezza della circolazione stradale e, quindi, di una circostanza che investe, non solo la raccolta dei rifiuti abbandonati direttamente sulla sede stradale, ma anche i rifiuti abbandonati sulle pertinenze o sulle altre strutture annesse alla strada.
La competenza dell’ente proprietario della strada (o del gestore) trova giustificazione anche nella necessità di evitare la frammentazione di competenze che deriverebbe dal semplice fatto che un determinato tratto stradale attraversa i territori di più comuni (con il rischio di comportamenti differenziati); da non trascurare poi l’ulteriore considerazione, rilevante anche ai fini dell’analisi economica della previsione, relativa al fatto che, attraverso l’art. 14 del D.Lvo 285 del 1992, si ottiene il risultato di attribuire chiaramente (e sulla base di una forma di responsabilità oggettiva) al soggetto gestore della strada l’obbligo di procedere alla pulizia della strada e delle pertinenze (si pensi, a questo proposito, al pericolo imminente che può derivare dal trasporto sulla sede stradale, ad opera di agenti atmosferici, di rifiuti abbandonati sulle pertinenze stradali), così determinando benefici effetti sulla sicurezza della circolazione, sulla base di una strutturazione complessiva che non preclude certo la possibile rivalsa dell’ente proprietario o gestore della strada sul soggetto autore dell’abbandono dei rifiuti e quindi la necessità sostanziale di attribuire (ovviamente, solo ove possibile) al responsabile dell’inquinamento la responsabilità finale dell’abuso.
In definitiva, trattandosi indubbiamente di rifiuti abbandonati sulle immediate pertinenze (piazzole di sosta e strisce di terreno comprese tra la carreggiata ed il confine stradale) di strada in concessione all’ANAS, la legittimità del provvedimento impugnato deve essere valutata con riferimento al parametro costituito dall’art. 14 del D.Lvo 30.04.1992, n. 285 e non dall’art. 192 del D.Lvo 03.04.2006, n. 152; ne deriva l’infondatezza delle censure proposte da parte ricorrente.
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Sul rilievo del mancato accertamento del dolo o della colpa del proprietario/gestore della strada devesi far presente che la previsione dell’art. 14 del D.Lvo 285/1992 individua la responsabilità oggettiva del gestore della strada e, quindi, una strutturazione della responsabilità che non richiede il previo accertamento del dolo o colpa dello stesso; analogamente, non è richiesta la previa ricerca dell’autore dell’abbandono dei rifiuti che è rinviata, per così dire, alla fase successiva della rivalsa da parte dell’ente gestore.

... per l'annullamento ordinanza dirigenziale n. 109 dell'08/09/2010, di rimozione rifiuti abbandonati lungo la ss 96-bis direzione Bari e lungo la ss 655 "Bradanica" direzione Matera.
...
Quanto alla prima censura, l’ordinanza impugnata, se ricorrono i presupposti previsti dall’art. 14 del D.Lg.vo n. 285/1992, in quanto atto vincolato, non necessitava di previa comunicazione di avvio del procedimento; comunque la stessa non avrebbe potuto comunque assumere diverso contenuto.
Poi, con specifico riferimento a quest’ultima previsione di legge (art. 14 cit., che recita: <gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo… Per le strade in concessione i poteri e i compiti dell’ente proprietario della strada previsti dal presente codice sono esercitati dal concessionario>), essa attribuisce all’ente proprietario della strada (o al concessionario, nel caso di strada in concessione) la competenza a provvedere <alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo>; si tratta quindi indubbiamente di una previsione che centralizza sostanzialmente nel gestore del servizio stradale tutte le competenze relative alla corretta manutenzione, pulizia e gestione del tratto stradale.
Tra i titolari di diritti personali di godimento va compresa quindi anche la società ricorrente, in quanto appunto concessionaria della gestione e della manutenzione ordinaria e straordinaria delle strade e delle autostrade di proprietà dello Stato (cfr. art. 2, comma 1, lett. a, D.Lg.vo n. 143/1994).
Per effetto soprattutto dell’esplicita previsione della pulizia della sede stradale e delle pertinenze, appare poi di tutta evidenza come si tratti sostanzialmente di una previsione caratterizzata da un rapporto di specialità rispetto alle disposizioni del D.Lgvo 152/2006: <poiché, più che il dato relativo alla materia dei “rifiuti”, che costituiscono, per così dire, l’oggetto dell’attività cui il destinatario dell’ordine è tenuto, sembra significativo l’ulteriore dato del contesto spaziale rispetto a cui l’attività in parola va svolta: la circostanza che i rifiuti interessino beni quali le strade, difatti, per l’evidente peculiarità che le medesime presentano sul piano strutturale, funzionale e della sicurezza pubblica, giustifica –anche sul piano costituzionale– la configurabilità di speciali doveri di vigilanza, controllo e conservazione in capo al proprietari o concessionario>.
Del resto, la conclusione sopra richiamata non può essere contestata sulla base di generici riferimenti alla natura cronologicamente successiva delle norme del D.Lgvo 22 del 1997 o del D.Lgs. 152 del 2006, in quanto le previsioni successive non recano certamente l’ulteriore elemento specializzante, costituito dall’attinenza dell’obbligo di rimozione dei rifiuti alla sede stradale ed alle pertinenze; del resto, la strutturazione normativa del settore è stata ben compresa dalla Corte di Cassazione (Cass. Civ. sez. II, 24.06.2008, n. 17178) che ha rilevato come la norma cardine in materia sia l’art. 14 del D.Lgs. 285 del 1992 (proprio in virtù della natura speciale sopra individuata) e non le previsioni (art. 192 D.Lgvo 152 del 2006) successive in materia di rimozione dei rifiuti che sono destinate a trovare applicazione solo per quanto (ad es., individuazione tipologie di rifiuti; modalità di smaltimento; ecc.) non espressamente regolamentato dalla previsione del Codice della strada.
La ricostruzione sistematica proposta è contrastata dalla difesa dell’ANAS, con argomentazioni che portano ad interpretare la disposizione nel senso di restringere l’attribuzione di competenza ai soli rifiuti abbandonati sulla sede stradale, con esclusione di quelli abbandonati (come nel caso di specie) nelle immediate pertinenze.
Sennonché il Collegio non può mancare di rilevare come il riferimento <allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione> presente nel primo comma dell’art. 14 del D.Lvo 30.04.1992, n. 285 venga ad individuare semplicemente la “ratio” di una serie di attribuzioni di competenze che chiaramente comprendono anche la pulizia <delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi>; in altre parole, il chiaro riferimento alle pertinenze, agli arredi, alle attrezzature, impianti e servizi annessi alla sede stradale evidenzia un campo applicativo della norma che è già tanto ampio da ricomprendere anche i rifiuti non direttamente abbandonati sulla sede stradale e non è certamente ammissibile un’interpretazione restrittiva che, sulla base dell’incerto riferimento alla “ratio” della previsione, approdi ad una lettura della norma che è certamente in contraddizione con la volontà del legislatore.
Del resto, lo stesso riferimento <allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione> porta a conclusioni completamente diverse da quelle prospettate dalla giurisprudenza richiamata; è stato, infatti, esattamente rilevato in giurisprudenza (da TAR Campania Napoli, sez. V 22.06.2006 n. 7428) come la previsione speciale e derogatoria dell’art. 14 del D.Lvo 285 del 1992 sia, in sostanza, giustificata dal fatto evidente che <la pulizia della strada interferisce direttamente con la stessa funzionalità dell’infrastruttura e con la sicurezza della viabilità e non può non fare capo direttamente al soggetto gestore (proprietario, concessionario o comunque affidatario della gestione del bene);… del resto, sarebbe illogico imporre al comune il dovere di rimuovere i rifiuti accumulati sulla strada e sue pertinenze, poiché tale attività implicherebbe l’occupazione della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il trasporto, il transito di operatori ecologici e altre attività incompatibili con il normale flusso della circolazione stradale, o comunque interferenti con essa; attività che solo l’ente gestore della strada può razionalmente programmare ed attuare “in sicurezza”, con la contestuale, necessaria adozione di tutte le misure e le cautele idonee a garantire la sicurezza della circolazione e degli operatori addetti alle pulizie>; si tratta, quindi, della semplice rilevazione della possibile interferenza delle attività di raccolta dei rifiuti con le esigenze di sicurezza della circolazione stradale e, quindi, di una circostanza che investe, non solo la raccolta dei rifiuti abbandonati direttamente sulla sede stradale, ma anche i rifiuti abbandonati sulle pertinenze o sulle altre strutture annesse alla strada.
A quanto già rilevato dalla citata pronuncia del TAR Campania questo Tribunale deve poi aggiungere l’ulteriore considerazione relativa al fatto che la competenza dell’ente proprietario della strada (o del gestore) trova giustificazione anche nella necessità di evitare la frammentazione di competenze che deriverebbe dal semplice fatto che un determinato tratto stradale attraversa i territori di più comuni (con il rischio di comportamenti differenziati); da non trascurare poi l’ulteriore considerazione, rilevante anche ai fini dell’analisi economica della previsione, relativa al fatto che, attraverso l’art. 14 del D.Lvo 285 del 1992, si ottiene il risultato di attribuire chiaramente (e sulla base di una forma di responsabilità oggettiva) al soggetto gestore della strada l’obbligo di procedere alla pulizia della strada e delle pertinenze (si pensi, a questo proposito, al pericolo imminente che può derivare dal trasporto sulla sede stradale, ad opera di agenti atmosferici, di rifiuti abbandonati sulle pertinenze stradali), così determinando benefici effetti sulla sicurezza della circolazione, sulla base di una strutturazione complessiva che non preclude certo la possibile rivalsa dell’ente proprietario o gestore della strada sul soggetto autore dell’abbandono dei rifiuti (possibilità richiamata da Cass. Civ., sez. II, 24.06.2008, n. 17178) e quindi la necessità sostanziale di attribuire (ovviamente, solo ove possibile) al responsabile dell’inquinamento la responsabilità finale dell’abuso.
In definitiva, trattandosi indubbiamente di rifiuti abbandonati sulle immediate pertinenze (piazzole di sosta e strisce di terreno comprese tra la carreggiata ed il confine stradale) di strada in concessione all’ANAS (profilo fattuale comprovato dalla documentazione fotografica depositata in giudizio dalla difesa del Comune che non è contestato dalla ricorrente), la legittimità del provvedimento impugnato deve essere valutata con riferimento al parametro costituito dall’art. 14 del D.Lvo 30.04.1992, n. 285 e non dall’art. 192 del D.Lvo 03.04.2006, n. 152; ne deriva l’infondatezza delle censure proposte da parte ricorrente.
Sul rilievo del mancato accertamento del dolo o della colpa del proprietario/gestore della strada devesi far presente che la previsione dell’art. 14 del D.Lvo 285/1992 individua la responsabilità oggettiva del gestore della strada e, quindi, una strutturazione della responsabilità che non richiede il previo accertamento del dolo o colpa dello stesso; analogamente, non è richiesta la previa ricerca dell’autore dell’abbandono dei rifiuti che è rinviata, per così dire, alla fase successiva della rivalsa da parte dell’ente gestore (Cass. Civ. sez. II, 24.06.2008, n. 17178) (TAR Basilicata, sentenza 11.05.2012 n. 196 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANella specie i rifiuti in questione sono stati depositati in una piazzola di sosta che, al pari delle banchine stradali e dei parcheggi collocati ai bordi delle strade, rientrano nell’ambito della nozione delle pertinenze di esercizio, in quanto costituiscono parte integrante della strada e ineriscono permanentemente alla sede stradale; di conseguenza i rifiuti abbandonati su tali aree, ai sensi del citato art. 14, comma 1, lett. a), D.Lg.vo n. 285/1992 devono essere rimossi dall’Ente proprietario della strada.
... per l'annullamento dell’ordinanza del 28/05/2010 con cui il responsabile dell’area territorio e ambiente del comune di Melfi ha ordinato alla ricorrente, compartimento di Potenza di procedere immediatamente e non oltre 30 giorni alla rimozione e all’adozione degli interventi di bonifica relativamente ai seguenti siti: km. 43+300 della S.S. 658 e ai km. 41+800 e 44+500 della S.S. 655 all’incrocio Melfi- Monteverde- Monteverde Scalo della S.S. 401.
...
Quanto alla prima censura, l’ordinanza impugnata, se ricorrono i presupposti previsti dall’art. 14 del D.Lg.vo n. 285/92, in quanto atto vincolato, non necessitava di previa comunicazione di avvio del procedimento; comunque la stessa non avrebbe potuto comunque assumere diverso contenuto.
Deve poi essere respinta la censura con cui si sostiene che il deposito abusivo di rifiuti relativo alla S.S. 401 ricada nel territorio (e conseguentemente nella competenza) del Comune di Rionero in Vulture. Sul punto la ricorrente non fornisce, come era suo onere, neppure un minimo principio di prova oggettiva, né tale può essere la propria nota del 17/05/2010 rivolta al comune di Rionero in Vulture in cui la citata circostanza viene appunto esposta, ma sempre senza dimostrazione dell’assunto.
Come già evidenziato da questo Tribunale (cfr. n. 90/2006), poi, ai sensi dell’art. 14, comma 1, lett. a), D.Lg.vo n. 285/1992 (cd. Codice della Strada) gli enti proprietari delle strade hanno l’obbligo di provvedere alla manutenzione ed alla “pulizia delle strade e delle loro pertinenze”. Il successivo art. 24 del medesimo D.Lg.vo:
1) definisce le pertinenze stradali come “le parti della strada da destinare in modo permanente al servizio o all’arredo funzionale” della stessa strada;
2) suddivide le pertinenze stradali in pertinenze di esercizio ed in pertinenze di servizio;
3) puntualizza che le pertinenze di esercizio sono “quelle che costituiscono parte integrante della strada o ineriscono permanentemente alla sede stradale”;
4) specifica che le pertinenze di servizio sono “le aree di servizio con i relativi manufatti per il rifornimento ed il ristoro degli utenti, le aree di parcheggio e le aree ed i fabbricati per la manutenzione delle strade o comunque destinati dal Ente proprietario della strada in modo permanente ed esclusivo al servizio della strada e dei suoi utenti”.
Nella specie i rifiuti in questione sono stati depositati in una piazzola di sosta che, al pari delle banchine stradali e dei parcheggi collocati ai bordi delle strade, rientrano nell’ambito della nozione delle pertinenze di esercizio, in quanto costituiscono parte integrante della strada e ineriscono permanentemente alla sede stradale; di conseguenza i rifiuti abbandonati su tali aree, ai sensi del citato art. 14, comma 1, lett. a), D.Lg.vo n. 285/1992 devono essere rimossi dall’Ente proprietario della strada.
Priva di pregio è comunque anche la censura con cui si deduce non essere l’A.N.A.S. proprietaria del tratto di strada sul quale sono stati abbandonati i rifiuti ma mero gestore della stessa.
Invero, la disposizione di legge sopracitata del nuovo codice della strada imputa al proprietario la responsabilità relativa alla pulizia delle strade e delle loro pertinenze, indipendentemente dall'effettivo autore dell'abbandono dei rifiuti. Non rileva, in senso contrario, la circostanza che l'A.N.A.S., ai sensi dell'art. 2, primo comma, lett. a), D.L.vo 26.02.1994 n. 143, non sia proprietaria della strada ma soltanto gestore della stessa. Il terzo comma dell'art. 14 D.L.vo n. 285 del 1992 precisa infatti che "per le strade in concessione i poteri e i compiti dell'ente proprietario della strada, previsti dal presente codice sono esercitati dal concessionario, salvo che sia diversamente stabilito". Incombe quindi sull'A.N.A.S. l'obbligo di tenere pulite le strade e le loro pertinenze, salvo poi a rivalersi sull'autore dell'abbandono (cfr. TAR Basilicata 10/12/2003 n. 1038).
Non vale nella specie, da parte della società ricorrente, invocare l’applicazione della normativa di cui all’art. 192 del codice ambientale dato che, appunto, l’atto impugnato, come si evince dal tenore dello stesso, si basa essenzialmente sul richiamo al citato articolo del codice della strada.
In ogni caso, va sottolineata l’evidente specialità della disposizione del codice della strada rispetto a quella del d.lgs. n. 152/2006. I riferimenti alla natura cronologicamente successiva delle norme del d.lgs. 152 del 2006 vanno respinti in quanto le previsioni successive non recano l’elemento specializzante, costituito dall’attinenza dell’obbligo di rimozione dei rifiuti alla sede stradale ed alle pertinenze; la norma cardine in materia è l’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 (proprio in virtù della natura speciale sopra individuata) e non le previsioni (art. 14 d.lgs. 22 del 1997; art. 192 d.lgs. 152 del 2006) successive in materia di rimozione dei rifiuti che sono destinate a trovare applicazione solo in casi non regolamentati dalla previsione del Codice della strada (cfr. sul punto TAR Puglia, Lecce, I, 18/11/089 n.2756) (TAR Basilicata, sentenza 11.05.2012 n. 193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra edifici - Art. 9 del d.m. 1444/1968.
Sull'incostituzionalità di una norma provinciale che, ai fini dell’isolamento termico per garantire le prestazioni energetiche, consente agli edifici già legalmente esistenti alla data del 12.01.2005 o concessionati prima di tale data di derogare nella misura massima di 20 centimetri alle distanze tra edifici.
Le norme in materia di distanze fra edifici costituiscono principio inderogabile che integra la disciplina privatistica delle distanze.
In particolare, data la connessione e le interferenze tra interessi privati e interessi pubblici in tema di distanze tra costruzioni, l’assetto costituzionale delle competenze in materia di governo del territorio interferisce con la competenza esclusiva dello Stato a fissare le distanze minime, sicché le Regioni devono esercitare le loro funzioni nel rispetto dei principi della legislazione statale, potendo, nei limiti della ragionevolezza, fissare limiti maggiori. Le deroghe alle distanze minime, poi, devono essere inserite in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, poiché la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati.
Nel caso di specie, la norma in questione (
«6. Ai fini dell’isolamento termico per garantire le prestazioni energetiche, definite ai sensi del comma 2, degli edifici già legalmente esistenti alla data del 12.01.2005 o concessionati prima di tale data, è permesso derogare nella misura massima di 20 centimetri alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici e alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile, salvo quanto disposto dalla normativa di attuazione della direttiva 2006/32/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 05.04.2006 relativa all’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi. La deroga può essere esercitata nella misura massima da entrambi gli edifici confinanti.
7. La Giunta provinciale definisce le caratteristiche tecniche delle verande la cui costruzione vale come misura per l’utilizzo di energia solare ai sensi del comma 5. A tal fine si può derogare alle distanze tra edifici, alle distanze dai confini nonché all’indice di area coperta previsti nel piano urbanistico, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile e purché la distanza dal confine di proprietà non sia inferiore alla metà dell’altezza della facciata della veranda»
), attraverso il mero richiamo delle norme del codice civile, è suscettibile di consentire l’introduzione di deroghe particolari in grado di discostarsi dalle distanze di cui all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, recante «Legge urbanistica» (introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), avente, per giurisprudenza consolidata, un’efficacia precettiva e inderogabile.
In quanto tali deroghe non attengono all’assetto urbanistico complessivo delle zone di cui si verte, il mancato richiamo alle norme statali vincolanti per la Provincia, determina l’illegittimità costituzionale delle relative norme per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., avendo invaso la competenza statale in materia di ordinamento civile.

8.― Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 9, commi 6 e 7 (recte: art. 9, comma 4, alinea 6 e 7, trattandosi dei commi 6 e 7 dell’articolo 127 della legge provinciale 11.08.1997, n. 13, modificato dalla legge impugnata), nella parte in cui prevedono, ai fini dell’isolamento termico degli edifici e dell’utilizzo dell’energia solare, la possibilità di derogare alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici ed alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile.
A suo avviso, dette disposizioni, non prevedendo il rispetto delle altezze e delle distanze di cui al decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765), contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
8.1.― La questione è fondata.
8.2.― In linea preliminare, va osservato che i commi 6 e 7 dell’articolo 127 della legge provinciale n. 13 del 1997, nel testo modificato dalle disposizioni impugnate, così dispongono: «6. Ai fini dell’isolamento termico degli edifici già legalmente esistenti alla data del 12.01.2005 o concessionati prima di tale data, è possibile derogare alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici e alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile.
7. La Giunta provinciale definisce le caratteristiche tecniche delle verande la cui costruzione vale come misura per l’utilizzo di energia solare ai sensi del comma 5. A tale fine si può derogare alle distanze tra edifici, alle distanze dai confini nonché all’indice di area coperta previsti nel piano urbanistico o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile e purché la distanza verso il confine di proprietà non sia inferiore alla metà dell’altezza della facciata della veranda
».
Successivamente alla proposizione del ricorso, l’art. 26, comma 3, della legge provinciale n. 15 del 2011, ha nuovamente modificato tali disposizioni, così sostituendole: «6. Ai fini dell’isolamento termico per garantire le prestazioni energetiche, definite ai sensi del comma 2, degli edifici già legalmente esistenti alla data del 12.01.2005 o concessionati prima di tale data, è permesso derogare nella misura massima di 20 centimetri alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici e alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile, salvo quanto disposto dalla normativa di attuazione della direttiva 2006/32/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 05.04.2006 relativa all’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi. La deroga può essere esercitata nella misura massima da entrambi gli edifici confinanti.
7. La Giunta provinciale definisce le caratteristiche tecniche delle verande la cui costruzione vale come misura per l’utilizzo di energia solare ai sensi del comma 5. A tal fine si può derogare alle distanze tra edifici, alle distanze dai confini nonché all’indice di area coperta previsti nel piano urbanistico, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile e purché la distanza dal confine di proprietà non sia inferiore alla metà dell’altezza della facciata della veranda
».
Dal raffronto fra le disposizioni risulta evidente che l’ultima modifica, dato il suo carattere sostanzialmente marginale, non incide in modo significativo sul contenuto precettivo delle disposizioni impugnate, e certamente non ha contenuto satisfattivo, per cui la questione va trasferita sulla nuova norma, in applicazione del succitato principio di effettività della tutela costituzionale.
8.3.― La censura verte sul mancato richiamo al rispetto delle norme sulle distanze fra edifici, integrative del codice civile e, in particolare, dell’art. 9 del citato d.m. n. 1444 del 1968.
In tale ambito, questa Corte ha in più occasioni precisato che le norme in materia di distanze fra edifici costituiscono principio inderogabile che integra la disciplina privatistica delle distanze.
In particolare, data la connessione e le interferenze tra interessi privati e interessi pubblici in tema di distanze tra costruzioni, l’assetto costituzionale delle competenze in materia di governo del territorio interferisce con la competenza esclusiva dello Stato a fissare le distanze minime, sicché le Regioni devono esercitare le loro funzioni nel rispetto dei principi della legislazione statale, potendo, nei limiti della ragionevolezza, fissare limiti maggiori. Le deroghe alle distanze minime, poi, devono essere inserite in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, poiché la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati (sentenza n. 232 del 2005).
Nel caso di specie, la norma in questione, attraverso il mero richiamo delle norme del codice civile, è suscettibile di consentire l’introduzione di deroghe particolari in grado di discostarsi dalle distanze di cui all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, recante «Legge urbanistica» (introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), avente, per giurisprudenza consolidata, un’efficacia precettiva e inderogabile.
In quanto tali deroghe non attengono all’assetto urbanistico complessivo delle zone di cui si verte, il mancato richiamo alle norme statali vincolanti per la Provincia, determina l’illegittimità costituzionale delle relative norme per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., avendo invaso la competenza statale in materia di ordinamento civile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) (omissis)
2) dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 2, comma 10, 3, commi 1 e 3, 5, comma 1, 9, comma 4, alinea 6 e 7, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 21.06.2011, n. 4 (Misure di contenimento dell’inquinamento luminoso ed altre disposizioni in materia di utilizzo di acque pubbliche, procedimento amministrativo ed urbanistica);
3) dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 24, comma 2, e 26, comma 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 21.12.2011, n. 15 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2012 e per il triennio 2012-2014 – Legge finanziaria 2012);
4) (omissis) (Corte Costituzionale, sentenza 10.05.2012 n. 114).

EDILIZIA PRIVATAContro la dia. Il comune non risponde sempre.
Il comune ha tanto da fare e non può perdere tempo con le liti fra vicini di casa. Risulta così legittimo il silenzio dell'ente locale se non risulta connotata da un minimo carattere di serietà la sollecitazione rivolta all'amministrazione per bloccare presunti abusi edilizi connessi alla Dia/Scia del proprietario immobiliare. E la condotta dell'ufficio pubblico che non dà riscontro ai rilievi del cittadino non può essere denunciata davanti al giudice amministrativo.
È quanto emerge dalla sentenza 12.04.2012 n. 1075, pubblicata dalla II Sez. TAR Lombardia-Milano.
Dovrà rassegnarsi, almeno per ora, l'avvocato che vede col fumo negli occhi la ristrutturazione in atto presso un ex negozio nel fabbricato attiguo al suo: è inammissibile il suo tentativo di obbligare l'amministrazione a procedere contro la Dia del vicino, bloccando i lavori (asseritamente) abusivi in corso. Nulla c'è, in effetti, da stoppare. Il professionista s'insospettisce e avvisa l'amministratore condominiale: i vigili urbani piombano sul posto per il sopralluogo, ma dopo non arriva alcun provvedimento. Ed è giusto così.
La Dia e la Scia non costituiscono provvedimenti amministrativi taciti direttamente impugnabili. E la presentazione della domanda da parte del cittadino, dunque, non dà luogo ad alcun procedimento amministrativo: il decorso del termine di legge di 60 o 30 giorni per l'adozione di provvedimenti inibitori o repressivi da parte della pubblica amministrazione non configura alcuna conclusione di procedimento amministrativo né alcuna adozione di un provvedimento tacito o implicito. Il terzo che si ritiene danneggiato dalla Dia-Scia, come il nostro avvocato, può ben sollecitare l'amministrazione a effettuare le verifiche e, in caso di inerzia dell'ente, proporre un'azione contro il silenzio.
E si tratta di un'azione sui generis, visto che la presentazione della Dia-Scia non dà avvio ad alcun procedimento amministrativo. Il silenzio dell'amministrazione presuppone la sollecitazione del terzo: quest'ultima deve possedere una serie di requisiti minimi senza che possa risolversi in una generica denuncia di abusi. Ove non vi siano caratteri «di serietà», non si configura silenzio inadempimento (articolo ItaliaOggi del 08.06.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ordinanze contingibili ed urgenti: presupposti per l’adozione.
Ordinanza sindacale con cui si ingiunge alla ditta affidataria del servizio di raccolta rifiuti di svolgere ancora per tre mesi il servizio interrotto a seguito del recesso anticipato della ditta stessa dal rapporto contrattuale.
Illegittimità di una ordinanza contingibile ed urgente con la quale si proroga una precedente ordinanza, per mancanza del presupposto dell’imprevedibilità.

E’ legittima una ordinanza contingibile ed urgente con la quale il Sindaco di un Comune, a seguito del recesso unilaterale dal contratto del servizio di raccolta dei rifiuti urbani da parte della ditta affidataria, avvenuto tre anni prima della scadenza contrattuale, ha ordinato alla ditta stessa di assicurare continuità di svolgimento di detto servizio per tre mesi, al fine di consentire un nuovo affidamento del servizio. Infatti, l’esigenza di evitare potenziali gravi pregiudizi per la salute pubblica in ragione della mancata raccolta dei rifiuti in attesa della individuazione di una nuova impresa cui affidare mediante gara il servizio costituisce un valido presupposto per la adozione di una ordinanza contingibile ed urgente ex art. 50 del T.U.E.L. (1).
Le ordinanze adottate ai sensi dell’art. 50 del T.U.E.L. richiedono, per la loro legittima adozione, la sussistenza dei seguenti presupposti: a) la contingibilità; b) l’imprevedibilità; c) l’urgenza; d) la temporaneità.
La contingibilità va accertata alla luce dei canoni della accidentalità, che sussiste al verificarsi di un evento che devia dal percorso logico atteso; della eccezionalità, intesa come eccezione all’ordine normale degli eventi; della imprevedibilità, che è predicato di un evento, il quale, proprio perché accidentale, eccezionale, non è suscettibile di previsione o comunque il suo verificarsi è altamente improbabile. L’urgenza, invece, si identifica con l’impellente necessità di provvedere al fine di non pregiudicare l’interesse pubblico, che può essere definitivamente danneggiato con il trascorrere del tempo. La temporaneità dell’ordinanza è, infine, presupposto imprescindibile delle ordinanze in discorso, poiché una stabilizzazione dell’intervento extra ordinem infliggerebbe un inammissibile vulnus al rapporto tra autorità e libertà, in violazione del principio costituzionale di legalità (artt. 97 e 23 Cost.) che ispira l’intera azione amministrativa.
Poiché i presupposti per l’adozione dell’ordinanza ex art. 50 del T.U.E.L. sono la contingibilità, l’urgenza e la temporaneità, tale strumento extra ordinem non può essere utilizzato per soddisfare esigenze che siano invece prevedibili ed ordinarie e, in ragione della atipicità di tali provvedimenti, va esclusa l’ammissibilità di una stabilizzazione dell’intervento extra ordinem (2).
E’ illegittimo l’operato di una amministrazione comunale che, dopo avere imposto la continuazione del servizio di raccolta dei rifiuti per tre mesi, in ragione dell’imprevedibilità del recesso dell’affidatario del servizio, ha tuttavia adottato, a distanza di quattro mesi, una seconda ordinanza con la quale ha prorogato l’efficacia della prima ordinanza; infatti, l’inerzia dell’Amministrazione protrattasi per ben quattro mesi -peraltro, durante il periodo di proroga del servizio già imposto ditta affidataria del servizio con la prima ordinanza- ha determinato ex se il venir meno dell’esigenza di far fronte ad una situazione imprevedibile.
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(1) Cfr. TAR Veneto, sez. I, 09.07.2010, n. 2906.
Ha osservato la sentenza in rassegna che nella specie, con riferimento alla prima ordinanza contingibile ed urgente,, essa era immune dal denunziato vizio del difetto dei presupposti ai sensi dell’art. 50 del T.u.e.l., non essendo censurabile l’operato dell’ente locale che, a fronte del recesso unilaterale dal contratto di servizio, avvenuta ben tre anni prima della scadenza pattuita, si trovava perciò a dover fronteggiare tale non prevedibile e contingibile situazione.
E’ stato ritenuto insussistente il dedotto vizio di eccesso di potere sotto il profilo della violazione del principio di proporzionalità. Ciò in quanto il sacrificio dell’interesse economico del privato è stato imposto nella misura strettamente necessaria a garantire la continuità del servizio di gestione dei rifiuti, fermo restando, tuttavia, che l’ordinanza impugnata non incide in alcun modo sull’adeguatezza del corrispettivo economico stabilito a carico del Comune (anche per il periodo di proroga) al medesimo costo previsto nel contratto oggetto di recesso, restando impregiudicata l’azionabilità della posizione soggettiva dell’ interessata tesa ad ottenere la compensazione monetaria per i maggiori costi sopportati all’esito dell’accertamento della eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto.
(2) Ha precisato la sentenza in rassegna che l’urgenza è condizione necessaria, ma non sufficiente per l’adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti. In altre parole, l’urgenza di per sé non può costituire un valido fondamento per l’adozione delle ordinanze in discorso, ma deve essere sempre accompagnata dalla contingibilità.
Ne consegue che l’imprevidenza dell’Amministrazione di fronte ad un evento che è invece ragionevolmente prevedibile esclude ex se la sussistenza dei legittimi presupposti per l’adozione di provvedimenti extra ordinem
(tratto da www.regione.piemonte.it - TAR Basilicata, Sez. I, sentenza 06.04.2012 n. 170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Illegittimità di una Ordinanza sindacale firmata dal Vice Sindaco, in caso di omessa indicazione delle ragioni di impedimento del Sindaco e dello specifico servizio di competenza dell’ente.
E’ illegittima, per difetto di legittimazione alla relativa adozione, una ordinanza comunale con la quale, onde tutelare la quiete pubblica mediante riduzione dell’inquinamento acustico, è stata disposta l’anticipazione della chiusura di un pubblico esercizio (nella specie, alle ore 2:00 della notte, in luogo della chiusura alle ore 4:00), firmata dal Vice Sindaco, quale responsabile del servizio, che sia priva sia dell’indicazione delle ragioni di effettivo impedimento del Sindaco, che dello specifico servizio di competenza dell’ente; in tal caso, infatti, per un verso, l’adozione dell’atto da parte del sostituto del Sindaco avrebbe richiesto l’indicazione del titolo legittimante la sostituzione, a norma dell’art. 53, co. 2, d.lgs. n. 267 del 2000 (avrebbe dovuto essere indicato, cioè, che il Sindaco era assente, o temporaneamente impedito, o sospeso dall’esercizio delle sue funzioni: situazioni senza le quali non può configurarsi una sostituzione secondo la legge); per altro verso, la dicitura "Responsabile del Servizio" rimane del tutto priva di contenuto, atteso che non è indicato di quale "servizio" si trattasse; con la conseguenza che la medesima ordinanza deve ritenersi priva di qualsivoglia motivazione idonea a giustificare il presunto titolo di legittimazione, né per l’una né per l’altra ipotesi (1).
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(1) Ha osservato, in particolare, la sentenza in rassegna che elementari regole di trasparenza amministrativa imponevano, al contrario, di indicare con precisione quale servizio comunale si trovasse, in quel momento, ad agire, al fine di conferire certezza ai destinatari dell’atto circa un elemento fondamentale (quello soggettivo) del provvedimento (tratto da www.regione.piemonte.it - TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 03.04.2012 n. 396 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Ricorso giurisdizionale - Rinuncia al risarcimento in forma specifica - Rinuncia alla domanda di annullamento - Equivalenza.
2. Servizi pubblici locali - Gara per la scelta del socio prodromica all'affidamento del servizio - Pubblicità delle sedute - Necessità.
3. Criteri di aggiudicazione - Offerta economicamente più vantaggiosa - Attribuzione di punteggi in forma numerica - Indicazione di parametri precisi - Necessità.

1. La dichiarazione, fatta dal ricorrente, di non avere più interesse al risarcimento in forma specifica equivale alla rinuncia alla domanda di annullamento degli atti impugnati; ciò in quanto la pronuncia di risarcimento del danno per equivalente non presuppone più la previa caducazione dei provvedimenti lesivi. La rinuncia alla domanda di reintegrazione in forma specifica comporta altresì il venir meno dell'interesse alla pronuncia sul ricorso incidentale proposto dal controinteressato.
2. Qualora un'operazione di cessione di quote di una società a capitale prevalentemente pubblico non si esaurisca in una mera dismissione di quote societarie, ma è volta alla costituzione di una partnership tra gli enti pubblici titolari del servizio pubblico locale e l'imprenditoria privata il cui apporto non è limitato al mero acquisto di quote del capitale sociale, ma è finalizzato alla gestione del servizio, è necessario il rispetto del principio di pubblicità delle sedute di gara.
Alle gare per la scelta del socio privato si applicano, infatti, le norme che riguardano gli appalti di servizi; la cogenza del principio sussiste anche per gli appalti di servizi nei settori speciali posto che l'art. 226 D.Lgs. n. 163/2006 non esclude il rispetto del principio di pubblicità, atteso che la ratio ispiratrice della pubblicità delle sedute di gara è comune in ogni procedura concorsuale di scelta del contraente relativa a qualsiasi contratto pubblico di lavori, servizi e forniture ed è rivolta a tutelare le esigenze di trasparenza e imparzialità che devono guidare l'attività amministrativa e che caratterizzano tutta la disciplina dell'evidenza pubblica (Consiglio Stato, sez. V, 05.10.2011, n. 5454).
In altri termini, l'esigenza di consentire ai partecipanti il controllo delle operazioni di gara nel momento della apertura delle buste e dell'esame dell'offerta economica costituisce una regola di base di ogni procedura ad evidenza pubblica che non può soffrire eccezioni di sorta.
3. Nella valutazione della componente tecnica dell'offerta economicamente più vantaggiosa da parte di una commissione di gara, l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica è consentita quando il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro i quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, sia sufficientemente analitico da delimitare il giudizio della commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo, rendendo così evidente l'iter logico seguito nel valutare i singoli progetti sotto il profilo tecnico, essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito (Consiglio Stato, sez. III, 11.03.2011, n. 1583; Consiglio Stato, sez. V, 03.12.2010, n. 8410) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Concessione Servizi - Termine ricezione offerte - Non applicabilità.
2. Progetto definitivo - Sottoscrizione professionista abilitato - Necessità.

1. L'art. 70 del Codice dei Contratti Pubblici non si applica alle concessioni di servizi il cui affidamento è soggetto solamente al rispetto dei principi di pubblicità, trasparenza, non discriminazione, proporzionalità e mutuo riconoscimento, posti dal Trattato ed alle regole essenziali di procedura previste dall'art. 30, comma 3, D.Lgs. n. 163/2006 (Consiglio Stato, sez. V, 11.05.2009, n. 2864); pertanto, la stazione appaltante non è tenuta al rispetto dei termini di cui al primo dei citati articoli, anche nel caso in cui il disciplinare di gara richieda la presentazione di un progetto definitivo.
2. A mente dell'art. 90 del D.Lgs. n. 163/2006, la progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva dei lavori è espletata esclusivamente da professionisti abilitati interni o esterni all'amministrazione; di conseguenza, l'affidamento da parte di un ente pubblico della progettazione di opere ad un professionista non abilitato deve considerarsi illegittimo (TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 09.04.2008, n. 354).
Analogamente, qualora la progettazione definitiva sia demandata ai concorrenti, essi devono presentare in gara, a prescindere da prescrizioni del bando in tal senso, elaborati progettuali sottoscritti da un professionista abilitato, pena l'inammissibilità del progetto (Consiglio Stato, sez. VI, 14.12.1991, n. 1083) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Verifica di congruità dell'offerta - Può essere effettuata dal RUP.
2. Giudizio di anomalia - Spese generali - Non possono risultare di valore irrisorio.
3. Giudizio di anomalia - Spese generali - Devono raccordarsi con i bilanci dell'impresa.
4. Giudizio di anomalia - Costo del lavoro - Giustificazione minor tasso di assenteismo per infortuni - In caso di nuove assunzioni .
5. Giudizio di anomalia - Costo del lavoro - Coordinatori.

1. La verifica di anomalia può essere effettuata dal responsabile del procedimento anziché dalla Commissione nominata per la valutazione delle offerte, qualora il responsabile del procedimento sia dotato di adeguate competenze tecniche (TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 17.05.2011, n. 732; TAR Lazio, Roma, sez. III, 21.01.2011, n. 643).
Ciò, anche in considerazione del fatto che, come avviene nel caso di specie (in cui la Commissione risulta composta quasi esclusivamente da personale medico), la Commissione potrebbe non avere le competenze tecniche richieste per effettuare le valutazioni di tipo economico-aziendale necessarie a stabilire la congruità dell'offerta.
2. Le spese generali non possono essere pari a zero o di valore irrisorio, in quanto tale voce di costo tiene conto degli oneri generali sostenuti da un'impresa per l'esecuzione della commessa, i quali, anche a prescindere dalla prescrizione oggi contenuta nell'art. 32 del D.P.R. n. 207/2010, devono necessariamente figurare nel suo conto economico, essendo impensabile che un operatore economico di un certo rilievo non debba sostenere costi per dotarsi di una sede amministrativa, per l'amministrazione del personale e per ogni altro onere di carattere generale.
3. Qualora l'Amministrazione, attraverso l'esame dei bilanci, rilevi l'incompletezza delle spese generali indicate dall'impresa in offerta, la concorrente non può limitarsi ad affermare che le relative voci del conto economico del suo bilancio si riferirebbero ad altre commesse, trattandosi di affermazioni apodittiche e indimostrate. L'impresa deve invece fornire tutti i riscontri documentali necessari a far comprendere come i costi indicati in offerta possano raccordarsi con le risultanze di bilancio.
4. Qualora l'impresa indichi -in sede di giustificazione del costo del lavoro- un minor tasso di assenteismo per malattie, infortuni o maternità rispetto a quello risultante dalle tabelle ministeriali, l'attendibilità del dato dichiarato non può essere riscontrata analizzando il registro infortuni e l'elenco del personale dipendente prodotto in sede procedimentale, qualora l'esecuzione della commessa richieda l'assunzione di un certo numero di nuove unità (nella specie 40).
In tal caso, infatti, il tasso di assenteismo, evidentemente, non può emergere dalle statistiche relative al personale già in servizio (sul punto Cons. Stato, V, 28.06.2011, n. 3865).
5. Con riguardo ai costi relativi ai coordinatori dell'appalto, la giustificazione dell'Impresa secondo cui il coordinamento del servizio avviene attraverso personale già assunto, a tal fine debitamente incentivato, risulta generica.
L'Impresa deve, infatti, dimostrare quale sia la percentuale di utilizzo della forza lavorativa dei coordinatori da essa dipendenti in relazione alla situazione precedente all'acquisizione della commessa in oggetto e la conseguente disponibilità residua per effettuare il coordinamento del nuovo servizio, in relazione all'aumento del personale previsto per l'esecuzione dell'appalto (nel caso di 40 unità). Deve inoltre dimostrare la sufficienza della somma indicata a compensare l'impegno dei coordinatori, per come risultante dall'offerta (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 594 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della PA - Proroga - Ammissibilità.
In via di principio, l'amministrazione che, esaurita l'esecuzione di un determinato contratto, abbia ancora necessità di avvalersi delle specifiche prestazioni oggetto del vincolo scaduto è tenuta ad effettuare una nuova gara.
Peraltro, nel caso in cui gli atti indittivi la procedura conclusasi con la stipula del contratto ed il contratto stesso prevedessero espressamente la facoltà di proroga, la stazione appaltante può, prima della scadenza del vincolo contrattuale, disporne la proroga esclusivamente per il tempo strettamente necessario all'indizione di una nuova procedura ad evidenza pubblica.
Al ricorrere di tali presupposti, il contraente privato è tenuto alla prosecuzione del rapporto (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.01.2012 n. 251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso - Atti e documenti di immobile commerciale di nuova costruzione - Interesse.
La domanda di accesso agli atti relativi alla costruzione di un edificio destinato ad ospitare una struttura di vendita da parte del titolare di un'attività di impresa esercitata in prossimità della nuova struttura di vendita deve ritenersi fondata.
È evidente l'interesse della ricorrente a vigilare sul legittimo esercizio delle potestà pubbliche in materia di urbanistica, edilizia e commercio, in forza delle quali è stato o potrà essere autorizzato l'insediamento di una nuova struttura di vendita operante nel settore non alimentare (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 13.01.2012 n. 107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Gara - Cause di esclusione - Negligenza o malafede - Valutazione di gravità - Necessità.
2. Gara - Cause di esclusione - Dichiarazioni soggetti cessati dalla carica - Inciso "per quanto a mia conoscenza" non integra limitazione di responsabilità.

1. L'esclusione dalla gara pubblica dell'impresa che sia incorsa in grave negligenza o malafede nell'esecuzione di lavori affidati dalla stazione appaltante postula una valutazione di gravità fatta dalla stessa amministrazione; ciò in quanto l'esclusione non ha carattere sanzionatorio, costituendo invece presidio dell'elemento fiduciario destinato a connotare, sin dal momento genetico, i rapporti contrattuali con la P.A..
Invero, tale valutazione può consistere nel semplice richiamo per relationem dell'atto con cui, in un precedente rapporto contrattuale, l'amministrazione aveva provveduto alla risoluzione per inadempimento.
2. Le dichiarazioni riguardanti i soggetti cessati dalla carica nel triennio, rese ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 163/2006 e contenenti l'inciso "per quanto a mia conoscenza" non devono ritenersi viziate; tale inciso, del resto, sarebbe giustificato proprio dal fatto che riguarda gli amministratori cessati dalla carica ai quali non può essere imposto il rilascio di dichiarazioni personali ed in riferimento ai quali chi rappresenta l'impresa può attestare quanto è a sua conoscenza, salvo ovviamente possibili richieste integrative da parte della stazione appaltante (Consiglio Stato, sez. V, 30.06.2011, n. 3926) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 10.01.2012 n. 57 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Giudizio di anomalia - Limiti del sindacato giurisdizionale - Discrezionalità tecnica - Cognizione piena del giudice amministrativo sull'attendibilità dei giudizi e apprezzamenti espressi dalla commissione giudicatrice.
2. Giudizio di anomalia - Costo delle attrezzature - Possibilità di giustificare mediante i bilanci e i libri dei cespiti.

1. In materia di giudizio di anomalia, l'area della riserva amministrativa non è violata, ove si contesti l'esistenza di errori di apprezzamento da parte della stazione appaltante, che involgono fatti anche tecnici che a detta area sono palesemente estranei.
Una volta distinta l'area della discrezionalità tecnica da quella del merito amministrativo, il giudice amministrativo ha infatti cognizione piena non solo sulle modalità (di formazione), ma anche sull'attendibilità dei giudizi e degli apprezzamenti espressi dalla commissione giudicatrice nell'ambito di una gara di appalto (TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 10.01.2011, n. 11).
La verificazione disposta dal Giudice sul procedimento di verifica dell'anomalia non deve pertanto limitarsi ad un controllo meramente formale ed estrinseco sul procedimento amministrativo seguito dalla stazione appaltante.
2. Qualora l'impresa abbia presentato i bilanci e i libri dei cespiti, la mancata formale indicazione -in sede di giustificazione dell'offerta- del parco delle attrezzature impiegate per l'appalto, comunque aliunde desumibile, non è circostanza che renda di per sé anomala l'offerta della ricorrente  (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.12.2011 n. 3162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Procedimento di verifica della congruità dell'offerta - Termini per il deposito di giustificazioni - Non perentorietà.
2. Subappalto - Individuazione subappaltatori - Può essere rimandata al momento di costituzione del rapporto contrattuale.
3. Giudizio di anomalia - In caso di prestazione già integralmente eseguita - Affidabilità dell'offerta è confermata da avvenuta esecuzione a regola d'arte.

1. Nell'ambito del procedimento di verifica della congruità dell'offerta condotto dalla stazione appaltante, i termini per il deposito delle giustificazioni richieste in detta sede non sono qualificati come perentori, mentre il termine di 10 giorni, previsto dall'art. 88 del D.Lgs. n. 163/2006, integra il termine minimo che l'Amministrazione deve concedere per dar modo al concorrente di redigere e produrre le proprie giustificazioni (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. III, 09.12.2010, n. 35952).
2. L'art. 118 del D.lgs. n. 163/2006, nel prevedere che tutte le lavorazioni sono subappaltabili e che all'atto della predisposizione dell'offerta il concorrente debba partecipare l'intenzione di subappaltare a soggetti qualificati, va interpretato nel senso che è rimandata al momento della costituzione del rapporto contrattuale l'individuazione di questi ultimi, nonché la specificazione della loro qualificazione e del possesso dei requisiti generali di partecipazione; salvo che la lex specialis non disponga diversamente (TAR Lazio, Latina, sez. I, 04.06.2009, n. 541).
3. Qualora la prestazione oggetto di appalto risulti già integralmente eseguita nei termini contrattuali, risulta definitivamente preclusa la possibilità di effettuare, ora per allora, valutazioni prognostiche di presunta anomalia dell'offerta; risultando la prestazione eventualmente suscettibile solo di una valutazione diagnostica, ossia ex post, di corretta esecuzione.
La realizzazione dell'opera a regola d'arte conferma la globale affidabilità dell'offerta (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.12.2011 n. 3160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Costi per la sicurezza - Rischi da interferenza e rischi relativi all'organizzazione dell'appaltatore - Soggetti obbligati alla quantificazione.
2. Attribuzione al seggio di gara del compito di aprire le buste contenenti offerte tecniche ed economiche e di esaminare le offerte economiche - Legittimità.

1. I costi concernenti la sicurezza sul lavoro negli appalti di servizi si distinguono in due gruppi. Da un lato, essi debbono corrispondere ai cosiddetti rischi da interferenza derivanti dallo svolgimento del servizio presso la stazione appaltante, previsti dall'art. 26 del D.Lgs. 81/2008: tali costi vanno quantificati dalla stazione appaltante, a pena di illegittimità della procedura. Dall'altro, vi sono i costi relativi all'organizzazione interna dell'appaltatore, che questi è invece tenuto ad indicare ex lege, quand'anche il capitolato non lo preveda espressamente.
2. E' legittima la previsione del capitolato che attribuisce al Seggio di Gara, e non alla Commissione Tecnica, il compito di aprire le buste contenenti offerte tecniche ed economiche e di esaminare le offerte economiche.
La giurisprudenza ha già precisato che, nell'ipotesi di aggiudicazione secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, nulla impedisce che il disciplinare di gara attribuisca al Seggio, e non alla Commissione, il compito di applicare meccanicamente i criteri di attribuzione matematica del punteggio relativo al prezzo offerto, atteso che in tale operazione non si esercita alcuna discrezionalità (Tar Lombardia, Brescia, 10.02.2011, n. 244).
Tale conclusione è valida anche con riguardo alla fase di mera apertura della busta contenente la documentazione amministrativa e l'offerta tecnica, al solo scopo di verificare, con operazione altrettanto priva di discrezionalità, l'inserimento di quanto richiesto dal capitolato speciale. Ciò che invece è necessario riservare alla Commissione è la sola valutazione dell'offerta, in quanto espressiva di discrezionalità tecnica (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.12.2011 n. 3154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: In tema di falsità ideologica, configura il reato di cui all’art. 479 c.p. la falsa attestazione di aver pregiato servizio compiuta dal dipendente di un'azienda sanitaria locale (nella fattispecie: tecnico di radiologia alle dipendenze dell'Azienda di Alta specializzazione della Regione Sicilia) sottoscrivendo il foglio di presenza e facendo timbrare il proprio cartellino da terzi, attesa la funzione pubblica esercitata dall'imputato (non esclusa dal rapporto privatistico di lavoro) e in ragione del carattere di atti pubblici di tali documenti finalizzati anche a consentire il controllo sulle modalità in cui si esplica l'assistenza sanitaria, funzione essenziale dello Stato e della Regione (tratto da www.diritto.it - Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 07.07.2004 n. 42245).

PUBBLICO IMPIEGO: La sottoscrizione, da parte del dirigente di un ufficio pubblico (nella specie Conservatoria del Registro - Archivio Notarile), dei fogli di presenza dei dipendenti, effettuata in assenza di un effettivo controllo del personale in ufficio, non integra il reato di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 c.p.), posto che il momento perfezionativo dell'atto pubblico costituito dal foglio di presenza coincide con la sottoscrizione dell'interessato, il quale autocertifica un fatto produttivo di effetti giuridici rilevanti, sul versante sia dei rapporti interni che di quelli esterni, mentre non sussiste alcun obbligo di controllo, positivamente sancito, che gravi sul dirigente in ordine all'apposizione della firma dei dipendenti in sua presenza, con la conseguenza che egli si limita ad una mera attestazione della regolarità estrinseca dell'atto, assolvendo così ad un onere procedimentale che è presupposto ai fini della liquidazione delle competenze retributive (tratto da www.diritto.it - Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 28.04.2004 n. 32445).

PUBBLICO IMPIEGO: Il cartellino orario e la scheda magnetica contenenti l'attestazione dell'attività prestata in un presidio ospedaliero dal personale sanitario costituiscono, a tutti gli effetti, atti pubblici, con equiparazione al foglio di presenza sottoscritto dal pubblico dipendente.
I suddetti documenti, infatti, rientrano nell'attività certificativa che determina effetti giuridici rilevanti per la pubblica amministrazione, sia per quanto riguarda la prova della presenza sul posto di lavoro del sanitario, sia per consentire il controllo dell'attività di assistenza fornita dall'ente ospedaliero, anche al fine di garantire un sufficiente livello di prestazioni sanitarie nell'ambito di una funzione considerata essenziale dallo Stato e dalla regione.
Da queste premesse, è stato rigettato il ricorso dell'imputato, primario di un ospedale, cui era stato contestato il reato previsto dall'articolo 479 del c.p., perché, attraverso non veridiche timbrature e/o smarcature delle schede marcatempo degli orari di entrata e/o di uscita, aveva attestato falsamente la sua presenza in ospedale in orari in cui era invece assente, essendo impegnato nello svolgimento di prestazioni libero-professionali in una casa di cura privata
(tratto da www.diritto.it - Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 17.06.2003 n. 39065).

PUBBLICO IMPIEGO: I cartellini segnatempo e i fogli di presenza del personale pubblico, in quanto consistono nella documentazione di attività direttamente compiute dal pubblico ufficiale e volte alla produzione di effetti giuridici nell'ambito di situazioni soggettive di rilievo pubblicistico sono atti pubblici.
In particolare, ciò deve dirsi con riguardo ai cartellini di presenza e ai fogli di presenza dei medici convenzionati con le aziende sanitarie, che hanno non solo lo scopo "privato" di stabilire il numero delle ore lavorate in relazione al calcolo degli onorari spettanti, ma anche e soprattutto quello "pubblico" che emerge dalla normativa in materia, e cioè di consentire il controllo dell'attività di assistenza sanitaria fornita e di evitare disservizi nello svolgimento di quella che è una funzione essenziale dello Stato e della regione.
Deve conseguentemente ritenersi che l'attestazione apposta dal medico sia espressione di potere certificativo e che, quindi, effettuando tale attestazione, questi riveste la qualità di pubblico ufficiale.
Fattispecie in cui è stato ritenuto il reato previsto dall’art. 479 c.p. a carico di un medico di turno presso la guardia medica comunale che aveva falsamente attestato nel foglio di presenza di aver prestato regolare servizio, mentre in realtà era stato assente
(tratto da www.diritto.it - Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 09.10.2002 n. 38831).

PUBBLICO IMPIEGO: In tema di reati contro la fede pubblica, il cartellino orario e la scheda magnetica costituiscono, a tutti gli effetti, atto pubblico, contenendo l'attestazione della attività prestata nel presidio ospedaliero, e vanno equiparati al foglio di presenza sottoscritto dal pubblico dipendente.
I suddetti documenti, di conseguenza, sono suscettibili di produrre effetti giuridici per la p.a., sia per quanto riguarda la prova della presenza sul posto di lavoro del sanitario, sia per consentire il controllo della attività di assistenza fornita dalla USL, anche allo scopo di evitare disservizi nell'ambito di una funzione essenziale dello Stato e della regione
(tratto da www.diritto.it - Corre di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 10.12.1998 n. 2898).

AGGIORNAMENTO AL 04.06.2012

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S.O.S. TERREMOTO EMILIA ROMAGNA:
e se capitasse a te ??

     E’ attivo dalle 19.00 di ieri martedì 29 maggio e fino al 26 giugno il numero solidale 45500 per la Campagna di raccolta fondi straordinaria a favore delle popolazioni della Regione Emilia Romagna duramente colpite dagli eventi sismici, il cui ricavato verrà versato sul Fondo della Protezione Civile.
     Il valore della donazione sarà di:
Þ 2 euro per ciascun SMS inviato da cellulari: TIM, Vodafone, WIND, 3, Poste Mobile, CoopVoce, Tiscali e Noverca;
Þ 2 euro per ciascuna chiamata fatta allo stesso numero da rete fissa di: Telecom Italia, Infostrada, Fastweb, TeleTu e Tiscali.

     Quindi, non perdere tempo: telefona oppure invia un SMS al 45500 e fai la Tua generosa offerta per quella povera gente che ha perso tutto ... non restare indifferente perché l'indifferenza uccide più del terremoto !!

E non dire: "Sì, un attimo ... lo faccio dopo ...".
Telefona ora, adesso, subito !!
04.06.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

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IN EVIDENZA

APPALTI SERVIZI - LAVORI PUBBLICI: Il comune, che paga regolarmente la fornitura di un servizio ovvero la realizzazione di un'opera pubblica, deve pagare due volte laddove l'impresa non versa lo stipendio ai propri lavoratori e, men che meno, i contributi previdenziali e i premi assicurativi.
Se è ovvio che il comune non è un imprenditore, è altrettanto incontestabile che sia datore di lavoro del personale assunto nelle forme del rapporto di pubblico impiego: tanto basta per affermare la responsabilità del comune, in solido con l'impresa ..., per i trattamenti retributivi dovuti da questa ai suoi dipendenti impegnati nell'appalto per le opere di ristrutturazione della "Casa Paolo VI" del comune convenuto, entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, ai sensi dell'art. 29, comma 2, D.Lgs. 276/2003 (TRIBUNALE di Milano, Sez. lavoro, sentenza 24.05.2012 n. 2167).
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D.Lgs. 10.09.2003 n. 276 - Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14.02.2003 n. 30
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Art. 29 - Appalto

1. (omissis)
2. In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento. Ove convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore, il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore medesimo. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di entrambi gli obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore. L'eccezione può essere sollevata anche se l'appaltatore non è stato convenuto in giudizio, ma in tal caso il committente imprenditore o datore di lavoro deve indicare i beni del patrimonio dell'appaltatore sui quali il lavoratore può agevolmente soddisfarsi. Il committente imprenditore o datore di lavoro che ha eseguito il pagamento può esercitare l'azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: In tema di responsabilità per il parere di regolarità contabile su una spesa non istituzionale, equiparando il concetto di regolarità contabile alla legittimità della spesa, secondo quanto previsto dal principio di contabilità pubblica contenuto nell'art. 20 T.U. Corte dei conti.
La figura del responsabile del servizio finanziario e di ragioneria ha delle prerogative funzionali di controllo sugli atti amministrativi che comportano impegni di spesa; tale potere si esprime attraverso l’espressioni di pareri, visti e attestazioni, per i quali ai sensi del art. 53 essi sono rilevanti ai fini della responsabilità amministrativa dei funzionari che li hanno resi.
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E' infondata l'affermazione che il visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria sulla determinazione del responsabile del servizio interessato si limita alla sola verifica della copertura finanziaria, la corretta imputazione al capitolo di spesa, alla competenza dell’organo che l’ha assunta, al rispetto dei principi contabili ed alla completezza della documentazione.
La figura del responsabile del servizio economico-finanziario è disciplinata dall’art. 153, comma 3, del TUEL, il quale distingue la possibilità di una figura unica o articolata, sulla base di apposita regolamentazione contabile, ciò significa che è possibile ove il regolamento lo preveda, -consentendolo la legge- che tale figura sia scissa tra soggetti diversi, poiché sono finalisticamente diverse le due tipologie di controllo finanziario e contabile, esercitate rispettivamente dal responsabile del servizio finanziario e di ragioneria; ovviamente nulla vieta, come nella maggior parte dei casi, che tali funzioni siano riunite in una unica figura, ma questo non smentisce la relativa diversità delle due funzioni, delle corrispondenti posizioni organizzative e delle conseguenti responsabilità amministrativo-contabili ed organizzative.
Difatti, il parere di cui all’art. 53 della legge 142/1990 richiesto al responsabile di ragioneria è atto sostanzialmente diverso dall’"attestazione” che il medesimo o altro funzionario è chiamato a rilasciare, ed invero mentre il primo consiste in una valutazione in ordine alla regolarità contabile della deliberazione sottoposta ad esame, la seconda si concreta in una verificazione più specifica, concernente la copertura finanziaria del relativo impegno.
Tali pareri svolgono una funzione consultiva di controllo sebbene non vincolante per gli organi rappresentativi: invero, i pareri ex art. 53 l. 08.06.1990 n. 142 (oggi, art. 49 t.u.e.l.) resi dal responsabile del servizio, dal responsabile del settore ragioneria e dal segretario comunale sui progetti di deliberazioni spettanti ai corpi rappresentativi del comune, non pongono alcun limite alla potestà deliberante di questi ultimi -i quali ben possono liberamente disporre del contenuto delle deliberazioni una volta resi detti pareri- perché, diversamente argomentando, si finirebbe con l'attribuire agli organi consultivi l'effettivo potere d'amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi la funzione di mera ratifica di determinazioni altrui. Essi, pertanto, sono unicamente preordinati all'individuazione sul piano formale, dei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile.
In relazione alla ritenuta differenza tra parere di regolarità contabile previsto per le deliberazioni degli organi rappresentativi, in quanto atti collegiali, e visto di regolarità contabile, come nel caso che ci occupa, sulle determinazioni dei responsabili dei servizi e degli altri soggetti abilitati (es. determinazioni del sindaco), in quanto atti monocratici, può certamente affermarsi che essa è solamente apparente e relativa ad una visione formalistica, non rispondente alla realtà giuridica sostanziale, come confermato dalla giurisprudenza costituzionale, in cui si è affermato che lessicalmente il termine deliberazione “sin dall’antichità” può riferirsi indifferentemente sia ad atti collegiali che monocratici, visto che spesso il legislatore stesso riferisce tale definizione in termini indifferenziati agli uni o agli altri. La parola "deliberazione", designa, da sempre, le risoluzioni adottate sia da organi collegiali sia da organi monocratici, nell'intento di rendere pubblici tutti gli atti degli enti locali di esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell'organo emanante.
Con la semplice differenza prevista dagli artt. 55, comma 5, e 151, comma 4 del TUEL, che il visto di regolarità contabile congiunto alla attestazione di copertura finanziaria è requisito di esecutività dell’atto amministrativo, ossia della sua efficacia giuridica, ciò significa che in sua assenza, anche in presenza della sola attestazione di copertura finanziaria, l’atto non è esecutivo e conseguentemente è nullo o inefficace.
Deve a questo punto chiarirsi cosa si intenda per controllo contabile e finanziario; la giurisprudenza contabile prevalente ha ritenuto e ritiene che regolarità contabile significhi controllo di legittimità della spesa: “Nel parere di “regolarità contabile” infatti, è da comprendere, oltre che la verifica dell’esatta imputazione della spesa al pertinente capitolo di bilancio ed il riscontro della capienza dello stanziamento relativo, anche la valutazione sulla correttezza sostanziale della spesa proposta”.
Anche la giurisprudenza contabile più recente ha confermato questo orientamento con più approfondite precisazioni: “il parere di regolarità contabile investe anche e soprattutto la legittimità della spesa” Corte conti sez. Puglia 207/2006, confermata di recente anche da Corte conti sez. Toscana 114/2010.
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Nelle suddette pronunce a sostegno di tale tesi, si evidenziano ragioni normative di natura sistematica.
in primo luogo deve essere testualmente richiamato l’art. 147, lett. a), del TUEL ove si prevede che nell’ambito del sistema dei propri controlli interni l’ente locale deve garantire attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, correttezza e regolarità dell’azione amministrativa; quindi con tale norma si finalizza rendendolo equivalente, il controllo di regolarità contabile ad un controllo sulla legittimità, correttezza e regolarità dell’azione amministrativa.
Nonché l’art. 184, comma 4, del TUEL, il quale nella fase di controllo da parte dell’ufficio economico finanziario delle determinazioni di impegno e liquidazione di spesa, prevede che esso effettua i controlli ed i riscontri amministrativi e contabili secondo i principi della Contabilità Pubblica, ed è quindi necessario individuare quali siano, tali principi.
Orbene, se nello stesso TUEL sono codificati solamente i principi del bilancio e non vi è alcun riferimento preciso ai principi del controllo; la detta giurisprudenza ha individuato quale principio fondamentale per i responsabili di ragioneria l’art. 27 del R.D. 2440/1923 il quale prevede che: le ragionerie centrali vigilino perché siano osservate le leggi………c) per la regolare gestione dei fondi di bilancio.
Ma la norma che individua il vero principio fondamentale in materia, individuando e distinguendo il controllo finanziario relativo nel nostro caso all’attestazione della copertura finanziaria, da quello contabile, è l’art. 20 del R.D. 1214/1934 TU Corte dei conti, ove si prevede: La Corte vigila perché le spese non superino le somme stanziate nel bilancio e queste si applichino alle spese prescritte, perché non si faccia trasporto di somme non consentite per legge, e perché la liquidazione e il pagamento delle spese siano conformi alle leggi e ai regolamenti.
Tale norma che si applica all’attività di controllo della Corte dei conti e definisce il concetto di contabilità pubblica, per la sua ampia definizione, si configura come riferimento fondamentale per i concetti di regolarità finanziaria e contabile, tale che, per la sua generalità è estensibile a qualsiasi organo pubblico che svolga tali funzioni; e dunque per regolarità contabile deve intendersi legittimità della spesa, ossia conformità di essa alle leggi ed ai regolamenti.
In conclusione, la verifica ai fini dell’attestazione del responsabile del servizio finanziario coincide sostanzialmente con la prima parte dell’art. 20 cit., riferita al controllo finanziario, il cui egli deve verificare la copertura finanziaria, confrontando l’impegno di spesa con lo stanziamento contenuto nello specifico capitolo o intervento del bilancio di previsione, la corretta imputazione dell’impegno rispetto all’oggetto del capitolo di spesa, che non si siano fatte variazioni di bilancio non autorizzate, oltre la scontata competenza dell’organo che ha emesso il provvedimento, la quale attiene piuttosto alla legittimità dell’atto amministrativo che all’aspetto finanziario; diversa funzione conseguentemente, ha il parere o visto di regolarità contabile riferito alla seconda parte dell’art. 20, che si configura come un vero e proprio controllo di legittimità della spesa rispetto alla legge e alle altre fonti normative, quindi trattasi di due funzioni ben distinte.
In attuazione dell’art. 153, comma 3 e 5, del TUEL, l’art. 30 del regolamento di contabilità del comune di Palagonia prevede che l’attestazione di copertura finanziaria è apposta dal responsabile di ragioneria: 1. Qualsiasi atto che comporti spese a carico dell’ente è nullo di diritto se privo dell’attestazione della copertura finanziaria da parte del responsabile di ragioneria…3. Con l’attestazione viene garantita la disponibilità finanziaria sul pertinente stanziamento di bilancio; e con l’art. 31 il parere di regolarità contabile viene espresso previa verifica: …… b) della corretta imputazione della entrata e della spesa; c) dell’esistenza del presupposto dal quale sorge il diritto della obbligazione; e) (rectius: d) del rispetto del’ordinamento contabile degli enti locali e delle norme del presente regolamento.
L’art. 184 del TUEL prevede: ……2. La liquidazione compete all’ufficio che ha dato esecuzione al provvedimento di spesa ed è disposta sulla base della documentazione necessaria a comprovare il diritto del creditore a seguito del riscontro operato sulla regolarità della fornitura o della prestazione e sulla rispondenza della stessa ai requisiti quantitativi e qualitativi,ai termini o alle condizioni pattuite.
3. L’atto di liquidazione sottoscritto dal responsabile del servizio proponente, con tutti i relativi documenti giustificativi ed i riferimenti contabili è trasmesso al servizio finanziario per i conseguenti adempimenti.
4. Il servizio finanziario effettua,secondo i principi e le procedure di contabilità pubblica,i controlli ed i riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione
.
Infine, per la posizione di tutti i convenuti assume rilevanza l’art. 105 dell’Orel, L.R. 16/1963, avente ad oggetto le spese del comune, ove si prevede: 1. I comuni sono tenuti ad assumere le spese indispensabili per la conservazione del patrimonio,per gli uffici, e gli archivi comunali, per il trattamento economico o di quiescenza del personale, per i servizi di interesse strettamente locale, ed in genere, per adempiere le funzioni ad essi attribuite dalla legge. 2. Ove le condizioni del bilancio lo consentono, essi possono assumere anche altre spese per i servizi ed uffici di utilità pubblica connessi con l’interesse locale.
Dal quadro si qui delineato non si può negare che la figura del responsabile del servizio finanziario e di ragioneria abbia delle prerogative funzionali di controllo sugli atti amministrativi che comportano impegni di spesa; tale potere si esprime attraverso l’espressioni dei suddetti pareri, visti e attestazioni, per i quali ai sensi del art. 53 essi sono rilevanti ai fini della responsabilità amministrativa dei funzionari che li hanno resi.
Perciò, le deduzioni del convenuto M., responsabile del servizio finanziario e di ragioneria del comune di Palagonia, ove egli afferma che il visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria sulla determinazione del responsabile del servizio interessato si limitava alla sola verifica della copertura finanziaria, la corretta imputazione al capitolo di spesa, alla competenza dell’organo che l’ha assunta, al rispetto dei principi contabili ed alla completezza della documentazione, sono infondate.
La figura del responsabile del servizio economico-finanziario è disciplinata dall’art. 153, comma 3, del TUEL sopraccitato, il quale distingue la possibilità di una figura unica o articolata, sulla base di apposita regolamentazione contabile, ciò significa che è possibile ove il regolamento lo preveda, -consentendolo la legge- che tale figura sia scissa tra soggetti diversi, poiché, come vedremo, sono finalisticamente diverse le due tipologie di controllo finanziario e contabile, esercitate rispettivamente dal responsabile del servizio finanziario e di ragioneria, ovviamente nulla vieta, come nella maggior parte dei casi, che tali funzioni siano riunite in una unica figura, ma questo non smentisce la relativa diversità delle due funzioni, delle corrispondenti posizioni organizzative e delle conseguenti responsabilità amministrativo-contabili ed organizzative.
Difatti, ciò è stato percepito e confermato dalla giurisprudenza amministrativa e contabile sin dalla emanazione della legge 142/1990: “il parere di cui all’art. 53 della legge 142/1990 richiesto al responsabile di ragioneria è atto sostanzialmente diverso dall’ “attestazione” che il medesimo o altro funzionario è chiamato a rilasciare, ed invero mentre il primo consiste in una valutazione in ordine alla regolarità contabile della deliberazione sottoposta ad esame, la seconda si concreta in una verificazione più specifica, concernente la copertura finanziaria del relativo impegno” TAR Pa sez. II 231/1994.
Tali pareri svolgono una funzione consultiva di controllo sebbene non vincolante per gli organi rappresentativi: “i pareri ex art. 53 l. 08.06.1990 n. 142 (oggi, art. 49 t.u.e.l.) resi dal responsabile del servizio, dal responsabile del settore ragioneria e dal segretario comunale sui progetti di deliberazioni spettanti ai corpi rappresentativi del comune, non pongono alcun limite alla potestà deliberante di questi ultimi -i quali ben possono liberamente disporre del contenuto delle deliberazioni una volta resi detti pareri- perché, diversamente argomentando, si finirebbe con l'attribuire agli organi consultivi l'effettivo potere d'amministrazione attiva, lasciando ai corpi rappresentativi la funzione di mera ratifica di determinazioni altrui. Essi, pertanto, sono unicamente preordinati all'individuazione sul piano formale, dei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile” TAR NA, sez. III, 7878/2007.
In relazione alla ritenuta differenza tra parere di regolarità contabile previsto per le deliberazioni degli organi rappresentativi, in quanto atti collegiali, e visto di regolarità contabile, come nel caso che ci occupa, sulle determinazioni dei responsabili dei servizi e degli altri soggetti abilitati (es. determinazioni del sindaco), in quanto atti monocratici, può certamente affermarsi che essa è solamente apparente e relativa ad una visione formalistica, non rispondente alla realtà giuridica sostanziale, come confermato dalla giurisprudenza costituzionale, in cui si è affermato che lessicalmente il termine deliberazione “sin dall’antichità” può riferirsi indifferentemente sia ad atti collegiali che monocratici, visto che spesso il legislatore stesso riferisce tale definizione in termini indifferenziati agli uni o agli altri; si veda Corte costituzionale 38 e 39/1979, e confermato anche dalla giurisprudenza amministrativa Cons. di Stato sez. IV 1129/1977 e 701/1978, più recentemente Cons. di Stato sez. V 8400/2009: “la parola "deliberazione", designa, da sempre, le risoluzioni adottate sia da organi collegiali sia da organi monocratici, nell'intento di rendere pubblici tutti gli atti degli enti locali di esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell'organo emanante”.
Con la semplice differenza prevista dagli artt. 55, comma 5, e 151, comma 4, sopra citati, che il visto di regolarità contabile congiunto alla attestazione di copertura finanziaria è requisito di esecutività dell’atto amministrativo, ossia della sua efficacia giuridica, ciò significa che in sua assenza, anche in presenza della sola attestazione di copertura finanziaria, l’atto non è esecutivo e conseguentemente è nullo o inefficace.
Deve a questo punto chiarirsi cosa si intenda per controllo contabile e finanziario; la giurisprudenza contabile prevalente ha ritenuto e ritiene che regolarità contabile significhi controllo di legittimità della spesa: “Nel parere di “regolarità contabile” infatti, è da comprendere, oltre che la verifica dell’esatta imputazione della spesa al pertinente capitolo di bilancio ed il riscontro della capienza dello stanziamento relativo, anche la valutazione sulla correttezza sostanziale della spesa proposta” Corte conti, sez. II, 104/1994.
Anche la giurisprudenza contabile più recente ha confermato questo orientamento con più approfondite precisazioni: “il parere di regolarità contabile investe anche e soprattutto la legittimità della spesa” Corte conti sez. Puglia 207/2006, confermata di recente anche da Corte conti sez. Toscana 114/2010.
In queste pronunce a sostegno di tale tesi, si evidenziano ragioni normative di natura sistematica.
in primo luogo deve essere testualmente richiamato l’art. 147, lett. a), del TUEL ove si prevede che nell’ambito del sistema dei propri controlli interni l’ente locale deve garantire attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, correttezza e regolarità dell’azione amministrativa; quindi con tale norma si finalizza rendendolo equivalente, il controllo di regolarità contabile ad un controllo sulla legittimità, correttezza e regolarità dell’azione amministrativa.
Nonché l’art. 184, comma 4, del TUEL sopra citato, il quale nella fase di controllo da parte dell’ufficio economico finanziario delle determinazioni di impegno e liquidazione di spesa, prevede che esso effettua i controlli ed i riscontri amministrativi e contabili secondo i principi della Contabilità Pubblica, ed è quindi necessario individuare quali siano, tali principi.
Orbene, se nello stesso TUEL sono codificati solamente i principi del bilancio e non vi è alcun riferimento preciso ai principi del controllo; la detta giurisprudenza ha individuato quale principio fondamentale per i responsabili di ragioneria l’art. 27 del R.D. 2440/1923 il quale prevede che: le ragionerie centrali vigilino perché siano osservate le leggi………c) per la regolare gestione dei fondi di bilancio.
Ma ad avviso di questo collegio, la norma che individua il vero principio fondamentale in materia, individuando e distinguendo il controllo finanziario relativo nel nostro caso all’attestazione della copertura finanziaria, da quello contabile, è l’art. 20 del R.D. 1214/1934 TU Corte dei conti, ove si prevede: La Corte vigila perché le spese non superino le somme stanziate nel bilancio e queste si applichino alle spese prescritte, perché non si faccia trasporto di somme non consentite per legge, e perché la liquidazione e il pagamento delle spese siano conformi alle leggi e ai regolamenti.
Tale norma che si applica all’attività di controllo della Corte dei conti e definisce il concetto di contabilità pubblica, per la sua ampia definizione, si configura come riferimento fondamentale per i concetti di regolarità finanziaria e contabile, tale che, per la sua generalità è estensibile a qualsiasi organo pubblico che svolga tali funzioni; e dunque per regolarità contabile deve intendersi legittimità della spesa, ossia conformità di essa alle leggi ed ai regolamenti.
E d’altro canto, ciò trova riscontro nell’art. 31 del regolamento di contabilità del Comune di Palagonia sopra evidenziato, ove si prevede che il responsabile di ragioneria deve verificare l’esistenza del presupposto dal quale sorge il diritto della obbligazione e il rispetto dell’ordinamento contabile degli enti locali.
In conclusione sul punto, la verifica ai fini dell’attestazione del responsabile del servizio finanziario coincide sostanzialmente con la prima parte dell’art. 20 cit., riferita al controllo finanziario, il cui egli deve verificare la copertura finanziaria, confrontando l’impegno di spesa con lo stanziamento contenuto nello specifico capitolo o intervento del bilancio di previsione, la corretta imputazione dell’impegno rispetto all’oggetto del capitolo di spesa, che non si siano fatte variazioni di bilancio non autorizzate, oltre la scontata competenza dell’organo che ha emesso il provvedimento, la quale attiene piuttosto alla legittimità dell’atto amministrativo che all’aspetto finanziario; diversa funzione conseguentemente, ha il parere o visto di regolarità contabile riferito alla seconda parte dell’art. 20, che si configura come un vero e proprio controllo di legittimità della spesa rispetto alla legge e alle altre fonti normative, quindi trattasi di due funzioni ben distinte.
Dunque, sotto il profilo della regolarità contabile il M. nella sua qualità di responsabile di ragioneria non ha verificato l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto dai quali avrebbe dovuto scaturire l’obbligazione, in concreto l’inerenza della spesa da rimborsare, con le funzioni istituzionali esercitate dal sindaco e dagli assessori con la partecipazione alla manifestazione “settimana della lingua italiana nel mondo” svoltasi a Ginevra da 21 al 24.10.2005. Contrariamente da quanto affermato, egli non ha dimostrato, né allegato alcun documento da cui risulti tale inerenza e l’eventuale utilità della spesa, e questo, sebbene dalla lettura dalla deliberazione di giunta comunale n. 276/2005, egli, nella sua qualità di responsabile del servizio finanziario ha ritenuto contabilmente regolare la spesa,ed anche alla luce dalla rassegna stampa della manifestazione, allegata al fascicolo dal PM e in possesso del comune, non vi è alcuna traccia di collegamenti con l’attività istituzionale del comune di Palagonia, di cui il convenuto nella sua qualità di organo di controllo interno doveva tenere conto, in conformità alla previsione dell’art. 105 della L.R. 16/1963, in quanto spesa non connessa con l’interesse locale (
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sicilia, sentenza 24.04.2012 n. 1337 - link a www.corteconti.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Documento Unico di Regolarità Contributiva (circolare 31.05.2012 n. 6/2012).

ATTI AMMINISTRATIVIOggetto: Ambito di applicazione dell'art. 40, comma 2, d.P.R. n. 445 del 2000 (circolare 23.05.2012 n. 5/2012).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: M. Zortea e E. V. Zeni, Abbandono di veicoli fuori uso. Stato dell’arte: norme e giurisprudenza (31.05.2012 - link a www.tuttoambiente.it).

APPALTI: L. Bellagamba, La dichiarazione di subappalto in sede di gara e la suggestiva tesi della sezione VI del Consiglio di Stato (link a www.linobellagamba.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALIPuniti dal 2014 i mini-enti che sforano il Patto.
I comuni tra 1.001 e 5.000 abitanti che, dal 2013, saranno chiamati a osservare le regole del patto di stabilità per effetto della manovra bis del 2011 (il dl n. 138/2011), qualora inadempienti, potranno essere penalizzati con le sanzioni previste dal dl n. 112/2008 soltanto a decorrere dall'anno 2014, in quanto la natura sanzionatoria sopra richiamata restringe l'ambito soggettivo ai soli enti già chiamati al rispetto degli obiettivi imposti dal Patto.
In tema di personale, però, per i mini enti resta comunque fissato il limite assunzionale nella misura del quaranta per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente, in quanto, da un lato, nessuna norma derogatoria è oggi prevista per tali enti e poi perché gli stessi possono sempre riorganizzare le risorse umane disponibili facendo leva sulle previste forme di associazionismo comunale.

Sono queste le indicazioni fornite dalla Sez. autonomie della Corte dei conti, nel testo della recente deliberazione 11.05.2012 n. 6, con cui è stata fatta chiarezza su alcuni aspetti di interesse per i piccoli comuni alla luce del loro prossimo ingresso tra gli enti cui si applicheranno le severe regole del Patto di stabilità interno.
Il sindaco di Arsié (Bl), comune con 2.600 abitanti chiedeva l'intervento della Corte veneta per sapere se, prospettandosi la cessazione di un'unita di personale nel corso di quest'anno, poteva avviare o meno le procedure di reclutamento di un'altra unità da assumere, con effetto 2013, tenuto conto che, ai sensi dell'articolo 16, comma 31, del dl n. 138/2011, le disposizioni del Patto di stabilità interno avranno effetto nei riguardi di tutti i comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti e che, con l'assunzione di detta unità, il predetto comune sforerà i vincoli del patto (con le conseguenti sanzioni previste dal citato dl n. 112/2008).
La Corte veneta ha così rimesso l'istanza alla sezione autonomie affinché la stessa si pronunci con un orientamento di carattere generale, stante la massima rilevanza della questione nata dalla scelta del legislatore di estendere il Patto di stabilità «ad un considerevole numero di enti» e per le implicazioni pratiche cui saranno tenuti i mini-enti, rilevando a tal fine che il rispetto del rigido contenimento della spesa pubblica potrebbe sollevare problemi in ordine alla decorrenza delle disposizioni limitative.
Per la sezione autonomie, il limite imposto dall'articolo 76, comma 4, del dl n. 112/2008 agli enti locali inadempienti, ovvero il divieto assoluto di procedere a nuove assunzioni di personale, è ricollegabile all'inosservanza dei vincoli imposti dal Patto. Quindi, la sua operatività si indirizza ai soli enti che già lo devono osservare. In pratica, se il mancato rispetto del Patto «nell'esercizio precedente» costituisce il presupposto per l'irrogazione della sanzione, allora il divieto sopra evidenziato non può essere applicato agli enti che, per la prima volta, ne sono soggetti. Ovvero, dal 2013, i comuni da 1.000 a 5.000 abitanti. Ne consegue che tali enti, eventualmente, incorreranno nel regime sanzionatorio soltanto a decorrere dal 2014 senza che possa ipotizzarsi un'applicazione retroattiva della predetta sanzione, poiché ciò violerebbe i principi di ragionevolezza, di certezza del diritto e di leale collaborazione.
Ma i mini enti, prosegue il documento delle autonomie, devono però rispettare il vincolo assunzionale nella misura del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni avvenute nell'esercizio finanziario precedente (art. 76, comma 7, del dl n. 112/2008). In primo luogo, perché l'estensione del Patto a tutti i comuni con più di 1.000 abitanti «non presenta particolari incompatibilità» o ragioni particolari che portino a sottrarre alcuni di essi all'applicazione uniforme delle misure di contenimento della spesa pubblica in un particolare momento di crisi finanziaria. Se in tale prospettiva, i piccoli enti temono di non poter garantire i servizi essenziali, la sezione autonomie ricorda loro che possono sempre far leva sulle forme di associazionismo comunale, quale modulo organizzativo più flessibile, economico e efficiente (articolo ItaliaOggi del 30.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROCome si redige un DUVRI (Documento Unico di Valutazione di Rischi Interferenti): ecco un modello completo e versatile.
La redazione del DUVRI, come previsto dal Testo Unico per la Sicurezza (D.Lgs. 81/2008), è sempre obbligatoria in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi. Anche nel caso in cui non siano presenti rischi dovuti a interferenze il DUVRI va redatto, in quanto la compilazione di tale modello testimonia l’avvenuta valutazione dei rischi.
Questo indica le misure preventive da adottare per la cooperazione e il coordinamento dei lavoratori, nel caso in cui i lavori vengano affidati a più imprese, al fine di prevenire e ridurre i rischi dovuti alle interferenze presenti sul luogo di lavoro.
L’INAIL ha prodotto uno schema di elaborazione del DUVRI, utile a tutti i tecnici e agli addetti ai lavori, in particolare ai datori di lavoro committenti cui spetta il compito di informare i lavoratori dell’impresa appaltatrice circa i rischi e di verificare l’idoneità tecnico professionale dell’impresa appaltatrice stessa.
La guida dell’INAIL è così strutturata:
Descrizione del modello DUVRI
Modalità operative
Ipotesi A: assenza di rischi dovuti all’interferenza
Ipotesi B: presenza di rischi dovuti all’interferenza
Ipotesi C: caso in cui NON deve essere redatto il DUVRI
Esemplificazione con diagramma di flusso
Il quadro normativo
Determinazione AVCP n. 3 del 05.03.2008
Definizioni
Allegati
Oltre alla guida, in allegato a questo articolo anche il modello di DUVRI relativo ai contratti di appalto, d'opera o di somministrazione adottato dall’Inail (31.05.2012 - link a www.acca.it).

INCARICHI PROGETTUALIDal Consiglio Nazionale degli Architetti il “Secondo Contributo” sul calcolo dei compensi per l’affidamento di servizi.
Il Consiglio Nazionale degli Architetti ha inviato all’AVCP il “Secondo Contributo” per l'aggiornamento delle linee guida in merito all'affidamento dei servizi (per la prima Circolare del CNAPPC si rinvia il lettore all’art. “Dal Consiglio Nazionale degli Architetti un esempio su come calcolare i compensi dei professionisti”).
Il nuovo documento del Consiglio degli Architetti contiene chiarimenti in merito a:
● criteri di determinazione dell’importo a base di gara dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria
● requisiti speciali
● verifica di congruità delle offerte
● soglie di affidamento
● concorsi sottosoglia
● interpretazione servizi di punta
● organico medio annuo
● rivalutazione importi lavori progettati
● problemi pratici derivanti dall’applicazione dell’art. 10 della legge n. 183/2011 (31.05.2012 - link a www.acca.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Piano attuativo di iniziativa privata e realizzazione, da parte dello stesso soggetto attuatore, delle opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri concessori, sia per l’ambito della lottizzazione che per la realizzazione della scuola materna comunale.
Il Comune di ... ha ritenuto di rimettere al titolare del PdC la procedura di aggiudicazione dei lavori per la costruzione della scuola materna, individuando ed “imponendo” nel contempo, come evidenziato dal responsabile del Settore LL.PP., sia un RUP per l’attuazione del PUA, sia un collaudatore tecnico amministrativo in corso d’opera.
Questa Autorità ha più volte evidenziato che è da ritenersi inammissibile, da parte del titolare del permesso di costruire, la partecipazione indiretta ad una gara mediante soggetti con i quali sussistono rapporti di controllo ai sensi dell’art 2359 c.c. (Società controllate e Società collegate) o tali da configurare un unico centro decisionale. Ciò a salvaguardia del generale principio di imparzialità che deve essere anche a fondamento dell’azione del privato titolare del Permesso di Costruire il quale, in quanto “altro soggetto attuatore” rispetto alla P.A., è tenuto ad appaltare opere pubbliche a terzi nel rispetto della disciplina dei contratti pubblici come prevista dal D.lgs 163/06. Il TAR Puglia–Bari ha evidenziato, inoltre, che le situazioni di conflitto di interesse possono essere rinvenute allorquando esistano contrasto e incompatibilità anche solo potenziali tra il soggetto e le funzioni che gli vengono attribuite.
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L’art. 57, co. 6, dlgs 163/2006 attribuisce alla stazione appaltante l’onere di individuare gli operatori economici sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di qualificazione economico-finanziaria e tecnico-organizzativa desunte dal mercato. L’AVCP ha chiarito che la ratio della norma dell’art. 57, co. 6, è di garantire che le caratteristiche di qualificazione economico-finanziaria e tecnico-organizzativa richieste dalla stazione appaltante coincidano con quelle necessarie per la partecipazione alle procedure selettive e che, nel caso di lavori, sia necessario fare riferimento al possesso della qualificazione SOA.
La scelta delle imprese da invitare, dunque, deve essere compiuta mediante una preventiva acquisizione di informazioni dal mercato e sempre nel rispetto dei principi di concorrenza e trasparenza al fine individuare operatori economici le cui caratteristiche siano proporzionate al tipo di intervento; ciò anche nell’ottica della salvaguardia dell’interesse pubblico, soprattutto in caso di adozione di procedure di selezione, quali quella negoziata senza bando, che rappresentano di fatto una sottrazione degli appalti alla libera concorrenza.
A tal proposito, proprio a garanzia dei principi di concorrenza e trasparenza, questa Autorità ha evidenziato che, anche se la pubblicità preventiva non è obbligatoria per le procedure semplificate, sarebbe auspicabile che, oltre alla doverosa esplicitazione nella determina a contrarre dei criteri da utilizzare per l’individuazione delle imprese da invitare, venissero considerate necessarie, sia la pubblicazione del cosiddetto avviso di post-informazione contenente i dati dei soggetti aggiudicatari degli affidamenti, sia l’adozione di tutti gli strumenti che consentano di adeguare la pubblicità all’importanza dell’appalto per il mercato interno, utilizzando come parametri il valore effettivo della commessa e la sua "appetibilità" per i potenziali concorrenti (es. pubblicazione dell’avviso sul sito internet della stazione appaltante); sia, infine la predisposizione di “opportuni elenchi aperti di operatori economici”.
Nel caso in questione, l’aver invitato un operatore economico non in possesso di qualificazione adeguata al tipo di prestazione richiesta, indica che la stazione appaltante quantomeno non ha agito con la dovuta accortezza nella selezione dei concorrenti; inoltre, la circostanza sopra esaminata induce ragionevolmente a ritenere che ci sia stato un comportamento volto a favorire tale Ditta rispetto ad altre più idonee sul mercato a garantire il soddisfacimento della prestazione richiesta; in ciò non rispettando, quindi, il principio di parità di trattamento che vieta non solo le discriminazioni palesi ma anche quelle dissimulate.
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Si ribadisce che, specie in casi come quello in esame, in cui, in vece dell’amministrazione pubblica, il privato assume le funzioni di altro soggetto aggiudicatore di opere pubbliche, è di indiscutibile necessità l’azione di vigilanza da parte dell’amministrazione, al fine di garantire la regolarità delle varie fasi dell’appalto.
Come già espresso da questa Autorità, anche se nel caso di opere a scomputo degli oneri concessori è applicabile al privato il concetto di mandato quale conferimento dei poteri relativi all’espletamento delle gare, rimangono in capo all’amministrazione quelli relativi alla sorveglianza, al controllo ed alla direzione nella realizzazione delle opere.
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Considerato in fatto:
In data 11/10/2010 è giunto all’Autorità l’esposto prot. 70497 con cui gli esponenti -consiglieri comunali di opposizione- hanno denunciato presunte irregolarità nell'affidamento dell'appalto in argomento, aggiudicato ai sensi dell'art. 122, comma 8, dalla Società San Giorgio S.a.s., soggetto attuatore privato del Piano Urbanistico Attuativo (in seguito PUA) "San Giorgio". Fra le clausole previste nella convenzione stipulata con il Comune di Lazise, infatti, era previsto che il soggetto attuatore provvedesse alla realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri concessori, sia per l’ambito della lottizzazione che per la realizzazione della scuola materna in argomento, da costruire nella frazione di Colà.
Come stabilito dal sopracitato articolo, la società San Giorgio s.a.s.., assumendo le funzioni di stazione appaltante, ha provveduto ad invitare, con procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando, n. 5 operatori economici per l'affidamento dei lavori.
Gli esponenti hanno segnalato che la commissione giudicatrice, composta dal RUP, scelto dall'amministrazione comunale in una terna di professionisti proposta dal soggetto attuatore, e da due tecnici comunali, ha aggiudicato i lavori alla ditta individuale Lonardi Francesco, primo marito della titolare della Società San Giorgio Sas. Hanno segnalato, inoltre, che la ditta aggiudicataria è priva di attestazione SOA e che è ricorsa all’istituto dell’avvalimento.
...
Ritenuto in diritto:
La tematica delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria a scomputo degli oneri concessori stabilita dall’art. 16 del DPR 380/2001 (Testo unico sull’edilizia) è stata oggetto di varie discussioni e pronunciamenti in sede comunitaria e nazionale che sono confluiti in una serie di provvedimenti di aggiornamento del Codice dei contratti pubblici. Il problema di base emerso nella normativa italiana riguarda, infatti, la facoltà data dal succitato articolo del Testo Unico sull’edilizia alle Amministrazioni locali di affidare l’esecuzione di opere pubbliche direttamente al soggetto privato titolare del Permesso di Costruire. Con il D.Lgs 152/2008 è stata stabilita una disciplina che prevede, sia per importi sopra che sotto soglia comunitaria, l’ipotesi che l’affidamento di tali opere possa avvenire con gara svolta sia direttamente dall’Amministrazione pubblica sia dal privato, che assume in tal modo la veste di altro soggetto aggiudicatore.
Attualmente, dunque, l’art. 122, co. 8, del D.gs 163/2006, rinviando all’art. 32 del medesimo Decreto, richiama anche per gli appalti sottosoglia comunitaria le due distinte modalità di affidamento delle opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri concessori, ossia la prima, che prevede da parte dell’Amministrazione pubblica l’acquisizione dal privato titolare del PdC del progetto preliminare e la successiva selezione dell’appaltatore con la procedura prevista dall’art. 57, co. 6, del Codice dei contratti pubblici; la seconda che sposta sul privato la responsabilità di tale operazione, fermo restando in capo all’Amministrazione pubblica l’onere della vigilanza sulle procedure attuate. In tal caso, infatti, il soggetto privato, in virtù della convenzione onerosa stipulata con l’Amministrazione che rilascia il PdC, assume il ruolo di altro soggetto aggiudicatore di opere pubbliche, ossia di opere che, una volta ultimate, sono acquisite al patrimonio del Comune, ossia della collettività. Si comprende, quindi, l’importanza di garantire il rispetto della correttezza delle procedure poste in essere al fine di tutelare gli interessi pubblici.
Nel caso in questione, il Comune di Lazise ha ritenuto di rimettere al titolare del PdC la procedura di aggiudicazione dei lavori per la costruzione della scuola materna di Colà, individuando ed “imponendo” nel contempo, come evidenziato dal responsabile del Settore LL.PP., sia un RUP per l’attuazione del PUA, sia un collaudatore tecnico amministrativo in corso d’opera.
In merito alla problematica che investe la ditta aggiudicataria dei lavori, si sollevano le seguenti osservazioni. Innanzitutto, come peraltro evidenziato alla stessa amministrazione comunale, i controlli effettuati sulla Società San Giorgio Sas hanno potuto appurare che il sig. Lonardi, titolare della ditta individuale aggiudicataria dei lavori, solo in data 20/10/2009, si è dimesso dalla carica di socio accomandante della società San Giorgio S.a.s. ed al suo posto sono subentrati tre figli (uno in qualità di socio accomandatario e due in qualità di soci accomandanti). Pertanto, in virtù della sua partecipazione al capitale sociale e, soprattutto, del suo ruolo di socio accomandante, non solo poteva essere a conoscenza prima degli altri concorrenti dell’imminente avvio di una procedura di selezione, nonché dell’oggetto e delle modalità con la quale la stessa sarebbe stata espletata, ma avrebbe potuto condizionare anche le scelte in merito alle predette modalità, alla tempistica o agli operatori economici da invitare.
Infatti, da quanto si è potuto constatare, l’invio delle lettere di invito alla procedura negoziata ai cinque operatori economici individuati dalla Stazione Appaltante è avvenuto il 23/10/2009, ossia appena tre giorni dopo la data di cessazione del Sig. Lonardi dalla carica di socio accomandante della San Giorgio Sas; fatto che non può che destare il ragionevole dubbio che l’uscita di Lonardi dalla società sia stata artatamente studiata per poter partecipare alla selezione.
Sul punto questa Autorità ha più volte evidenziato (es. Determinazioni n. 7 del 16/07/2009 e n. 4 del 02/04/2008), che è da ritenersi inammissibile, da parte del titolare del permesso di costruire, la partecipazione indiretta ad una gara mediante soggetti con i quali sussistono rapporti di controllo ai sensi dell’art 2359 c.c. (Società controllate e Società collegate) o tali da configurare un unico centro decisionale. Ciò a salvaguardia del generale principio di imparzialità che deve essere anche a fondamento dell’azione del privato titolare del Permesso di Costruire il quale, in quanto “altro soggetto attuatore” rispetto alla P.A., è tenuto ad appaltare opere pubbliche a terzi nel rispetto della disciplina dei contratti pubblici come prevista dal D.lgs 163/06. Il TAR Puglia–Bari, con la Sentenza 1909 del 22/07/2009, ha evidenziato, inoltre, che le situazioni di conflitto di interesse possono essere rinvenute allorquando esistano contrasto e incompatibilità anche solo potenziali tra il soggetto e le funzioni che gli vengono attribuite.
Vi è, inoltre, un ulteriore aspetto da porre in evidenza. E’ stato rilevato che la Ditta del sig. Lonardi è l’unica delle cinque invitate a non essere in possesso di attestazione SOA; infatti, come riscontrato nella documentazione inviata dal Comune, la Ditta, per la partecipazione alla gara (importo base pari ad € 1.000.000,00), ha dichiarato di ricorrere all’istituto dell’avvalimento per la categoria OG1 cl. II (tramite l’impresa Eurocostruzioni D/G Srl). Si rappresenta al riguardo che l’art. 57, co. 6, attribuisce alla stazione appaltante l’onere di individuare gli operatori economici sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di qualificazione economico-finanziaria e tecnico-organizzativa desunte dal mercato. L’AVCP, nella Determinazione n. 2/2011, ha chiarito che la ratio della norma dell’art. 57, co. 6, è di garantire che le caratteristiche di qualificazione economico-finanziaria e tecnico-organizzativa richieste dalla stazione appaltante coincidano con quelle necessarie per la partecipazione alle procedure selettive e che, nel caso di lavori, sia necessario fare riferimento al possesso della qualificazione SOA.
La scelta delle imprese da invitare, dunque, deve essere compiuta mediante una preventiva acquisizione di informazioni dal mercato e sempre nel rispetto dei principi di concorrenza e trasparenza al fine individuare operatori economici le cui caratteristiche siano proporzionate al tipo di intervento; ciò anche nell’ottica della salvaguardia dell’interesse pubblico, soprattutto in caso di adozione di procedure di selezione, quali quella negoziata senza bando, che rappresentano di fatto una sottrazione degli appalti alla libera concorrenza.
A tal proposito, proprio a garanzia dei principi di concorrenza e trasparenza, nella medesima Determinazione n. 2/2011, questa Autorità ha evidenziato che, anche se la pubblicità preventiva non è obbligatoria per le procedure semplificate, sarebbe auspicabile che, oltre alla doverosa esplicitazione nella determina a contrarre dei criteri da utilizzare per l’individuazione delle imprese da invitare, venissero considerate necessarie, sia la pubblicazione del cosiddetto avviso di post-informazione contenente i dati dei soggetti aggiudicatari degli affidamenti, sia l’adozione di tutti gli strumenti che consentano di adeguare la pubblicità all’importanza dell’appalto per il mercato interno, utilizzando come parametri il valore effettivo della commessa e la sua "appetibilità" per i potenziali concorrenti (es. pubblicazione dell’avviso sul sito internet della stazione appaltante); sia, infine la predisposizione di “opportuni elenchi aperti di operatori economici”.
Nel caso in questione, l’aver invitato un operatore economico non in possesso di qualificazione adeguata al tipo di prestazione richiesta, indica che la stazione appaltante quantomeno non ha agito con la dovuta accortezza nella selezione dei concorrenti; inoltre, la circostanza sopra esaminata induce ragionevolmente a ritenere che ci sia stato un comportamento volto a favorire tale Ditta rispetto ad altre più idonee sul mercato a garantire il soddisfacimento della prestazione richiesta; in ciò non rispettando, quindi, il principio di parità di trattamento che vieta non solo le discriminazioni palesi ma anche quelle dissimulate (cfr. Sentenza Corte di Giustizia CE 03.06.1992, causa C-360/89).
Si ribadisce che, specie in casi come quello in esame, in cui, in vece dell’amministrazione pubblica, il privato assume le funzioni di altro soggetto aggiudicatore di opere pubbliche, è di indiscutibile necessità l’azione di vigilanza da parte dell’amministrazione, al fine di garantire la regolarità delle varie fasi dell’appalto. Come già espresso da questa Autorità, anche se nel caso di opere a scomputo degli oneri concessori è applicabile al privato il concetto di mandato quale conferimento dei poteri relativi all’espletamento delle gare, rimangono in capo all’amministrazione quelli relativi alla sorveglianza, al controllo ed alla direzione nella realizzazione delle opere.
Alla luce di quanto sopra, dunque, non può che rilevarsi l’inadeguadezza e l’inefficacia dell’azione di controllo e sorveglianza da parte dell’Amministrazione comunale sia per quanto riguarda la fase di scelta degli operatori economici invitati alla procedura negoziata, sia, soprattutto, per ciò che concerne i rapporti fra la Società San Giorgio Sas e la ditta Lonardi (deliberazione 25.01.2012 n. 7 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Invio del certificato di malattia: disciplina telematica.
Domanda
Come funziona il sistema di invio a mezzo internet del certificato di malattia per il lavoratore dipendente?
Risposta
Dall'01.02.2011 è pienamente operativa la disciplina dell'invio telematico dei certificati di malattia. Da tale data, infatti, sono applicabili le sanzioni disciplinari a carico dei medici in caso di violazione dell'obbligo di inviare la certificazione di malattia del lavoratore in via telematica all'INPS. In ogni caso l'obbligo dell'invio telematico è in vigore dal mese di luglio 2010.
La nuova procedura di rilascio e trasmissione dei certificati di assenza per malattia riguarda sia i lavoratori del settore privato che pubblico (riguardo il settore pubblico sono esclusi solo i dipendenti in regime di diritto pubblico ad esempio magistrati, personale militare, forze di polizia di stato...).
Il medico curante acquisisce ed invia all'INPS le informazioni relative alla certificazione di malattia telematicamente attraverso un apposito sistema (SAC/SAR). La trasmissione del certificato di malattia telematico comprende obbligatoriamente l'inserimento da parte del medico curante dei seguenti dati: il codice fiscale del lavoratore, la residenza o il domicilio abituale, l'eventuale domicilio di reperibilità durante la malattia (se diverso dalla residenza o dal domicilio abituale al fine di permettere i controlli medico fiscali), il codice di diagnosi, la data di dichiarato inizio malattia, la data di rilascio del certificato, la data di presunta fine malattia (nei casi di accertamento successivo al primo deve essere indicata la prosecuzione o ricaduta della malattia), la modalità ambulatoriale o domiciliare della visita eseguita).
Dopo l'invio all'INPS il sistema informativo restituisce il numero di protocollo al medico il quale lo comunica al lavoratore e rilascia, su sua richiesta, una copia cartacea del certificato e dell'attestato di malattia (quest'ultimo è la parte per il datore di lavoro priva della diagnosi).
L'INPS mette a disposizione dei datori di lavoro le attestazioni di malattia relative ai certificati ricevuti con accesso al servizio informatico. Tale possibilità di accesso è possibile anche da parte dei lavoratori attraverso l'assegnato codice PIN.
I certificati di malattia rilasciati dalle strutture di pronto soccorso e i documenti elaborati dagli ospedali al momento del ricovero e della dimissione, in attesa della loro informatizzazione, possono essere redatti in forma cartacea da parte dei medici ospedalieri. In questo caso il lavoratore dipendente dovrà recapitare o consegnare tempestivamente i certificati e gli attestati secondo le precedenti modalità direttamente all'INPS e al datore di lavoro (31.05.2012 - tratto da www.ispoa.it).

APPALTI: In quali casi si richiede il DURC.
Domanda
Il DURC deve essere richiesto per qualsiasi tipo di fornitura e/o prestazioni di servizio, e quindi anche per incarichi professionali?
Deve essere richiesto dall'Amministrazione Pubblica d'ufficio, o si può ritenere valida l'autocertificazione o un DURC presentato dalla ditta?
Risposta
Il DURC non deve essere richiesto per gli affidamenti di incarichi professionali, trattandosi di certificazione che mira a sanzionare, attraverso l'esclusione dalla gara pubblica, gli imprenditori -datori di lavoro- non in regola con i versamenti contributivi verso i propri dipendenti, e, quindi, in ultima analisi, a scongiurare il lavoro nero. Il DURC non ha nulla a che vedere nei confronti dei liberi professionisti, i quali, peraltro, non solo prestano la loro opera professionale personalmente a favore dell'Ente, diventando del tutto indifferente la presenza di eventuali collaboratori, e, inoltre, non hanno posizioni né INPS né INAIL e, quindi, il DURC non può essere rilasciato.
L'art. 14, comma 6-bis, D.L. 09-02-2012, n. 5 conv. in L. 04-04-2012, n. 35 stabilisce che "Nell'ambito dei lavori pubblici e privati dell'edilizia, le amministrazioni pubbliche acquisiscono d'ufficio il documento unico di regolarità contributiva con le modalità di cui all'articolo 43 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n.445, e successive modificazioni".
In ambito lavori pubblici e privati dell'edilizia, il DURC deve essere acquisito d'ufficio dall'Amministrazione procedente e non può più essere oggetto di dichiarazione sostitutiva, in base all'esplicita disposizione di cui all'art. 14, comma 6-bis, D.L. 09-02-2012, n. 5 conv. in L. 04-04-2012, n. 35. La norma rinvia all'art. 43, D.P.R. 28-12-2000, n. 445, al solo fine delle modalità di acquisizione d'ufficio di predetta certificazione.
Quindi, la disposizione è derogatoria del regime generale che continua a trovare applicazione per gli appalti pubblici diversi dai lavori pubblici e privati dell'edilizia, rappresentato dall'art. 43, comma 1, D.P.R. 28-12-2000, n. 445 secondo cui "1. Le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad acquisire d'ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da parte dell'interessato, degli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta dall'interessato" in combinato disposto con l'art. 46, D.P.R. 28-12-2000, n. 445 che sotto la rubrica "Dichiarazioni sostitutive di certificazioni" dispone "1. Sono comprovati con dichiarazioni, anche contestuali all'istanza, sottoscritte dall'interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni i seguenti stati, qualità personali e fatti: p) assolvimento di specifici obblighi contributivi con l'indicazione dell'ammontare corrisposto" (29.05.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

NEWS

VARIMail selvaggia, imprese senza tutela.
Imprese ed enti pubblici senza tutela contro telefonate, fax e mail selvaggi. La modifica dell'articolo 4 del codice della privacy lascia sguarnite persone giuridiche, enti e associazioni. E non basta sostenere che le tutele sono appannaggio del contraente o dell'utente del servizio di comunicazioni. Dunque difficile sanzionare per trattamento illecito dei dati delle persone giuridiche.

Queste le conseguenze da trarre anche a seguito dei decreti legislativi 69 e 70/2012, pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 31.05.2012.
A questo punto si rischia che venga contestato all'Italia un procedimento di infrazione per violazione della direttiva 2000/58, che tutela l'abbonato, anche se è persona giuridica.
Nel frattempo il Garante interviene in materia di telemarketing e precisa che chi acquista dati deve verificare che gli abbonati contattati abbiano espresso il loro consenso (provvedimento 136 del 05.04.2012).
IMPRESE E P.A. INDIFESE
L'articolo 121 del dlgs 196/2003 (codice sulla protezione dei dati), apre la sezione dedicata alla privacy nei servizi di telecomunicazione e descrive l'ambito di applicazione delle norme lì contenute (tra cui l'articolo 130 sulle forme di tutela contro le comunicazioni indesiderate). L'articolo 121 limita, dunque, l'ambito d'applicazione al trattamento di «dati personali» connesso ai servizi telecomunicazioni. Se si confronta questa disposizione con l'articolo 4 del codice della privacy (dopo le modifiche apportate dal dl 201/2011) si scopre che per «dato personale» si intende qualunque informazione relativa alla sola persona fisica.
In sostanza rimangono fuori persone giuridiche, enti e associazioni. Rimane, quindi, almeno, un'ambiguità legislativa, con la conseguenza che il trattamento dei dati relativi a enti collettivi sarebbe sfornito di tutela e potrebbe essere utilizzato e conservato addirittura senza limiti di tempo. Inoltre diventa difficile applicare sanzioni penali o amministrative per trattamento illecito dei dati degli enti collettivi. Eppure la direttiva 2000/58 prevede tutele per gli abbonati (sia persone fisiche sia persone giuridiche, si veda il «considerando» n. 12 della direttiva): di qui il rischio di sanzioni europee all'Italia per inosservanza della direttiva.
TELEMARKETING
L'azienda che per attività di telemarketing acquisisce da società specializzate banche dati con numeri telefonici, deve accertarsi che gli abbonati abbiano espresso il loro consenso a ricevere telefonate pubblicitarie. La responsabilità sull'uso illecito dei dati potrebbe infatti ricadere non solo sulla società che li ha venduti, ma anche sull'azienda che li ha acquistati, che è da considerare titolare di trattamento, con le conseguenti responsabilità connesse al ruolo.
Il Garante privacy è intervenuto, con il provvedimento n. 136/2012, non ha tra l'altro ritenuto valida la clausola di garanzia del fornitore dei dati, che pure ha dichiarato di tenere indenne la società acquirente da sanzioni o condanne: si tratta di clausole ritenute illecite, in quanto elusive delle norme imperative del Codice che disciplinano, appunto, obblighi, oneri e responsabilità del titolare del trattamento.
Il Garante, in conclusione, non solo ha vietato alla società fornitrice l'ulteriore utilizzo di numeri telefonici senza un valido consenso, ma ha anche dichiarato illecito il trattamento dei dati effettuato dalla società acquirente, disponendo per entrambe l'avvio di procedimenti sanzionatori (articolo ItaliaOggi del 02.06.2012).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATARegolarità contributiva sul web. Gli uffici possono rendere pubblico il Durc che (per ora) ha validità trimestrale.
Le pubbliche amministrazioni acquisiscono d'ufficio il documento unico di regolarità contributiva (Durc), sia per i contratti pubblici che per i lavori nel privato. Questa semplificazione deriva dalla decreto legge 5/2012, articolo 14, comma 6. Tuttavia i privati possono sempre chiedere il documento unico di regolarità contributiva per verificare, per esempio, l'idoneità professionale di un'impresa.
Il chiarimento arriva dal Ministero del Lavoro, con una circolare firmata ieri. Alla stessa conclusione arriva, peraltro, la circolare 31.05.2012 n. 6/2012 del ministro per la Pubblica amministrazione.
Il documento destinato ai privati dovrà essere contrassegnato –a pena di nullità– dalla dicitura «il presente certificato non può essere prodotto agli organi della Pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi».
Nella circolare del ministero del Welfare non hanno trovato risposta le criticità sollevate durante il Forum lavoro, organizzato mercoledì dal Sole 24 Ore, dal Consiglio nazionale dei consulenti e dalla Fondazione studi di categoria (si veda Il Sole 24 Ore di giovedì). In particolare, resta confermato il periodo di validità del Durc circoscritto a tre mesi. I consulenti del lavoro, invece, chiedono l'estensione temporale in modo che le aziende abbiano a disposizione un periodo maggiore per regolarizzare in modo spontaneo eventuali irregolarità nei versamenti, dovute per esempio a scarsa liquidità o ad altre difficoltà temporanee. Il direttore generale per l'Attività ispettiva, Paolo Pennesi, che ha partecipato al Forum insieme con il collega Fabrizio Nativi, ha condiviso la richiesta dei consulenti.
Tuttavia, la circolare di ieri ha scelto di confermare l'orientamento già espresso dal ministero nel 2010. Probabilmente si è arrivati alla conclusione che un documento dell'amministrazione non è adeguato a prolungare la validità del Durc. Per altro, già durante il Forum era emersa l'impossibilità di modificare per circolare l'importo oltre il quale il documento di regolarità contributiva è negativo: oggi il limite è 100 euro. La cifra –per consulenti e aziende– è troppo contenuta; un limite un po' più alto cancellerebbe probabilmente i documenti di irregolarità collegati a piccole mancanze o distrazioni.
Quanto al periodo di validità, il ministero del Lavoro, sulla base della circolare 35/2010, ha ribadito che per le procedure di selezione del contraente il Durc attesta la regolarità al momento del rilascio e ha validità trimestrale rispetto alla gara: è possibile far riferimento allo stesso documento anche per aggiudicazione e firma del contratto purché la certificazione non sia anteriore a tre mesi. Per ogni fase di avanzamento lavori o per lo stato finale di regolare esecuzione occorre il relativo Durc: su questo si può "appoggiare" il pagamento, purché nell'arco dei tre mesi.
Nella circolare firmata ieri un capitolo è dedicato alla «dematerializzazione»: per risparmiare, ma anche per rendere più efficiente la comunicazione tra amministrazioni si dovrà utilizzare sempre più la posta elettronica certificata, che comunque diventerà obbligatoria dal 2013.
Infine, la circolare del ministero del Lavoro spiega come le richieste e i contenuti del Durc possano essere «accessibili via web a chiunque abbia un interesse qualificato, ivi comprese le Casse edili abilitate». Dunque le amministrazioni potranno organizzarsi per pubblicare sul web le verifiche di regolarità contributiva. Il presupposto è costituito da una previsione contenuta nel decreto legge 201/2011, che ha escluso (articolo 40, comma 2) le persone giuridiche dal campo di applicazione della privacy. La "pubblicità" riferita a chiunque abbia un interesse qualificato potrebbe preludere a una consultazione del Durc anche da parte di aziende private (articolo Il Sole 24 Ore del 02.06.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOStop regali e più etica nella p.a..
Niente regali agli statali («in connessione con l'espletamento delle proprie funzioni»), e disco verde al codice comportamentale per dirigenti e impiegati che, in caso di violazioni, rischiano sanzioni fino al licenziamento. Congelato, invece, lo stop di tre anni a ex politici e candidati che aspirano a ricoprire incarichi di vertice nelle amministrazioni pubbliche.
Fa due passi avanti e uno indietro il disegno di legge per la lotta alla corruzione (C 4434-A e abb.), in votazione nell'aula della camera, dove tornerà lunedì 4 giugno, malgrado il Pdl, in disaccordo con alcune norme governative, avesse chiesto un rinvio.
Via libera ieri a un emendamento del ministro della funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, che impone l'adozione di un regolamento ispirato ai principi costituzionali di «diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell'interesse» generale, secondo cui se verrà arrecato un danno economico per condotta scorretta, sarà il dipendente a doverlo rimborsare di tasca sua; codice valido anche per le magistrature, toccherà alle associazioni di categoria o, in caso di loro inerzia, agli organi di autogoverno varare le norme di condotta, la cui violazione comporterà responsabilità disciplinare. Sì, poi, a dati su opere e appalti raccolti in file «aperti» ai cittadini, ma l'esecutivo finisce sotto quando passa con i voti di Pd, Idv, Lega, Api e Mpa una proposta che prevede che un pubblico impiegato che abbia percepito soldi in maniera indebita sia sottoposto al giudizio sulla responsabilità erariale da parte della Corte dei conti.
Stand-by sul divieto di ricorso agli arbitrati, sulle regole antimafia nelle gare pubbliche, sul veto di conferire ruoli dirigenziali per un triennio a chi ha svolto incarichi politici, o è stato in lizza per cariche elettive: il governo, riferisce a ItaliaOggi uno dei relatori Angela Napoli (Fli) «sta tentando una mediazione coi partiti, soprattutto con il Pdl. Capisco la posizione dell'esecutivo, che vuole approvare un testo così importante con un'ampia maggioranza, ma il pericolo è che possa essere annacquato». Lunedì nuovo vertice con i ministri Patroni Griffi e Paola Severino (Giustizia) e i rappresentanti dei partiti, per cercare di superare lo stallo (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARISì al cedolino elettronico. Possibile la consegna per e-mail, anche senza Pec. Le precisazioni del ministero in risposta a un interpello dei consulenti.
Sì al cedolino elettronico. Può essere consegnato per e-mail, e non necessariamente posta elettronica certificata (Pec), e può anche essere reso disponibile in un'area riservata di un sito web a cui i lavoratori hanno accesso con password.
Lo precisa il Ministero del Lavoro nell'interpello 30.05.2012 n. 13/2012.
Il cedolino elettronico. Il ministero risponde ai consulenti del lavoro che hanno chiesto di sapere se è possibile, per il datore di lavoro privato (nella p.a. il cedolino elettronico è già una realtà), assolvere agli obblighi della legge n. 4/1953 in merito alla consegna del prospetto paga, oltre che mediante l'utilizzo della posta elettronica certificata (soluzione che ha già ottenuto l'ok del ministero nell'interpello n. 1/2008, si veda ItaliaOggi del 12.02.2008), anche attraverso un sito web, dotato di un'area riservata con accesso consentito al proprio personale mediante password individuale.
In particolare, i consulenti chiedono se possa ritenersi sufficiente la semplice collocazione dei prospetti di paga di volta in volta elaborati (contestuale al pagamento mensile della retribuzione con bonifico bancario e/o con altro mezzo), nell'apposita area riservata del sito web, prospetti consultabili e scaricabili esclusivamente da parte del lavoratore interessato con una password individuale.
I chiarimenti. La risposta è affermativa. Il ministero richiama i chiarimenti forniti nell'interpello n. 1/2008 prima di tutto per ribadirli ma soprattutto per precisare la «legittimità della consegna del documento anche mediante posta elettronica non certificata», cioè a un comune indirizzo e-mail. Analogamente a quanto avviene in tema di obblighi di certificazione fiscale del sostituto d'imposta, spiega il ministero, la legge n. 4/1953 fa riferimento a un obbligo di «consegnare» il prospetto paga senza alcun richiamo alla necessità che sia consegnata in forma cartacea, con la conseguenza che non si ravvisa uno specifico divieto di trasmettere al lavoratore il documento per posta elettronica anche non certificata.
Ciò, aggiunge il ministero, a condizione che sia garantita al dipendente la possibilità di entrare nella disponibilità del prospetto e di poterlo materializzare. Il ministero precisa poi di «ritenere possibile l'assolvimento degli obblighi di cui agli articoli 1 e 3, della legge n. 4/1953 da parte del datore di lavoro privato anche mediante la collocazione dei prospetti di paga su sito web dotato di un'area riservata con accesso consentito al solo lavoratore interessato, mediante utilizzabilità di postazione internet dotata di stampante e l'assegnazione di apposita password o codice segreto personale».
Il ministero, inoltre, per garantire la verifica immediata da parte del lavoratore, ritiene necessario che della collocazione mensile dei cedolini risulti traccia nello stesso sito (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2012).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Simboli, sì alle variazioni. Mani libere al gruppo consiliare sulla modifica. La linea da seguire in assenza di disciplina statutaria o regolamentare.
In assenza di una specifica disciplina statutaria e regolamentare, un gruppo consiliare di opposizione può modificare o sostituire il simbolo col quale la lista si era presentata al corpo elettorale?

La materia concernente la costituzione dei gruppi consiliari è interamente demandata allo statuto e al regolamento del consiglio, nell'ambito della propria autonomia funzionale ed organizzativa (art. 38, comma 3, dlgs n. 267/2000).
Ne deriva che le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari dovrebbero essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato. Pertanto soltanto il consiglio comunale, nella sua sovranità ed in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui uniformarsi in tale materia, è abilitato a fornire un'interpretazione autentica delle norme statutarie e regolamentari, pronunciandosi in merito a quanto richiesto.
Nel caso di specie, se lo statuto comunale e il regolamento non dettano specifiche disposizioni in materia ma prevedono che i consiglieri si costituiscano «di regola» nei Gruppi individuati nelle liste che si sono presentate alle elezioni e stabiliscono che i consiglieri possano costituire gruppi non corrispondenti alle liste elettorali nelle quali sono stati eletti, sembra di poter ritenere ammissibile la facoltà di operare variazioni all'interno degli schieramenti che possono, dunque, non corrispondere alla composizione scaturente dalle elezioni.
Il principio generale del divieto di mandato imperativo sancito dall'art. 67 della Costituzione, pacificamente applicabile ad ogni assemblea elettiva, assicura ad ogni consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori, pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica, con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista od alla coalizione di originaria appartenenza (Tar Trentino-Alto Adige, sez. di Trento sent. n. 75 del 2009)
In linea con il principio generale secondo cui, all'elemento «statico» dell'elezione in una lista si sovrappone quello «dinamico», fondato sull'autonomia politica dei consiglieri, sono da ritenere in genere ammissibili anche eventuali mutamenti, all'interno delle forze politiche, che comportano altrettanti cambiamenti nei gruppi consiliari.
Pertanto, la denominazione dei gruppi consiliari, con eventuale variazione dei simboli (contrassegni) a cui tali gruppi fanno riferimento, in assenza di una specifica disposizione statutaria o regolamentare, appare rientrare nelle scelte proprie delle formazioni politiche presenti in consiglio (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2012).

COMPETENZE GESTIONALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ordinanza del comandante.
Quesito: il comandante della polizia municipale può adottare un'ordinanza con la quale vengono apportate modifiche alla viabilità urbana?

Il Piano urbano del traffico (Put) –da cui dovrebbero derivare le eventuali modificazioni alla viabilità- secondo quanto previsto dall'art. 36, comma 5, del Cds viene aggiornato ogni due anni. Il predetto Put, essendo uno strumento di programmazione e, dunque, a valenza generale, è demandato all'approvazione degli organi collegiali del Comune.
Occorre tenere presente, tuttavia, che l'art. 107, comma 5 del dlgs n. 267/2000 prevede che «le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I titolo III (consiglio, giunta e sindaco) l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall'art. 50, comma 3, e dall'art. 54» dello stesso decreto legislativo.
Talché, le competenze assegnate, in particolare dal codice della strada, al sindaco (fuori dei casi di cui ai citati articoli 50 e 54 del dlgs n. 267/2000) si intendono oggi demandate al dirigente. Sul punto la giurisprudenza (Tar Lombardia, sentenza 13/01/2003, n. 904) ha specificato che «al di fuori dei provvedimenti contingibili e urgenti, il sindaco non può adottare un'ordinanza in materia di viabilità ordinaria, esercitando altrimenti un atto di gestione che compete in via esclusiva al dirigente».
In particolare il Tar Lombardia –sezione di Brescia- con la sentenza 08.01.2011, n. 10 ha ribadito tale principio affermando che l'art. 7 del codice della strada, che assegna al sindaco il potere di regolamentare la circolazione dei veicoli, va coordinato con la posteriore norma del già citato art. 107. La competenza del sindaco in tema di limitazioni della circolazione deve, quindi, ritenersi attratta nella competenza propria del dirigente di settore, in quanto si tratta di funzioni di gestione ordinaria (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2012).

ENTI LOCALIPatto solo per le società in house. Obiettivo: evitare aggiramenti delle norme sulle assunzioni. La recente disciplina dei servizi pubblici locali palesa una spinta verso logiche di mercato.
La recente disciplina in materia di servizi pubblici locali (artt. 3-bis e 4 dl n. 138/2011 convertito in legge n. 148/2011) pone un tema di estremo interesse e viva preoccupazione, non soltanto dal punto di vista teorico e concettuale ma prim'ancora sotto il profilo pratico e operativo, per tutto il mondo delle società pubbliche operanti nelle public utilities: quello relativo all'assoggettamento delle «società cosiddette in house affidatarie dirette della gestione di servizi pubblici locali (_) al patto di stabilità interno (...)» nonché alle «disposizioni che stabiliscono a carico degli enti locali divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per le consulenze anche degli amministratori»
Senza voler entrare nel merito della scelta legislativa, riteniamo tuttavia opportuna una riflessione circa la portata della disposizione in commento, anche a fronte di alcuni orientamenti volti a estenderne l'applicazione anche al di là del dato letterale.
Non sfugge, infatti, che la norma in commento riferisce la sua portata precettiva, non già genericamente alle società a capitale pubblico (totalitario e/o maggioritario), bensì solo a una particolare e specifica categoria di esse: le cosiddette società in house, in quanto tali affidatarie dirette di servizi pubblici locali.
Al di là delle valutazioni di merito, ci sembra piuttosto chiara la ratio antielusiva della norma: evitare che gli enti locali, per il tramite della costituzione delle cosiddette società in house alle quali affidino direttamente i relativi servizi, possano aggirare i limiti posti dal Patto di stabilità e/o dalle norme relative al cosiddetto blocco delle assunzioni.
Sennonché in taluni casi, è stata prospettata l'applicazione della disposizione in commento anche al di là dei limiti letterali della norma: dunque, alle società a totale capitale pubblico che operano non già in via di affidamento diretto bensì a seguito dell'aggiudicazione di gare pubbliche ovvero alle società miste pubblico-private il cui socio privato sia stato selezionato a seguito di una regolare procedura di evidenza pubblica.
Ebbene, tale interpretazione non convince affatto: vuoi perché contrasta con il dato letterale della norma; vuoi perché i citati artt. 3-bis e 4 distinguono in modo molto attento le disposizioni applicabili alle sole società in house da quelle che invece hanno una portata più ampia, riferendosi in generale alle società a partecipazione pubblica (totalitaria e/o maggioritaria).
Non sfugge, infatti, che lo stesso art. 4 mentre, da un lato, limita l'assoggettamento al Patto di stabilità alle sole società in house, dall'altro lato prevede che «le società a partecipazione pubbliche che gestiscono servizi pubblici locali (_)», indipendentemente dalla natura giuridica e dal titolo di affidamento, «(_) adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui all'art. 35, 3°, dlgs 165/2001» o ancora estende l'obbligo di applicazione del Codice dei contratti pubblici, oltreché alle società in house anche «alle società a partecipazione mista pubblica/privata».
Al di là delle predette, non v'è dubbio che con l'intervento riformatore in commento, il legislatore abbia inteso traguardare il sistema delle società pubbliche verso logiche di mercato e concorrenziali (costringendole, sostanzialmente, ad abbandonare il vecchio alveo delle gestioni esclusive e protette degli affidamenti diretti secondo il modulo in house providing): sul punto basta pensare al favor legislativo verso la liberalizzazione dei spl e dunque per la concorrenza nel mercato (in luogo di quella per il mercato); alla scadenza anticipata ope legis degli affidamenti non conformi ai nuovi modelli; al regime dei divieti per le società affidatarie dirette di spl.
In questo contesto sarebbe oltremodo contraddittorio e persino discriminatorio porre tali vincoli nei confronti di quelle società la cui stessa sopravvivenza dipenderà dalla capacità di confrontarsi sul mercato concorrenziale con tutti gli altri operatori (pubblici e/o privati).
Sarà, dunque, il mercato l'arbitro ultimo della virtuosità dell'intero sistema e della capacità delle attuali società pubbliche di cambiare passo, abbandonando logiche ormai anacronistiche per adeguarsi a un assetto nuovo che tuttavia potrebbe, nell'attuale panorama delle public utilities italiane, offrire loro significative prospettive di crescita industriale.
Una strada, per quanto opinabile (come tutte le cose della vita), è stata tracciata in modo abbastanza netto e preciso: sarà necessario mantenerla e verificare la capacità di risposta del sistema pubblico (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2012).

PUBBLICO IMPIEGOAl bando i regali ai dipendenti pubblici.
Niente regali ai dipendenti pubblici se connessi all'espletamento delle loro funzioni, a meno che non siano di valore modesto e rientrino nei limiti di cortesia.
Lo prevede un emendamento al ddl corruzione delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, stabilendo di inserire nel codice etico previsto dal governo «il divieto per tutti i dipendenti pubblici di chiedere o accettare a qualsiasi titolo, compensi regali o altre utilità in connessione con l'espletamento delle proprie funzioni o dei compiti affidati, fatti salvi i regali d'uso, purché di modico valore e nei limiti delle relazioni di cortesia».
La Camera ha approvato l'art. 1 con cui si stabilisce la nascita dell'autorità nazionale anticorruzione. Disco verde anche all'emendamento che prevede che «ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, agli avvocati e procuratori dello Stato e ai componenti delle commissioni tributarie è vietata, pena la decadenza dagli incarichi e la nullità degli atti compiuti, la partecipazione a collegi arbitrali o l'assunzione di arbitro unico».
Un altro emendamento del governo prevede di disciplinare i casi di non conferibilità di incarichi dirigenziali ai soggetti estranei alle amministrazioni che, per un adeguato periodo di tempo, non inferiore ai tre anni, antecedente al conferimento, abbiano fatto parte di organi di indirizzo politico, abbiano rivestito incarichi pubblici elettivi o siano stati candidati agli stessi incarichi, escludendo in ogni caso il conferimento di incarichi dirigenziali a coloro che presso le medesime amministrazioni abbiano svolto incarichi di indirizzo politico o incarichi pubblici elettivi, nel periodo immediatamente precedente al conferimento dell'incarico, comunque non inferiore ai tre anni (articolo ItaliaOggi del 31.05.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARIScarichi, bollino blu fuorigioco.
Dal 10 febbraio scorso il tradizionale bollino blu è andato definitivamente fuorigioco. Non può più essere ne richiesto ne rilasciato agli utenti stradali in quanto il controllo obbligatorio dei dispositivi di combustione e scarico degli autoveicoli e motoveicoli è effettuato esclusivamente al momento della revisione periodica del mezzo. Sono state infatti abrogate dal dl 5/2012 tutte le diverse disposizioni locali che impongono operazioni tecniche ulteriori sul controllo dello smog dei veicoli.
Lo ha messo nero su bianco il Ministero dei Trasporti con la circolare 30.05.2012 n. 15241 di prot..
L'art. 11, comma 8, del decreto legge 09.02.2012, n. 5, convertito nella legge 04.04.2012, n. 35, ha specificato chiaramente che a decorrere dall'anno 2012 «il controllo obbligatorio delle emissioni dei gas di scarico degli autoveicoli e dei motoveicoli è effettuato esclusivamente al momento della revisione obbligatoria periodica del mezzo».
Per chiarire definitivamente la portata della semplificazione in relazione alla vigenza delle diverse e a volte contrastanti indicazioni locali è però dovuto intervenire il ministero dei trasporti. La formulazione della disposizione a parere dell'organo tecnico centrale lascia spazio a poche incertezze applicative. Dal 10.02.2012, data di entrata in vigore del dl semplificazione, l'unica verifica obbligatoria relativa al rispetto delle emissioni dei gas di scarico dei veicoli a motore è quella che si effettua in occasione della revisione periodica dei mezzi in conformità all'art. 80 del codice stradale.
In buona sostanza la novella ha tacitamente abrogato ogni diversa disposizione comunale, provinciale o regionale inerente al controllo programmato dello smog prodotto dai veicoli a combustione. La verifica periodica del rispetto dei limiti di emissione, prosegue la circolare a firma del direttore generale del dipartimento per i trasporti terrestri, Maurizio Vitelli, si effettua solo in occasione della revisione periodica del veicolo.
Qualsiasi operazione tecnica, diversa da quella di revisione, finalizzata al controllo delle emissioni di scarico a parere del ministero deve considerarsi arbitraria. E pure inefficace il relativo titolo. In buona sostanza il bollino blu non ha neppure alcun valore in caso di controllo stradale (articolo ItaliaOggi del 31.05.2012).

PUBBLICO IMPIEGODipendenti pubblici, codice etico. Previsto anche il licenziamento per chi non rispetta i doveri. Emendamenti del governo al ddl sulla corruzione. Condannati fuori dalle commissioni d'esame.
Sanzioni che vanno fino al licenziamento per il dipendente statale che non rispetterà i doveri costituzionali di «diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell'interesse» collettivo. E, se arrecherà danni patrimoniali all'amministrazione, li risarcirà di tasca sua.
Una vera e propria rivoluzione il codice etico per i lavoratori della p.a. contenuto negli emendamenti del governo al disegno di legge contro la corruzione (C. 4434-A e abb.) presentati ieri, e in votazione da questo pomeriggio nell'aula della Camera.
Il regolamento, depositato dal ministro per la Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, si rivolge a impiegati e dirigenti, individuando norme improntate all'onestà di carattere generale, ma anche doveri «articolati in relazione alle funzioni attribuite» alla persona. L'insieme di principi dovrà essere approvato con decreto del presidente della repubblica (previa deliberazione di palazzo Chigi, e d'intesa con la conferenza Stato-Regioni), pubblicato in Gazzetta Ufficiale e consegnato al dipendente, tenuto a sottoscriverlo all'atto dell'assunzione.
Una violazione delle norme rappresenterà «fonte di responsabilità disciplinare», ma sarà «altresì rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile ogni volta le stesse responsabilità siano collegate alla violazione di doveri, obblighi, leggi o regolamenti» di cui i lavoratori statali saranno tenuti all'osservanza. Inoltre, violazioni gravi o reiterate comporteranno «l'applicazione delle sanzioni di cui all'articolo 55-quater, comma 1» (del dlgs n. 165 del 2001 sull'ordinamento del lavoro pubblico), ossia il licenziamento disciplinare; ci sarà anche un codice per gli appartenenti alla magistratura, e all'avvocatura dello stato, predisposto dagli organi di categoria.
E non è tutto. Un'altra norma redatta dal ministro fissa paletti importanti, poiché non potranno fare parte, anche con compiti di segreteria, delle commissioni per l'accesso o la selezione di pubblici impieghi, i condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per reati contro la pubblica amministrazione (peculato, malversazione a danno dello stato, concussione, corruzione, abuso d'ufficio ecc). Altolà, poi, al loro ingresso negli uffici preposti alla gestione delle risorse finanziarie, all'acquisizione di beni, servizi e forniture, nonché alla concessione o erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari.
Per Angela Napoli (Fli), relatore del ddl, sono iniziative «utilissime soprattutto sul versante della prevenzione dei fenomeni. Mi auguro il parlamento le approvi, così la politica potrebbe finalmente segnare una pagina positiva, dimostrando al paese di avere senso di responsabilità», dice a ItaliaOggi. Il Pdl chiede che sulla corruzione per atto contrario al dovere d'ufficio si torni all'idea governativa di pena da 3 a 7 anni (in commissione è stata alzata da 4 a 8) e ripresenta la «salva-Ruby» (c'è concussione solo se vi è passaggio di denaro, o altra utilità patrimoniale), poi ritirata in serata. L'Udc, invece, «ammorbidisce» il testo di Roberto Giachetti (Pd) sui limiti ai «fuori ruoli» (ItaliaOggi di ieri) dei giudici, escludendo incarichi presso presidenza della Repubblica, Camera, Senato e Consulta (articolo ItaliaOggi del 30.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa firma elettronica diventa avanzata. Le novità del Codice dell'amministrazione digitale.
Chi avrebbe mai pensato che con quegli stessi tablet che oramai «piovono dal cielo» (come ci ha suggestivamente mostrato la pubblicità di un importante gestore telefonico) fosse possibile firmare «a mano libera» i documenti informatici, con pieno valore legale ai sensi dell'art. 2702 del codice civile, senza più vincoli di smart-cart, certificati che scadono, pin dimenticati, rischi di furti o smarrimenti, e utilizzi impropri da parte di terzi contro i quali sarebbe ben difficile fare opposizione?
È una delle novità più importanti contenute nel codice dell'amministrazione digitale (Cad), disciplinato dal decreto legislativo n. 82 del 07/03/2005, recentemente modificato dal dlgs n. 235 del 30/12/2010, che ha uniformato il sistema della sottoscrizione elettronica al quadro comunitario per le firme elettroniche tracciato dalla direttiva 1999/93/CE, introducendo la nuova tipologia di Firma elettronica avanzata.
Le nuove soluzioni di firma «a mano libera», che prende il nome di firma «grafometrica», sono già in fase avanzata di sperimentazione. Alcuni Caf e professionisti, con il supporto tecnico di software house associate ad Assosoftware, stanno utilizzando in questi mesi tablet con standard di sicurezza molto elevati (per esempio con certificato digitale integrato) per far apporre ai contribuenti la propria firma autografa a video direttamente sui pdf dei modelli 730 e Unico.
Le soluzioni saranno disponibili sul mercato dopo la pubblicazione del decreto contenente le regole tecniche del Cad (atteso per fine giugno) a prezzi assolutamente accessibili. Per far chiarezza su questa e sulle altre importanti novità contenute nel nuovo Cad, sugli scenari che si prospettano anche in relazione agli adempimenti nei confronti della pubblica amministrazione, in particolare dell'Agenzia delle entrate e del ministero del lavoro, Assosoftware ha organizzato un convegno dal taglio tecnico che si terrà a Bologna il 22.06.2012, presso l'Hotel NH Bologna De La Gare, dal titolo «Il nuovo cad e le regole tecniche per la formazione del documento informatico e per la gestione documentale: analisi dell'impatto del provvedimento sui sistemi di conservazione sostitutiva e gestione documentale. Il confronto con DigitPA, Agenzia delle entrate e gli esperti del settore».
Tipologie di firma e valenza probatoria. Nell'attuale scenario normativo sono previste quattro tipologie di firma del documento informatico, che assicurano diversi livelli sicurezza, cui sono riconosciuti differenti effetti giuridici la cui valenza probatoria è espressamente disciplinata dall'art. 21 del Cad.
Firma elettronica. È la cosiddetta «firma debole», permette l'identificazione informatica dell'autore senza l'utilizzo di un dispositivo fisico di firma.
Valore giuridico: il valore probatorio è basso ed è liberamente valutabile dal giudice in fase di giudizio in base a caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza. I casi di applicazione pratica sono pochissimi e di solito correlati a specifiche realtà aziendali.
Firma elettronica avanzata. È un particolare tipo di firma costituita da un insieme di dati che, connessi o allegati ad un documento informatico (es. Pdf), permettono di garantire l'autenticità del documento, l'integrità rispetto a successive modifiche e che assicura il controllo esclusivo dello strumento fisico di firma e quindi la paternità giuridica del documento. Valore giuridico: è quello previsto dall'art. 2702 del codice civile per la scrittura privata. A livello probatorio l'utilizzo del dispositivo di firma si presume riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria.
Firma elettronica qualificata. È un particolare tipo di Firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato, realizzata mediante un dispositivo sicuro per la creazione della firma (SSCD), che garantisce l'identificazione univoca del titolare. Valore giuridico: il documento è riconosciuto valido a tutti gli effetti di legge e soddisfa sia i requisiti dall'art. 2702 del codice civile per la scrittura privata, che quelli dell'art. 1350, comma 1, nn. 1-12, del codice civile, per la forma scritta. È prevista l'inversione dell'onere della prova, per cui chi intende disconoscere la sottoscrizione di un documento deve provare che l'apposizione della firma è riconducibile ad altri e che detta apposizione non è imputabile a sua colpa. Firma digitale.
La Firma digitale è anch'essa un particolare tipo di Firma elettronica avanzata, che garantisce l'identificazione univoca del titolare. Si basa su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, di garantire e verificare la provenienza e l'integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici. Grazie a questa caratteristica il Cad non prevede espressamente l'utilizzo di un dispositivo sicuro (art. 1, comma 1, lettera s).
Valore giuridico: è il medesimo della Firma elettronica qualificata (articolo ItaliaOggi del 30.05.201).

PUBBLICO IMPIEGOGiustizia. Emendamento presentato da Patroni Griffi. Corruzione, anonimato garantito al dipendente-spia.
PROCESSO RUBY/ Il Pd punta il dito contro la norma ad personam del Pdl che ribatte: voi vi siete rimangiati l'abrogazione della concussione.

L'un contro l'altro armati, ma con un obiettivo comune: non arretrare (o avanzare, secondo i punti di vista) rispetto alla mediazione-Severino. Così si presenta la «strana» maggioranza alla vigilia del voto in aula sul ddl anticorruzione: il Pd presenta emendamenti per aumentare le pene e la prescrizione, il Pdl per diminuirle e cancellare alcuni reati, come il traffico di influenze illecite e la (ex) concussione per induzione (o per restringerne il campo).
Il Pd accusa il Pdl di «non perdere il vizio di norme ad personam» a causa dell'emendamento-Sisto sulla concussione "patrimoniale" e delle sue ricadute sul processo-Ruby; il Pdl accusa il Pd di «incoerenza» perché si è rimangiato un emendamento «soppressivo» della concussione che era «in linea con le esigenze europee». L'opposizione, con Federico Palomba (Idv), dice che l'emendamento-Sisto è «indecente» ma «strumentale» perché mira a «deviare l'attenzione dell'opinione pubblica dal vero obiettivo: alzare una cortina fumogena sulla scomparsa della concussione per induzione e sulla sua trasformazione in un reato meno grave che porterà all'estinzione molti processi, compresi quelli a carico di imputati eccellenti dei partiti di governo (Berlusconi, Penati ecc. - ndr). Aspettiamo ancora una risposta del ministro Severino».
Da oggi l'aula della Camera comincia a votare: i primi 12 articoli riguardano la -non meno importante- prevenzione della corruzione e (articolo 12) il delicato tema del rientro in servizio dei magistrati "fuori ruolo", su cui l'Udc propone di correggere l'emendamento Giachetti (Pd) passato in commissione, così da escludere le toghe in servizio presso il Quirinale, il Csm e la Consulta dai vincoli sul doppio mandato.
La vera novità di ieri sono stati gli 8 emendamenti del governo, più volte annunciati dal ministro della Pubblica amministrazione Filippo Patroni Griffi per rafforzare la prevenzione. Tra questi, quello sulla garanzia di anonimato riconosciuta al dipendente pubblico che segnalerà gli illeciti consumati nella Pa (sempre che sia in grado di fornire una prova inconfutabile).
Patroni Griffi propone poi varie deleghe al governo, per esempio sui criteri di incompatibilità di dirigenti e dipendenti con altri incarichi e sul codice di comportamento dei dipendenti. Prevede che i bilanci delle diverse istituzioni e i costi unitari di realizzazione delle varie opere siano pubblicati on-line, comprese le informazioni sui titolari degli incarichi dirigenziali della pa; l'attuazione del «Piano di prevenzione della corruzione»; l'esclusione dei condannati (anche se non definitivi) da commissioni per l'accesso o la selezione a posti di pubblico impiego.
Sui primi 11 articoli dovrebbe andare tutto liscio. Sul 12 potrebbe già sorgere qualche problema. Ma le scintille sono in programma sull'articolo 13 (reati e pene). E con il voto segreto (se richiesto) potrebbero esserci sorprese per tutti. Di qui l'ipotesi-fiducia. Gli emendamenti sono meno numerosi di quelli presentati in commissione, ma sulla carta molto distanti, anche dalle posizioni del ministro Severino.
Ieri l'attenzione si è focalizzata sul Pdl, poiché Francesco Sisto ha ripresentato la "norma-Ruby" che restringe la nuova concussione per induzione (creata dal governo in contrapposizione alla concussione per costrizione) ai casi in cui vi sia un «vantaggio» o «un'utilità patrimoniale». Sisto, però, propone prima di «sopprimere» la nuova «induzione».
E a chi gli fa notare che così il colpo di spugna sarebbe garantito, risponde: «È solo una provocazione politica, un pretesto per dimostrare in aula l'incoerenza del Pd che, con un emendamento poi ritirato, cancellava del tutto la concussione. Io voglio parlare di come si è arrivati alla norma-Severino e mettere in risalto le contraddizioni politiche rispetto alle esigenze tecniche e europee. Ma sia chiaro: nessun sabotaggio». Insomma, per difendere il testo Severino, bisogna attaccarlo.
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GLI EMENDAMENTI
L'anonimato
Tra gli emendamenti depositati dal ministro per la Pa Patroni Griffi al Ddl anticorruzione, quello che prevede la garanzia del totale anonimato per il dipendente pubblico che segnalerà gli illeciti che accadono nella pubblica amministrazione
Il codice di comportamento
Tra le proposte di modifica di Patroni Griffi, da segnalare le deleghe al Governo ad adottare, tra l'altro, un decreto legislativo sulla Trasparenza nella Pa o per la creazione di un codice di comportamento dei dipendenti pubblici
Bilanci online
Tutti i bilanci delle diverse istituzioni e i costi unitari di realizzazione delle varie opere dovranno essere pubblicati online. Comprese le informazioni sui titolari degli incarichi dirigenziali nelle Pa (articolo Il Sole 24 Ore del 30.05.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ai sensi dell’articolo 14 del Codice della strada, spetta agli enti proprietari (e ai concessionari delle autostrade) provvedere alla loro manutenzione, gestione e pulizia, comprese le loro pertinenze e arredo, nonché attrezzature, impianti e servizi e, quindi, non limitatamente al solo nastro stradale, ma anche alle piazzole di sosta, onde siano garantite la sicurezza e la fluidità della circolazione.
Seppure per un verso non può negarsi che l’articolo 14 del D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, oggi sostituito dall’art. 192 del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, preveda la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa, per altro verso “esigenze di tutela ambientale sottese alla predetta norma rendono evidente che il riferimento è a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stessa imporgli– di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente”; inoltre, “…il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficacia custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere indebitamente depositati rifiuti nocivi”.
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Qualora sulla piazzola di sosta di una strada sia accertato l’abbandono di materiale (nel caso di specie: eternit mischiato a terriccio) non può negarsi che l'ente proprietario della medesima strada debba adottare tutte le misure e cautele opportune e necessarie quanto meno per eliminare tali rifiuti, di cui peraltro non può neppure negarsi la pericolosità oltre che per l’ambiente, anche per la stessa circolazione stradale, tale obbligo derivando direttamente dall’obbligo di custodia connesso alla proprietà/appartenenza della strada, oltre che dalla previsione dell’art. 14 del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, secondo cui gli enti proprietari delle strade devono provvedere, tra l’altro, alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi.

Secondo un condivisibile indirizzo giurisprudenziale, ai sensi dell’articolo 14 del Codice della strada, spetta agli enti proprietari (e ai concessionari delle autostrade) provvedere alla loro manutenzione, gestione e pulizia, comprese le loro pertinenze e arredo, nonché attrezzature, impianti e servizi e, quindi, non limitatamente al solo nastro stradale, ma anche alle piazzole di sosta, onde siano garantite la sicurezza e la fluidità della circolazione (C.d.S., sez. IV, 04.05.2011, n. 2677; 13.01.2010, n. 84).
E’ stato del resto puntualmente osservato (Cass. SS.UU. 25.02.2009, n. 4472) che, seppure per un verso non può negarsi che l’articolo 14 del D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, oggi sostituito dall’art. 192 del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, preveda la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa (in termini, C.d.S., sez. V, 26.01.2012, n. 333; 22.03.2011, n. 4673; 16.07.2010, n. 4614), per altro verso “esigenze di tutela ambientale sottese alla predetta norma rendono evidente che il riferimento è a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stessa imporgli– di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente”; è stato poi sottolineato che “…il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficacia custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere indebitamente depositati rifiuti nocivi”.
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Nel caso di specie, non essendo stato contestata l’appartenenza all’Amministrazione Provinciale di Benevento della strada denominata “Circumlacuale” (che collega la S.P. Morcono–Cuffiano S.P. ex S.S. 625, espressamente classificata quale strada provinciale ai sensi del decreto dirigenziale n. 142 del 21.07.2009 della Regione Campania), sulla cui piazzola di sosta il Comune di Morcone ha accertato l’abbandono di materiale, precisamente eternit mischiato a terriccio, non può negarsi che la predetta Amministrazione provinciale avrebbe dovuto adottare tutte le misure e cautele opportune e necessarie quanto meno per eliminare tali rifiuti, di cui peraltro non può neppure negarsi la pericolosità oltre che per l’ambiente, anche per la stessa circolazione stradale, tale obbligo derivando direttamente dall’obbligo di custodia connesso alla proprietà/appartenenza della strada, oltre che dalla previsione dell’art. 14 del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, secondo cui gli enti proprietari delle strade devono provvedere, tra l’altro, alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.05.2012 n. 3256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Ancorché un impianto di trattamento di rifiuti ricada in altro vicino comune, non può negarsi che esso arrechi (o sia astrattamente in grado di arrecare) disagi e danni non solo agli appartenenti del comune di ubicazione, ma anche ai cittadini dei comuni limitrofi: deve essere pertanto riconosciuta la legittimazione e l’interesse ad agire anche al comune limitrofo (a quello in cui è ubicata o deve essere ubicata una discarica di rifiuti), quale ente esponenziale della collettività stanziata sul proprio territorio e portatore in via continuativa degli interessi diffusi radicati sul proprio territorio, non potendo la legittimazione ad agire essere subordinata alla prova di una concreta pericolosità dell’impianto.
Secondo un condivisibile indirizzo giurisprudenziale, da cui la Sezione non ritiene di doversi discostare, ancorché un impianto di trattamento di rifiuti ricada in altro vicino comune, non può negarsi che esso arrechi (o sia astrattamente in grado di arrecare) disagi e danni non solo agli appartenenti del comune di ubicazione, ma anche ai cittadini dei comuni limitrofi: deve essere pertanto riconosciuta la legittimazione e l’interesse ad agire anche al comune limitrofo (a quello in cui è ubicata o deve essere ubicata una discarica di rifiuti), quale ente esponenziale della collettività stanziata sul proprio territorio e portatore in via continuativa degli interessi diffusi radicati sul proprio territorio (C.d.S., sez. V, 03.05.2006, n. 2471; 20.02.2006, n. 695), non potendo la legittimazione ad agire essere subordinata alla prova di una concreta pericolosità dell’impianto (C.d.S., sez. VI, 20.05.2004, n. 3262)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.05.2012 n. 3254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La valutazione di impatto ambientale non si sostanzia in una mera verifica di natura tecnica circa la astratta compatibilità ambientale dell’opera, ma implica una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio–economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d. opzione–zero.
In particolare, è stato evidenziato che “la natura schiettamente discrezionale della decisione finale (e della preliminare verifica di assoggettabilità), sul versante tecnico ed anche amministrativo, rende allora fisiologico ed obbediente alla ratio su evidenziata che si pervenga ad una soluzione negativa ove l’intervento proposto cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell’interesse diverso sotteso all’iniziativa; da qui la possibilità di bocciare progetti che arrechino vulnus non giustificato da esigenze produttive, ma suscettibile di venir meno, per il tramite di soluzioni meno impattanti in conformità al criterio dello sviluppo sostenibile e alla logica della proporzionalità tra consumazione delle risorse naturali e benefici per la collettività che deve governare il bilanciamento di istanze antagoniste.
Non può sostenersi, pertanto, che la valutazione di impatto ambientale sia un mero atto (tecnico) di gestione ovvero di amministrazione in senso stretto, rientrante come tale nelle attribuzioni proprie dei dirigenti, trattandosi piuttosto di un provvedimento con cui viene esercitata una vera e propria funzione di indirizzo politico–amministrativo con particolare riferimento al corretto uso del territorio (in senso ampio), attraverso la cura ed il bilanciamento della molteplicità dei (contrapposti) interessi, pubblici (urbanistici, naturalistici, paesistici, nonché di sviluppo economico–sociale) e privati, che su di esso insistono, come tale correttamente affidata all’organo di governo, nel caso di specie la Giunta regionale.

Com’è stato recentemente ribadito (C.d.S., sez. IV, 05.07.2010, n. 4246; sez. V, 22.06.2009, n. 4206; VI, 17.05.2006, n. 2851), alla stregua dei principi comunitari e nazionali, oltre che delle sue stesse peculiari finalità, la valutazione di impatto ambientale non si sostanzia in una mera verifica di natura tecnica circa la astratta compatibilità ambientale dell’opera, ma implica una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio–economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d. opzione–zero; in particolare (C.d.S., sez. IV, 05.07.2010, n. 4245, cit.), è stato evidenziato che “la natura schiettamente discrezionale della decisione finale (e della preliminare verifica di assoggettabilità), sul versante tecnico ed anche amministrativo, rende allora fisiologico ed obbediente alla ratio su evidenziata che si pervenga ad una soluzione negativa ove l’intervento proposto cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell’interesse diverso sotteso all’iniziativa; da qui la possibilità di bocciare progetti che arrechino vulnus non giustificato da esigenze produttive, ma suscettibile di venir meno, per il tramite di soluzioni meno impattanti in conformità al criterio dello sviluppo sostenibile e alla logica della proporzionalità tra consumazione delle risorse naturali e benefici per la collettività che deve governare il bilanciamento di istanze antagoniste (cfr. Cons. St., sez. VI, 22.02.2007, n. 933)”.
Non può sostenersi pertanto che la valutazione di impatto ambientale sia un mero atto (tecnico) di gestione ovvero di amministrazione in senso stretto, rientrante come tale nelle attribuzioni proprie dei dirigenti, trattandosi piuttosto di un provvedimento con cui viene esercitata una vera e propria funzione di indirizzo politico–amministrativo con particolare riferimento al corretto uso del territorio (in senso ampio), attraverso la cura ed il bilanciamento della molteplicità dei (contrapposti) interessi, pubblici (urbanistici, naturalistici, paesistici, nonché di sviluppo economico–sociale) e privati, che su di esso insistono, come tale correttamente affidata all’organo di governo, nel caso di specie la Giunta regionale.
La normativa regionale indicata dal comune appellante si sottrae pertanto al dubbio di legittimità costituzionale, in relazione agli articoli 3 e 97 della Costituzione, per la prospettata violazione del principio di separazione della funzione di indirizzo politico–amministrativo da quella gestionale–amministrativo di attuazione della prima, come delineata dall’art. 3 del d.lgs. 03.02.1993, n. 29 e dall’art. 4 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.05.2012 n. 3254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIn base all'art. 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, “i consiglieri comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di minoranza, hanno un diritto di accesso incondizionato -purché non invada l'ambito riservato all'apparato amministrativo e non integri un abuso del diritto- a tutti gli atti che possano essere "utili" all'espletamento del loro mandato, anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale; sul consigliere comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di accesso atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale".
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Non appare ostativo all’esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali eventuale norma del regolamento comunale, dovendo disapplicarsi ogni norma che si ponga in contrasto con l’interpretazione dell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000.

Osserva il Collegio che i ricorrenti sono senz'altro titolari di una situazione giuridica soggettiva, che li legittima a domandare l'accesso ai documenti richiesti, posto che detti atti appaiono funzionali all'esercizio delle prerogative connesse al loro mandato di consiglieri comunali di Cornegliano Laudense.
Ai sensi del primo comma dell'art. 22 della l. 241/1990, “l'accesso va riconosciuto a tutti coloro che vantano un interesse differenziato e qualificato all'ostensione, finalizzato alla tutela di situazioni giuridiche soggettive anche soltanto future" (così. tra le altre, TAR Campania Napoli, sez. VI, 14.07.2010, n. 16722).
Con specifico riferimento alla posizione del consigliere comunale, inoltre, appare espressione di principi consolidati la massima per cui, in base all'art. 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, “i consiglieri comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di minoranza, hanno un diritto di accesso incondizionato -purché non invada l'ambito riservato all'apparato amministrativo e non integri un abuso del diritto- a tutti gli atti che possano essere "utili" all'espletamento del loro mandato, anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale; sul consigliere comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di accesso atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale" (cfr. TAR Lazio Latina, sez. I, 29.04.2011, n. 389; così anche, più di recente, TAR Campania, Salerno, sent. n. 1840/2011).
Nel caso di specie, la richiesta di accesso appare adeguatamente circostanziata (facendo riferimento alla documentazione inerente a tre specifiche gare di appalto) e le informazioni derivanti dall’accesso si connotano come intrinsecamente utili all’espletamento del mandato di consigliere comunale, in quanto uno dei tre appalti indicati, per stessa ammissione dell’amministrazione resistente, era stato aggiudicato nel corso del corrente mandato amministrativo, e gli altri due, per gli interessi coinvolti (scuola elementare e centro sportivo comunale), sono direttamente ricollegabili al generico sindacato ispettivo riconosciuto ai ricorrenti, nell’ambito della carica dagli stessi ricoperta. Né appare ostativo all’esercizio del diritto di accesso de quo l’art. 21 del regolamento comunale, dovendo disapplicarsi ogni norma che si ponga in contrasto con l’interpretazione dell’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 in questa sede fornita (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, sent. n. 5264 del 09-10-2007).
Peraltro, in relazione alla possibile elevata mole di documenti da esaminare, l’Amministrazione potrà regolare le modalità dell’accesso richiesto al fine di fornire integralmente le informazioni richieste e contestualmente concordare con i ricorrenti, a seguito di visione degli atti, quali siano gli specifici documenti di cui fornire copia (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 31.05.2012 n. 1505 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl lottizzatore risponde dell'abuso dell'acquirente. Responsabilità prolungata.
L'INDICAZIONE/ Per il venditore-lottizzatore il reato cessa solo con l'interruzione delle ultime condotte altrui o con il sequestro preventivo.
Gli autori della lottizzazione abusiva rispondono anche degli interventi edilizi illeciti che gli acquirenti possono fare sui singoli lotti dopo l'acquisto.

Nel mirino della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20671/2012, finiscono 30 anni di speculazione che ha portato l'isola di Pantelleria a cambiare faccia fino a trasformare in agglomerato urbano alcune aree a ridosso del mare, con la creazione di 120 dammusi totalmente abusivi.
Interventi fatti malgrado l'esistenza di un divieto di edificabilità assoluto, di vincoli paesaggistici e di una dichiarazione di interesse pubblico a tutela della zona.
A far ricorso in Cassazione, dopo il mancato accoglimento della richiesta di dissequestro davanti al Tribunale del riesame, il legale rappresentante di una società immobiliare che chiedeva la restituzione di alcune particelle situate in una vasta area oggetto della misura cautelare.
Secondo il ricorrente, il reato che gli era stato contestato (aver partecipato alla lottizzazione abusiva), doveva considerarsi prescritto o comunque i suoi effetti ritenersi esauriti con la vendita degli immobili o, ancora prima, con la richiesta di concessione in sanatoria.
Secondo il ricorrente, andavano dunque esclusi i presupposti per il sequestro delle proprietà della società e in particolare il periculum in mora, affermato dal tribunale di primo grado sulla base delle caratteristiche di un reato che conservava attualità per essersi protratto per lunghissimo tempo.
In linea con l'impostazione dei colleghi di merito, la Corte di cassazione nega che con la vendita del dammuso o l'istanza per ottenere la licenza edilizia si esaurisca individualmente la responsabilità penale per gli illeciti commessi dal lottizzatore-venditore.
Impostazione che, secondo la difesa, farebbe scattare la prescrizione.
La Suprema corte, invece, sostiene che, nel caso di una lottizzazione così rilevante e protratta nel tempo, si è di fronte a un reato plurimo, cioè posto in atto da più soggetti, tutti attivi a vario titolo nella commissione degli illeciti. La Cassazione ascrive a tutti i partecipanti alla lottizzazione le azioni, fatte anche da terzi, per realizzare strade, fognature o servizi.
Ma, urbanizzazione a parte, la responsabilità, ai fini della prescrizione, segue due strade diverse a seconda che si tratti del lottizzatore-venditore o dell'acquirente. Il primo è chiamato a rispondere anche per gli interventi fatti dai singoli compratori, cosi che il reato cessa solo quando termina l'illecito altrui o c'è un sequestro preventivo. Dal punto di vista della graduazione della responsabilità, vita più facile per l'acquirente, che risponde solo di ciò che fa in prima persona sul proprio lotto. E linea dura per tutti coloro che in varia veste concorrono a deturpare il paesaggio con spericolate operazioni speculative (articolo Il Sole 24 Ore del 30.05.201).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE PROGETTUALI:  La progettazione di una villa in cemento armato e in zona sismica deve ritenersi rientrare nella competenza professionale di ingegneri e architetti.
L’atto di convalida –pur costituendo un nuovo e autonomo provvedimento amministrativo, come tale impugnabile– non si sostituisce all’atto convalidato, ma ad esso si ricollega “al fine di mantenerne fermi gli effetti fin dal momento in cui esso venne emanato (c.d. efficacia ex tunc della convalida); gli effetti giuridici, pertanto, si imputano all'atto convalidato, rispetto al quale quello convalidante si pone soltanto come causa ostativa all'eventuale annullamento per illegittimità, sempreché l'amministrazione non abbia già perso la disponibilità dell'effetto”.
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Non condivisibile è l'assunto della sanabilità dei soli vizi formali; ed infatti il tradizionale orientamento sfavorevole alla sanabilità dei vizi sostanziali -fondato sulla disposizione dell'articolo 6 della legge 18.03.1968, n. 249- può ritenersi superato dall'articolo 21-nonies della legge n. 241 che non pone limitazioni in materia, riferendosi genericamente al provvedimento amministrativo annullabile (e non ai soli atti viziati da incompetenza o comunque da vizi di forma), con conseguente ammissibilità della convalida di vizi sostanziali, ovviamente allorché il vizio sia in concreto eliminabile; non può quindi in linea di principio escludersi che anche il vizio consistente nella progettazione da parte di un tecnico non abilitato -che è vizio non formale ma sostanziale perché la progettazione ad opera di professionisti laureati mira a tutelare la sicurezza delle opere in funzione di tutela di coloro che le utilizzeranno una volta ultimate- possa essere convalidato a seguito della verifica della idoneità del progetto da parte di un professionista laureato con specifica assunzione da parte di quest'ultimo della relativa responsabilità; ed infatti la giurisprudenza è orientata a ritenere che i limiti di competenza dei tecnici non laureati nella progettazione di opere civili in cemento armato sono inderogabilmente stabiliti dalla legge non in funzione della buona qualità dell'edificio dal punto di vista estetico-funzionale, bensì dell'esigenza di assicurare l'incolumità delle persone che lo utilizzeranno una volta ultimato.
Ciò che conta è, quindi, che i calcoli relativi alle strutture siano esatti e che tutte le soluzioni tecniche finalizzate alla sicurezza degli esseri umani siano idonee; la circostanza che -anche in via successiva- vi sia un intervento con cui un tecnico dotato di adeguata qualificazione verifichi ed asseveri la sussistenza di queste condizioni non può pertanto essere escluso.
Di conseguenza la convalida deve essere annullata e ciò impone l'esame del motivo proposto con il primo ricorso con cui si è dedotta la esorbitanza dalle competenze professionali del geometra della progettazione dell'immobile in contestazione.
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Costituisce giurisprudenza assolutamente pacifica e consolidata che "a norma dell'art. 16, lett. m), del r.d. 11.02.1929 n. 274, e come si desume anche dalle leggi 05.11.1971 n. 1086 e 02.02.1974 n. 64, che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla legge 02.03.1949 n. 144 (recante la tariffa professionale), esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali".
Né questo principio è reso inapplicabile dalla circostanza che la progettazione del geometra era accompagnata da una relazione di calcolo a firma di un ingegnere: infatti la giurisprudenza ha considerato anche questa evenienza ribadendo che "i geometri possono progettare e dirigere lavori relativi ad opere di cemento armato purché si tratti di piccole costruzioni accessorie di costruzioni rurali e di edifici per industrie agricole che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non implicano comunque pericolo per l'incolumità delle persone, a nulla rilevando che i calcoli di cemento armato siano stati fatti da ingegnere, giacché è il professionista incaricato della generale progettazione e della direzione dei lavori che si assume la responsabilità anche dei calcoli delle strutture armate".

... per l'annullamento, quanto al ricorso n. 1124 del 2004, del permesso di costruire n. 93 del 06.05.2004 rilasciato alle controinteressate per la realizzazione di un villino unifamiliare;
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Il Collegio rileva in proposito che l’atto di convalida –pur costituendo un nuovo e autonomo provvedimento amministrativo, come tale impugnabile– non si sostituisce all’atto convalidato, ma ad esso si ricollega “al fine di mantenerne fermi gli effetti fin dal momento in cui esso venne emanato (c.d. efficacia ex tunc della convalida); gli effetti giuridici, pertanto, si imputano all'atto convalidato, rispetto al quale quello convalidante si pone soltanto come causa ostativa all'eventuale annullamento per illegittimità, sempreché l'amministrazione non abbia già perso la disponibilità dell'effetto” (così TAR Lazio, Latina, 05.05.2006, n. 311).
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Con il primo ricorso (RG 1124/04) la ricorrente denuncia che il progetto assentito dal comune è stato redatto da un geometra in violazione della disciplina dell’articolo 16 del r.d. 11.02.1929 n. 274 che, per quanto qui interessa, limita la competenza professionale dei geometri alla progettazione di “piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone”; la tesi della ricorrente è che nella fattispecie, venendo in rilievo un edificio di due piani da adibire a residenza e da realizzare nel centro di Formia, che ricade in zona sismica, il limite sopra indicato è chiaramente superato, cosicché il progetto avrebbe dovuto essere redatto da un professionista laureato (cioè un ingegnere o un architetto).
Come già accennato, il permesso di costruire impugnato, relativamente al profilo all’esame, è stato convalidato dal comune su istanza delle controinteressate: queste infatti hanno presentato al comune tutti gli elaborati del progetto originariamente assentito “timbrati, controfirmati e asseverati” da un ingegnere e chiesto al comune la convalida; in data 11.07.2006 il comune a sua volta –facendo applicazione dell’articolo 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241– ha operato la convalida del permesso di costruire “considerato che, nella legittimità del titolo ad edificare, e nella considerazione che l’immobile è stato già realizzato e quasi completato, sussiste l’interesse pubblico alla conservazione degli atti”.
Come pure accennato, la ricorrente ha impugnato la vista convalida con il ricorso successivo (RG 1233/06).
Le suesposte censure vanno accolte.
Il Collegio condivide infatti, sotto il profilo difetto d’istruttoria e della motivazione, l’assunto secondo cui illegittimamente il comune non ha fornito una motivazione persuasiva in punto di interesse pubblico alla convalida né in alcun modo considerato gli interessi della ricorrente.
Invero la necessità di ponderare l'interesse dei controinteressati si deduce dall'articolo 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 che, nel disciplinare il cd. annullamento d'ufficio -che costituisce, al pari della convalida, uno dei possibile esiti del procedimento cd. di riesame- impone, oltre alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico, che si tenga conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Non condivisibile è invece l'assunto della sanabilità dei soli vizi formali; ed infatti il tradizionale orientamento sfavorevole alla sanabilità dei vizi sostanziali -fondato sulla disposizione dell'articolo 6 della legge 18.03.1968, n. 249- può ritenersi superato dall'articolo 21-nonies della legge n. 241 che non pone limitazioni in materia, riferendosi genericamente al provvedimento amministrativo annullabile (e non ai soli atti viziati da incompetenza o comunque da vizi di forma), con conseguente ammissibilità della convalida di vizi sostanziali, ovviamente allorché il vizio sia in concreto eliminabile; non può quindi in linea di principio escludersi che anche il vizio consistente nella progettazione da parte di un tecnico non abilitato -che è vizio non formale ma sostanziale perché la progettazione ad opera di professionisti laureati mira a tutelare la sicurezza delle opere in funzione di tutela di coloro che le utilizzeranno una volta ultimate- possa essere convalidato a seguito della verifica della idoneità del progetto da parte di un professionista laureato con specifica assunzione da parte di quest'ultimo della relativa responsabilità; ed infatti la giurisprudenza è orientata a ritenere che i limiti di competenza dei tecnici non laureati nella progettazione di opere civili in cemento armato sono inderogabilmente stabiliti dalla legge non in funzione della buona qualità dell'edificio dal punto di vista estetico-funzionale, bensì dell'esigenza di assicurare l'incolumità delle persone che lo utilizzeranno una volta ultimato.
Ciò che conta è, quindi, che i calcoli relativi alle strutture siano esatti e che tutte le soluzioni tecniche finalizzate alla sicurezza degli esseri umani siano idonee; la circostanza che -anche in via successiva- vi sia un intervento con cui un tecnico dotato di adeguata qualificazione verifichi ed asseveri la sussistenza di queste condizioni non può pertanto essere escluso.
Di conseguenza la convalida deve essere annullata e ciò impone l'esame del motivo proposto con il primo ricorso con cui si è dedotta la esorbitanza dalle competenze professionali del geometra della progettazione dell'immobile in contestazione.
Tale motivo è fondato dato che costituisce giurisprudenza assolutamente pacifica e consolidata che "a norma dell'art. 16, lett. m), del r.d. 11.02.1929 n. 274, e come si desume anche dalle leggi 05.11.1971 n. 1086 e 02.02.1974 n. 64, che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla legge 02.03.1949 n. 144 (recante la tariffa professionale), esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali" (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.05.2006, n. 3006).
Né questo principio è reso inapplicabile dalla circostanza -evidenziata dalle resistenti- che la progettazione del geometra era accompagnata da una relazione di calcolo a firma di un ingegnere: infatti la giurisprudenza ha considerato anche questa evenienza ribadendo che "i geometri possono progettare e dirigere lavori relativi ad opere di cemento armato purché si tratti di piccole costruzioni accessorie di costruzioni rurali e di edifici per industrie agricole che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non implicano comunque pericolo per l'incolumità delle persone, a nulla rilevando che i calcoli di cemento armato siano stati fatti da ingegnere, giacché è il professionista incaricato della generale progettazione e della direzione dei lavori che si assume la responsabilità anche dei calcoli delle strutture armate" (TAR Abruzzo, Pescara, 02.11.1995, n. 463, TAR Emilia Romagna, Bologna, II Sez., 17.02.1995 n. 71).
Di conseguenza -venendo nella fattispecie in rilievo la progettazione di una villa in cemento armato e in zona sismica- deve ritenersi che il progetto rientrasse nella competenza professionale di ingegneri e architetti (TAR Lazio-Latina, Sez. I, sentenza 30.05.2012 n. 415 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAa) le amministrazioni preposte alla tutela del paesaggio e dell’ambiente esercitano una discrezionalità amplissima, in quanto correlata a valori primari di rango costituzionale ed internazionale, sia pure sindacabile per profili di eccesso di potere;
b) la ponderazione degli interessi privati non deve essere giustificata neppure allo scopo di dimostrare che il sacrificio imposto sia stato contenuto al minimo possibile, perché tale giudizio si colloca all’interno della tutela costituzionale del paesaggio;
c) l’avvenuta edificazione, il degrado, l’antropizzazione di una determinata area non costituiscono ragioni sufficienti per recedere dall’intento di proteggere i valori estetici e culturali ad essa legati.
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La sostituzione, da parte del giudice amministrativo, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità amministrativa costituirebbe ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla p.a.; conseguentemente, il sindacato sulle motivazioni delle valutazioni discrezionali deve rigorosamente svolgersi extrinsecus, nei limiti della rilevabilità ictu oculi del vizio di legittimità e mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità degli elementi di fatto acquisiti; esso deve, inoltre, tener distinti i profili accertativi da quelli valutativi a più alto tasso di opinabilità.

E’ da premettere, sulla scorta della consolidata giurisprudenza (cfr. da ultimo Cons. St., sez. V, 22.03.2012, n. 1640; sez. IV, 05.07.2010, n. 4246; sez. V, 12.06.2009, n. 3770, Corte giust., 25.07.2008, C-142/07; Corte cost., 07.11.2007, n. 367), che:
a) le amministrazioni preposte alla tutela del paesaggio e dell’ambiente esercitano una discrezionalità amplissima, in quanto correlata a valori primari di rango costituzionale ed internazionale, sia pure sindacabile per profili di eccesso di potere;
b) la ponderazione degli interessi privati non deve essere giustificata neppure allo scopo di dimostrare che il sacrificio imposto sia stato contenuto al minimo possibile, perché tale giudizio si colloca all’interno della tutela costituzionale del paesaggio (arg. anche dall’art. 1, comma 2, d.l. n. 5 del 2012);
c) l’avvenuta edificazione, il degrado, l’antropizzazione di una determinata area non costituiscono ragioni sufficienti per recedere dall’intento di proteggere i valori estetici e culturali ad essa legati.
Conseguentemente sono inammissibili tutte le censure sollevate dalla ricorrente nella parte in cui impingono il merito degli apprezzamenti tecnici discrezionali rimessi all’autorità di settore: invero, al di fuori dei tassativi casi in cui si esercita giurisdizione di merito (art. 134 cod. proc. amm.), la sostituzione, da parte del giudice amministrativo, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità amministrativa costituirebbe ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla p.a.; conseguentemente, il sindacato sulle motivazioni delle valutazioni discrezionali deve rigorosamente svolgersi extrinsecus, nei limiti della rilevabilità ictu oculi del vizio di legittimità e mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità degli elementi di fatto acquisiti; esso deve, inoltre, tener distinti i profili accertativi da quelli valutativi a più alto tasso di opinabilità (cfr. da ultimo, sempre in materia di tutela paesaggistico ambientale, Cons. St., sez. V, 22.03.2012, n. 1640; sez. IV, 05.07.2010, n. 4246; più in generale, Cass. sez. un., 17.02.2012, n. 2312 e 2313; Corte cost., 03.03.2011, n. 175)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.05.2012 n. 3213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere repressivo, in materia edilizia, ha natura vincolata e come tale non richiede (salvo ipotesi eccezionali, una specifica motivazione a salvaguardia delle aspettative (inconfigurabili) dei privati, nonché garanzie partecipative procedimentali anteriori agli atti repressivi.
Il collegio non intende discostarsi dal consolidato indirizzo giurisprudenziale in forza del quale il potere repressivo, in materia edilizia, ha natura vincolata e come tale non richiede (salvo ipotesi eccezionali non ricorrenti nella specie), una specifica motivazione a salvaguardia delle aspettative (inconfigurabili) dei privati, nonché garanzie partecipative procedimentali anteriori agli atti repressivi (cfr. da ultimo Cons. St., sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. VI, 24.09.2010, n. 7129; sez. IV, 12.03.2010, n. 1469, sez. II, 19.03.2008, n. 3702/2006) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.05.2012 n. 3213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso.
Tale orientamento si fonda sulla considerazione che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
Va da sé, inoltre, che il riconoscimento di una posizione di controinteressato non opera in relazione ad esigenze processuali, ma deve essere condotto sulla scorta del cosiddetto elemento "sostanziale", cioè sulla base dell’individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente, ovvero del cosiddetto elemento "formale", cioè sulla base della indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione.
Traslando tali principi in materia edilizia -ed in particolare con riguardo a provvedimenti di natura repressiva di illecito edilizio,- consegue che i proprietari confinanti dell’area nella quale è stato realizzato un manufatto abusivo del quale è stata ordinata la demolizione dall’Autorità competente, non rivestono la posizione giuridica di controinteressati nel giudizio instaurato per l'annullamento del provvedimento demolitorio.
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Il principio suddetto non sembra estensibile al caso non già di un “generico vicino di casa”, ma di un soggetto il cui diritto di proprietà risulta direttamente leso da un’opera edilizia abusiva, come nel caso di sopraelevazione di un muro in violazione delle norme sulle distanze tra edifici, che sia soggetto denunciante nel procedimento amministrativo, contemplato nel procedimento e nel provvedimento finale, e che sarebbe legittimato a impugnare una ipotetica concessione edilizia che autorizzasse l’opera, e che pertanto è direttamente avvantaggiato dal diniego di concessione edilizia e dall’ordine di demolizione.
In tale prospettiva, un’altra giurisprudenza ha infatti osservato che il vicino danneggiato dall’esecuzione di opere edilizie abusive è soggetto che ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un diritto di proprietà su parti comuni (tetto condominiale) dell’immobile in cui sono stati realizzati i lavori, sicché questi riveste la posizione di controinteressato rispetto all’impugnazione del provvedimento di revoca della concessione edilizia in sanatoria.
Tale giurisprudenza, pur condividendo in linea di principio l’orientamento secondo cui in linea di principio il denunciante un abuso edilizio, o il vicino di casa, non sono controinteressati nel giudizio proposto avverso un ordine di demolizione o un atto di ritiro di un precedente titolo abilitativo edilizio, osserva che occorre distinguere, rispetto alla generica posizione del denunciante o del vicino di casa, quella del soggetto specificamente e direttamente danneggiato dall’abuso edilizio.
Si osserva in tale pronuncia che “il vicino, sebbene abbia provocato interventi repressivi o in via di autotutela, non assume la veste di controinteressato nei ricorsi che il titolare della concessione edilizia promuove avverso provvedimenti di revoca e/o di annullamento di ufficio“. Tuttavia, secondo tale pronuncia, rispetto al “vicino che, a motivo della sua sensibilità civica e culturale, vuole intraprendere azioni giudiziarie per la tutela di beni vincolati”, diversa è la posizione del “vicino che è stato danneggiato dalla esecuzione delle opere edilizie realizzate (…). Non si tratta, quindi, di un vicino qualunque, ma di un soggetto che ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un diritto di proprietà (…)”.
Nella stessa prospettiva si è affermato che il vicino è controinteressato quando l’adozione del provvedimento di demolizione, recante comunque il nominativo del controinteressato, è stata non solo sollecitata da un esposto del vicino, ma è stata anche preceduta da atto prodromico (comunicazione di avvio di procedimento, a’ sensi dell’art. 7 e ss. della l. 07.08.1990, n. n. 241) parimenti comunicante il nominativo del controinteressato predetto, dovendosi comunque distinguere tra la posizione di colui che è titolare di un generico interesse a mantenere efficace il provvedimento impugnato e la posizione di colui che dal provvedimento medesimo viceversa riceve un vantaggio diretto e immediato (nel caso di specie, il ripristino delle distanze d’obbligo tra il proprio edificio e quello del ricorrente), con la conseguente individuazione della posizione obbligatoriamente inclusa nel contraddittorio sia procedimentale che processuale.
Rilevano pertanto sia il c.d. elemento “sostanziale” (titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente), sia il c.d. elemento “formale” (indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione).

Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale, espresso dal Consiglio di Stato, secondo cui “nell’impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso” (Cons. St., sez. IV, 06.06.2011 n. 3380; Id., sez. V, 03.07.1995, n. 991).
Tale orientamento si fonda sulla considerazione che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
Va da sé, inoltre, che il riconoscimento di una posizione di controinteressato non opera in relazione ad esigenze processuali, ma deve essere condotto sulla scorta del cosiddetto elemento "sostanziale", cioè sulla base dell’individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente, ovvero del cosiddetto elemento "formale", cioè sulla base della indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione.
Traslando tali principi in materia edilizia -ed in particolare con riguardo a provvedimenti di natura repressiva di illecito edilizio,- consegue che i proprietari confinanti dell’area nella quale è stato realizzato un manufatto abusivo del quale è stata ordinata la demolizione dall’Autorità competente, non rivestono la posizione giuridica di controinteressati nel giudizio instaurato per l'annullamento del provvedimento demolitorio.
Tuttavia il principio suddetto non sembra estensibile al caso non già di un “generico vicino di casa”, ma di un soggetto il cui diritto di proprietà risulta direttamente leso da un’opera edilizia abusiva, come nel caso di sopraelevazione di un muro in violazione delle norme sulle distanze tra edifici, che sia soggetto denunciante nel procedimento amministrativo, contemplato nel procedimento e nel provvedimento finale, e che sarebbe legittimato a impugnare una ipotetica concessione edilizia che autorizzasse l’opera, e che pertanto è direttamente avvantaggiato dal diniego di concessione edilizia e dall’ordine di demolizione.
In tale prospettiva, un’altra giurisprudenza ha infatti osservato che il vicino danneggiato dall’esecuzione di opere edilizie abusive è soggetto che ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un diritto di proprietà su parti comuni (tetto condominiale) dell’immobile in cui sono stati realizzati i lavori, sicché questi riveste la posizione di controinteressato rispetto all’impugnazione del provvedimento di revoca della concessione edilizia in sanatoria (Cons. St., sez. VI, 29.05.2007, n. 2742).
Tale giurisprudenza, pur condividendo in linea di principio l’orientamento secondo cui in linea di principio il denunciante un abuso edilizio, o il vicino di casa, non sono controinteressati nel giudizio proposto avverso un ordine di demolizione o un atto di ritiro di un precedente titolo abilitativo edilizio, osserva che occorre distinguere, rispetto alla generica posizione del denunciante o del vicino di casa, quella del soggetto specificamente e direttamente danneggiato dall’abuso edilizio.
Si osserva in tale pronuncia che “il vicino, sebbene abbia provocato interventi repressivi o in via di autotutela, non assume la veste di controinteressato nei ricorsi che il titolare della concessione edilizia promuove avverso provvedimenti di revoca e/o di annullamento di ufficio“. Tuttavia, secondo tale pronuncia, rispetto al “vicino che, a motivo della sua sensibilità civica e culturale, vuole intraprendere azioni giudiziarie per la tutela di beni vincolati”, diversa è la posizione del “vicino che è stato danneggiato dalla esecuzione delle opere edilizie realizzate (…). Non si tratta, quindi, di un vicino qualunque, ma di un soggetto che ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un diritto di proprietà (…)”.
Nella stessa prospettiva si è affermato che il vicino è controinteressato quando l’adozione del provvedimento di demolizione, recante comunque il nominativo del controinteressato, è stata non solo sollecitata da un esposto del vicino, ma è stata anche preceduta da atto prodromico (comunicazione di avvio di procedimento, a’ sensi dell’art. 7 e ss. della l. 07.08.1990, n. n. 241) parimenti comunicante il nominativo del controinteressato predetto, dovendosi comunque distinguere tra la posizione di colui che è titolare di un generico interesse a mantenere efficace il provvedimento impugnato e la posizione di colui che dal provvedimento medesimo viceversa riceve un vantaggio diretto e immediato (nel caso di specie, il ripristino delle distanze d’obbligo tra il proprio edificio e quello del ricorrente), con la conseguente individuazione della posizione obbligatoriamente inclusa nel contraddittorio sia procedimentale che processuale.
Rilevano pertanto sia il c.d. elemento “sostanziale” (titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente), sia il c.d. elemento “formale” (indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione) (Cons. St., sez. IV, 13.07.2011, n. 4233) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.05.2012 n. 3212 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’A.V.C.P., quando viene a conoscenza del provvedimento di esclusione disposto dalla stazione appaltante e dell’eventuale dichiarazione non veritiera resa dall’operatore economico, procede alla puntuale e completa annotazione dei contenuti nel casellario informatico, «salvo il caso che consti l’inesistenza in punto di fatto dei presupposti o comunque l’inconferenza della notizia comunicata dalla stazione appaltante».
Tuttavia, prima di disporre l’iscrizione nel casellario, l’Autorità procede (rectius: deve procedere) alle verifiche del caso». Ed il potere dell’Autorità è esclusivamente quello di rilevare la «pertinenza della notizia segnalata dalle stazioni appaltanti» al fine di evitare «il cosiddetto falso innocuo, cioè la falsa dichiarazione su fatti e circostanze irrilevanti ai fini della assegnazione della gara».

Con la determinazione del 10.01.2008, n. 1, il cui contenuto è stato ribadito nella successiva determinazione del 21.05.2009, n. 5, l’Autorità ha affermato che –quando viene a conoscenza del provvedimento di esclusione disposto dalla stazione appaltante e dell’eventuale dichiarazione non veritiera resa dall’operatore economico– procede alla puntuale e completa annotazione dei contenuti nel casellario informatico, «salvo il caso che consti l’inesistenza in punto di fatto dei presupposti o comunque l’inconferenza della notizia comunicata dalla stazione appaltante».
Questo Consiglio, con recenti orientamenti, ha condiviso questa interpretazione riconsiderando «la tesi del carattere meramente consequenziale e necessitato dell’iscrizione nel casellario informatico» e stabilendo che «prima di disporre l’iscrizione nel casellario, l’Autorità procede (rectius: deve procedere) alle verifiche del caso» (Cons. Stato, sez. VI, 05.07.2010, n. 4243; nello stesso senso Cons. Stato, sez. VI, 03.02.2011, n. 782).
La stessa giurisprudenza, con affermazione che questo Collegio condivide, ha, però, puntualizzato che il potere dell’Autorità è esclusivamente quello di rilevare la «pertinenza della notizia segnalata dalle stazioni appaltanti» al fine di evitare «il cosiddetto falso innocuo, cioè la falsa dichiarazione su fatti e circostanze irrilevanti ai fini della assegnazione della gara» (Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2011, n. 3361) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.05.2012 n. 3200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul potere dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di rilevare la pertinenza della notizia segnalata dalle stazioni appaltanti al fine di evitare il cosiddetto falso innocuo.
Sui presupposti richiesti ai fini dell'iscrizione nel casellario informatico.

L'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici quando viene a conoscenza del provvedimento di esclusione disposto dalla stazione appaltante e dell'eventuale dichiarazione non veritiera resa dall'operatore economico procede alla puntuale e completa annotazione dei contenuti nel casellario informatico, "salvo il caso che consti l'inesistenza in punto di fatto dei presupposti o comunque l'inconferenza della notizia comunicata dalla stazione appaltante".
Il potere dell'Autorità, però, è esclusivamente quello di rilevare la "pertinenza della notizia segnalata dalle stazioni appaltanti" al fine di evitare "il cosiddetto falso innocuo, cioè la falsa dichiarazione su fatti e circostanze irrilevanti ai fini della assegnazione della gara".
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L'art. 4 del d.l. n. 70/2011 -oltre ad avere modificato l'art. 38, c. 1, lett. g), stabilendo che le violazioni ivi indicate devono essere gravi- ha introdotto il c. 1-ter nell'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, il quale prevede che l'Autorità dispone l'iscrizione soltanto se ritiene che la falsa dichiarazione (o falsa documentazione) sia stata resa con dolo o colpa grave "in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione".
La nuova previsione -cambiando la natura dei poteri di verifica dell'Autorità mediante una chiara e netta differenziazione tra requisiti di partecipazione alle procedure di gara e presupposti richiesti ai fini dell'iscrizione nel casellario informatico- ha confermato che prima di tale modifica il potere dell'Autorità avesse una portata limitata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.05.2012 n. 3200 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA1) qualsiasi installazione su suolo pubblico, compresa la collocazione di cartelli pubblicitari, è soggetta al preventivo rilascio di un atto concessorio.
Nel caso dei cartelli pubblicitari –la cui disciplina non è regolata soltanto alle disposizioni del Codice della Strada, ma anche da diverse norme (artt. 3, 12) del D.lgs. 15.11.1993, n. 507– non può quindi ammettersi la sufficienza di una domanda di installazione (sia pure corredata dalla documentazione tecnica prescritta dalla legge), dovendosi, di contro, pienamente esplicare da parte dell’Amministrazione un’attività valutativa secondo canoni di discrezionalità tecnica.
La rilevanza di tale momento valutativo è comprovata dall’inammissibilità di un provvedimento concessorio per silentium e dalla necessaria verifica sulla concedibilità del suolo pubblico;
2) L’installazione di impianti pubblicitari –ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. 15.11.1993, n. 507– è da ritenere attività “contingentata” e, come tale, è pretermessa dalla disciplina liberistica di cui all’art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241.

Il Collegio osserva quanto segue:
1) qualsiasi installazione su suolo pubblico, compresa la collocazione di cartelli pubblicitari, è soggetta al preventivo rilascio di un atto concessorio.
Nel caso dei cartelli pubblicitari –la cui disciplina, contrariamente a quanto sostenuto dalla società ricorrente, non è regolata soltanto alle disposizioni del Codice della Strada, ma anche, come si vedrà appresso, da diverse norme (artt. 3, 12) del D.lgs. 15.11.1993, n. 507– non può quindi ammettersi la sufficienza di una domanda di installazione (sia pure, come ha affermato la società ricorrente, corredata dalla documentazione tecnica prescritta dalla legge), dovendosi, di contro, pienamente esplicare da parte dell’Amministrazione un’attività valutativa secondo canoni di discrezionalità tecnica.
La rilevanza di tale momento valutativo è comprovata dall’inammissibilità di un provvedimento concessorio per silentium (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV, 23.01.2009, n. 208) e dalla necessaria verifica sulla concedibilità del suolo pubblico (in tal senso cfr. TAR Lombardia-Milano, sez. IV, 12.11.2007, n. 6242; id., sez. III, 19.11.2004, n. 6048);
2) L’installazione di impianti pubblicitari –ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. 15.11.1993, n. 507– è da ritenere attività “contingentata” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.04.2009 n. 2723) e, come tale, è pretermessa dalla disciplina liberistica di cui all’art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241 (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 29.05.2012 n. 1474 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOE' configurabile un obbligo generale di astensione dei membri di collegi amministrativi o dei titolari di organi monocratici che si vengano a trovare in posizione di conflitto di interessi perché portatori di interessi personali, diretti o indiretti, in contrasto anche potenziale con l’interesse pubblico.
Il conflitto d’interessi, nei suoi termini essenziali valevoli per ciascun ramo del diritto, si individua nel contrasto tra due interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di tipo «istituzionale» ed un altro di tipo "personale".
La ratio di tale obbligo va ricondotta al principio costituzionale dell’imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 Cost., a tutela del prestigio dell’amministrazione che deve essere posta al di sopra del sospetto, e costituisce regola tanto ampia quanto insuscettibile di compressione alcuna.
Tale principio deve essere però coordinato con quello, parimenti ricorrente, secondo cui la presentazione di denunce, querele o altre analoghe iniziative da parte del dipendente (ovvero, come nel caso di specie, da parte del datore di lavoro nei confronti del dipendente), nei confronti dei soggetti incaricati del procedimento disciplinare (ovvero della parte nei confronti del giudice investito per legge della controversia), non sostanzia ex se una situazione di grave inimicizia o di incompatibilità personale, financo nell’ipotesi in cui il capo dell’ufficio giudiziario sia chiamato a giudicare l’imputato dipendente per fatti commessi nella medesima sede giudiziaria; in tutti questi casi, onde evitare di lasciare l’amministrazione (e gli interessi pubblici ad essa affidati), in balia di iniziative unilaterali, dilatorie e strumentali, non si ravvisa l’interesse privato e personale del titolare dell’organo, che è indispensabile affinché si configuri il presupposto dell’obbligo di astensione.

La Comunità Montana "Alto Molise" ha sospeso cautelarmente dal servizio il signor A.P. –segretario generale dell’ente– a seguito della comunicazione, effettuata ex art. 129 disp. att. c.p.p. dalla procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Isernia, relativa alla citazione a giudizio del signor P. per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 342 c.p. nel testo ratione temporis vigente), commesso in danno del presidente e di alcuni degli assessori presenti alla seduta di giunta del 05.01.1993 (cfr. determinazione del presidente della Comunità prot. n. 3532 del 14.09.1993).
...
In linea generale, secondo la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da ultimo Cons. St., sez. IV, 28.01.2011, n. 693; sez. V, 16.11.2010, n. 8059; sez. V, 13.06.2008, n. 2970), è configurabile un obbligo generale di astensione dei membri di collegi amministrativi o dei titolari di organi monocratici che si vengano a trovare in posizione di conflitto di interessi perché portatori di interessi personali, diretti o indiretti, in contrasto anche potenziale con l’interesse pubblico.
Il conflitto d’interessi, nei suoi termini essenziali valevoli per ciascun ramo del diritto, si individua nel contrasto tra due interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di tipo «istituzionale» ed un altro di tipo "personale" (cfr. Cass., 18.05.2001, n. 6853 in materia condominiale; Cass. 28.12.2000, n. 16205, su casi di conflitto di interessi relativi a titolari di cariche pubbliche).
La ratio di tale obbligo va ricondotta al principio costituzionale dell’imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 Cost., a tutela del prestigio dell’amministrazione che deve essere posta al di sopra del sospetto, e costituisce regola tanto ampia quanto insuscettibile di compressione alcuna.
Tale principio deve essere però coordinato con quello, parimenti ricorrente, secondo cui la presentazione di denunce, querele o altre analoghe iniziative da parte del dipendente (ovvero, come nel caso di specie, da parte del datore di lavoro nei confronti del dipendente), nei confronti dei soggetti incaricati del procedimento disciplinare (ovvero della parte nei confronti del giudice investito per legge della controversia), non sostanzia ex se una situazione di grave inimicizia o di incompatibilità personale, financo nell’ipotesi in cui il capo dell’ufficio giudiziario sia chiamato a giudicare l’imputato dipendente per fatti commessi nella medesima sede giudiziaria (cfr. Cass. pen., sez. VI, 01.12.2010, n. 44644; Cons. St., sez. IV, 12.06.2007, n. 3308; Cass. pen., sez. III, 18.06.2003, n. 30443; Cons. St., sez. VI, 14.05.1997, n. 718); in tutti questi casi, onde evitare di lasciare l’amministrazione (e gli interessi pubblici ad essa affidati), in balia di iniziative unilaterali, dilatorie e strumentali, non si ravvisa l’interesse privato e personale del titolare dell’organo, che è indispensabile affinché si configuri il presupposto dell’obbligo di astensione.
Facendo applicazione dei su esposti principi al caso di specie non emerge che il presidente dell’ente, in occasione della emanazione del provvedimento di sospensione cautelare, abbia preso un interesse privato; invero:
a) l’esercizio del potere è stato attivato a seguito della conoscenza dell’avvenuto rinvio a giudizio del segretario generale per un fatto attribuito a quest’ultimo nell’esercizio delle proprie funzioni;
b) investito formalmente dalla procura della Repubblica, il titolare dell’organo aveva il dovere di procedere assumendo una determinazione formale ai sensi dell’art. 2, l. n. 241 del 1990 (quale ne fosse il contenuto, cfr. negli esatti termini in relazione a sospensione cautelare facoltativa dal servizio per pendenza del procedimento penale, Cons. St., sez. IV, n. 6819 del 2007);
c) non è dimostrata l’utilità egoistica che il titolare dell’organo avrebbe tratto dall’emanazione del contestato provvedimento;
d) non risulta che il presidente dell’ente si sia costituito parte civile nel giudizio penale (atteso il carattere plurioffensivo del reato in questione, cfr. Cass. pen., sez. VI, 19.01.1993, Pizziconi), ovvero sia intervenuto come persona offesa, assumendo così la veste di controparte processuale del P. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.05.2012 n. 3133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L’articolo 28 del dlgs. n. 165/2001 prevede che l’accesso alla qualifica dirigenziale avviene mediante procedura pubblica, cui vanno ammessi concorrenti muniti di laurea. Tale disposizione, rivolta direttamente alle amministrazioni statali, risulta applicabile anche alla dirigenza locale, in virtù dell’articolo 88 del dlgs. n. 267/2000 che, entrato in vigore il 13.10.2000, aveva già esteso il complesso di principi e disposizioni della legge quadro sul pubblico impiego (e successive modificazioni) al mondo delle autonomie con una formula amplissima «…all'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti e i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni…».
Giova osservare che, all’attualità, l’articolo 28 del dlgs. n. 165/2001 prevede che l’accesso alla qualifica dirigenziale avviene mediante procedura pubblica, cui vanno ammessi concorrenti muniti di laurea. Tale disposizione, rivolta direttamente alle amministrazioni statali, risulta applicabile anche alla dirigenza locale, in virtù dell’articolo 88 del dlgs. n. 267/2000 che, entrato in vigore il 13.10.2000, aveva già esteso il complesso di principi e disposizioni della legge quadro sul pubblico impiego (e successive modificazioni) al mondo delle autonomie con una formula amplissima «…all'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti e i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni…».
Assume rilievo, però, la circostanza che nessuna delle due disposizioni succedutesi nel tempo, era vigente per i comuni all’epoca del bando di concorso interno, per titoli tesi e colloquio, per la copertura del posto di dirigente delle attività finanziarie e contabili, atteso esso che è stato bandito dal Comune di Formia con deliberazione della G.M. n. 102 del 12.04.2000.
Il quadro normativo vigente all’epoca di approvazione del bando in questione era, invero, indefinito, poiché la dirigenza locale non disponeva di disciplina differenziata rispetto al personale inquadrato nei livelli, né di norme di rinvio alla disciplina dell’accesso alla dirigenza statale, salvo un generico riferimento all’articolo 51, comma 8), della legge n. 142/1990 («… rimane riservata alla legge la disciplina dell'accesso al rapporto di pubblico impiego…»), con riferimento, nella specie, al DPR n. 487/1994, che all’art. 1, comma 1, attribuisce alle singole amministrazioni l’individuazione, nei bandi, dei «…requisiti soggettivi generali e particolari per l'ammissione all'impiego» (articolo 2, comma 3).
Vigeva, inoltre, per gli enti locali, una disposizione legislativa derogatrice alla regola del concorso pubblico, rimessa alla autonomia dell’ente locale: L’articolo 6, comma 12, della legge 127 del 15.05.1997, legittimava infatti gli enti locali economicamente sani a prevedere concorsi interamente riservati al personale dipendente: «Gli enti locali che non versino nelle situazioni strutturalmente deficitarie possono prevedere concorsi interamente riservati al personale dipendente, solo in relazione a particolari profili o figure professionali caratterizzati da una professionalità acquisita esclusivamente all'interno dell'ente».
Tale norma era volta ad identificare unità di personale, per consentire loro uno speciale sviluppo professionale, interamente riservato, in relazione ad una professionalità acquisita tutta all’interno, per la particolare natura del ruolo rivestito. .
Dalla disamina effettuata si deve concludere che la deliberazione n. 102/2000 del comune di Formia non si presenta di per sé, ratione temporis, in contrasto con le disposizioni che regolavano all’epoca della sua adozione l’accesso alla dirigenza locale, in quanto la deroga al concorso pubblico trovava legittimazione nella disposizione dell’articolo 6, comma 12, della legge n. 127 del 15.05.1997, applicabile anche ai dirigenti per il suo carattere di principio ordinamentale.
Il divieto alla assunzione di dirigenti, in deroga al ricorso al pubblico concorso, è invece divenuto cogente per gli enti locali solo successivamente al 13.10.2000, a termini dell’art. 88 del T.U.E.L. approvato con dlgs. n. 267 del 18.08.2000, che ha esteso agli stessi le limitazioni imposte per la dirigenza statale dal dlgs. n. 29 del 03.02.1993 e, successivamente, dall’articolo del dlgs. n. 165/2001 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.05.2012 n. 3125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul requisito generale della competenza della commissione di gara.
L'art. 84 del D.Lgs. n. 163/2006, dispone che i membri della commissione di gara siano "esperti" nello specifico settore oggetto del contratto. Il requisito generale della competenza nello specifico settore al quale si riferisce l'oggetto del contratto, richiesta anche per i componenti interni, tuttavia, deve valutarsi compatibilmente con la struttura degli enti locali senza esigere, necessariamente, che l'esperienza professionale copra tutti gli aspetti oggetto della gara.
Nel caso di specie, la "ratio" della norma appare rispettata, atteso che i componenti della Commissione risultano appartenenti all'area tecnico-ambientale e a quella tecnico-amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.05.2012 n. 3124 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: In merito ai componenti della commissione di gara, il requisito generale della competenza nello specifico settore al quale si riferisce l'oggetto del contratto, richiesta anche per i componenti interni, deve valutarsi compatibilmente con la struttura degli enti locali senza esigere, necessariamente, che l'esperienza professionale copra tutti gli aspetti oggetto della gara.
E’ infondato il quarto motivo con il quale, ai sensi dell'art. 84 del D.Lgs. n. 164/2006, si afferma l'incompetenza dei componenti della commissione di gara.
Come evidenziato dalla prevalente giurisprudenza, il requisito generale della competenza nello specifico settore al quale si riferisce l'oggetto del contratto, richiesta anche per i componenti interni, deve valutarsi compatibilmente con la struttura degli enti locali senza esigere, necessariamente, che l'esperienza professionale copra tutti gli aspetti oggetto della gara.
Nella fattispecie, la “ratio” della norma appare rispettata, atteso che i componenti della Commissione risultano appartenenti all'area tecnico-ambientale e a quella tecnico-amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.05.2012 n. 3124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le controversie inerenti la contestazione degli oneri di urbanizzazione, solo qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato, attengono a posizioni di diritto soggettivo azionabili innanzi al G.A. in sede di giurisdizione esclusiva nel termine di prescrizione.
Pertanto, quando si intenda contestare l’applicazione del contributo per vizi derivanti da atti autoritativi generali, presupposti di quello impugnato, in relazione ai quali la posizione dell’interessato è qualificabile di interesse legittimo, perché il motivo dedotto è l’illegittimità dell’assoggettamento, anche nel quantum, all’onere di urbanizzazione di una concessione edilizia, il ricorso deve essere proposto entro il termine di decadenza.

Come correttamente ritenuto dai giudici di prime cure, la deliberazione n. 58/1992 del Consiglio comunale di Sarzana è da considerarsi un atto autoritativo e, come tale, soggetto all’ordinario termine di decadenza ai fini della sua impugnazione.
Le controversie inerenti la contestazione degli oneri di urbanizzazione, solo qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato, attengono a posizioni di diritto soggettivo azionabili innanzi al G.A. in sede di giurisdizione esclusiva nel termine di prescrizione.
Pertanto, quando si intenda contestare l’applicazione del contributo per vizi derivanti da atti autoritativi generali, presupposti di quello impugnato, in relazione ai quali la posizione dell’interessato è qualificabile di interesse legittimo, perché il motivo dedotto è l’illegittimità dell’assoggettamento, anche nel quantum, all’onere di urbanizzazione di una concessione edilizia, il ricorso deve essere proposto entro il termine di decadenza.
Nella specie l’impugnativa, laddove è stata proposta in relazione al fatto che la determinazione degli oneri concessori avrebbe fatto seguito alla illegittimità della deliberazione comunale, recante i criteri di definizione degli oneri stessi, avrebbe dovuto essere proposta nel prescritto termine decadenziale (Consiglio di Stato, Sez. V, 03.05.2006, n. 2463)
E altresì da considerare che l’eventuale disapplicazione della delibera comunale avrebbe comportato una violazione di principi di rango costituzionale, in quanto avrebbe minato “la certezza dell’azione amministrativa, esponendola per un lasso di tempo decennale alla impugnazione di atti autoritativi e creando disparità di trattamento in situazioni identiche” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.05.2012 n. 3122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un'area è suscettibile di ulteriore edificazione soltanto nel caso in cui la costruzione già realizzata non esaurisca la volumetria già consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore concessione edilizia.

Il calcolo della volumetria realizzabile su di un lotto edificabile deve essere operato detraendo dalla cubatura richiesta quella relativa al fabbricato preesistente, in modo da determinare se residui un'ulteriore volumetria assentibile, a nulla rilevando il fatto che questa possa insistere su particelle che erano catastalmente divise.
E' stato significativamente sottolineato che il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità, con la conseguenza che esso è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata; con la conseguenza che un'area edificatoria, già utilizzata a fini edilizi, è suscettibile di ulteriore edificazione, solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
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Qualora la normativa urbanistica imponga limiti di volumetria, il relativo vincolo sull'area discende ope legis senza necessità di strumenti negoziali privatistici (atto d'obbligo, trascrizione, ecc.), che devono invece sussistere quando il proprietario di un terreno intenda asservirlo a favore di un altro proprietario limitrofo, per ottenere una volumetria maggiore di quella che il suo solo terreno gli consentirebbe, oppure quando siffatto asservimento sia, per così dire, reciproco, nel senso che i proprietari di più terreni li asservano unitariamente alla realizzazione di un unico progetto, ai fini del quale i rispettivi lotti perdono, dal punto di vista urbanistico-edilizio, la loro individualità (ipotesi nelle quali il vincolo rimane cristallizzato nel tempo, senza che tuttavia possa costituire limite rispetto alle determinazioni del pianificatore generale, che resta libero di dettare una nuova disciplina dell'indice volumetrico relativamente alla zona alla quale l'area si riferisce).
Aanche l’Adunanza Plenaria ha sottolineato che dal provvedimento edilizio abilitativo, il cui rilascio definisce le potenzialità edificatorie di un fondo, determinandone anche la cubatura assentibile in relazione ai limiti imposti dalla normativa urbanistica, sorge un vincolo di asservimento per cui, una volta esaurite le predette potenzialità, le restanti parti del fondo sono sottoposte ad un regime di inedificabilità che discende "ope legis" dall'utilizzazione del fondo medesimo.

La giurisprudenza ha più volte rilevato che un'area è suscettibile di ulteriore edificazione soltanto nel caso in cui la costruzione già realizzata non esaurisca la volumetria già consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore concessione edilizia (sez. V, 26.11.1994, n. 1382; 07.11.1990, n. 766; 23.02.1973, n. 178).
E’ stato anche precisato che il calcolo della volumetria realizzabile su di un lotto edificabile deve essere operato detraendo dalla cubatura richiesta quella relativa al fabbricato preesistente, in modo da determinare se residui un'ulteriore volumetria assentibile, a nulla rilevando il fatto che questa possa insistere su particelle che erano catastalmente divise (sez. V, 26.09.2008, n. 4647; 12.05.2008, n. 2177; 23.08.2005, n. 4385; 29.06.1979, n. 442); è stato significativamente sottolineato che il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità, con la conseguenza che esso è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata; con la conseguenza che un'area edificatoria, già utilizzata a fini edilizi, è suscettibile di ulteriore edificazione, solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (C.d.S., sez. V, 27.06.2006, n. 4117; 12.07.2005, n. 3777; 12.07.2004, n. 5039).
Sotto altro concorrente profilo, è stato osservato (C.d.S., sez. IV, 29.07.2008, n. 3766) che qualora la normativa urbanistica imponga limiti di volumetria, il relativo vincolo sull'area discende ope legis senza necessità di strumenti negoziali privatistici (atto d'obbligo, trascrizione, ecc.), che devono invece sussistere quando il proprietario di un terreno intenda asservirlo a favore di un altro proprietario limitrofo, per ottenere una volumetria maggiore di quella che il suo solo terreno gli consentirebbe, oppure quando siffatto asservimento sia, per così dire, reciproco, nel senso che i proprietari di più terreni li asservano unitariamente alla realizzazione di un unico progetto, ai fini del quale i rispettivi lotti perdono, dal punto di vista urbanistico-edilizio, la loro individualità (ipotesi nelle quali il vincolo rimane cristallizzato nel tempo, senza che tuttavia possa costituire limite rispetto alle determinazioni del pianificatore generale, che resta libero di dettare una nuova disciplina dell'indice volumetrico relativamente alla zona alla quale l'area si riferisce); anche l’Adunanza Plenaria (23.04.2009, n. 3) ha sottolineato che dal provvedimento edilizio abilitativo, il cui rilascio definisce le potenzialità edificatorie di un fondo, determinandone anche la cubatura assentibile in relazione ai limiti imposti dalla normativa urbanistica, sorge un vincolo di asservimento per cui, una volta esaurite le predette potenzialità, le restanti parti del fondo sono sottoposte ad un regime di inedificabilità che discende "ope legis" dall'utilizzazione del fondo medesimo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.05.2012 n. 3120 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Le norme in materia di assunzione del personale degli enti locali non sono di ostacolo all'applicabilità dell'art. 2126 c.c. e, quindi, al riconoscimento del diritto del lavoratore, pur non assunto a conclusione di una regolare procedura concorsuale, alle differenze retributive, all'indennità di fine rapporto e alle altre prestazioni contributive e previdenziali: ma questo soltanto quando risulti comprovata, appunto, la sussistenza degli indici che, secondo la stessa giurisprudenza amministrativa, rivelano lo svolgimento di fatto di un rapporto di impiego, quali la subordinazione gerarchica, l'esclusività e la continuità delle prestazioni, l'osservanza di un orario di lavoro, la retribuzione in misura fissa e continuativa e l'inserimento del lavoratore nella struttura organizzativa dell'ente.
In altre parole, al rapporto nullo possono essere connesse le conseguenze di cui all'art. 2126 c.c. unicamente quando lo stesso, benché costituito senza il rispetto delle modalità prescritte, sia per il resto assimilabile al rapporto di lavoro subordinato costituito nelle forme legali, del quale presenti tutti i caratteristici indici rilevatori.
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Ai fini della qualificazione di un rapporto giuridico non deve aversi riguardo tanto al nomen juris speso dalle parti per designarlo, quanto alle caratteristiche da esso effettivamente assunte nella sua concreta attuazione.

La Sezione deve infatti rilevare che nel rapporto sviluppatosi tra le parti non sono ravvisabili nella loro necessaria consistenza minima gli indici rivelatori che la giurisprudenza consolidata considera caratteristici del rapporto di impiego pubblico. Ed il punto è determinante per la reiezione delle rivendicazioni, anche di taglio meramente economico, avanzate da parte ricorrente.
La giurisprudenza ha invero da tempo chiarito (cfr. C.d.S., A.P., nn. 5 e 6 del 1992) che le norme in materia di assunzione del personale degli enti locali non sono di ostacolo all'applicabilità dell'art. 2126 c.c., e, quindi, al riconoscimento del diritto del lavoratore, pur non assunto a conclusione di una regolare procedura concorsuale, alle differenze retributive, all'indennità di fine rapporto e alle altre prestazioni contributive e previdenziali: ma questo soltanto quando risulti comprovata, appunto, la sussistenza degli indici che, secondo la stessa giurisprudenza amministrativa, rivelano lo svolgimento di fatto di un rapporto di impiego, quali la subordinazione gerarchica, l'esclusività e la continuità delle prestazioni, l'osservanza di un orario di lavoro, la retribuzione in misura fissa e continuativa e l'inserimento del lavoratore nella struttura organizzativa dell'ente (C.d.S., V, 10.11.2008, n. 5582).
In altre parole, al rapporto nullo possono essere connesse le conseguenze di cui all'art. 2126 c.c. unicamente quando lo stesso, benché costituito senza il rispetto delle modalità prescritte, sia per il resto assimilabile al rapporto di lavoro subordinato costituito nelle forme legali, del quale presenti tutti i caratteristici indici rilevatori (C.d.S., VI, 06.06.2008, n. 2718; V, 24.10.2006, n. 6352, 30.08.2006, n. 5062 e 06.12.1999, n. 2057).
Orbene, con il corrente appello si assume che lo Iovine sarebbe stato vincolato alle direttive impostegli dall’autorità comunale. Ciò, però, senza che queste siano mai state precisate, prima ancora che documentate, essendosi così venuti meno ad un onere di allegazione e prova che era tanto più stringente, in concreto, per il fatto che quasi tutte le deliberazioni di incarico si erano premurate di puntualizzare di volta in volta che lo Iovine sarebbe stato, invece, libero da qualsiasi vincolo di subordinazione gerarchica, e/o che avrebbe operato sulla base di un contratto d’opera, o infine come appaltatore.
Vero è, infatti, che, secondo una pacifica acquisizione giurisprudenziale, ai fini della qualificazione di un rapporto giuridico non deve aversi riguardo tanto al nomen juris speso dalle parti per designarlo, quanto alle caratteristiche da esso effettivamente assunte nella sua concreta attuazione (cfr. di recente C.d.S., V, 18.03.2010, n. 1581; più indietro nel tempo v. ad es. V, 10.04.2000, n. 2061; 13.06.1998, n. 824; 21.12.1994, n. 1549; 29.10.1991, n. 1281).
Questo non toglie, però, che l’esistenza, sotto le spoglie degli schemi giuridici indicati nelle delibere dell’Amministrazione, della realtà sostanziale di un rapporto di natura diversa, costituisce pur sempre un quid che abbisogna di dimostrazione da parte di chi vi abbia interesse.
Ciò posto, nella fattispecie concreta non risulta l’essenziale requisito dell’esclusività del rapporto, attributo che le deliberazioni in atti non contemplano, né mostrano di avere anche solo indirettamente presupposto. Al contrario, la gran parte delle delibere di incarico rimarca la circostanza che l’interessato figurava titolare di una partita IVA, tanto che in esse è sistematicamente contemplata anche la previsione del pagamento del relativo tributo.
L’impegno lavorativo richiesto dall’Amministrazione era, d’altra parte, notevolmente elastico, godendo l’interessato di una marcata autonomia: sicché ad essere sfornito di prova non è solo l’estremo dell’esclusività, ma anche quello della soggezione ad un compiuto orario di servizio.
Lo Iovine non era poi soggetto ad alcuna forma di potere disciplinare dell’Amministrazione, potere che non era richiamato dalle delibere di incarico, né si è comunque dimostrato essere mai emerso sul piano dei fatti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.05.2012 n. 3115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZILa nozione di servizio pubblico va riferita ad attività che di per sé sono di interesse pubblico, perché intrinsecamente dotate di rilevanza pubblicistica, attesa la generalità degli interessi che sono dirette a soddisfare, a prescindere dalla qualificazione del soggetto cui va imputata tale attività.
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Il servizio pubblico si caratterizza per essere assoggettato ad una disciplina settoriale, che assicura costantemente il conseguimento di fini sociali, i quali non si limitano a connotare sul versante teleologico tale genere di attività, ma costituiscono la ragione della sottoposizione della stessa ad un regime giuridico del tutto particolare, sicché, in definitiva, i fattori distintivi del pubblico servizio sono, da un lato, l’idoneità del servizio, sul piano finalistico, a soddisfare in modo diretto esigenze proprie di una platea indifferenziata di utenti, dall'altro, la sottoposizione del gestore ad una serie di obblighi, tra i quali quelli di esercizio e tariffari, volti a conformare l'espletamento dell'attività a norme di continuità, regolarità, capacità e qualità, cui non potrebbe essere assoggettata una comune attività economica.
La tesi prevalente specifica, inoltre, che il servizio pubblico attiene ad un’attività direttamente erogata nei confronti della generalità degli utenti.
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La Commissione europea ha precisato che sono servizi di interesse generale quelle attività di servizio, commerciale o non, considerate d'interesse generale dalle pubbliche autorità e per tale ragione sottoposte ad obblighi specifici di servizio pubblico, specificando che i compiti assegnati a tali servizi e i diritti speciali che possono esservi connessi “derivano da considerazioni d'interesse generale, quali, soprattutto, la sicurezza di approvvigionamento, la protezione dell'ambiente, la solidarietà economica e sociale, la gestione del territorio, la promozione degli interessi dei consumatori”, fermo restando che possono essere affidati anche a soggetti privati.
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I tratti distintivi del servizio pubblico sono ravvisabili nel servizio di teleriscaldamento.
Difatti, si tratta di un’attività oggettivamente correlata alla realizzazione di interessi pubblici, essendo funzionale, per le sue caratteristiche intrinseche, a consentire a qualunque interessato di approvvigionarsi di energia termica, a fini di riscaldamento e di usi civili per abitazioni, uffici pubblici etc..
Tale attività, quindi, è oggettivamente connessa ad essenziali esigenze delle persone, cui si correla la qualità della vita e la salvaguardia della salute, che l’art. 32 della Costituzione individua quale fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.
La destinazione dell’attività alla soddisfazione di interessi generali di rango primario emerge anche sotto il profilo ambientale, atteso che le amministrazioni interessate hanno aderito alla convenzione anche per finalità di recupero del patrimonio boschivo e forestale, attraverso la realizzazione di impianti idonei a funzionare mediante l’utilizzo come fonte energetica della biomassa recuperata.

In generale, vale evidenziare che, in mancanza di un quadro normativo che definisca in modo puntuale la nozione di servizio pubblico, la giurisprudenza prevalente non aderisce alla tesi meramente soggettiva, derivante dalla tradizione dottrinale francese, che individuava il tratto tipico del servizio pubblico nell’assunzione come propria da parte dell’amministrazione di una certa attività che resta quindi ad essa imputabile anche se esercitata da terzi secondo vari moduli organizzativi, perché questa ricostruzione non tiene conto dei caratteri intrinseci del servizio pubblico, che, ai sensi dell’art. 43 Cost., può direttamente essere attribuito a soggetti privati.
Ne è derivata l’adesione per lo più ad una nozione oggettiva di servizio pubblico, pur nel quadro di una valorizzazione del momento soggettivo, inteso come individuazione ed assunzione del servizio da parte dell’Autorità tra i compiti da realizzare, perché intrinsecamente connesso all’interesse pubblico di cui è portatrice la particolare amministrazione.
L’adesione ad una nozione c.d. oggettiva non implica che sia definibile come servizio pubblico ogni attività privata soggetta a controllo, a vigilanza o a mera autorizzazione da parte di un'amministrazione pubblica, perché altrimenti il servizio pubblico coinciderebbe con ogni attività privata rilevante per il diritto amministrativo. Viceversa, il servizio si qualifica come "pubblico" perché l'attività in cui esso consiste si indirizza istituzionalmente al pubblico, mirando a soddisfare direttamente esigenze della collettività, in coerenza con i compiti dell'amministrazione pubblica, che possono essere realizzati direttamente o indirettamente, attraverso l'attività di privati.
Ecco, allora, che il servizio pubblico è caratterizzato da un elemento funzionale, ossia il soddisfacimento diretto di bisogni di interesse generale, che non si rinviene nell'attività privata imprenditoriale, anche se indirizzata e coordinata a fini sociali (cfr. sul punto Cassazione civile, sez. un., 30.03.2000, n. 71; Cassazione civile, sez. un., 19.04.2004, n. 7461).
Insomma, la nozione di servizio pubblico va riferita ad attività che di per sé sono di interesse pubblico, perché intrinsecamente dotate di rilevanza pubblicistica, attesa la generalità degli interessi che sono dirette a soddisfare, a prescindere dalla qualificazione del soggetto cui va imputata tale attività (cfr. sulla necessità di ravvisare nell'interesse pubblico in quanto tale l'elemento caratterizzante la nozione di servizio pubblico si veda, tra le altre, TAR Lazio Roma, sez. III, 20.06.2006, n. 4845).
Proprio la correlazione tra siffatte attività e l’interesse pubblico ne impone la sottoposizione ad un regime particolare di tipo garantistico, che riflette l’esigenza di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., anche se il servizio viene gestito da privati.
Si tratta di un regime peculiare, derogatorio rispetto alle ordinarie regole che sovrintendono all’attività delle imprese in regime di concorrenza, connotandosi per la presenza di elementi di doverosità, che si traducono nei principi di sussidiarietà, di uguaglianza, di continuità, di parità di trattamento, di imparzialità e di trasparenza, cui si correlano obblighi tariffari e di esercizio, di regolarità e di qualità, non riscontrabili in una normale attività economica.
In tal senso, la giurisprudenza ha precisato che il servizio pubblico si caratterizza per essere assoggettato ad una disciplina settoriale, che assicura costantemente il conseguimento di fini sociali, i quali non si limitano a connotare sul versante teleologico tale genere di attività, ma costituiscono la ragione della sottoposizione della stessa ad un regime giuridico del tutto particolare, sicché, in definitiva, i fattori distintivi del pubblico servizio sono, da un lato, l’idoneità del servizio, sul piano finalistico, a soddisfare in modo diretto esigenze proprie di una platea indifferenziata di utenti, dall'altro, la sottoposizione del gestore ad una serie di obblighi, tra i quali quelli di esercizio e tariffari, volti a conformare l'espletamento dell'attività a norme di continuità, regolarità, capacità e qualità, cui non potrebbe essere assoggettata una comune attività economica (cfr. Consiglio di stato, sez. V, 12.10.2004, n. 6574, Consiglio di stato, sez. IV, 29.11.2000, n. 6325; TAR Lombardia Brescia, 27.06.2005, n. 673).
La tesi prevalente specifica, inoltre, che il servizio pubblico attiene ad un’attività direttamente erogata nei confronti della generalità degli utenti (cfr. Cassazione civile, sez. un., 12.05.2006, n. 10994; Cassazione civile, sez. un., 12.11.2001, n. 14032; Cass. civile, sez. un., 30.03.2000, n. 71; TAR Campania Napoli, sez. I, 11.12.2006, n. 10455; TAR Lazio Roma, sez. III, 20.06.2006, n. 4845).
La valorizzazione della dimensione oggettiva del servizio pubblico è coerente con la disciplina comunitaria, nell’ambito della quale è il concetto di servizio di interesse generale quello che più si avvicina alla nozione di servizio pubblico.
Invero, l’art. 16 del Trattato C.E. stabilisce che "fatti salvi gli articoli 73, 86 e 87, in considerazione dell'importanza dei servizi di interesse generale nell'ambito dei valori comuni dell'Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, la Comunità e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell'ambito di applicazione del presente trattato, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni che consentano loro di assolvere i loro compiti".
In tale contesto assume particolare rilevanza l’art. 86 del Trattato, che, al primo comma, precisa che "1. Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del presente trattato, specialmente a quelle contemplate dagli articoli 12 e da 81 a 89 inclusi”, ma al secondo comma aggiunge che “2. Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità ...."
In argomento, la Commissione europea ha precisato che sono servizi di interesse generale quelle attività di servizio, commerciale o non, considerate d'interesse generale dalle pubbliche autorità e per tale ragione sottoposte ad obblighi specifici di servizio pubblico, specificando che i compiti assegnati a tali servizi e i diritti speciali che possono esservi connessi “derivano da considerazioni d'interesse generale, quali, soprattutto, la sicurezza di approvvigionamento, la protezione dell'ambiente, la solidarietà economica e sociale, la gestione del territorio, la promozione degli interessi dei consumatori”, fermo restando che possono essere affidati anche a soggetti privati (cfr. sul punto: comunicazione della Commissione C.E. n. 96-C, in G.U.C.E., 26.09.1996, C-281, nonché Cassazione civile, sez. un., 12.11.2001, n. 14032; TAR Puglia Bari, sez. I, 12.04.2006, n. 1318; in argomento si veda anche Corte costituzionale, 27.07.2004, n. 272).
Il Tribunale ritiene che i tratti distintivi del servizio pubblico siano ravvisabili nel servizio di teleriscaldamento, cui si riferisce la controversia in esame.
Difatti, si tratta di un’attività oggettivamente correlata alla realizzazione di interessi pubblici, essendo funzionale, per le sue caratteristiche intrinseche, a consentire a qualunque interessato di approvvigionarsi di energia termica, a fini di riscaldamento e di usi civili per abitazioni, uffici pubblici etc..
Tale attività, quindi, è oggettivamente connessa ad essenziali esigenze delle persone, cui si correla la qualità della vita e la salvaguardia della salute, che l’art. 32 della Costituzione individua quale fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.
La destinazione dell’attività alla soddisfazione di interessi generali di rango primario emerge anche sotto il profilo ambientale, atteso che le amministrazione interessate hanno aderito alla convenzione anche per finalità di recupero del patrimonio boschivo e forestale, attraverso la realizzazione di impianti idonei a funzionare mediante l’utilizzo come fonte energetica della biomassa recuperata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.05.2012 n. 1457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZII tratti distintivi della concessione di servizio, che valgono a distinguerla dal contratto di appalto, sono, da un lato, l'assunzione del rischio legato alla gestione del servizio, nel senso che il concessionario assume il rischio economico della gestione, perché la remunerazione che egli percepisce non è legata al versamento di un prezzo o di un corrispettivo, ma direttamente alla gestione del servizio; dall’altro, la circostanza che il corrispettivo non sia versato dall'amministrazione, come accade nei contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, atteso che l’amministrazione percepisce un canone da parte del concessionario. Infine, rileva la diversità della struttura del rapporto, che nella concessione di servizi è trilaterale, coinvolgendo l'amministrazione, il gestore e gli utenti, sui quali in definitiva grava il costo del servizio, mentre nell'appalto è bilaterale (stazione appaltante–appaltatore) e l'obbligazione di compensare l'attività svolta dal privato grava sull’amministrazione.
Tale distinzione è stata codificata dalla direttiva comunitaria 31.03.2004/18/CE e recepita nel nostro ordinamento dall'art. 3, comma 12, e dall’art. 30 del d.l.vo 2006 n. 163, ove si definisce la concessione di servizi come “un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo…”.
In proposito, si è chiaramente precisato che negli appalti pubblici di servizi l'appaltatore presta il servizio in favore di una pubblica amministrazione, la quale utilizza tale prestazione ai fini dell’eventuale erogazione del servizio pubblico a vantaggio della collettività, mentre nella concessione di pubblico servizio il concessionario sostituisce la pubblica amministrazione nell’erogazione del servizio, ossia nello svolgimento dell'attività diretta al soddisfacimento dell'interesse collettivo.

La giurisprudenza, interna e comunitaria, ha precisato che i tratti distintivi della concessione di servizio, che valgono a distinguerla dal contratto di appalto, sono, da un lato, l'assunzione del rischio legato alla gestione del servizio, nel senso che il concessionario assume il rischio economico della gestione, perché la remunerazione che egli percepisce non è legata al versamento di un prezzo o di un corrispettivo, ma direttamente alla gestione del servizio (cfr. Corte di Giustizia C.E., 18.07.2007, C-382/05; Corte di Giustizia C.E., 13.10.2005, C-458/03; Corte di Giustizia C.E., 07.12.2000, C 324/98); dall’altro, la circostanza che il corrispettivo non sia versato dall'amministrazione, come accade nei contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, atteso che l’amministrazione percepisce un canone da parte del concessionario (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 05.06.2006, n. 3333). Infine, rileva la diversità della struttura del rapporto, che nella concessione di servizi è trilaterale, coinvolgendo l'amministrazione, il gestore e gli utenti, sui quali in definitiva grava il costo del servizio, mentre nell'appalto è bilaterale (stazione appaltante–appaltatore) e l'obbligazione di compensare l'attività svolta dal privato grava sull’amministrazione.
Tale distinzione è stata codificata dalla direttiva comunitaria 31.03.2004/18/CE e recepita nel nostro ordinamento dall'art. 3, comma 12, e dall’art. 30 del d.l.vo 2006 n. 163, ove si definisce la concessione di servizi come “un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo…” (cfr. sulla distinzione tra appalto e concessione si vedano tra le altre: Consiglio di stato, sez. V, 05.12.2008, n. 6049; TAR Puglia Bari, sez. I, 17.02.2009, n. 315)
In proposito, si è chiaramente precisato che negli appalti pubblici di servizi l'appaltatore presta il servizio in favore di una pubblica amministrazione, la quale utilizza tale prestazione ai fini dell’eventuale erogazione del servizio pubblico a vantaggio della collettività, mentre nella concessione di pubblico servizio il concessionario sostituisce la pubblica amministrazione nell’erogazione del servizio, ossia nello svolgimento dell'attività diretta al soddisfacimento dell'interesse collettivo (cfr. sul punto TAR Sicilia Catania, sez. III, 18.02.2009, n. 369)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.05.2012 n. 1457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAgli effetti dell'individuazione dei soggetti che, in quanto muniti di poteri di rappresentanza legale, sono obbligati a rendere le dichiarazioni di cui all'art. 38, comma 1, lett. b) e c), d.lgs. 12.04.2006 n. 163, ha in primo luogo rilevanza la titolarità del potere, e non il suo esercizio.
Pertanto, i soggetti tenuti a rendere la dichiarazione vanno individuati prioritariamente sulla base della qualifica formale rivestita e poi alla stregua dei poteri sostanziali attribuiti: la ratio della disposizione è infatti quella di verificare la condotta di coloro che determinano le scelte all’interno dell’impresa.

Agli effetti dell'individuazione dei soggetti che, in quanto muniti di poteri di rappresentanza legale, sono obbligati a rendere le dichiarazioni di cui all'art. 38, comma 1, lett. b) e c), d.lgs. 12.04.2006 n. 163, ha in primo luogo rilevanza la titolarità del potere, e non il suo esercizio (Tar Napoli, sez. I, n. 1544/2011 e Consiglio di Stato sez. III, n. 4892 del 31.08.2011).
Pertanto, i soggetti tenuti a rendere la dichiarazione vanno individuati prioritariamente sulla base della qualifica formale rivestita e poi alla stregua dei poteri sostanziali attribuiti: la ratio della disposizione è infatti quella di verificare la condotta di coloro che determinano le scelte all’interno dell’impresa (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.05.2012 n. 1466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEL’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001 disciplina uno speciale procedimento ablatorio “ex post” a fronte del quale, come espressamente stabilito dal legislatore, al proprietario spetta un indennizzo (non un risarcimento) per la perdita del diritto di proprietà, con la conseguenza che l’adozione del provvedimento di acquisizione ai sensi del citato art. 42-bis muta da risarcitoria ad indennitaria la pretesa del soggetto spogliato del bene.
Da ciò conseguirebbe che il sindacato sui provvedimenti assunti ai sensi del citato art. 42-bis è, per quanto attiene all’indennizzo corrisposto per la perdita del diritto di proprietà, sottoposto alla cognizione del giudice ordinario, in quanto l’art. 133, primo comma, lettera f), cod. proc. amm. dispone che non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quando si tratti della determinazione e della corresponsione “delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa” (nel cui novero rientra senz’altro quello emesso ai sensi dell’art. 42-bis).
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L’iniziale occupazione, qualora non siano stati annullati tutti gli atti a decorrere dalla dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima solo dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di esproprio.
Ne consegue che per il periodo di occupazione legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del danno, ma l’ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario.
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La scadenza di un provvedimento di occupazione d’urgenza di un’area non fa venir meno l’occupazione di fatto della stessa da parte della Pubblica Amministrazione, essendo necessario, per far cessare l’occupazione, un atto di riconsegna del bene al proprietario, in mancanza del quale l’occupazione permane e, in quanto illegittima, costituisce fonte di responsabilità per l’Amministrazione occupante.
La detenzione qualificata dell’area da parte della Pubblica Amministrazione a seguito di provvedimento di occupazione d’urgenza si trasforma, infatti, a seguito della scadenza del termine di efficacia del provvedimento, in detenzione “sine titulo” e ciò determina il sorgere in capo all’Amministrazione di un obbligo di restituzione dell’immobile al legittimo proprietario.
Per la riconsegna dell’area non si richiedono le formalità previste per l’occupazione (redazione di apposito verbale di immissione in possesso redatto in contraddittorio con il proprietario o, in sua assenza, con l’intervento di due testimoni), atteso che esse sono contemplate avuto riguardo agli specifici effetti che il legislatore collega all’immissione nel possesso dell'immobile (mantenimento dell’efficacia del decreto, decorrenza dell’indennità di occupazione, etc.), ma deve comunque trovare applicazione la normativa contenuta negli art. 1140 e segg. cod. civ., secondo la quale, per la perdita del possesso materiale dell’immobile nel caso di detenzione qualificata, occorre quanto meno che venga esteriorizzato, da chiari ed inequivoci segni, l’“animus derelinquendi”.
Incombe, peraltro, sull’Amministrazione l’onere delle prova in ordine all’intervenuta restituzione del bene locato, in armonia con quanto ritenuto dalla Suprema Corte in materia di prova dell’inadempimento.
In base al principio della persistenza del diritto desumibile dall’art. 2697 (“chi eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”), grava sul debitore l’onere di dimostrare il fatto estintivo dell’obbligazione, in quanto, come sinteticamente espresso dal brocardo “negativa non sunt probanda”, pretendere che sia provato un fatto negativo mediante fatti positivi contrari significa introdurre un’irrazionale e non agevole tecnica probatoria e rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore, per cui si rende necessario far riferimento all’opposto principio della riferibilità o della vicinanza della prova, con la conseguenza che il creditore può limitarsi ad allegare l’inadempimento, restando a carico del debitore l’onere di dimostrare il contrario.
Poiché nel caso di specie l’Amministrazione non ha dato prova della restituzione dell’area allo spirare dei tre decreti di occupazione, deve ritenersi, sulla scorta delle considerazioni che precedono, che la detenzione degli immobili si sia protratta “sine titulo” oltre i termini contemplati nei decreti stessi.
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Ai fini del risarcimento derivante da occupazione divenuta “sine titulo”, il valore venale di riferimento deve essere quello del bene al tempo della cessazione dell’occupazione legittima, poiché la previsione, nel citato art. 43, sesto comma, lett. b), degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato (anche tramite imposizione di servitù senza titolo), dimostra che la sorte capitale deve essere riferita a quel momento pregresso per essere poi attualizzata al tempo della condanna.
In base ai principi generali sulla liquidazione dell’obbligazione risarcitoria, alle somme dovute a tale titolo, con esclusione di quella dovuta a titolo di indennità di asservimento (già calcolata sul valore attuale della servitù), vanno aggiunti la rivalutazione monetaria e gli interessi legali e che, in particolare, gli interessi devono essere computati sulle somme anno per anno rivalutate.
Per quanto attiene il computo degli interessi, non risulta applicabile né l’art. 5 d.lgs. n. 231/2002, in quanto la norma si riferisce espressamente al “saggio degli interessi ai fini del presente decreto” e il decreto concerne le transazioni commerciali (non le obbligazioni risarcitorie), né l’art. 50 d.p.r. n. 327/2003, in quanto la norma disciplina il calcolo dell’indennità di occupazione.

Il Consiglio di Stato (Sez. VI, n. 1438/2012) ha recentemente affermato che l’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001 disciplina uno speciale procedimento ablatorio “ex post” a fronte del quale, come espressamente stabilito dal legislatore, al proprietario spetta un indennizzo (non un risarcimento) per la perdita del diritto di proprietà, con la conseguenza che l’adozione del provvedimento di acquisizione ai sensi del citato art. 42-bis muta da risarcitoria ad indennitaria la pretesa del soggetto spogliato del bene.
Da ciò conseguirebbe che il sindacato sui provvedimenti assunti ai sensi del citato art. 42-bis è, per quanto attiene all’indennizzo corrisposto per la perdita del diritto di proprietà, sottoposto alla cognizione del giudice ordinario, in quanto l’art. 133, primo comma, lettera f), cod. proc. amm. dispone che non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quando si tratti della determinazione e della corresponsione “delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa” (nel cui novero rientra senz’altro quello emesso ai sensi dell’art. 42-bis).
Nel caso in esame si radica, invece, la giurisdizione del giudice amministrativo sia in quanto viene in rilievo un provvedimento adottato, in forza di giudicato, ai sensi dell’art. 43 d.p.r. n. 327/2001 (il quale, per quanto attiene alla perdita del diritto di proprietà, parla espressamente -non di indennizzo, ma- di risarcimento del danno), sia perché, come sopra indicato, il gravame deve qualificarsi come ricorso per ottenere l’esecuzione di una decisione del giudice amministrativo, con la conseguenza che la sussistenza della giurisdizione dipende anche dal disposto dell’art. 113, primo comma, cod. proc. amm..
Per le considerazioni che precedono risulta, quindi, infondata, ad eccezione della richiesta relativa alle spese di cui al ricorso n. 15/2004, l’istanza con cui il ricorrente ha riformulato la propria domanda ai sensi dell’art. 42-bis d.p.r. n. 327/2001, atteso che il Comune di Siracusa ha l’obbligo di dare esecuzione al giudicato formatosi sulla citata sentenza n. 1278 del 07.06.2007, la quale fa riferimento alla -parzialmente- diversa disciplina di cui all’art. 43.
Anche se per ragioni in larga misura diverse da quelle prospettate dal ricorrente, deve, invece, condividersi la tesi del Gurrieri secondo cui l’Amministrazione non ha dato corretta esecuzione alla sentenza di questo Tribunale n. 1278 in data 07.06.2007.
Al riguardo va, innanzitutto, precisato che, a differenza di quanto ritenuto dal ricorrente, nessun risarcimento è dovuto per il periodo di occupazione legittima del suolo, in quanto, sebbene il procedimento espropriativo non sia stato definito nel termine previsto, la fase relativa all’occupazione, in difetto di qualsiasi impugnativa, risulta legittima ed efficace sino alla scadenza del termine previsto nei singoli decreti di occupazione.
Come, infatti, affermato dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., IV, n. 4408/2011), l’iniziale occupazione, qualora non siano stati annullati tutti gli atti a decorrere dalla dichiarazione di pubblica utilità, diviene illegittima solo dopo la scadenza del proprio termine di efficacia ed in ragione di ulteriori vizi del procedimento, normalmente collegati alla mancata tempestiva emanazione del decreto di esproprio.
Ne consegue che per il periodo di occupazione legittima spetta al ricorrente, non il risarcimento del danno, ma l’ordinaria tutela indennitaria, su cui, peraltro, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario.
Ciò premesso, deve ribadirsi che, come accertato dal verificatore, l’area effettivamente interessata dal collettore fognante si estende per metri quadri 410.
In proposito occorre chiarire l’esatto significato del pronuncia del Tribunale n. 1278 del 07.06.2007.
Il Tribunale ha ordinato al Comune di Siracusa di provvedere ai sensi del citato art. 43 d.p.r. n. 327/2001, cioè, in primo luogo, di emanare “ex post” un provvedimento di imposizione della servitù.
Il quinto comma dell’art. 43 stabilisce, infatti, che le disposizioni di cui ai precedenti commi si applicano, in quanto compatibili, anche quando sia imposta una servitù di diritto privato o di diritto pubblico.
Il successivo sesto comma dispone che, salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, nelle ipotesi previste nei precedenti commi il risarcimento del danno è determinato:
a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi moratori, a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo.
Nell’ipotesi di imposizione di servitù, pertanto, l’Amministrazione deve in primo luogo corrispondere il valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità.
Ma, poiché in questo caso ad essere acquisito per scopi di pubblica utilità non è il bene nella sua interezza, ma la sola servitù, il risarcimento del danno va calcolato con riferimento al valore della servitù imposta sul fondo, essendo questo il senso dell’espressione di cui all’art. 43, quinto comma, secondo cui le disposizioni di cui ai precedenti commi si applicano, “in quanto compatibili”, anche quando sia imposta una servitù di diritto privato o di diritto pubblico.
Per la determinazione del valore della servitù occorre, quindi, fare riferimento alla disciplina di cui all’art. 1038 c.c. sull’indennità per l’imposizione dell’acquedotto o dello scarico coattivo.
Come precisato dalla giurisprudenza (per tutte, cfr. Cass. Civ. Sez. Un., n. 84/2001), il primo comma della norma prevede che l’indennità sia dovuta in misura corrispondente all’intero valore del fondo per il terreno occupato dall’opera idraulica vera e propria, mentre per le cosiddette fasce di rispetto si applica il secondo comma della disposizione indicata (che prevede un’indennità pari alla metà del valore del suolo), atteso che tali fasce possono essere comunque sfruttate economicamente da parte del proprietario del fondo servente.
Nel caso in esame, come evidenziato dal verificatore, deve tuttavia farsi applicazione del criterio di cui all’art. 1038, secondo comma, c.c. per tutta l’area interessata dal collettore fognante, in quanto l’area risulta edificabile e la volumetria edilizia rimane, quindi, nella piena disponibilità del proprietario (che può sfruttarla su altre proprietà o cederla a terzi).
Ne consegue che, in relazione ai 410 metri effettivamente interessati dalla presenza del collettore fognante, il decreto di asservimento deve prevedere un’indennità pari al 50% del valore del terreno.
Il valore del terreno, tenendo conto delle conclusioni del verificatore, dalle quali il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi, deve essere stabilito con riferimento al momento di emanazione del decreto di asservimento, in quanto il risarcimento dovuto, ai sensi dell’art. 43, sesto comma, lett. a), per il valore del bene, ovvero della servitù, non può che riferirsi al valore del bene, o della servitù, nel momento in cui il proprietario perde interamente o parzialmente il proprio diritto sulla cosa e tale momento non coincide con quello di ultimazione dell’opera pubblica, ma con quello in cui l’Amministrazione adotta il provvedimento di acquisizione (sul punto cfr. Con. Giust. Amm. Reg. Sic., n. 52/2009).
Il Comune dovrà, tuttavia, verificare se l’area di metri quadri 410 interessata dalla presenza del collettore fognante coincida, anche in parte, con la superficie di metri quadri 2693,75 irreversibilmente trasformata in strade urbane (cioè nelle odierne Vie Asbesta e Don Puglisi).
Nell’ipotesi di coincidenza con la superficie irreversibilmente trasformata, infatti, l’Amministrazione non deve corrispondere, per la sola parte coincidente, alcuna indennità a titolo di servitù, in quanto l’occupazione dell’area determina la privazione totale del godimento del bene da parte del proprietario ed è , quindi, incompatibile con un provvedimento di mera limitazione del suo godimento.
Oltre a tale importo, l’Amministrazione, in esecuzione della sentenza di questo Tribunale n. 1278 del 07.06.2007, è tenuta a corrispondere al ricorrente il risarcimento del danno per l’occupazione illegittima dell’area di metri quadri 3718,75 occupata per la realizzazione del collettore fognante.
In realtà, a prescindere dall’insistenza su un’area di metri quadri 410 delle opere relative al collettore fognante (e a prescindere, altresì, come sarà meglio specificato nel seguito, dalla sopravvenuta realizzazione della Via Asbesta e della Via Don Puglisi), non vi è prova che sull’area in questione l’occupazione del suolo si sia effettivamente protratta oltre il termine previsto nei tre decreti di occupazione.
Non vi è prova, cioè, che l’Amministrazione, una volta scaduti i decreti di occupazione e a prescindere dall’intervenuta realizzazione del collettore fognante, abbia continuato ad occupare l’area con opere e manufatti, ovvero abbia in qualche modo impedito al proprietario di rientrare nella legittima disponibilità degli immobili.
Al riguardo deve, tuttavia, osservarsi che la scadenza di un provvedimento di occupazione d’urgenza di un’area non fa venir meno l’occupazione di fatto della stessa da parte della Pubblica Amministrazione, essendo necessario, per far cessare l’occupazione, un atto di riconsegna del bene al proprietario, in mancanza del quale l’occupazione permane e, in quanto illegittima, costituisce fonte di responsabilità per l’Amministrazione occupante (sul punto, cfr. Cass. Civ., Sez. I, n. 10866/1999).
La detenzione qualificata dell’area (sul punto, cfr. Cass. Civ., Sez. II, n. 132/1992; Cass. Civ. Sez. I, n. 10686/2005, Cass. Civ., Sez. I, n. 2952/2003) da parte della Pubblica Amministrazione a seguito di provvedimento di occupazione d’urgenza si trasforma, infatti, a seguito della scadenza del termine di efficacia del provvedimento, in detenzione “sine titulo” e ciò determina il sorgere in capo all’Amministrazione di un obbligo di restituzione dell’immobile al legittimo proprietario.
Come chiarito dalla Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. I, n. 2952/2003), per la riconsegna dell’area non si richiedono le formalità previste per l’occupazione (redazione di apposito verbale di immissione in possesso redatto in contraddittorio con il proprietario o, in sua assenza, con l’intervento di due testimoni), atteso che esse sono contemplate avuto riguardo agli specifici effetti che il legislatore collega all’immissione nel possesso dell'immobile (mantenimento dell’efficacia del decreto, decorrenza dell’indennità di occupazione, etc.), ma deve comunque trovare applicazione la normativa contenuta negli art. 1140 e segg. cod. civ., secondo la quale, per la perdita del possesso materiale dell’immobile nel caso di detenzione qualificata, occorre quanto meno che venga esteriorizzato, da chiari ed inequivoci segni, l’“animus derelinquendi”.
Incombe, peraltro, sull’Amministrazione (come incombe sul conduttore nell’ipotesi di rilascio per finita locazione: sul punto cfr. Cass. Civ., Sez. III, n. 7776/2004) l’onere delle prova in ordine all’intervenuta restituzione del bene locato, in armonia con quanto ritenuto dalla Suprema Corte (Sez. Un., n. 13533/2001) in materia di prova dell’inadempimento.
In tale ultima pronuncia, la Cassazione ha, infatti, affermato che, in base al principio della persistenza del diritto desumibile dall’art. 2697 (“chi eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”), grava sul debitore l’onere di dimostrare il fatto estintivo dell’obbligazione, in quanto, come sinteticamente espresso dal brocardo “negativa non sunt probanda”, pretendere che sia provato un fatto negativo mediante fatti positivi contrari significa introdurre un’irrazionale e non agevole tecnica probatoria e rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore, per cui si rende necessario far riferimento all’opposto principio della riferibilità o della vicinanza della prova, con la conseguenza che il creditore può limitarsi ad allegare l’inadempimento, restando a carico del debitore l’onere di dimostrare il contrario.
Poiché nel caso di specie l’Amministrazione non ha dato prova della restituzione dell’area allo spirare dei tre decreti di occupazione, deve ritenersi, sulla scorta delle considerazioni che precedono, che la detenzione degli immobili si sia protratta “sine titulo” oltre i termini contemplati nei decreti stessi.
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Come affermato dalla giurisprudenza (Tar Campania, Salerno II, n. 1539/2001), ai fini del risarcimento derivante da occupazione divenuta “sine titulo”, il valore venale di riferimento deve essere quello del bene al tempo della cessazione dell’occupazione legittima, poiché la previsione, nel citato art. 43, sesto comma, lett. b), degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato (anche tramite imposizione di servitù senza titolo), dimostra che la sorte capitale deve essere riferita a quel momento pregresso per essere poi attualizzata al tempo della condanna.
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Va, infine precisato che, in base ai principi generali sulla liquidazione dell’obbligazione risarcitoria, alle somme dovute a tale titolo, con esclusione di quella dovuta a titolo di indennità di asservimento (già calcolata sul valore attuale della servitù), vanno aggiunti la rivalutazione monetaria e gli interessi legali e che, in particolare, gli interessi devono essere computati sulle somme anno per anno rivalutate (cfr., per tutte, Cass. Civ., I, n. 19510/2005).
Al riguardo va precisato che, per quanto attiene il computo degli interessi, non risulta applicabile né l’art. 5 d.lgs. n. 231/2002, in quanto la norma si riferisce espressamente al “saggio degli interessi ai fini del presente decreto” e il decreto concerne le transazioni commerciali (non le obbligazioni risarcitorie), né l’art. 50 d.p.r. n. 327/2003, in quanto la norma disciplina il calcolo dell’indennità di occupazione (TAR Sicilia-catania, Sez. II, sentenza 28.05.2012 n. 1350 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALIAi fini della rappresentanza in giudizio del Comune, l’autorizzazione alla lite da parte della Giunta Comunale non costituisce più, in linea generale, atto necessario ai fini della proposizione o della resistenza all’azione (o all’impugnazione).
Ciò, innanzitutto, perché alla Giunta sono state conferite le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo che non siano riservate dalla legge al Consiglio, mentre spettano ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli Statuti e dai regolamenti, nonché tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo Statuto tra le menzionate funzioni di indirizzo (art. 48, 50 e 107 d.p.r. n. 267/2000).
In secondo luogo, perché nel nuovo ordinamento delle autonomie locali il Sindaco ha assunto, ancor più con la legge n. 81/1993, che ne ha previsto l'elezione diretta, un ruolo politico ed amministrativo centrale, in quanto titolare di funzioni di direzione e di coordinamento dell’esecutivo comunale; onde l’autorizzazione (del Consiglio prima e poi) della Giunta, se trovava ragione in un assetto in cui il Sindaco era eletto dal Consiglio e la Giunta costituiva espressione del Consiglio stesso, non ha più ragion d’essere in un sistema in cui il Sindaco trae direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli Assessori che compongono la Giunta, cui l’art. 48 d.p.r. n. 267/2000 affida il compito di collaborare con il capo dell’Amministrazione Municipale (salva restando, ovviamente, la possibilità per lo Statuto comunale -competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio ex art. 6, secondo comma, d.p.r. n. 267/2000- di prevedere l’autorizzazione della Giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione del competente dirigente, ovvero, ancora, di postulare l’uno o l’altro intervento in relazione alla natura o all’oggetto della controversia).

Come, infatti, affermato dalla giurisprudenza (cfr. Cass. Civ, I, n. 13412/2006, Cass. Civ., Sez. Un., n. 17550/2002 e n. 12868/2005; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I n. 880 del 04.07.2008, Cons. Stato, sez. VI n. 33 del 07.01.2008), la vigente disciplina regionale non include più fra le competenze della Giunta Comunale le delibere aventi ad oggetto le autorizzazioni alla proposizione delle liti attive e passive.
La competenza in materia della Giunta Comunale, come è noto, si fondava, in ambito nazionale, sull’art. 35, secondo comma, legge n. 142/1990, secondo cui a tale organo spettavano le attribuzioni residuali su tutti gli atti non riservati dalla legge o dallo Statuto alla competenza del Sindaco o del Consiglio.
La norma ha trovato applicazione anche nella Regione siciliana, avente competenza legislativa esclusiva sull’ordinamento degli enti locali ai sensi dell’art. 14, lett. p), dello Statuto Regionale, atteso che, con legge regionale n. 48/1991, la legge n. 142/1990 è stata recepita nell’ordinamento regionale senza alcuna modifica.
Il nuovo quadro delle competenze degli organi del comune, già delineato dalla menzionata legge n. 142/1990 e completato dalle disposizioni successive fino all’approvazione del d.p.r. n. 267 del 2000, ha indotto, però, le Sezioni Unite della Corte (Cass., Sez. Un. n. 17550/2002 e n. 12868/2005) a rivedere il precedente orientamento, anche in considerazione del fatto che la modifica del titolo V della Costituzione, nonché la successiva legge n. 131/2003 di adeguamento dell’ordinamento della Repubblica al nuovo assetto costituzionale, hanno accentuato l’autonomia degli enti locali e nell’ambito di essa le potestà degli Statuti nella gerarchia delle fonti (ormai da considerarsi quali atti normativi atipici con caratteristiche di rango paraprimario o sub-primario).
La Suprema Corte ha, quindi, affermato che, ai fini della rappresentanza in giudizio del Comune, l’autorizzazione alla lite da parte della Giunta Comunale non costituisce più, in linea generale, atto necessario ai fini della proposizione o della resistenza all’azione (o all’impugnazione).
Ciò, innanzitutto, perché alla Giunta sono state conferite le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo che non siano riservate dalla legge al Consiglio, mentre spettano ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli Statuti e dai regolamenti, nonché tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo Statuto tra le menzionate funzioni di indirizzo (art. 48, 50 e 107 d.p.r. n. 267/2000).
In secondo luogo, perché nel nuovo ordinamento delle autonomie locali il Sindaco ha assunto, ancor più con la legge n. 81/1993, che ne ha previsto l'elezione diretta, un ruolo politico ed amministrativo centrale, in quanto titolare di funzioni di direzione e di coordinamento dell’esecutivo comunale; onde l’autorizzazione (del Consiglio prima e poi) della Giunta, se trovava ragione in un assetto in cui il Sindaco era eletto dal Consiglio e la Giunta costituiva espressione del Consiglio stesso, non ha più ragion d’essere in un sistema in cui il Sindaco trae direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli Assessori che compongono la Giunta, cui l’art. 48 d.p.r. n. 267/2000 affida il compito di collaborare con il capo dell’Amministrazione Municipale (salva restando, ovviamente, la possibilità per lo Statuto comunale -competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio ex art. 6, secondo comma, d.p.r. n. 267/2000- di prevedere l’autorizzazione della Giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione del competente dirigente, ovvero, ancora, di postulare l’uno o l’altro intervento in relazione alla natura o all’oggetto della controversia) (TAR Sicilia-catania, Sez. II, sentenza 28.05.2012 n. 1348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sulla differenza tra localizzazione di un programma costruttivo di edilizia residenziale pubblica e piano di edilizia economica e popolare.
La localizzazione di un programma costruttivo di edilizia residenziale pubblica ai sensi dell'art. 51 della legge 22.10.1971, n. 865, a differenza di un piano di edilizia economica e popolare, non ha affatto valenza e connotazione pianificatoria "…giacché non è finalizzata al soddisfacimento, in un'ottica temporale ampia, della richiesta di edilizia residenziale economica e popolare a beneficio delle esigenze attuali e future di una determinata fascia di abitanti del comune, ma ha invece un carattere immediatamente operativo, in quanto più limitatamente inteso ad assicurare la realizzazione di un programma costruttivo già finanziato e definito in tutte le sue parti essenziali".
E non è dubbio che essa abbia, invece, valore ed efficacia di dichiarazione di pubblica utilità delle opere comprese nel programma costruttivo localizzato, dovendo contenere anche l'indicazione dei termini per l'inizio e il compimento dei lavori e delle espropriazioni. Ne consegue che, l'adozione della delibera di localizzazione deve essere preceduta dalla comunicazione d'avvio del procedimento da inviare a tutti i soggetti interessati, e precipuamente ai proprietari degli immobili assoggettati a espropriazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2012 n. 3085 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'interpretazione del disposto contenuto nell'art. 38, c. 1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti pubblici).
Ai fini dell'applicazione dell'art. 38, c. 1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti pubblici), non è necessario un accertamento della responsabilità del contraente per l'inadempimento in relazione ad un precedente rapporto contrattuale, quale sarebbe richiesto per l'esercizio di un potere sanzionatorio, ma è sufficiente una motivata valutazione dell'amministrazione in ordine alla grave negligenza o malafede nell'esercizio delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara, che abbia fatto venir meno la fiducia nell'impresa.
Inoltre, l'esclusione per grave negligenza non presuppone il definitivo accertamento di tale comportamento, essendo sufficiente la valutazione fatta dalla stessa amministrazione con il richiamo per relationem all'atto con cui, in altro rapporto contrattuale di appalto, aveva provveduto alla risoluzione per inadempimenti contrattuali (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.05.2012 n. 3078 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Non può costituire causa di esclusione da una gara d'appalto l'arresto di proprietari o di dirigenti di una società o anche la sola pendenza di procedimenti penali.
L'arresto di proprietari o di dirigenti di una società -o a maggior ragione la sola pendenza di procedimenti penali- non può costituire causa di esclusione da una gara, visto che l'art. 38, lett. c), D.Lgs. 163/2006, stabilisce che essa deve ricorrere allorché, nel caso di una s.r.l., sia stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale, per reati di grave danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale nei confronti degli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci.
Altrettanto stabilisce lo stesso D.Lgs. 163/2006 nel caso di avvenuta stipulazione di contratti, per i quali solo l'avvenuto accertamento di una serie di reati mediante sentenza passata in giudicato permette la risoluzione del contratto sottostante l'aggiudicazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.05.2012 n. 3063 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATALa ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio deve riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma e volumi; diversamente opinando, infatti, sarebbe sufficiente la preesistenza di un edificio per definire ristrutturazione qualsiasi nuova realizzazione eseguita in luogo o sul luogo di quella preesistente.
Il legame con l’edificio preesistente, quanto a sagoma e a volumetria, costituisce il criterio distintivo degli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente dalle nuove costruzioni.
Le identità di volume e sagoma del nuovo edificio rispetto a quello originario giustificano, inoltre, il differente regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, l’intervento non è, difatti, subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito.
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L'edilizia, anche se non menzionata esplicitamente nell'art. 117 Cost., rientra, in base a consolidata giurisprudenza costituzionale, nell'ambito della materia del «governo del territorio», di competenza concorrente.
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L'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, recante la definizione degli interventi edilizi, costituisce un principio fondamentale non derogabile dal legislatore regionale, come ricavabile dall'impianto complessivo del testo unico sull'edilizia e dal rilievo che in esso assumono le definizioni degli interventi, nonché dalla sua prevalenza rispetto alle eventuali diverse disposizioni contenute negli strumenti urbanistici generali e nei regolamenti edilizi.
A fortiori per la Corte Costituzionale sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali.
L'intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall'altro".
La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato.

Con provvedimento del 12.07.2011 il Comune ha adottato un provvedimento di sostanziale inibitoria della cit. d.i.a., sul fondamentale presupposto che l’intervento progettato dalla Società, in quanto implicante una modifica della sagoma, non sarebbe conforme all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, mentre, quanto alla normativa regionale (art. 27, co. 1, lett. d, della legge reg. Lombardia n.12/2005, come integrato dalla legge reg. n. 7/2010 e art. 103 della legge reg. n. 12/2005), essa sarebbe attualmente all’esame della Corte costituzionale, in conseguenza della sentenza di questo TAR n. 5122, del 07.09.2010, che ha sollevato la relativa questione di legittimità costituzionale, per contrasto con il citato art. 3 e, quindi, con l’art. 117, co. 3, della Costituzione.
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Come chiaramente emerge dalla documentazione versata in atti e non oggetto di contestazione fra le parti, l’intervento in questione concerne la demolizione di preesistenti fabbricati, con successiva attività ricostruttiva senza il rispetto della sagoma (anzi, con parziale traslazione del sedime).
In siffatte evenienze, stando alla normativa nazionale, si è in presenza di un intervento di nuova costruzione, non potendo l’intervento medesimo rientrare fra quelli di ristrutturazione edilizia che, stando alla lettera dell’art. 3, co. 1, lett. d), del d.P.R. cit., postula l’identità di sagoma fra l’immobile demolito e quello ricostruito.
In tal senso, è utile rammentare come, secondo la giurisprudenza pressoché unanime, esigenze di interpretazione logico-sistematica della succitata normativa inducano a ritenere che la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma e volumi; diversamente opinando, infatti, sarebbe sufficiente la preesistenza di un edificio per definire ristrutturazione qualsiasi nuova realizzazione eseguita in luogo o sul luogo di quella preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2008, n. 1177; 08.10.2007, n. 5214; 16.03.2007, n. 1276; 22.05.2006, n. 3006; Cass., sez. III, 26.10.2007).
Il legame con l’edificio preesistente, quanto a sagoma -intendendosi con tale concetto “la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale”, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti (cfr. Cass. sez. III, 23.04.2004, n. 19034)- e a volumetria, costituisce, quindi, per unanime giurisprudenza, il criterio distintivo degli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente dalle nuove costruzioni.
Le identità di volume e sagoma del nuovo edificio rispetto a quello originario giustificano, inoltre, il differente regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, l’intervento non è, difatti, subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.11.1996, n. 1359; Cons. Stato, sez. V, 28.03.1998, n. 369; Cass. civ., sez. II, 12.06.2001, n. 7909; Tar Calabria, Reggio Calabria, 24.01.2001, n. 36; TAR Puglia, Bari, sez. III, 22.07.2004, n. 3210) .
Tale essendo il quadro normativo a livello nazione, sul piano regionale, l'art. 27, comma 1, lettera d), della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 definisce come interventi di ristrutturazione edilizia quelli «rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica».
L'art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, intitolato «Disapplicazione di norme statali», dispone, al comma 1, che, a seguito dell'entrata in vigore della medesima legge regionale n. 12 del 2005 «cessa di avere diretta applicazione nella Regione la disciplina di dettaglio prevista: a) dagli articoli 3, 4, 5, 10, 11, 12, 13, 14, 16, 19, commi 2 e 3, 20, 21, 22, 23 e 32 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) (testo A); b) dagli articoli 9, comma 5, e 19, commi 2, 3 e 4, del d.P.R. 08.06.2001, n. 327 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) (testo A)».
La giurisprudenza che si è sviluppata all’indomani dell’introduzione di siffatta normativa regionale, ne ha fornito un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a ritenere che la mancata menzione del rispetto del limite della sagoma per gli interventi di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione non dovesse affatto significare l’abdicazione di tale requisito da parte del legislatore regionale, pena la incostituzionalità della previsione medesima, per contrasto con quanto previsto dall'art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 (che costituisce espressione di un principio generale che orienta anche l'interpretazione della legislazione regionale) e, quindi, con l’art. 117 Cost. (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 16.01.2009, n. 153; TAR Lombardia, Brescia, 13.05.2008, n. 504).
L'edilizia, infatti, anche se non menzionata esplicitamente nell'art. 117 Cost., rientra, in base a consolidata giurisprudenza costituzionale, nell'ambito della materia del «governo del territorio», di competenza concorrente.
L'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, recante la definizione degli interventi edilizi, costituisce, pertanto, un principio fondamentale non derogabile dal legislatore regionale, come ricavabile dall'impianto complessivo del testo unico sull'edilizia e dal rilievo che in esso assumono le definizioni degli interventi, nonché dalla sua prevalenza rispetto alle eventuali diverse disposizioni contenute negli strumenti urbanistici generali e nei regolamenti edilizi.
Sennonché, com’è noto, con l'art. 22 della legge della Regione Lombardia n. 7 del 2010, intitolato «Interpretazione autentica dell'articolo 27, comma 1, lettera d), della legge regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del territorio"», il legislatore regionale è nuovamente intervenuto in subiecta materia, prevedendo che, nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia, la ricostruzione dell'edificio che segue a demolizione «è da intendersi senza vincolo di sagoma».
Il TAR Lombardia, come già accennato, con ordinanza del 07.09.2010 (reg. ord. n. 364 del 2010), ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, e 103 della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nonché dell'art. 22 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi normativi per l'attuazione della programmazione regionale e di modifica ed integrazione di disposizioni legislative - Collegato ordinamentale 2010), in relazione all'art. 117, terzo comma, della Costituzione.
La questione è stata ritenuta fondata dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza sopra citata, ha ribadito la riconducibilità nell'ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio delle disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi (cfr. in precedenza sul tema già la sentenza C.C. n. 303 del 2003, punto 11.2 del Considerato in diritto).
È utile riportare, al riguardo, il seguente passaggio motivazionale: “a fortiori per la Corte sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali.
L'intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall'altro
".
La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.05.2012 n. 1441 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer il concetto di "sagoma" deve intendersi la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti.
Come chiaramente emerge dalla documentazione versata in atti e non oggetto di contestazione fra le parti, l’intervento in questione concerne la demolizione di preesistenti fabbricati, con successiva attività ricostruttiva senza il rispetto della sagoma (anzi, con parziale traslazione del sedime).
In siffatte evenienze, stando alla normativa nazionale, si è in presenza di un intervento di nuova costruzione, non potendo l’intervento medesimo rientrare fra quelli di ristrutturazione edilizia che, stando alla lettera dell’art. 3, co. 1, lett. d), del d.P.R. cit., postula l’identità di sagoma fra l’immobile demolito e quello ricostruito.
In tal senso, è utile rammentare come, secondo la giurisprudenza pressoché unanime, esigenze di interpretazione logico-sistematica della succitata normativa inducano a ritenere che la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma e volumi; diversamente opinando, infatti, sarebbe sufficiente la preesistenza di un edificio per definire ristrutturazione qualsiasi nuova realizzazione eseguita in luogo o sul luogo di quella preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2008, n. 1177; 08.10.2007, n. 5214; 16.03.2007, n. 1276; 22.05.2006, n. 3006; Cass., sez. III, 26.10.2007).
Il legame con l’edificio preesistente, quanto a sagoma -intendendosi con tale concetto “la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale”, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti (cfr. Cass. sez. III, 23.04.2004, n. 19034)- e a volumetria, costituisce, quindi, per unanime giurisprudenza, il criterio distintivo degli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente dalle nuove costruzioni (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.05.2012 n. 1441 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' del tutto legittimo l’operato comunale che, ritenendo l’intervento di demolizione/ricostruzione prospettato dall’esponente senza il rispetto della sagoma incompatibile con la definizione di ristrutturazione fornita dall’art. 3 del T.U.ED., lo ha inibito, in attesa dell’imminente decisione della Corte costituzionale sulla questione di legittimità costituzionale della normativa regionale.
Non si ravvisa, al riguardo, alcun vizio di eccesso di potere in tale determinazione, posto che la cura degli interessi pubblici di cui il Comune è portatore passa anche attraverso la corretta interpretazione del quadro normativo vigente, in cui assumono portata preminente le norme costituzionali.
In tale operazione interpretativa, peraltro, il Comune ha correttamente fatto leva anche sul precedente giurisprudenziale specifico, in relazione al quale è stata sollevata la q.l.c. delle ridette norme regionali.
Né si ravvisa in tale modus operandi alcuna violazione dell’art. 136 Cost., poiché -al contrario– l’atteggiamento prudenziale del Comune ha concorso a garantire la stabilità delle situazioni giuridiche soggettive attraverso l’applicazione della norma costituzionalmente legittima (art. 3 T.U.ED) in luogo di quella costituzionalmente illegittima (art. 27 cit.) in relazione al rapporto giuridico in questione.
Contrariamente a quanto divisato dall’esponente, infatti, la pronuncia di incostituzionalità della Corte, intervenuta dopo pochi mesi dalla presentazione della d.i.a., avrebbe ben potuto esplicare i suoi effetti anche in relazione alla vicenda per cui è causa, inidonea a rivestire i caratteri del rapporto giuridico esaurito (s’intendono per “rapporti esauriti” quelli che, sorti precedentemente alla pronuncia di incostituzionalità, abbiano dato luogo a situazioni ormai consolidate ed inderogabili per effetto del passaggio in giudicato di decisioni giurisdizionali, della definitività di provvedimenti amministrativi divenuti inoppugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale).
Il provvedimento emanato in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale, infatti, dà luogo ad una fattispecie di invalidità "sopravvenuta" o "derivata", che determina “una situazione di precarietà dell'atto”, connessa alla precarietà della stessa norma oggetto dello scrutinio di costituzionalità, cui consegue la configurazione di un vizio originario quanto alla decorrenza, vista la retroazione ex tunc delle sentenze del giudice delle leggi, ma sopravvenuto quanto alla sua riconoscibilità.
In sostanza, in assenza dell’inibitoria qui gravata, la ricorrente si sarebbe trovata esposta all’esercizio dei poteri di autotutela da parte comunale, preordinati proprio all’eliminazione del titolo contrastante con la normativa vigente.
Anche se con il perfezionarsi della d.i.a., si consolida in capo al privato una posizione di affidamento meritevole di protezione, tuttavia, “tale affidamento non è certamente così forte da escludere qualsiasi potere di intervento da parte della p.a., anche perché, altrimenti, per effetto della d.i.a. si andrebbe a consolidare una posizione più stabile rispetto a quella che deriva dal provvedimento autorizzatorio (il quale, ricorrendo le condizioni di legge, può essere appunto rimosso in via di autotutela)”.
Non può, quindi, ritenersi che il decorso del termine di 30 giorni ingeneri un affidamento che prevalga, per ciò solo, su ogni interesse pubblico alla rimozione del titolo abilitativo perché, se così fosse, verrebbe negata in radice ogni possibilità per l’amministrazione di intervenire in autotutela.

Con provvedimento del 12.07.2011 il Comune ha adottato un provvedimento di sostanziale inibitoria della cit. d.i.a., sul fondamentale presupposto che l’intervento progettato dalla Società, in quanto implicante una modifica della sagoma, non sarebbe conforme all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, mentre, quanto alla normativa regionale (art. 27, co. 1, lett. d, della legge reg. Lombardia n.12/2005, come integrato dalla legge reg. n. 7/2010 e art. 103 della legge reg. n. 12/2005), essa sarebbe attualmente all’esame della Corte costituzionale, in conseguenza della sentenza di questo TAR n. 5122, del 07.09.2010, che ha sollevato la relativa questione di legittimità costituzionale, per contrasto con il citato art. 3 e, quindi, con l’art. 117, co. 3, della Costituzione.
...
Il Collegio ritiene del tutto legittimo l’operato comunale che, ritenendo l’intervento di demolizione/ricostruzione prospettato dall’esponente senza il rispetto della sagoma incompatibile con la definizione di ristrutturazione fornita dall’art. 3 del T.U.ED., lo ha inibito, in attesa dell’imminente decisione della Corte costituzionale sulla questione di legittimità costituzionale della normativa regionale.
Non si ravvisa, al riguardo, alcun vizio di eccesso di potere in tale determinazione, posto che la cura degli interessi pubblici di cui il Comune è portatore passa anche attraverso la corretta interpretazione del quadro normativo vigente, in cui assumono portata preminente le norme costituzionali.
In tale operazione interpretativa, peraltro, il Comune ha correttamente fatto leva anche sul precedente giurisprudenziale specifico, in relazione al quale è stata sollevata la q.l.c. delle ridette norme regionali.
Si tratta, giova ribadire, di un precedente tutt’altro che isolato in relazione alla tematica della riconducibilità degli interventi di demolizione/ricostruzione senza il rispetto della sagoma nell’ambito degli interventi di nuova costruzione piuttosto che in quelli di ristrutturazione edilizia (cfr. la giurisprudenza già richiamata).
Né si ravvisa in tale modus operandi alcuna violazione dell’art. 136 Cost., poiché -al contrario– l’atteggiamento prudenziale del Comune ha concorso a garantire la stabilità delle situazioni giuridiche soggettive attraverso l’applicazione della norma costituzionalmente legittima (art. 3 T.U.ED) in luogo di quella costituzionalmente illegittima (art. 27 cit.) in relazione al rapporto giuridico in questione.
Contrariamente a quanto divisato dall’esponente, infatti, la pronuncia di incostituzionalità della Corte, intervenuta dopo pochi mesi dalla presentazione della d.i.a., avrebbe ben potuto esplicare i suoi effetti anche in relazione alla vicenda per cui è causa, inidonea a rivestire i caratteri del rapporto giuridico esaurito (su cui cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 09.12.2008, n. 6097; nonché da ultimo TAR Napoli Campania sez. II, 18.07.2011, n. 3878, secondo il quale s’intendono per “rapporti esauriti” quelli che, sorti precedentemente alla pronuncia di incostituzionalità, abbiano dato luogo a situazioni ormai consolidate ed inderogabili per effetto del passaggio in giudicato di decisioni giurisdizionali, della definitività di provvedimenti amministrativi divenuti inoppugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale).
Il provvedimento emanato in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale, infatti, dà luogo ad una fattispecie di invalidità "sopravvenuta" o "derivata", che determina “una situazione di precarietà dell'atto”, connessa alla precarietà della stessa norma oggetto dello scrutinio di costituzionalità, cui consegue la configurazione di un vizio originario quanto alla decorrenza, vista la retroazione ex tunc delle sentenze del giudice delle leggi, ma sopravvenuto quanto alla sua riconoscibilità (così Consiglio Stato, sez. IV, 30.11.2010, n. 8363).
In sostanza, in assenza dell’inibitoria qui gravata, la ricorrente si sarebbe trovata esposta all’esercizio dei poteri di autotutela da parte comunale, preordinati proprio all’eliminazione del titolo contrastante con la normativa vigente.
Come già più volte affermato dalla giurisprudenza, anche se con il perfezionarsi della d.i.a., si consolida in capo al privato una posizione di affidamento meritevole di protezione, tuttavia, “tale affidamento non è certamente così forte da escludere qualsiasi potere di intervento da parte della p.a., anche perché, altrimenti, per effetto della d.i.a. si andrebbe a consolidare una posizione più stabile rispetto a quella che deriva dal provvedimento autorizzatorio (il quale, ricorrendo le condizioni di legge, può essere appunto rimosso in via di autotutela)” (così, ad es. Cons. Stato, VI, 09.02.2009, n. 717).
Non può, quindi, ritenersi che il decorso del termine di 30 giorni ingeneri un affidamento che prevalga, per ciò solo, su ogni interesse pubblico alla rimozione del titolo abilitativo perché, se così fosse, verrebbe negata in radice ogni possibilità per l’amministrazione di intervenire in autotutela (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.05.2012 n. 1441 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate dall'Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica costituiscono apprezzamento di merito, sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità.
Esse, inoltre, quando si concretano nella destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano, essendo necessaria una motivazione specifica soltanto in presenza di un <<affidamento qualificato>>.
A tal riguardo, si evidenziano i casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 — con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Né si può ritenere che l'obbligo di motivazione venga rafforzato, imposto o mutato in base alla sola presentazione delle osservazioni al piano da parte dei privati; queste, infatti, sono semplici apporti collaborativi offerti dai cittadini alla formazione dello strumento urbanistico ed il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
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La giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione di un piano urbanistico allorché vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono.
L’art. 13, co. 9, della l.r. 12/2005, d’altro canto, espressamente esclude l’assoggettamento a ripubblicazione della deliberazione comunale di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali, senza ulteriori specificazioni
.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza (cfr. ex multis, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 19.03.2012, n. 307; Cons. Stato, sez. IV, 24.02.2011, n. 1222, id. 13.02.2009, n. 811; id. 13.03.2008, n. 1095), le scelte effettuate dall'Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica costituiscono apprezzamento di merito, sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità. Esse, inoltre, quando si concretano nella destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano, essendo necessaria una motivazione specifica soltanto in presenza di un <<affidamento qualificato>> del privato (cfr. a proposito delle situazioni ritenute meritevoli di particolare tutela, in quanto caratterizzate da un affidamento «qualificato»: TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.03.2011, n. 1950, che elenca i casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 — con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo).
In nessuna di siffatte situazioni si trova la ricorrente, la quale vanta una generica aspettativa alla conservazione della precedente previsione urbanistica, onde conseguire un utilizzo, nella sua prospettiva, più proficuo dell'area in questione (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 22.12.1999 n. 24; Sez. IV, 25.07.2001 n. 4077; TAR Catania, sez. I, 13.02.2012 n. 386; TAR Salerno, 17.12.2002, n. 2358).
Né si può ritenere che l'obbligo di motivazione venga rafforzato, imposto o mutato in base alla sola presentazione delle osservazioni al piano da parte dei privati; queste, infatti, sono semplici apporti collaborativi offerti dai cittadini alla formazione dello strumento urbanistico ed il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.10.2007, n. 5357; id. 30.06.2004, n. 4804; TAR Campania Salerno, sez. I, 08.01.2010, n. 15).
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Quanto alla presunta necessità di ripubblicazione del piano, va ricordato che, nella interpretazione dell'art. 10 della legge n. 1150 del 1942 (nel testo modificato dall'art. 3 della legge n. 765 del 1967) e nello sforzo di delineare il "giusto procedimento" di perfezionamento di un piano urbanistico, la giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del piano allorché vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono (cfr., fra le tante: Consiglio Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; Consiglio Stato, sez. IV, 25.11.2003, n. 7782).
Questo non è, tuttavia, il caso di specie, ove si tratta della modifica della destinazione impressa ad una singola area (P2), che non appare idonea ad alterare i criteri d’impostazione del Piano (cfr. TAR Lombardia, sez. II, sent. 197/2009, per cui: <<…La modifica apportata dal Comune, in ottemperanza a tale indicazione, non richiedeva una nuova pubblicazione della variante: è stata, difatti, dettata dalla necessità di assicurare il rispetto delle finalità di tutela paesaggistiche oggetto del piano territoriale di coordinamento provinciale>>).
L’art. 13, co. 9, della legge reg. 12/2005, d’altro canto, espressamente esclude l’assoggettamento a ripubblicazione della deliberazione comunale di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali, senza ulteriori specificazioni (cfr. Cons. Stato, IV, 09.03.2011 n. 1503; TAR Lombardia, Milano, II, n. 742/2006).
Anche laddove la modifica fosse da intendersi quale mera raccomandazione ed avesse, dunque, carattere facoltativo, non sussisterebbe, comunque, un obbligo di ripubblicazione del piano, in quanto l’ampliamento dell’ambito boschivo della rete ecologica in relazione all’area dell’esponente non comporta una rielaborazione complessiva del piano stesso o un mutamento delle sue caratteristiche essenziali, nei sensi poc’anzi precisati (cfr. Cons. Stato, IV, 15.07.2008, n. 3518; id. 05.03.2008 n. 925; id. 31.01.2005 n. 259)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAOccorre indulgere verso una più rigida interpretazione delle condizioni dell’azione, ponendo forti limiti alla configurabilità dell’interesse cd. strumentale all’impugnazione dello strumento urbanistico.
Ciò, sul presupposto che, in subiecta materia, l’interesse al ricorso non può sostanziarsi in un generico interesse a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza che, in quanto tale, non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire.
Per fondare l’interesse al ricorso in relazione alle censure afferenti la V.A.S., occorre fornire la dimostrazione che i lamentati vizi della V.A.S. abbiano inciso in modo diretto e determinante sulle scelte specificamente riguardanti le aree dei ricorrenti, traendo da ciò la logica conseguenza che dette scelte avrebbero potuto essere differenti ove si fosse proceduto ad una nuova V.A.S. emendata dei ridetti vizi.

Nello specifico, con particolare riguardo ai primi due motivi, che fanno leva sulla violazione delle norme in materia di V.A.S., il Collegio deve ribadirne l’inammissibilità per difetto di interesse, posto che, secondo la più recente giurisprudenza, occorre indulgere verso una più rigida interpretazione delle condizioni dell’azione, ponendo forti limiti alla configurabilità dell’interesse cd. strumentale all’impugnazione dello strumento urbanistico.
Ciò, sul presupposto che, in subiecta materia, l’interesse al ricorso non può sostanziarsi in un generico interesse a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza che, in quanto tale, non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 12.01.2011 n. 133; id. 29.12.2010, n. 9537; id. 12.10.2010 n. 7439; 13.07.2010 n. 4542; 06.05.2010 n. 2629; sez. V, 07.09.2009, n. 5244; sez. IV, 22.12.2007, n. 6613; TAR Lombardia, Milano, II, 27.01.2012 n. 297; id., 24.11.2011, n. 2901).
Proprio nella richiamata sentenza del 12.01.2011 n. 133, il Consiglio di Stato ha precisato che, per fondare l’interesse al ricorso in relazione alle censure afferenti la V.A.S., occorre fornire la dimostrazione che i lamentati vizi della V.A.S. abbiano inciso in modo diretto e determinante sulle scelte specificamente riguardanti le aree dei ricorrenti, traendo da ciò la logica conseguenza che dette scelte avrebbero potuto essere differenti ove si fosse proceduto ad una nuova V.A.S. emendata dei ridetti vizi.
Applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, ne deriva che, non soltanto, non risulta fornita alcuna dimostrazione dell’incidenza dei vizi afferenti la V.A.S. rispetto alla pianificazione avente ad oggetto l’area della ricorrente ma altresì che, a conferma del predetto assunto, le censure specificamente volte a contestare il regime dei suoli di proprietà della Società sono, come si è già visto e come s’illustrerà di seguito, tutte destituite di fondamento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza insegna:
● che costituisce una strada pubblica quel tratto viario che non è cieco, ma assume una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone;
● che il connotato di interclusione dell'area servita esclude che vi possa sorgere un uso stradale in favore di una collettività indeterminata, e fa invece concludere per un'utilità limitata ai soli proprietari frontisti;
● che un'area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato; oppure quando vi sia stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l'asservimento del bene da parte del proprietario all'uso pubblico, analogamente, di una comunità indeterminata di soggetti considerati sempre uti cives, di talché il bene stesso viene ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale;
● che ai fini della dicatio ad patriam occorre pur sempre il requisito dell’idoneità intrinseca del bene a soddisfare un’esigenza comune della collettività dei consociati uti cives.
In coerenza con gli enunciati appena esposti, può, dunque, escludersi l'uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione, oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici.

Ad avviso di questo Collegio, a nulla rileva, conseguentemente, che detta strada privata sia stata inserita nelle tavole di piano quale viabilità esistente e che le sia stata impressa una funzione di viabilità di servizio e distribuzione per l’area produttiva di tipo D2, dato che il suo utilizzo pubblico meramente prospettico, ma non sicuramente attuale, la rende, allo stato, priva di quel requisito di pubblica percorribilità, idonea a soddisfare esigenze di carattere generale, alla cui tutela è da ritenersi preordinata la disposizione di cui all’art. 26.3 delle NTA.
Come recentemente ricordato dalla V Sezione del Consiglio di Stato (sentenza n. 728 in data 14.02.2012), “la giurisprudenza insegna, invero, che costituisce una strada pubblica quel tratto viario che non è cieco, ma assume una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone: C.d.S., V, 07.12.2010, n. 8624; che il connotato di interclusione dell'area servita esclude che vi possa sorgere un uso stradale in favore di una collettività indeterminata, e fa invece concludere per un'utilità limitata ai soli proprietari frontisti: C.d.S., V, 18.12.2006, n. 7601; che un'area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato; oppure quando vi sia stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l'asservimento del bene da parte del proprietario all'uso pubblico, analogamente, di una comunità indeterminata di soggetti considerati sempre uti cives, di talché il bene stesso viene ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale: Cassazione civile, sez. II, 21.05.2001, n. 6924; che ai fini della dicatio ad patriam occorre pur sempre il requisito dell’idoneità intrinseca del bene a soddisfare un’esigenza comune della collettività dei consociati uti cives: Cass. Civ., II, 13.02.2006, n. 3075”.
In coerenza con gli enunciati appena esposti, può, dunque, escludersi l'uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione (Cass. Civ., II, 23.05.1995, n. 5637), oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici (Cass. civ., I, 22.06.1985, n. 3761).
Nel caso di specie, manca –come s’è visto- proprio il requisito dell’idoneità intrinseca del bene a soddisfare un’esigenza comune della collettività dei consociati (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 24.05.2012 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAl fine di conseguire il condono edilizio di un'opera abusivamente realizzata, ciò che rileva per il completamento funzionale è che il quid novi -pur se carente nelle finiture- sia individuabile nei suoi elementi strutturali e presenti connotati sufficienti ad assolvere la funzione cui è destinato.
Il completamento funzionale va inteso nel senso che la costruzione, anche se non completamente ultimata, deve essere idonea alle funzioni cui l’opera è destinata.
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In tema di condono ex art. 39 della legge n. 724/1994, spetta al richiedente fornire adeguata documentazione volta a comprovare, anche in via indiretta, l'intervenuto completamento funzionale -inteso come realizzazione dell'opera abusiva avente caratteristiche tecniche compatibili con la destinazione per la quale è chiesto il condono- entro la data del 31.12.1993, mentre sull’amministrazione grava soltanto l'obbligo di controllare l'attendibilità di quanto dichiarato.
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Costante giurisprudenza esclude la necessità dell’acquisizione del parere della commissione edilizia comunale nel caso di diniego di condono edilizio allorquando non occorra procedere a valutazioni tecniche del progetto per acclarare la conformità dell'opera alle prescrizioni normative, ma deve farsi applicazione di valutazioni di natura giuridica.
Inoltre, in ragione della specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all’ordinario procedimento di rilascio della concessione edilizia, nonché dell’assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità, deve ritenersi che ai fini del rilascio della concessione edilizia in sanatoria non sia obbligatorio il parere della commissione edilizia, ma esso, al più, sia facoltativo.
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In mancanza del completamento funzionale del manufatto, nessun silenzio-assenso si forma, alla scadenza del biennio, sulla domanda di condono
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Dal contenuto della domanda di sanatoria ex art. 13 prot. 2935 del 3.06.1992 allegata al fascicolo si ricava che le opere di completamento per cui era richiesta la sanatoria avevano ad oggetto l’intero stabile composto da un piano seminterrato un piano terra, un primo piano ed un sottotetto. Nella domanda di sanatoria predetta non si rinviene alcun riferimento alla destinazione ad uso commerciale del piano terra che ivi viene indicato quale “deposito”.
Dal contenuto della domanda in atti risulta quindi smentita l’assunta trasformazione del locale sito a piano terra, sin dalla data di presentazione della istanza ex art. 13 cit.. I documenti prodotti in giudizio e precisamente l’istanza di sanatoria unitamente al prospetto relativo al calcolo delle superfici relative alla richiesta di concessione edilizia non comprovano che il locale ad uso deposito sito al piano terra fosse già all’epoca autonomamente utilizzabile per la destinazione commerciale di cui si discute.

Piuttosto, con la domanda di condono presentata ai sensi della legge n. 724/1994, il ricorrente ha dichiarato che le opere di trasformazione d’uso sarebbero consistite nell’abbattimento della tompagnatura anteriore, ed inoltre dalla scrittura privata in atti del 02.04.1992 di incarico lavori si ricava altresì che, oltre alla demolizione della tompagnatura esterna lato strada, doveva essere altresì realizzato un bagno con relativo impianto idraulico.
Di qui consegue l’assoluta insufficienza della documentazione fotografica allegata all’istanza di condono al fine della dimostrazione del dedotto completamento funzionale delle opere entro la data del 31.12.2003, dal momento che il ricorrente avrebbe dovuto altresì comprovare, entro i termini perentori imposti dalla legge, l’effettiva ultimazione delle opere interne necessarie a rendere i locali idonei all’uso commerciale.
Nella specie, dalla documentazione in atti è evidente che l’immobile in questione, alla data del 31.12.2003, non solo risultava allo stato grezzo, senza intonacatura e senza rifiniture di sorta, ma anche senza quelle “opere indispensabili per renderne possibile l’uso richiesto”, che il ricorrente, pur affermandone apoditticamente l’esistenza, non è stato in grado di documentare.
Ed infatti, il ricorrente pur avendo affermato in ricorso che il locale deposito era stato dotato di autonomi servizi ed impianti, non ha dimostrato di aver documentato nel corso del procedimento di condono il dedotto completamento delle opere interne relative alla realizzazione del servizio igienico, né di aver dotato i locali degli allacciamenti idrici e fognati necessari, anche ai fini igenico-sanitari, per lo svolgimento dell’attività commerciale dichiarata.
Ciò che, infatti, rileva per il completamento funzionale è che il quid novi -pur se carente nelle finiture- sia individuabile nei suoi elementi strutturali e presenti connotati sufficienti ad assolvere la funzione cui è destinato, cosa che nella specie non è avvenuta. Il completamento funzionale va inteso nel senso che la costruzione, anche se non completamente ultimata, deve essere idonea alle funzioni cui l’opera è destinata (cfr. Cons. St., sez. V, 20.10.1994, n. 1198).
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Quanto al vizio di omessa istruttoria denunciato, va rilevato che, in tema di condono ex art. 39 della legge n. 724/1994, spetta al richiedente fornire adeguata documentazione volta a comprovare, anche in via indiretta, l'intervenuto completamento funzionale -inteso come realizzazione dell'opera abusiva avente caratteristiche tecniche compatibili con la destinazione per la quale è chiesto il condono- entro la data del 31.12.1993, mentre sull’amministrazione grava soltanto l'obbligo di controllare l'attendibilità di quanto dichiarato (cfr. TAR Valle d'Aosta, 15.02.2002, n. 35).
Di qui consegue che alcun onere di integrazione istruttoria poteva imporsi all’amministrazione gravando a carico dell’interessato l’onere di comprovare il completamento dell’opera entro il termine indicato.

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Del pari infondata si appalesa la censura di omessa acquisizione del parere asseritamente obbligatorio della commissione edilizia comunale.
Costante giurisprudenza condivisa dalla Sezione, esclude, infatti, la necessità dell’acquisizione di tale parere nel caso di diniego di condono edilizio allorquando -come nel caso di specie- non occorra procedere a valutazioni tecniche del progetto per acclarare la conformità dell'opera alle prescrizioni normative, ma deve farsi applicazione di valutazioni di natura giuridica.
Inoltre, in ragione della specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all’ordinario procedimento di rilascio della concessione edilizia, nonché dell’assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità, deve ritenersi che ai fini del rilascio della concessione edilizia in sanatoria non sia obbligatorio il parere della commissione edilizia, ma esso, al più, sia facoltativo (TAR Campania, sez. VI, 27.01.2010, n. 321; 21.10.2009, n. 6108; 24.09.2009, n. 5068; 14.01.2008, n. 195; 03.08.2007, n. 7258; Cons. Stato , sez. V, 02.10.2006, n. 5725; Cons. St., sez. IV, 16.10.1998, n. 1306; C.d.S. sez. V, 04.10.2007, n. 5153).

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Sulla base delle predette conclusioni neppure può ritenersi perfezionata la fattispecie del silenzio assenso che si viene a formare solo nel caso in cui, quantomeno al momento dell’istanza, il manufatto, ancorché incompleto, sia pur sempre riferibile all’abuso per il quale è stato proposto il condono. In caso contrario, si verificherebbe la manifesta inammissibilità dell’istanza per indeterminatezza dell’opera condonata, per cui non si potrebbe mai legittimamente formare il predetto silenzio-accoglimento.
Ciò esposto, ove si consideri che nella specie il condono è stato richiesto per locali commerciali e che al momento dell’istanza i locali si presentavano non diversi dalla destinazione ad uso deposito originariamente assegnata, si comprende come in fatto manchi quella riferibilità all’abuso per il quale è richiesto il condono, che, come detto, deve ritenersi posto a base della formazione del provvedimento tacito.
Pertanto, in mancanza del completamento funzionale del manufatto, nessun silenzio-assenso si forma, alla scadenza del biennio, sulla domanda di condono (cfr. Cons. St., sez. V, 25.10.1997, n. 1198) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.05.2012 n. 2392 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 27 del t.u. dell'edilizia (ex art. 7 l. n. 47 del 1985) è applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
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L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è “in re ipsa” e non esige ulteriori specificazioni oltre quelle del ricadere l’intervento -realizzato senza titoli- in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, poiché “la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa.

Tanto premesso, seguendosi per scorrevolezza di trattazione la ricorrente per come ha inteso proporre i singoli mezzi di impugnazione, è infondato il primo di essi, volto a denunciare, in una ad eccesso di potere sotto più profili, violazione dell’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 e della parte III del d. l.vo n. 42 del 2004 nell’assunto che l’applicabilità della sanzione demolitoria è assoggettata, da dette previsioni normative, alla sussistenza di due presupposti: che si sia in presenza di “inizio” di opere senza titolo e che le stesse ricadano in zone assoggettate a vincolo di inedificabilità assoluta e non relativa, come nel caso dato.
Ed invero, a differenza di quanto come innanzi sostenuto dalla Rizzo, “alla luce della disciplina vigente e della consolidata giurisprudenza formatasi sul testo normativo antecedente, l'art. 27 del t.u. dell'edilizia (ex art. 7 l. n. 47 del 1985) è applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta” (così, ex multis, da ultimo Tar Campania, questa sesta sezione, sentenza n. 5804 del 14.12.2011; n. 2382 del 28.04.2011; n. 1636 del 23.03.2011; n. 2814 del 06.05.2010; n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010); e ciò avuto conto, quanto alla disciplina vigente, che la modifica operata al testo della norma ad opera dell’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269 ha in particolare svalutato proprio il presupposto dello “stato iniziale dei lavori”, essendo stata ora espressamente prevista la possibilità di ricorrere alla demolizione ad horas quando (si) accerti “l'inizio o l'esecuzione di opere” (cfr. Tar Campania, sezione terza, 11.03.2009, n. 1378, ai cui più ampi contenuti argomentativi può rinviarsi).
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Migliore sorte non può subire il secondo mezzo volto a contestare la violazione della medesima normativa nell’assunto che la sanzione demolitoria è stata comminata senza operare alcuna verifica in ordine alla sussistenza o meno del “danno ambientale”, con quanto a conseguirne anche in ordine ad eventuali diversificazioni della sanzione.
Anche qui il Collegio non ha ragioni per discostarsi dal costante orientamento della Sezione, secondo cui l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è “in re ipsa” e non esige ulteriori specificazioni oltre quelle del ricadere l’intervento -realizzato senza titoli- in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, poiché “la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali (cfr. C. Cost. ord.za 12/20.12.2007 nr. 439, nonché C. Cost. 07.11.2007 nr. 367 sul valore primario ed assoluto del paesaggio) elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa” (così Tar Campania, questa sesta sezione, sentenza 15.03.2010, n. 1464 e, ancora richiamando la prima, n. 2076 del 21.04.2010, n. 24015 del 12.11.2010, n. 5804 del 14.12.2011 cit.; n. 1636 del 23.03.2011; n. 2814 del 06.05.2010; n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
E tanto a tacere che il principio (secondo cui “l’interesse pubblico alla demolizione delle opere realizzate senza titolo è in re ipsa e non abbisogna di alcun altra valutazione sul punto”) è affermato anche in via generale, ossia senza far specifica leva sui valori paesaggistici (così, ex multis, Cons. Stato, sez. quinta, 11.01.2011, n. 79 e 07.09.2009, n. 5229; sezione quarta, 31.08.2010, n. 3955, 01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007, n. 6344; Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 5200 del 09.11.2011, n. 2382 del 28.04.2011, nn. 2126, 2128, 2129 del 13.04.2011, n. 1338 dell'08.03.2011, n. 160 del 14.01.2011, n. 24017 del 12.11.2010, n. 17238 del 26.08.2010, n. 16996 del 27.07.2010 e n. 2812 del 06.05.2010; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.02.2011, n. 240) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.05.2012 n. 2291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADeve affermarsi la necessità di premunirsi del permesso di costruire, o di far luogo a DIA alternativa, in presenza di soppalchi di dimensioni non modeste comportanti un incremento di superfici dell’immobile e quindi anche un ulteriore carico urbanistico.
L'esecuzione di soppalchi nella ristrutturazione interna di un edificio, pure se non realizzi un mutamento di destinazione d'uso, costituisce opera che richiede il permesso a costruire o, in alternativa, la denuncia d'inizio di attività, poiché comporta modifica delle superfici interne, la quale, a norma dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U. dell'edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) è necessaria e sufficiente a far sorgere tale obbligo, indipendentemente, quindi, da una contemporanea modifica della sagoma o del volume.
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Nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve effettuarsi una valutazione globale delle stesse atteso che “la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione”, ovvero che, nel caso in cui un'opera consista nella ristrutturazione di un immobile effettuata tramite la realizzazione di “corposi interventi edili, essa non è scomponibile in distinte fasi cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione, ma va valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al regime concessorio".
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Ove gli interventi ricadano in zona assoggettata a vicolo paesaggistico, stante l’alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004), gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ex combinato disposto fra art. 146 e successivo art. 167, commi 4 e 5 del medesimo decreto, che esclude sanatorie per interventi non qualificabili come manutentivi o che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi.

Quanto al soppalco ed annessi, rispetto al quale si sostiene la non necessità del permesso di costruire non incidendo lo stesso sulla sagoma e sui prospetti della costruzione, il Collegio non ha ragione di discostarsi dai precedenti della Sezione e, segnatamente, dalle ampie argomentazioni e conclusioni contenute nella sentenza n. 908 del 22.02.2011, cui può per brevità rinviarsi, qui solo ricordandosi che, per prevalente indirizzo del giudice amministrativo e di quello penale, deve invece affermarsi la necessità di premunirsi del permesso di costruire, o di far luogo a DIA alternativa, in presenza di soppalchi di dimensioni non modeste comportanti un incremento di superfici dell’immobile, come nella fattispecie data si trae visivamente dalla stessa documentazione fotografica versata in atti dalla Rizzo, e quindi anche un ulteriore carico urbanistico.
Conclusione, questa, cui non può esser opposta la legislazione regionale campana (l’art. 2 della legge regionale della Campania 28.11.2001, n. 19, qui pure invocato), come sostenuto da Cass. penale, sez. III, 22.09.2006, n. 37705, che, all’esito di una compiuta ricostruzione della normativa statale e regionale, ha fissato il principio di diritto, dalla Sezione già condiviso in seno alla cennata pronuncia n. 908/2011, secondo cui "l'esecuzione di soppalchi nella ristrutturazione interna di un edificio, pure se non realizzi un mutamento di destinazione d'uso, costituisce opera che richiede il permesso a costruire o, in alternativa, la denuncia d'inizio di attività, poiché comporta modifica delle superfici interne, la quale, a norma dell'art. 10, comma 1, lett. c), T.U. dell'edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) è necessaria e sufficiente a far sorgere tale obbligo, indipendentemente, quindi, da una contemporanea modifica della sagoma o del volume.
Tale disciplina è applicabile pure in presenza della disposizione dell'art. 2 L.R. Campania, che dichiara sufficiente la semplice denuncia d'inizio attività in ipotesi di opere interne di singole unità immobiliari che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile, risultando la corrispondente disposizione della legislazione statale richiamata (l. n. 662 del 1996, art. 2, comma 60) abrogata dall'art. 36, comma 2, lett. h), dello stesso T.U.
”.

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Quanto, poi, all’asserita modesta entità delle restanti opere, come detto prive di titolo (recte: di titoli) abilitativo (i) per stessa ammissione attorea, va ancora richiamato il condiviso orientamento della Sezione secondo cui nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, come qui accade, deve effettuarsi una valutazione globale delle stesse atteso che “la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione” (cfr. in tali sensi, Tar Campania, Napoli, questa sezione sesta, sentenze n. 1114 del 05.03.2012; n. 26787 del 03.12.2010; 16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010, n. 1155; 09.11.2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 11.03.2010, n. 584), ovvero che, nel caso in cui un'opera consista nella ristrutturazione di un immobile effettuata tramite la realizzazione di “corposi interventi edili, essa non è scomponibile in distinte fasi cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione, ma va valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al regime concessorio” (così la giurisprudenza sopra riportata e così già Tar Puglia, Bari, sezione seconda, 16.07.2001, n. 2955).
Ed ancora deve ricordarsi che ove gli interventi ricadano in zona assoggettata a vicolo paesaggistico, stante l’alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004), gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ex combinato disposto fra art. 146 e successivo art. 167, commi 4 e 5 del medesimo decreto, che esclude sanatorie per interventi non qualificabili come manutentivi o che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi (Tar Campania, questa sesta sezione, sentenza n. 1114 del 05.03.2012 cit.; n. 26787 del 03.12.2010 cit.; n. 1973 del 14.04.2010) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.05.2012 n. 2291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl Comune considera la presenza dei cani nelle aree verdi un rischio di natura igienica per la salute dei cittadini, oltre che un problema per il decoro della cittadina a causa delle deiezioni degli animali, non raccolte dai proprietari. Pertanto il Comune si limita ad affermare che la presenza degli animali potrebbe avere conseguenze dannose per la salubrità dei cittadini.
Tuttavia, non essendovi dati o accertamenti medico-veterinari a supportare la decisione del comune di vietare l'accesso dei cani alle aree verdi, tale ordinanza appare viziata da eccesso di potere per carenza di adeguata istruttoria.
Pertanto se il rischio per la salute pubblica, come sembra emergere dalla premessa dell'ordinanza, è relativo alla mancata raccolta delle deiezioni dei cani da parte dei proprietari, il Sindaco, anziché vietare l'ingresso dei cani nelle aree verdi, avrebbe potuto potenziare il controllo da parte della polizia municipale, sanzionando i trasgressori dell'obbligo predetto.
Conseguentemente, è illegittima e va annullata l'ordinanza limitatamente alla statuizione che "vieta l'accesso ai cani anche se al guinzaglio in tutte le aree verdi pubbliche".

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 4 del 21.04.2011, in relazione al punto 4 che "vieta l'accesso ai cani anche se al guinzaglio in tutte le aree verdi pubbliche".
...
Il ricorso è fondato.
Dal testo dell'ordinanza impugnata si evince che il Comune di Crodo considera la presenza dei cani nelle aree verdi un rischio di natura igienica per la salute dei cittadini, oltre che un problema per il decoro della cittadina a causa delle deiezioni degli animali, non raccolte dai proprietari.
Pertanto il Comune si limita ad affermare che la presenza degli animali potrebbe avere conseguenze dannose per la salubrità dei cittadini.
Non essendovi dati o accertamenti medico-veterinari a supportare la decisione del comune di vietare l'accesso dei cani alle aree verdi, tale ordinanza appare viziata da eccesso di potere per carenza di adeguata istruttoria.
Dall'esame degli atti di causa non è dato rinvenire, infatti, idonea istruttoria volta a sostenere la decisione di adottare un'ordinanza quale quella impugnata.
L'esercizio del potere sindacale non può prescindere dalla sussistenza di una situazione di effettivo e concreto pericolo per la salute pubblica, la quale non sia fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva, debitamente motivata a seguito di approfondita istruttoria.
L'unico obbligo imposto dalla legge nella conduzione dei cani è quello di condurli al guinzaglio con l'obbligo di idonea museruola, quando si trovano nelle vie o in altri luoghi pubblici ( art. 83 D.P.R. n. 320 del 1954).
Pertanto se il rischio per la salute pubblica, come sembra emergere dalla premessa dell'ordinanza, è relativo alla mancata raccolta delle deiezioni dei cani da parte dei proprietari, il Sindaco, anziché vietare l'ingresso dei cani nelle aree verdi, avrebbe potuto potenziare il controllo da parte della polizia municipale, sanzionando i trasgressori dell'obbligo predetto.
Il ricorso va, pertanto accolto e va annullata l'ordinanza n. 4 del 21.04.2011, limitatamente alla statuizione di cui al punto 4 che "vieta l'accesso ai cani anche se al guinzaglio in tutte le aree verdi pubbliche" (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 18.05.2012 n. 593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: J. Cortinovis, Semplificazione amministrativa per gli impianti di telecomunicazione: D.Lgs. n. 259/2003 e SCIA.
Con sentenza 18.05.2012 n. 580 la Sez. I del TAR Piemonte si è occupata del tema della sostituzione, ad opera della Legge n. 122 del 2010, della denunzia di inizio attività, prevista nel Codice delle comunicazioni elettroniche (D.Lgs. n. 259/2003) relativamente ad alcune tipologie di impianti di telefonia, con la segnalazione certificata di inizio attività.
La vicenda trae origine dal deposito, da parte di un Operatore, di una DIA ai sensi dell'art. 87-bis del D.Lgs. n. 259/2003 per l'installazione di un impianto per la trasmissione di segnale con tecnologia UMTS su preesistente infrastruttura di telecomunicazioni. Il Dirigente competente, tuttavia, comunicava all'Operatore che, a seguito dell'avvenuta sostituzione della DIA ad opera della SCIA, la denuncia presentata non sarebbe potuta esser presa in considerazione, non senza considerare che, trattandosi di impianto con potenza in antenna superiore a 20 watt, sarebbe stato necessario richiedere un'autorizzazione ai sensi dell’art. 87 del D.Lgs. n. 259/2003.
Con la citata pronuncia, il TAR Piemonte ha evidenziato come il Legislatore, nell’ottica della semplificazione delle procedure finalizzate al completamento della rete di banda larga mobile, abbia introdotto nel Codice delle comunicazioni elettroniche, relativamente ad alcune tipologie di impianti, la possibilità di assentire gli impianti mediante DIA, indipendentemente dalla potenza sviluppata in antenna. Se ne deve dedurre, conseguentemente, l'assentibilità a mezzo di DIA per tutti gli impianti che utilizzano tecnologia UMTS o tecnologia derivata, nonché tutti gli impianti che si avvalgono di infrastrutture esistenti.
In relazione al rapporto tra la DIA, contemplata del D.Lgs. n. 259/2003 e la SCIA, introdotta dalla L. n. 122/2010, il Collegio ha invece sottolineato di non aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la disciplina contenuta nel codice delle comunicazioni elettroniche costituirebbe una normativa speciale e compiuta, nei confronti della quale la SCIA non troverebbe applicazione. Sottolinea infatti il Collegio come, la L. n. 122/2010, pubblicata il 30.07.2010 ed entrata in vigore il giorno successivo, nel convertire in legge il D.L. n. 78/2010, abbia previsto che la disciplina della SCIA vada a sostituire "in ogni normativa statale e regionale" la disciplina della DIA, senza possibili ritagli di spazi di sopravvivenza della DIA se non laddove espressamente contemplati. Neppure l'utilizzo dell'espressione "denuncia di inizio attività", in luogo a "dichiarazione di inizio attività", nel Codice delle comunicazioni elettroniche può portare alla conclusione che tale "denuncia" (DIA) non sia stata sostituita dalla SCIA, trattandosi in tal senso di espressioni equivalenti.
In conclusione, ritiene il Collegio che la sostituzione della SCIA alla DIA non si pone in contrasto con il processo di semplificazione voluto dal Legislatore per gli impianti di telecomunicazione. Se é vero che la SCIA sembra imporre all’interessato l’onere di allegare alla domanda una documentazione più articolata, si deve tuttavia rilevare che si tratta pur sempre di documentazione nella disponibilità della parte (autocertificazioni, atti di notorietà), alla quale si accompagna la possibilità per la stessa di dare immediato inizio ai lavori (link a http://studiospallino.blogspot.it).

APPALTI SERVIZI - INCARICHI PROFESSIONALILa legittimazione a ricorrere e l'interesse a ricorrere si radicano in capo ad un soggetto, nel caso di procedura negoziata, solo perché imprenditore operante nel settore interessato, senza che occorra che abbia presentato apposita domanda di partecipazione alla gara.
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L’avvenuta esecuzione integrale della prestazione esclude qualsiasi interesse del ricorrente all’annullamento degli atti di gara.
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La scelta del contraente per l'affidamento di un incarico per lo svolgimento di una prestazione d'opera intellettuale (art. 2230 cod. civ.), a seguito di una gara formale o informale, o anche per trattativa privata, è atto di gestione, privo di qualsiasi contenuto di indirizzo per gli uffici. Si risolve, infatti, nella individuazione del soggetto o dei soggetti che appaiano più quotati, secondo regole obiettive e prefissate, per il conseguimento dei fini della P.A.
L'attività di indirizzo, riservata agli organi elettivi o politici del Comune, si risolve, invece, nella fissazione delle linee generali da seguire e degli scopi da perseguire con l'attività di gestione. Non rientra, perciò, in questa attribuzione, la scelta di un contraente qualsiasi dell'ente. In questo caso, la scelta spetta ai dirigenti, secondo l'esplicito disposto dell'art. 107 del T.U. n. 267/2000 citato, o ad una commissione composta da soggetti aventi adeguata esperienza professionale per condurre una selezione ispirata al soddisfacimento di siffatte esigenze tecniche.
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La scelta dei soggetti da invitare alla gara, effettuata dall’amministrazione attraverso l’utilizzo dell’albo degli avvocati di Milano, risponde a criteri di trasparenza e di proporzionalità rispetto all’oggetto della gara in quanto la professionalità richiesta in via principale era quella di avvocato. Non sussistendo infatti sul mercato, per i noti limiti all’esercizio della professione legale in forma societaria, solo da poco in fase di superamento, figure professionali complesse in grado di soddisfare contemporaneamente requisiti legali e tecnici, l’amministrazione ha correttamente fatto una scelta nell’ambito dei professionisti ai quali era richiesta la prestazione principale, rimanendo a loro carico il compito di trovare le modalità organizzative volte ad associare altri tipi di professionisti o imprese.
A ciò si aggiunge che la scelta dell’amministrazione di assoggettare gli appalti dei servizi legali in questione alla disciplina degli artt. 20 e 27 del Codice degli appalti, in quanto rientranti nell'allegato 2B del D.Lgs. n. 163/2006, esclude la possibilità di assoggettarli alla disciplina degli altri contratti di lavoro autonomo di alta professionalità prevista dall’art. 7, comma 6 e ss. del D. Lgs. 165/2001.
Infatti il Codice degli appalti detta una disciplina esaustiva della materia.
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E' legittima la scelta della P.A. di non prendere in considerazione l’offerta di una ditta del settore, non invitata ad una procedura semplificata ed accelerata di cottimo fiduciario ex art. 125, comma 11, del D.Lgs. n. 163 del 2006, ma che ha presentato comunque l’offerta, ove sia stata motivata con riferimento al fatto che -nonostante la partecipazione di un solo concorrente dei cinque formalmente invitati- la ditta interessata sia stata più volte invitata in passato a procedure di cottimo fiduciario, e, in un caso, sia risultata aggiudicataria.
Analoghe considerazioni valgono per il caso in questione, avendo il ricorrente già fruito di plurimi incarichi senza gara, ed in mancanza di prova del fatto che il ricorrente fosse l’unico in grado di fornire il servizio richiesto. L’amministrazione ha quindi correttamente applicato principi di parità di trattamento e di concorrenza che hanno permesso ad altri legali, aventi gli stessi titoli del ricorrente, di instaurare una collaborazione con il Comune in una materia particolarmente complessa come la redazione di atti di gara e di costituzione di società.
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L'art. 1, comma 67, della Legge n. 266/2005, che ha introdotto il contributo a favore dell'Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici (poi ribadito dall’art. 6, comma 1, del D.Lgs. n. 163/2006 e dalle successive deliberazioni dell’Autorità di vigilanza in data 10/01/2007 e 24.01.2008), tutela un interesse erariale a contenuto economico-finanziario, connesso alle esigenze di copertura delle spese (generali e di funzionamento) dell’Autorità di vigilanza, e traduce tale interesse in una nuova imposizione di carattere fiscale a carico delle imprese interessate, mediante la pretesa sostanziale all’ottenimento del pagamento a pena di esclusione dalla gara.
La previsione della medesima norma, viceversa, non si traduce né può tradursi, nella previsione di filtri formali insuscettibili di regolarizzazione formale e quindi capaci di causare l’esclusione di imprese che comunque adempiono al previsto onere contributivo e che sono inoltre in possesso dei prescritti requisiti economici e professionali, e che consentirebbero dunque di estendere la competizione per la scelta della migliore offerta.
FATTO e DIRITTO
1. Il ricorrente, in qualità di affidatario (senza gara) di due precedenti incarichi di consulenza relativi alla costituzione della società mista concessionaria della linea 4 della metropolitana milanese, impugna gli atti della procedura di affidamento del servizio di consulenza legale relativo alla linea 4 della metropolitana indetta dal Comune per i seguenti motivi:
   A) incompetenza per violazione dell’art. 48 TUEL, art. 43 dello Statuto comunale, art. 13 del Regolamento comunale sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, in relazione ai contenuti del piano esecutivo di gestione 2009. A suo dire l’approvazione del bando avrebbe dovuto essere preceduta dalla previa approvazione da parte della Giunta comunale, in quanto il valore dell’appalto era costituito dall’intero ammontare della spesa e non dalla sola parte a carico del Comune;
   B) violazione dell’art. 7 del D.Lgs. 165/2001, dell’art. 3, comma 56, della L. 244/2007 e dell’art. 31 del Regolamento comunale, posto che non sarebbe stata adeguatamente vagliata la mancanza di adeguate professionalità interne, sia sotto il profilo legale che sotto quello ingegneristico;
   C) violazione dell’art. 27, comma 10 del Codice dei contratti e dell’art. 51, comma 5, del regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi ed eccesso di potere nella selezione dei professionisti invitati alla procedura negoziata in quanto non sarebbero stati invitati soggetti in potenziale possesso dei requisiti per partecipare alla selezione;
   D) illegittimità della preselezione degli invitati alla procedura negoziata, atteso che non sarebbe stato invitato il ricorrente, che pur si era già occupato della costituzione della società in questione. Il mancato invito del ricorrente, in particolare, avrebbe violato i principi di economicità, imparzialità, trasparenza, buona fede e concorrenzialità;
   E) violazione del principio di trasparenza non avendo avuto il ricorrente alcuna notizia dell’avvio della procedura;
   F) violazione di legge ed eccesso di potere per incoerenza tra l’oggetto della prestazione e le esigenze dell’amministrazione, nonché tra il criterio di preselezione e quello di valutazione comparativa delle offerte;
   G) violazione dell’art. 7, comma 6, del D.Lgs. 165/2001 in quanto la gara avrebbe per oggetto un contratto aperto nell’oggetto; indeterminatezza della durata dell’incarico; violazione dell’obbligo di predeterminazione del compenso; contraddizione con precedenti atti nella previsione della clausola secondo la quale la durata dell’incarico è “di 12 mesi o comunque fino all’aggiudicazione”;
   H) eccesso di potere per travisamento dei fatti nella determinazione dell’oggetto della gara;
   I) violazione dell’art. 1, comma 67, della L. 23/12/2005, n. 266 e della deliberazione dell’A.V.CC.PP., avendo il Comune permesso all’aggiudicatario di regolarizzare il pagamento della tassa dovuta all’Autorità di vigilanza, benché il mancato pagamento fosse previsto come causa di esclusione dalla gara.
Lo stesso ha, infine, chiesto il risarcimento dei danni per perdita di chance nella misura del 50% del compenso contrattuale.
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E' indirizzo prevalente nella giurisprudenza amministrativa che la legittimazione a ricorrere e l'interesse a ricorrere si radicano in capo ad un soggetto, nel caso di procedura negoziata, solo perché imprenditore operante nel settore interessato (Cons. Stato, sez. V, 18.12.2002, n. 7055; Ad. plen. 07.04.2011, n. 4), senza che occorra che abbia presentato apposita domanda di partecipazione alla gara (cfr. in termini Cons. Stato V 10.09.2009, n. 5426; 31.12.2007, n. 6797; 27.10.2005, n. 5996; 04.05.2004, n. 2696; Cons. Stato, III, 19.04.2011, n. 2404).
4. Venendo all’esame delle domande proposte occorre limitare l’oggetto del giudizio all’accertamento dell'illegittimità dell'atto ai soli fini risarcitori in quanto l’avvenuta esecuzione integrale della prestazione esclude qualsiasi interesse del ricorrente all’annullamento degli atti di gara.
5. Nel merito va respinto il primo motivo, in quanto la mancanza dell’atto di indirizzo della Giunta, previsto dall’art. 43 dello Statuto comunale per i contratti di valore superiore alla soglia comunitaria, non ha inciso sulla legittimazione del dirigente ad adottare i suddetti atti.
In materia la giurisprudenza ha affermato che “la scelta del contraente per l'affidamento di un incarico per lo svolgimento di una prestazione d'opera intellettuale (art. 2230 cod. civ.), a seguito di una gara formale o informale, o anche per trattativa privata, è atto di gestione, privo di qualsiasi contenuto di indirizzo per gli uffici. Si risolve, infatti, nella individuazione del soggetto o dei soggetti che appaiano più quotati, secondo regole obiettive e prefissate, per il conseguimento dei fini della P.A.
L'attività di indirizzo, riservata agli organi elettivi o politici del Comune, si risolve, invece, nella fissazione delle linee generali da seguire e degli scopi da perseguire con l'attività di gestione. Non rientra, perciò, in questa attribuzione, la scelta di un contraente qualsiasi dell'ente. In questo caso, la scelta spetta ai dirigenti, secondo l'esplicito disposto dell'art. 107 del T.U. n. 267/2000 citato, o ad una commissione composta da soggetti aventi adeguata esperienza professionale per condurre una selezione ispirata al soddisfacimento di siffatte esigenze tecniche
” (Cons. Stato, sez. V, 09.09.2005, n. 4654).
Nel caso in questione la mancata sottoposizione dell’atto di indizione della gara all’esame della Giunta si giustifica correttamente con la previsione di una spesa a carico del Comune inferiore alla soglia comunitaria, indipendentemente dal fatto che una parte del corrispettivo fosse a carico del socio privato della costituenda società mista.
Infatti se è vero, come affermato dal ricorrente, che il Comune in questo modo ha promesso l’obbligazione o il fatto del terzo, è anche vero che in caso di inadempimento del terzo la prestazione non resta a carico del promittente, ma sorge a suo carico esclusivamente un’obbligazione indennitaria (art. 1381 c.c.). Ne consegue che non esisteva un’obbligazione giuridicamente perfezionata a carico del Comune per l’intero ammontare del valore dell’incarico e, di conseguenza, non sussistevano i presupposti per l’assunzione di un impegno di spesa ai sensi dell’art. 183 del D.Lgs. 267/2000 per l’intera somma e neppure quelli per la sottoposizione dell’atto all’indirizzo della Giunta.
A ciò si aggiunge che l’atto di indirizzo, quale atto integrativo della competenza dirigenziale, è ampiamente discrezionale, se rettamente inteso come atto volto a fissare le linee generali da seguire e gli scopi da perseguire, con la conseguenza che, da un lato, non dà titolo al risarcimento del danno in quanto non è possibile stabilire, neppure in forma probabilistica, quale sarebbero state le possibilità di un esito diverso; dall’altro la sua mancanza si risolve in un vizio meramente formale, che può essere sanato mediante ratifica.
6. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile, essendo evidente che colui che contesta di non essere stato invitato alla gara non ha interesse a mettere in dubbio la necessità dell’affidamento all’esterno del servizio. Infatti nessun vantaggio può derivargli dall’accertamento che l’amministrazione avrebbe potuto trovare le competenze tecniche necessarie allo svolgimento dell’incarico al proprio interno.
7. Il terzo motivo è egualmente infondato, non essendo possibile desumere dal semplice fatto che abbia presentata domanda uno solo degli invitati, che gli inviti spediti dal Comune fossero finalizzati a favorire solo l’aggiudicatario.
Infatti la scelta dei soggetti da invitare alla gara, effettuata dall’amministrazione attraverso l’utilizzo dell’albo degli avvocati di Milano, risponde a criteri di trasparenza e di proporzionalità rispetto all’oggetto della gara in quanto la professionalità richiesta in via principale era quella di avvocato. Non sussistendo infatti sul mercato, per i noti limiti all’esercizio della professione legale in forma societaria, solo da poco in fase di superamento, figure professionali complesse in grado di soddisfare contemporaneamente requisiti legali e tecnici, l’amministrazione ha correttamente fatto una scelta nell’ambito dei professionisti ai quali era richiesta la prestazione principale, rimanendo a loro carico il compito di trovare le modalità organizzative volte ad associare altri tipi di professionisti o imprese.
A ciò si aggiunge che, a differenza di quanto affermato dal ricorrente, la scelta dell’amministrazione, non contestata dal ricorrente, di assoggettare gli appalti dei servizi legali in questione alla disciplina degli artt. 20 e 27 del Codice degli appalti, in quanto rientranti nell'allegato 2B del D.Lgs. n. 163/2006, esclude la possibilità di assoggettarli alla disciplina degli altri contratti di lavoro autonomo di alta professionalità prevista dall’art. 7, comma 6 e ss. del D. Lgs. 165/2001.
Infatti il Codice degli appalti detta una disciplina esaustiva della materia (vedi parere della Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie, del 14.03.2008 "Linee di indirizzo e criteri interpretativi dell'art. 3, commi 54-57 della L. 244/2007, in materia di Regolamenti degli Enti Locali per l'affidamento di incarichi di collaborazione, studio, ricerca e consulenza").
8. Il quarto motivo va respinto, essendo l’amministrazione tenuta, ai sensi dell’art. 27 del Codice, ad osservare il principio di rotazione nell’assegnazione degli incarichi di cui all’allegato IIB al Codice.
In materia la giurisprudenza ha affermato che è legittima la scelta della P.A. di non prendere in considerazione l’offerta di una ditta del settore, non invitata ad una procedura semplificata ed accelerata di cottimo fiduciario ex art. 125, comma 11, del D.Lgs. n. 163 del 2006, ma che ha presentato comunque l’offerta, ove sia stata motivata con riferimento al fatto che -nonostante la partecipazione di un solo concorrente dei cinque formalmente invitati- la ditta interessata sia stata più volte invitata in passato a procedure di cottimo fiduciario, e, in un caso, sia risultata aggiudicataria (Tar Lombardia, Brescia, II, 21.01.2011 n. 137).
Analoghe considerazioni valgono per il caso in questione, avendo il ricorrente già fruito di plurimi incarichi senza gara, ed in mancanza di prova del fatto che il ricorrente fosse l’unico in grado di fornire il servizio richiesto. L’amministrazione ha quindi correttamente applicato principi di parità di trattamento e di concorrenza che hanno permesso ad altri legali, aventi gli stessi titoli del ricorrente, di instaurare una collaborazione con il Comune in una materia particolarmente complessa come la redazione di atti di gara e di costituzione di società.
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13.
Il nono motivo di ricorso va respinto in quanto la giurisprudenza (TAR LAZIO, Roma, Sez. II-bis - 07/05/2009, n. 4893) ha chiarito che l'art. 1, comma 67, della Legge n. 266/2005, che ha introdotto il contributo a favore dell'Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici (poi ribadito dall’art. 6, comma 1, del D.Lgs. n. 163/2006 e dalle successive deliberazioni dell’Autorità di vigilanza in data 10/01/2007 e 24.01.2008), tutela un interesse erariale a contenuto economico-finanziario, connesso alle esigenze di copertura delle spese (generali e di funzionamento) dell’Autorità di vigilanza, e traduce tale interesse in una nuova imposizione di carattere fiscale a carico delle imprese interessate, mediante la pretesa sostanziale all’ottenimento del pagamento a pena di esclusione dalla gara.
La previsione della medesima norma, viceversa, non si traduce né può tradursi, nella previsione di filtri formali insuscettibili di regolarizzazione formale e quindi capaci di causare l’esclusione di imprese che comunque adempiono al previsto onere contributivo e che sono inoltre in possesso dei prescritti requisiti economici e professionali, e che consentirebbero dunque di estendere la competizione per la scelta della migliore offerta (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.05.2012 n. 1366 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’eventuale precarietà (mobilità) di un manufatto che rende non necessaria la concessione edilizia dipende non già dal suo sistema di ancoraggio, ma dalla sua inidoneità a determinare una stabile trasformazione del territorio.
Il carattere di precarietà va quindi comunque escluso quando trattasi di struttura destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo.
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Per volumi tecnici, ai fini dell'esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, devono intendersi i locali completamente privi di una autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinati a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa ed, in particolare, quei volumi strettamente necessari a contenere ed a consentire l'ubicazione di quegli impianti tecnici indispensabili per assicurare il comfort degli edifici, che non possano, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, essere inglobati entro il corpo della costruzione realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche.

Infondata è la censura secondo cui il manufatto oggetto del provvedimento non sarebbe una veranda con struttura infissa su di una platea di cemento ma consisterebbe semplicemente in tre pareti mobili su ruote usate per il riparo di attrezzi e piante fiorite durante l’inverno, costituendo quindi un mero volume tecnico.
La censura non è supportata da alcuna evidenza probatoria certa e, anzi si pone in contrasto con il verbale di accertamento dell’abuso del 24.12..2009 che, per essere stato redatto da pubblico ufficiale, fa piena prova sino a querela di falso.
Inoltre, le foto allegate dal ricorrente non mostrano in modo esauriente l’ancoraggio del manufatto al suolo ed, in ogni caso, l’affermata amovibilità dell’opera è irrilevante al fine di escludere l’esistenza di un’opera di trasformazione urbanistica necessitante di titolo abilitativo edilizio avendo, fra l’altro, la giurisprudenza precisato che ciò che rileva ai fini della trasformazione urbanistica è la stabilità della destinazione dell’opera realizzata.
L’opera in questione pare destinata ad uno stabile e prolungato utilizzo e non a fini strettamente temporanei.
L’eventuale precarietà (mobilità) di un manufatto che rende non necessaria la concessione edilizia dipende non già dal suo sistema di ancoraggio, ma dalla sua inidoneità a determinare una stabile trasformazione del territorio.
Il carattere di precarietà va quindi comunque escluso quando trattasi di struttura destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo (Consiglio Stato, Sez. V, 30.10.2000, n. 5828; TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 18.02.2005, n. 1182; TAR Lazio–Roma Sez. II-ter, 05.04.2007, n. 2986).
Il manufatto realizzato poi, consistente in una veranda in ferro e vetro, coperto da lamiera zincata posto su una platea di cemento armato alta circa 30 centimetri, esulta completamente dalla nozione di volume tecnico.
Secondo quanto chiarito da giurisprudenza, difatti, per volumi tecnici, ai fini dell'esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, devono intendersi i locali completamente privi di una autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinati a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa (Consiglio Stato, sez. IV, 04.05.2010, n. 2565; TAR Sicilia-Palermo Sez. I - sentenza 09.07.2007, n. 1749; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 04.04.2002, n. 1337) ed, in particolare, quei volumi strettamente necessari a contenere ed a consentire l'ubicazione di quegli impianti tecnici indispensabili per assicurare il comfort degli edifici, che non possano, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, essere inglobati entro il corpo della costruzione realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche (TAR Puglia-Lecce, Sez. III - sentenza 15.01.2005 n. 143; TAR Puglia-Bari sentenza n. 2843/2004).
Nessuna delle caratteristiche indicate presenta il manufatto in questione, avendo a una piena indipendenza funzionale, non essendo destinato a contenere impianti e presentando dimensioni incompatibili con l’affermata natura di volume tecnico (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa.
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.
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La circostanza indicata da parte ricorrente che il manufatto abusivo non sarebbe visibile dall’esterno non comporta l’inapplicabilità delle sanzioni edilizie che sono comminate per l’assenza del titolo edilizio, né rende necessaria, per la sanzione demolitoria, una specifica motivazione di interesse pubblico ponendosi anzi, a causa della maggiore difficoltà per l’autorità di individuazione dell’abuso, come elemento ostativo al formarsi di un affidamento in capo al privato, poiché l’inerzia dell’Amministrazione ben può ragionevolmente imputarsi alla semplice maggiore difficoltà nel venire a conoscenza dell’abuso.

Allo stesso modo infondata è la censura di carenza di motivazione perché l’amministrazione non avrebbe indicato le ragioni di interesse pubblico all’adozione della misura demolitoria.
Ciò, sostiene il ricorrente, anche tenuto conto del fatto che dalla realizzazione degli abusi alla comminazione delle sanzioni fosse trascorso un notevole lasso di tempo e che l’opera sarebbe situata all’interno di un giardino privato e nascosta alla vista dall’esterno.
In tal senso, parte ricorrente richiama un filone giurisprudenziale secondo cui la repressione dell'abuso edilizio, disposta a distanza di tempo ragguardevole, richiede una puntuale motivazione sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi (per tutti Consiglio Stato, Sez. V, 29.05.2006, n. 3270; Consiglio Stato, Sez. V, 25.06.2002, n. 3443).
In punto di fatto, il Collegio rileva che parte ricorrente non ha dato affidabile prova della notevole risalenza del manufatto, facendo riferimento nel ricorso ad una relazione tecnica in realtà mai depositata, a fotografie non idonee ad attestare lo stato di risalenza e, infine, alla comparsa del manufatto in una planimetria del 1995 che si rivela di dubbia interpretazione.
In punto di diritto, in ogni caso, la risalenza del manufatto al 1995 (unica data per cui vi sarebbe un minimo di elemento fattuale probatorio) non appare comunque al Collegio tale da integrare gli estremi del passaggio di un notevole lasso di tempo ai fini della possibile applicazione di quel filone giurisprudenziale richiamato, dalla parte ricorrente, basato sull’ingenerarsi di una condizione di affidamento da parte del privato.
Sempre in punto di diritto poi, il Collegio ritiene, con argomentazione dirimente, di non dover comunque seguire l’orientamento giurisprudenziale suggerito dal ricorrente, a cui pure alcune volte questa sezione ha aderito (cfr TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9620 del; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 05.05.2009, n. 2357), a fronte dell’orientamento giurisprudenziale prevalente ormai volto in senso contrario e della rilevanza delle argomentazioni che depongono in tal senso.
La giurisprudenza più recente si è espressa, difatti, nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211; TAR Campania Napoli Sez. VIII, 09.06.2011, n. 3029; Cons. Stato Sez. V, 09.02.2010, n. 628) e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato Sez. VI, 11.05.2011, n.2781).
Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa (Cons. Stato Sez. IV, 15.09.2009, n. 5509).
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR Brescia, Sez. I, 22.02.2010, n. 860).
La circostanza, infine, indicata da parte ricorrente che il manufatto non sarebbe visibile dall’esterno non comporta l’inapplicabilità delle sanzioni edilizie che sono comminate per l’assenza del titolo edilizio, né rende necessaria, per la sanzione demolitoria, una specifica motivazione di interesse pubblico ponendosi anzi, a causa della maggiore difficoltà per l’autorità di individuazione dell’abuso, come elemento ostativo al formarsi di un affidamento in capo al privato, poiché l’inerzia dell’Amministrazione ben può ragionevolmente imputarsi alla semplice maggiore difficoltà nel venire a conoscenza dell’abuso (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.05.2012 n. 2251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl potere di cui il Comune dispone nell’approvazione di piani urbanistici è espressione di discrezionalità molto ampia, sindacabile nella presente sede di legittimità nei soli casi di esiti illogici o abnormi.
Ne segue, allora, che il ricorrente il quale alleghi che una siffatta illogicità sussiste abbia l’onere indicarla con precisione, spiegando in cosa essa consista, ovvero indicando con chiarezza in quali parti le scelte dell’amministrazione collidano con le regole tecniche comunemente accettate; non può invece pretendere di assolvere tale onere semplicemente contrapponendo alle scelte progettuali dell’amministrazione scelte proprie o di tecnici di propria fiducia.
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P
er il chiaro disposto dell’art. 13 della l. 07.08.1990 n. 241, le norme sulla partecipazione di cui agli artt. 7 e seguenti della stessa legge, e in particolare quella sull’avviso di avvio del procedimento, non si applicano ai procedimenti relativi ad atti “amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione”, fra i quali rientra senz’altro una modifica alle NTA.
In primo luogo, così come è ben noto –sul punto, per tutte come più recente C.d.S. sez. III 15.12.2009 n. 583- il potere di cui il Comune dispone nell’approvazione di piani urbanistici è espressione di discrezionalità molto ampia, sindacabile nella presente sede di legittimità nei soli casi di esiti illogici o abnormi.
Ne segue allora, con tutta evidenza, che il ricorrente il quale alleghi che una siffatta illogicità sussiste abbia l’onere indicarla con precisione, spiegando in cosa essa consista, ovvero indicando con chiarezza in quali parti le scelte dell’amministrazione collidano con le regole tecniche comunemente accettate; non può invece pretendere di assolvere tale onere semplicemente contrapponendo alle scelte progettuali dell’amministrazione scelte proprie o di tecnici di propria fiducia.
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In primo luogo, per il chiaro disposto dell’art. 13 della l. 07.08.1990 n. 241, le norme sulla partecipazione di cui agli artt. 7 e seguenti della stessa legge, e in particolare quella sull’avviso di avvio del procedimento, non si applicano ai procedimenti relativi ad atti “amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione”, fra i quali rientra senz’altro una modifica alle NTA. In secondo luogo, anche ammettendo che l’amministrazione avesse inteso inviare un avviso “praeter legem”, lo stesso secondo logica avrebbe dovuto precedere, e non seguire, così come avvenuto, l’atto di modifica da emanare.
Il motivo di ricorso è quindi infondato nel senso che la comunicazione in esame non ha alcun rapporto giuridico con l’atto impugnato, e non lo influenza né in positivo né in negativo, potendo al più costituire in fatto un modo attraverso il quali gli interessati ne sono venuto a conoscenza
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.05.2012 n. 833 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’elenco delle opere di urbanizzazione secondaria, tanto nel comma 8 dell’art. 16 T.U. quanto nell’art. 4 della l. 847/1964, non contiene alcun riferimento alle “strade”. Tale tipologia di opere, che peraltro secondo logica è del tutto essenziale per la vivibilità, e prima di essa per la stessa fisica accessibilità, di un qualsiasi quartiere, alla lettera non è poi contemplata in via generale nemmeno dall’elenco delle opere di urbanizzazione primaria, che si limita a includere le “strade residenziali”. Sembrerebbe allora che solo la classificazione di tale presunta tipologia particolare sia definita, mentre la classificazione delle altre strade potrebbe ritenersi libera. Una interpretazione sistematica ed una analisi della giurisprudenza edita e della prassi disponibile, peraltro, inducono a conclusioni diverse.
In primo luogo, si deve osservare che la tipologia delle “strade residenziali” non è in alcun modo definita in via generale dalle norme dell’ordinamento in materia, ed è in particolare sconosciuta all’art. 2 del d.lgs. 30.04.1992 n. 385, che le strade classifica in via generale, nonché all’art. 2 del regolamento attuativo D.P.R. 16.12.1992, n. 495. Un accenno è contenuto nell’art. 178 di tale regolamento, che annovera le “strade residenziali” fra quelle sulle quali possono essere posati i dossi rallentatori, ma ancora senza definirne in generale la tipologia. Non esattamente pertinente appare infine l’art. 135 del medesimo regolamento, nella parte in cui descrive il segnale 318, che indica propriamente non una “strada residenziale”, ma una “zona residenziale”, comunque solo ai fini di particolari restrizioni alla guida.
La tipologia stessa nemmeno è definita in via generale dalla giurisprudenza edita: un accenno in tal senso si trova soltanto in Cass. civ. sez. trib. 23.10.2003 n. 15948, che si pronuncia su una questione non strettamente urbanistica, ovvero sulla applicabilità dell’agevolazione fiscale prevista ai fini IVA per chi realizza opere di urbanizzazione, e definisce in tal senso le strade residenziali come tutte le strade realizzate in aree destinate ad accogliere insediamenti abitativi, anche se fuori dal centro urbano, eccettuandone soltanto le strade al servizio di aree industriali. E’ però chiaro che in tali termini le strade considerate dall’annullato comma 8 dell’art. 11 delle NTA di cui si ragiona sarebbero comunque opere di urbanizzazione primaria, così come ritenuto dal Comune nell’atto impugnato.
Significativa è poi la motivazione di C.d.S. sez. V 25.06.2007 n. 3635, per cui “Non si può ritenere… che le norme urbanistiche, nell'inserire le strade residenziali tra le opere di urbanizzazione primaria, abbiano fatto riferimento al solo manto stradale e, per quanto concerne specificamente i piani per l'edilizia pubblica, al solo manto stradale strettamente aderente agli immobili da realizzare (ovvero circostanti a questi) e, addirittura, senza collegamenti con la viabilità preesistente (quale quella… che permette la comunicazione con la vicina area lottizzata).” Delle strade in questione, quindi, si assume un concetto ampio, che sicuramente coincide con tutte le strade il cui tratto sia “incluso o prospiciente” una lottizzazione, avvalorando ancora una volta l’impostazione del Comune intimato.
Infine, altre decisioni, pur senza soffermarsi espressamente sul punto, comprendono senz’altro tutte le strade, senza distinguerle in alcun modo, fra le opere di urbanizzazione primaria.
Un orientamento simile si ritrova poi nella prassi di alcuni enti locali rintracciabile in rete, e da ritenere quindi fatto notorio: possono valere per tutti il parere 10.01.2011 prot. n. 599 del Servizio per gli affari istituzionali e il sistema delle autonomie locali della Regione Friuli, in cui, al fine di individuare le strade suscettibili di accogliere i citati dossi rallentatori, si dà atto della mancanza di una definizione generale e si indicano le “strade ricadenti in una particolare zona del territorio comunale, formalmente individuata come zona residenziale”, e quindi ancora si includono quelle contemplate nella norma per cui è causa.
Allo stesso modo, la Provincia di Lecce, nel proprio Servizio di assistenza agli enti locali, individua come strade residenziali tutte quelle “realizzate in funzione di un centro abitato costruito o costruendo“

Gli oneri di urbanizzazione, che l’art. 11 NTA disciplina nel Comune di Seriate, sono attualmente previsti a livello di legge nazionale dall’art. 16, comma 1, del più volte citato T.U. 380/2001, secondo il quale il rilascio del permesso di costruire “comporta la corresponsione di un contributo” commisurato, fra l’altro, appunto alla “incidenza degli oneri di urbanizzazione”; gli oneri stessi sono poi distinti, dai successivi commi 7, 7-bis e 8 dell’articolo, in oneri di urbanizzazione primaria, relativi a “strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato”, nonché a “cavedi multiservizi” e “cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazioni”, e oneri di urbanizzazione secondaria, relativi invece a “asili nido e scuole materne, scuole dell'obbligo nonché strutture e complessi per l'istruzione superiore all'obbligo, mercati di quartiere, delegazioni comunali, chiese e altri edifici religiosi, impianti sportivi di quartiere, aree verdi di quartiere, centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie”. Come suggerisce anche la comune logica, quindi, si tratta di contributi economici che l’ente locale richiede per poter realizzare tutte quelle attrezzature che rendono vivibile un quartiere, da quelle stimate necessarie per un livello minimo di benessere, coincidenti con le opere di urbanizzazione primaria, a quelle che invece ne completano e migliorano l’assetto in modo consono alle esigenze della vita moderna.
La disciplina del T.U. appena descritta non è una novità assoluta nel nostro ordinamento, dato che riproduce l’analogo disposto di norme precedenti, tuttora in vigore per la loro sfera di applicazione particolare. L’istituto degli oneri di urbanizzazione compare per la prima volta nell’art. 28 della l. 17.08.1942 n. 1150, inserito dall’art. 8 della l. 06.08.1967 n. 765, che prevede come necessaria, per lottizzare un terreno, ovvero per l’intervento di interesse degli odierni ricorrenti, l’autorizzazione comunale, subordinata alla stipula di una convenzione nella quale il lottizzante, fra l’altro, si assuma gli “oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria” nonché una “quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione” ovvero “necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi”, precisando che “la quota è determinata in proporzione all’entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni”. L’elenco delle opere di urbanizzazione, identico a quello dell’art. 16 T.U. citato, è poi contenuto nella norma dell’art. 4 della l. 29.09.1964 n. 847, cui l’art. 28 fa rinvio.
Essendo poi, come ben noto, l’urbanistica materia di competenza regionale, dell’istituto si occupa anche la relativa legislazione: per la Lombardia, in particolare, rileva qui l’art. 44 della pure citata l. 12/2005, secondo il quale sono oneri di urbanizzazione primaria quelli relativi “alle seguenti opere: strade, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, cavedi multiservizi e cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazioni, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato” (comma 3); sono invece oneri di urbanizzazione secondaria quelli relativi “alle seguenti opere: asili nido e scuole materne, scuole dell'obbligo e strutture e complessi per l'istruzione superiore all'obbligo, mercati di quartiere, presidi per la sicurezza pubblica, delegazioni comunali, chiese e altri edifici religiosi, impianti sportivi di quartiere, aree verdi di quartiere, centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie, cimiteri” (comma 4).
Ciò posto, la classificazione di un’opera e degli oneri ad essa relativi, nell’ambito della urbanizzazione primaria o secondaria ha una funzione non meramente classificatoria, dato che ne comporta un diverso trattamento in termini economici, come subito risulterà chiaro. Infatti, il concreto ammontare degli oneri in parola è ai sensi dell’art. 16 T.U. 380/2001 in conformità alla legislazione nazionale, che per quanto qui interessa, all’art. 44 l.r. 12/2005, attribuisce la competenza relativa ai Comuni. Gli stessi devono poi conformarsi alla legislazione nazionale di principio, e quindi, per le nuove lottizzazioni alla regola per cui le opere di urbanizzazione primaria sono per intero a carico del lottizzante, mentre quelle di urbanizzazione secondaria lo sono solo per una quota parte, mentre la residua grava sulle casse pubbliche.
Nel caso di specie, l’art. 11 delle NTA si conformava, e si conforma tuttora, a tale principio: al comma 6 dispone che il promotore del piano attuativo, ovvero dello strumento con cui si procede concretamente alla lottizzazione, “dovrà provvedere alla realizzazione di tutte le opere di urbanizzazione primaria… assumendo in proprio, senza diritto di rimborso o di rivalsa nei confronti del Comune, l’eventuale maggiore spese tra l’importo degli oneri di urbanizzazione primaria ed il costo delle opere medesime”; al comma 7 invece prevede che lo stesso promotore “dovrà farsi carico della realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria” solo per gli importi risultanti dalla relativa tabella ivi inserita. In tale contesto, è allora del tutto ovvio come l’art. 11, comma 8, delle NTA annullato rappresentasse una norma di favore per il privato, obbligato in tal senso ad accollarsi solo una parte del costo relativo alle strade ivi considerate. Si tratta allora di vedere se tale norma di favore fosse conforme a legge ovvero, così come ritenuto dal Comune, contraria alla stessa.
Il Comune, come si è detto in narrativa, si è espresso per la seconda ipotesi, sostenendo che la classificazione di strade fra le opere di urbanizzazione secondaria e non primaria sia contraria al riportato art. 44 della l.r. 12/2005, che fa rientrare in tale ultima categoria tutte le “strade”, senza restrizioni di sorta. E’ conclusione che il Collegio ritiene di condividere, in quanto conforme, come subito si illustrerà, anche alla descritta normativa nazionale.
Se si esamina la lettera delle norme nazionali in materia sopra citate, si osserva infatti che l’elenco delle opere di urbanizzazione secondaria, tanto nel comma 8 dell’art. 16 T.U. quanto nell’art. 4 della l. 847/1964, non contiene alcun riferimento alle “strade”. Tale tipologia di opere, che peraltro secondo logica è del tutto essenziale per la vivibilità, e prima di essa per la stessa fisica accessibilità, di un qualsiasi quartiere, alla lettera non è poi contemplata in via generale nemmeno dall’elenco delle opere di urbanizzazione primaria, che si limita a includere le “strade residenziali”. Sembrerebbe allora che solo la classificazione di tale presunta tipologia particolare sia definita, mentre la classificazione delle altre strade potrebbe ritenersi libera. Una interpretazione sistematica ed una analisi della giurisprudenza edita e della prassi disponibile, peraltro, inducono a conclusioni diverse.
In primo luogo, si deve osservare che la tipologia delle “strade residenziali” non è in alcun modo definita in via generale dalle norme dell’ordinamento in materia, ed è in particolare sconosciuta all’art. 2 del d.lgs. 30.04.1992 n. 385, che le strade classifica in via generale, nonché all’art. 2 del regolamento attuativo D.P.R. 16.12.1992, n. 495. Un accenno è contenuto nell’art. 178 di tale regolamento, che annovera le “strade residenziali” fra quelle sulle quali possono essere posati i dossi rallentatori, ma ancora senza definirne in generale la tipologia. Non esattamente pertinente appare infine l’art. 135 del medesimo regolamento, nella parte in cui descrive il segnale 318, che indica propriamente non una “strada residenziale”, ma una “zona residenziale”, comunque solo ai fini di particolari restrizioni alla guida.
La tipologia stessa nemmeno è definita in via generale dalla giurisprudenza edita: un accenno in tal senso si trova soltanto in Cass. civ. sez. trib. 23.10.2003 n. 15948, che si pronuncia su una questione non strettamente urbanistica, ovvero sulla applicabilità dell’agevolazione fiscale prevista ai fini IVA per chi realizza opere di urbanizzazione, e definisce in tal senso le strade residenziali come tutte le strade realizzate in aree destinate ad accogliere insediamenti abitativi, anche se fuori dal centro urbano, eccettuandone soltanto le strade al servizio di aree industriali. E’ però chiaro che in tali termini le strade considerate dall’annullato comma 8 dell’art. 11 delle NTA di cui si ragiona sarebbero comunque opere di urbanizzazione primaria, così come ritenuto dal Comune nell’atto impugnato.
Significativa è poi la motivazione di C.d.S. sez. V 25.06.2007 n. 3635, per cui “Non si può ritenere… che le norme urbanistiche, nell'inserire le strade residenziali tra le opere di urbanizzazione primaria, abbiano fatto riferimento al solo manto stradale e, per quanto concerne specificamente i piani per l'edilizia pubblica, al solo manto stradale strettamente aderente agli immobili da realizzare (ovvero circostanti a questi) e, addirittura, senza collegamenti con la viabilità preesistente (quale quella… che permette la comunicazione con la vicina area lottizzata).” Delle strade in questione, quindi, si assume un concetto ampio, che sicuramente coincide con tutte le strade il cui tratto sia “incluso o prospiciente” una lottizzazione, avvalorando ancora una volta l’impostazione del Comune intimato.
Infine, altre decisioni, pur senza soffermarsi espressamente sul punto, comprendono senz’altro tutte le strade, senza distinguerle in alcun modo, fra le opere di urbanizzazione primaria: così ad esempio TAR Sicilia Catania sez. III 08.04. 2010 n. 1076 e 12.04.2006 n. 565.
Un orientamento simile si ritrova poi nella prassi di alcuni enti locali rintracciabile in rete, e da ritenere quindi fatto notorio: possono valere per tutti il parere 10.01.2011 prot. n. 599 del Servizio per gli affari istituzionali e il sistema delle autonomie locali della Regione Friuli, in cui, al fine di individuare le strade suscettibili di accogliere i citati dossi rallentatori, si dà atto della mancanza di una definizione generale e si indicano le “strade ricadenti in una particolare zona del territorio comunale, formalmente individuata come zona residenziale”, e quindi ancora si includono quelle contemplate nella norma per cui è causa.
Allo stesso modo, la Provincia di Lecce, nel proprio Servizio di assistenza agli enti locali, individua come strade residenziali tutte quelle “realizzate in funzione di un centro abitato costruito o costruendo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.05.2012 n. 833 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI:  Diritto di accesso ad esposti e denunce.
La questione investe il problema del bilanciamento e del contemperamento tra il diritto di accesso ai documenti amministrativi, da un lato, e la tutela dei terzi i cui dati personali siano contenuti nella documentazione richiesta, dall’altro lato, con particolare riferimento all'esigenza di tutela della riservatezza dei firmatari di un esposto.
La preordinazione dell'istituto dell’accesso alla cura ed alla difesa di interessi giuridici (di cui all’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990), dalla quale soltanto dipende la prevalenza del diritto di accesso sul diritto alla riservatezza dei terzi, non può risolversi in una clausola di stile, ma deve essere effettiva, in relazione alla situazione di fatto e di diritto nella quale la domanda di accesso si inserisce e che tale effettività deve essere controllabile dal giudice dell'accesso.
Allorquando l’accertamento di un illecito amministrativo sia fondato su autonomi atti di ispezione dell'autorità amministrativa, l'esposto del privato ha il solo effetto di sollecitare il promovimento d'ufficio del procedimento, senza acquisire efficacia probatoria, con la conseguenza che in tali evenienze, di regola, per il destinatario del provvedimento finale non sussiste la necessità di conoscere gli esposti al fine di difendere i propri interessi giuridici, a meno che non siano rappresentate particolari esigenze: ciò, del resto, corrisponde al fatto che, di fronte al diritto alla riservatezza del terzo, la pretesa di conoscenza dell'esposto da parte del richiedente, se svincolata dalla preordinazione all'esercizio del diritto di difesa, acquista un obiettivo connotato ritorsivo che l'ordinamento non può tutelare.
Di conseguenza, non avendo il ricorrente evidenziato alcun interesse proprio, giuridicamente rilevante, tale da consentire il corrispondente sacrificio del diritto alla riservatezza dei terzi potenzialmente interessati dalla sua richiesta, la sua istanza di accesso non poteva e non può trovare, in base alla legge, favorevole riscontro.

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Ritenuto:
● che, a seguito di verbale di ispezione n. 286 del 06.07.2011 redatto, presso un cantiere edile, da funzionari del Dipartimento di Prevenzione S.O.C. S.Pre.S.A.L. (Servizio Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro), l’ASL di Asti ha irrogato al sig. W.S., in qualità di committente dei lavori, una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 1.200,00 a causa di rilevate irregolarità contributive nei confronti dei lavoratori impiegati nel cantiere, ai sensi dell’art. 90, comma 9, lett. a, del d.lgs. n. 81 del 2008;
● che il sig. S., dopo aver provveduto al pagamento della sanzione, ha presentato, in data 07.10.2011, istanza di accesso agli atti, istanza che è stata riscontrata negativamente dall’amministrazione con la seguente motivazione: “l’oggetto della richiesta di accesso è costituito da documenti sottratti all’accesso, ai sensi dell’art. 24, comma 1, lettera a) della legge 241/1990, in quanto si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla Polizia Giudiziaria” (provvedimento dell’11.11.2011);
● che avverso tale diniego il sig. S. ha dapprima presentato istanza di riesame al Difensore civico comunale il quale l’ha accolta con provvedimento del 20.12.2011;
● che, successivamente, in data 27.01.2012, il sig. S. ha presentato istanza alla ASL di Asti, ex art. 7 d.lgs. n. 196 del 2003, volta a conoscere e ad acquisire, in relazione al predetto procedimento ispettivo, gli “atti di pre-iniziativa (esposto/denuncia) ed autori”;
● che la relativa risposta dell’amministrazione, nuovamente negativa, è giunta in data 03.02.2012;
● che il sig. S., con il ricorso in epigrafe, ha quindi chiesto a questo TAR l’annullamento del provvedimento di diniego di accesso agli atti amministrativi inerenti il procedimento ispettivo de quo, contestualmente insistendo perché venga ordinato all’amministrazione l’esibizione di “tutti gli atti relativi al procedimento amministrativo/ispettivo, comprensivo di fotografie dello stato dei luoghi nonché [de]gli atti di preiniziativa intendendo per tali esposti e/o denunce, loro contenuto ed autori”;
● che, con atto depositato in giudizio il 16.04.2012, si è costituita in giudizio l’Azienda Sanitaria Locale di Asti, in persona del Commissario pro tempore, preliminarmente eccependo la carenza di interesse concreto ed attuale del ricorrente;
● che alla camera di consiglio del 18.04.2012, dopo breve discussione orale, la causa è stata trattenuta in decisione;
Considerato:

● che, con riferimento alla richiesta di accesso ai documenti inerenti il procedimento ispettivo (e formati dopo il suo inizio), deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere, in quanto l’amministrazione ha spontaneamente depositato in giudizio tutti i documenti contenuti nel fascicolo del procedimento ispettivo;
● che, con riferimento all’ulteriore istanza di accesso agli “atti di preiniziativa (esposto/denuncia) ed autori”, il ricorso deve invece essere rigettato;
● che, al riguardo, la questione investe il problema del bilanciamento e del contemperamento tra il diritto di accesso ai documenti amministrativi, da un lato, e la tutela dei terzi i cui dati personali siano contenuti nella documentazione richiesta, dall’altro lato, con particolare riferimento all'esigenza di tutela della riservatezza dei firmatari di un esposto (cfr., analogamente, TAR Sardegna, sez. II, n. 2590 del 2010);
● che la preordinazione dell'istituto dell’accesso alla cura ed alla difesa di interessi giuridici (di cui all’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990), dalla quale soltanto dipende la prevalenza del diritto di accesso sul diritto alla riservatezza dei terzi, non può risolversi in una clausola di stile, ma deve essere effettiva, in relazione alla situazione di fatto e di diritto nella quale la domanda di accesso si inserisce e che tale effettività deve essere controllabile dal giudice dell'accesso (Cons. Stato, sez. V, n. 1916 del 2000);
● che allorquando, come nella specie, l’accertamento di un illecito amministrativo sia fondato su autonomi atti di ispezione dell'autorità amministrativa, l'esposto del privato ha il solo effetto di sollecitare il promovimento d'ufficio del procedimento, senza acquisire efficacia probatoria, con la conseguenza che in tali evenienze, di regola, per il destinatario del provvedimento finale non sussiste la necessità di conoscere gli esposti al fine di difendere i propri interessi giuridici, a meno che non siano rappresentate particolari esigenze, il che qui non ricorre: ciò, del resto, corrisponde al fatto che, di fronte al diritto alla riservatezza del terzo, la pretesa di conoscenza dell'esposto da parte del richiedente, se svincolata dalla preordinazione all'esercizio del diritto di difesa, acquista un obiettivo connotato ritorsivo che l'ordinamento non può tutelare (così, ancora, Cons. Stato, sez. V, n. 1916 del 2000);
● che, di conseguenza, non avendo il ricorrente evidenziato alcun interesse proprio, giuridicamente rilevante, tale da consentire il corrispondente sacrificio del diritto alla riservatezza dei terzi potenzialmente interessati dalla sua richiesta, la sua istanza di accesso non poteva e non può trovare, in base alla legge, favorevole riscontro (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 10.05.2012 n. 537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti, interdittiva antimafia solo se gli indizi sono certi.
Per l'interdittiva antimafia a carico dell'azienda serve un quadro indiziario preciso fondato su elementi aggiornati. Non basta infatti un rapporto di subappalto con un'impresa in odore di camorra a bloccare gli appalti dell'azienda finita nel mirino della prefettura. Deve invece essere approfondita la verifica sullo scambio di personale tra le ditte, per stabilire se sia, per esempio, un metodo dei boss per controllare in qualche modo il presunto socio impegnato in attività pulite. E se il clan incriminato pare ormai in disarmo, sono inutili le vecchie relazioni della direzione investigativa antimafia: l'ufficio territoriale del governo è tenuto a procurarsi notizie più fresche sull'attività dei presunti criminali in modo da valutare il rischio-infiltrazioni.

È quanto emerge dalla sentenza 09.05.2012 n. 2678 della III Sez. del Consiglio di Stato.
Accolto il ricorso della cooperativa in terra di Gomorra: annullata l'informativa antimafia del prefetto di Napoli che aveva portato alla revoca di appalti aggiudicati all'azienda. È vero, non può avere che natura prognostica la valutazione del prefetto che fa scattare l'inibitoria ai danni dell'impresa: lo impone la necessità di evitare che i contratti pubblici finiscano nelle grinfie di organizzazioni criminali travestite da imprese legali.
Ma il quadro indiziario su cui si fonda la decisione dell'ufficio territoriale deve comunque essere coerente, anche se non risulta perfezionato. E soprattutto non può basarsi su supposizioni. In questo caso il prefetto ha in mano elementi insufficienti: i presunti camorristi legati in rapporto di subappalto sono stati assolti anni prima dall'accusa di cui al 416-bis Cp e nel frattempo il clan di riferimento è stato sconfitto.
Ai fini dell'interdittiva antimafia, infatti, la rilevanza di una organizzazione camorristica deve presentare il requisito della idoneità, attuale ed effettiva, del vincolo associativo a influenzare le iniziative e le decisioni del soggetto condizionato. Lo scioglimento della «famiglia» di appartenenza dei «guaglioni» finiti nel mirino delle forze dell'ordine possono consentire di escludere il potenziale condizionamento dell'azienda (articolo ItaliaOggi del 02.06.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti - Deposito temporaneo – Condizioni.
A seguito dell'entrata in vigore dell’art. 183, lett. m), D.L.vo n. 152/2006 (v. ora art. 183, lett. bb), il produttore può decidere di conservare i rifiuti in deposito per tre mesi in qualsiasi quantità, prima di avviarli allo smaltimento o al recupero, privilegiando così il limite temporale, oppure può scegliere di conservare i rifiuti in deposito per un anno, purché la quantità non raggiunga i venti metri cubi (per effetto delle modifiche apportate dal D.L.vo n. 205/2010 il limite è stato elevato a trenta metri cubi), in applicazione dei limite quantitativo. Pertanto, per qualificare come irregolare tale deposito è necessario appurare che entrambe tali condizioni non siano state rispettate (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2012 n. 16988 - link a www.tuttoambiente.it).

SICUREZZA LAVORO: Omissioni in relazione al D.Lgs. 81/2008 e responsabilità di un Sindaco.
Responsabilità di un Sindaco per i reati di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 17, lett. b) e art. 18, lett. a), articolo 43, lett. b) per non avere nominato il responsabile del servizio di prevenzione, né il medico competente per la sorveglianza sanitaria, e per non avere designato i lavoratori addetti al primo soccorso.
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La definizione di datore di lavoro, contenuta nel D.Lgs. n. 81 del 2008, articolo 2, ha dato esclusivo rilievo, ai fini della individuazione dei soggetti titolari del debito di sicurezza, al requisito della organizzazione della attività, unito, ovviamente, all'esercizio dei poteri decisionali e di spesa inerenti la stessa.
Nella sua seconda parte l'articolo 2, comma 1, lettera b), del citato decreto, individua la figura del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni e, a differenza del D.Lgs. n. 626 del 1994, il vigente 81/2008 recepisce, esplicitandolo, lo stabile indirizzo giurisprudenziale secondo il quale è l'organo di vertice delle singole amministrazioni, ovverosia l'organo di direzione politica, a dovere individuare il dirigente, o il funzionario non dirigente, cui attribuire la qualità di datore di lavoro.
Mutuate dal predetto orientamento della Corte di legittimità anche le conseguenze che secondo il dettato del citato decreto derivano dalla omessa individuazione dell'organo politico del dirigente designato ad assumere il debito di sicurezza: in tali casi la qualifica di datore di lavoro continuerà a coincidere con l'organo di vertice medesimo, quindi con il Sindaco.

La difesa del prevenuto ha interposto appello, che è stato trasmesso a questa Corte ex articolo 568 cod. proc. pen. - Rigetto.
Ad avviso del decidente, le prescrizioni dettate nelle predette disposizioni normative sono entrate in vigore il 15/05/2008, mentre dagli atti è emerso, in modo incontestabile, che fino al 20/03/2009 l'amministrazione comunale non aveva ancora adempiuto al disposto normativo, rendendo inconferente, ai fini della integrazione delle fattispecie contestate, l'ottemperamento alle prescrizioni de quibus in data antecedente all'effettuato controllo da parte della ASL (Omissis), perché, anche in quella data il relativo termine era abbondantemente decorso.
Va osservato, altresì, in punto di affermata responsabilità del Sindaco, che la definizione di datore di lavoro, contenuta nel D.Lgs. n. 81 del 2008, articolo 2, ha dato esclusivo rilievo, ai fini della individuazione dei soggetti titolari del debito di sicurezza, al requisito della organizzazione della attività, unito, ovviamente, all'esercizio dei poteri decisionali e di spesa inerenti la stessa.
Nella sua seconda parte l'articolo 2, comma 1, lettera b), del citato decreto, individua la figura del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni e, a differenza del Decreto Legislativo n. 626 del 1994, il vigente 81/2008 recepisce, esplicitandolo, lo stabile indirizzo giurisprudenziale secondo il quale è l'organo di vertice delle singole amministrazioni, ovverosia l'organo di direzione politica, a dovere individuare il dirigente, o il funzionario non dirigente, cui attribuire la qualità di datore di lavoro.
Mutuate dal predetto orientamento della Corte di legittimità anche le conseguenze che secondo il dettato del citato decreto derivano dalla omessa individuazione dell'organo politico del dirigente designato ad assumere il debito di sicurezza: in tali casi la qualifica di datore di lavoro continuerà a coincidere con l'organo di vertice medesimo, quindi con il Sindaco (Corte dei Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.04.2012 n. 15206 - tratto e link a http://olympus.uniurb.it).
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J. Cortinovis, Sicurezza nei luoghi di lavoro ed eventuale responsabilità del Sindaco.
Con la sentenza 20.04.2012 n. 15206 la Corte di Cassazione, Sez. III penale, si pronuncia in tema di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, ed in particolare negli Enti Locali. Secondo i Giudici, considerato che la Pubblica Amministrazione è soggetta, al pari dell’impresa privata, al rispetto delle previsioni indicate dal D.Lgs. n. 81/2008 e ss.mm.ii., ove il Sindaco, non provveda ad individuazione la figura del datore di lavoro in seno all’organigramma dell’ente locale, tale qualifica continuerà a coincidere con la figura del Sindaco medesimo.
Nel caso di specie, a seguito di sopralluogo ispettivo, eseguito ad opera del personale del Dipartimento prevenzione sicurezza ambienti di lavoro dell’azienda ASL, presso una amministrazione comunale, al Sindaco venivano contestati i reati di cui agli artt. 17, lettera b), 18, lettera a) e 43, lettera b) del D.Lgs. n. 81/2008, per non avere nominato, né il responsabile del servizio di prevenzione, né il medico competente per la sorveglianza sanitaria e per non avere designato i lavoratori addetti al primo soccorso.
Secondo il Giudice di merito, gli elementi acquisiti consentivano di ritenere già chiaramente provata la responsabilità del Sindaco per le violazioni addebitate, in quanto, fino alla data dell'ispezione, l’amministrazione comunale non aveva ancora adempiuto a quanto previsto dalla vigente normativa.
Avverso tale sentenza, il Sindaco proponeva ricorso per Cassazione censurando la non configurabilità in capo alla figura del Sindaco della qualifica di ^datore di lavoro^. Ciò in considerazione del fatto che, a seguito della chiarita distinzione tra ^organo politico^ e ^organo amministrativo^ ad opera del T.U.E.L. (D.Lgs. 267/2000), spetterebbe solo al secondo e mai al primo la responsabilità per la mancata attuazione degli obblighi prevenzionistici.
La Suprema Corte non ritiene di accogliere una tale prospettazione, evidenziando, al contrario, come la definizione di ^datore di lavoro^, contenuta all'art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 2008, dia esclusivo rilievo, ai fini della individuazione dei soggetti titolari dell'obbligo di sicurezza, al requisito della organizzazione della attività, unito, ovviamente, all'esercizio dei poteri decisionali e di spesa inerenti la stessa.
Inoltre, il comma 1, lettera b), del medesimo articolo 2, individuando nello specifico la figura del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, recepisce il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale è l'organo di vertice delle singole amministrazioni, ovverosia l'organo di direzione politica, a dover individuare il dirigente, o il funzionario non dirigente, cui attribuire la qualità di datore di lavoro. Ne consegue che dalla omessa individuazione la qualifica di datore di lavoro continuerà a coincidere con l'organo di vertice dell'amministrazione, quindi con il Sindaco
(link a http://studiospallino.blogspot.it).

APPALTI: Spetta al giudice ordinario dichiarare la nullità o inefficacia, ovvero l'annullamento del contratto d'appalto.
Nel settore dell'attività negoziale della p.a. tutte le controversie che attengono alla fase preliminare -antecedente e prodromica al contratto- inerente alla formazione della sua volontà ed alla scelta del contraente privato in base alle regole c.d. dell'evidenza pubblica, appartengono al giudice amministrativo. Mentre quelle che radicano le loro ragioni nella serie negoziale successiva che va dalla stipulazione del contratto fino alle vicende del suo adempimento, e riguarda la disciplina dei rapporti che dal contratto scaturiscono, sono devolute al giudice ordinario.
Conseguentemente appartengono al giudice ordinario le controversie concernenti l'interpretazione dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, nonché quelle rivolte ad accertarne le condizioni di validità e di efficacia e ad ottenerne la declaratoria di nullità o inefficacia, ovvero l'annullamento, posto che anche esse hanno ad oggetto non già i provvedimenti riguardanti la scelta dell'altro contraente, ma il rapporto privatistico discendente dal negozio; e gli eventuali vizi di questo devono essere esaminati esclusivamente dal giudice ordinario competente a conoscerne l'intera disciplina.
Nell'ambito delle patologie ed inefficacie negoziali, rientrano non soltanto quelle inerenti alla struttura del contratto, siano esse estranee e/o alla stessa sopravvenute, ma anche quelle derivanti da irregolarità-illegittimità della procedura amministrativa a monte, perciò comprendenti anche le fattispecie di radicale mancanza del procedimento di evidenza pubblica (o di vizi che ne affliggono singoli atti): perciò accertabile incidentalmente da parte di detto giudice, al quale le parti possono rivolgersi senza necessità del previo annullamento "in parte qua" ad opera del giudice.
Pertanto, poiché nel caso di specie, la Regione ha dedotto la nullità e comunque l'invalidità dei contratti di affidamento di servizi sanitari per cui la società ha chiesto ed ottenuto il decreto ingiuntivo, il relativo accertamento rivolto ad impedirne l'esecuzione e perciò ad escludere il diritto soggettivo della controparte al pagamento del corrispettivo spetta al giudice ordinario (Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 05.04.2012 n. 5446 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ordinanze sindacali contingibili ed urgenti. Presupposti per l’adozione.
La potestà del Sindaco di adottare, quale Ufficiale di Governo, provvedimenti contingibili ed urgenti ex art. 54, comma 2, del D.lgs. n. 267 del 2000, è strettamente finalizzata a prevenire gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini; sicché il potere di urgenza può essere esercitato solo per affrontare situazioni di carattere eccezionale ed impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico e unicamente in presenza di un preventivo accertamento della situazione che deve fondarsi su prove concrete e non su mere presunzioni (1).
E’ illegittima, per mancanza dei presupposti, l’ordinanza contingibile ed urgente adottata dal Sindaco del Comune di Lipari con la quale è stato ordinato ad alcuni farmacisti di assicurare, mediante l’attivazione del P.F.E., l’assistenza farmaceutica nelle Isole di Filicudi ed Alicudi, nel caso in cui risulti che nelle predette isole non c’era alcuna situazione di emergenza farmaceutica -anche in vista della stagione estiva- tale da costituire una minaccia incombente per la pubblica incolumità, ovvero tale da poter giustificare l’ordine di apertura di un presidio farmaceutico.
La responsabilità patrimoniale dell’Amministrazione per gli eventuali danni che il provvedimento ha potuto causare ai privati, per come è formulato l’art. 2043 c.c., va esclusa quando non è dato riscontrare nei comportamenti della P.A. elementi di colpa grave o di dolo tali da poter far ragionevolmente presumere l’intento di voler danneggiare i ricorrenti, sui quali peraltro incombe l’onere della prova (2).
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(1) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.12.2007, n. 6366
(2) In applicazione del principio nella specie è stata parzialmente riformata la sentenza di primo grado che, nell’annullare l’ordinanza contingibile ed urgente del Sindaco di Lipari, aveva anche accolto la domanda di risarcimento del danno, atteso che non sussistevano i presupposti del dolo o della colpa grave, anche in considerazione delle circostanze alquanto complesse nelle quali si era svolta l’intera vicenda
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - C.G.A.R.S., sentenza 02.04.2012 n. 370 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Illegittimità della nomina dei componenti del Nucleo di valutazione adottata dal Sindaco.
E’ illegittimo, per incompetenza, il provvedimento di nomina dei componenti del nucleo di valutazione di un ente locale, nel caso in cui sia stato adottato dal Sindaco e non dal Consiglio comunale; infatti, dal combinato-disposto di cui agli artt. 14, comma 3, del d.lgs. n. 150 del 2009 e 42, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000, discende la regola che la competenza alla nomina dei componenti del nucleo di valutazione spetta al Consiglio comunale, in qualità di organo di indirizzo politico-amministrativo dell’ente e non al Sindaco, che è semplicemente l’organo responsabile dell’amministrazione generale del Comune ed il suo massimo rappresentante (1).
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(1) Ha osservato, in particolare, la sentenza in rassegna che, se a termini dell’art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 150 del 2009 l’organismo di valutazione deve essere nominato "dall’organo di indirizzo politico-amministrativo", d’altra parte è la stessa legge, con l’art. 42, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000, che qualifica espressamente come organo di indirizzo politico-amministrativo il Consiglio comunale, con la conseguenza di individuare per le amministrazioni comunali tale organo come quello competente alla nomina.
Tale esegesi, tra l’altro, è in linea con il principio secondo cui la competenza attribuita ai Consigli comunali è circoscritta agli atti fondamentali di natura programmatoria o aventi un elevato contenuto di indirizzo politico (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 09.06.2008 n. 2832 e 31.01.2007 n. 383), se letto alla luce del chiaro enunciato dell’art. 15 del d.lgs. n. 150 del 2009, che attribuisce appunto all’organo di indirizzo politico-amministrativo dell’ente anche compiti di alta programmazione in materia di miglioramento della performance
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 28.03.2012 n. 1510 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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